DIARIO BERLINESE: SESTA PARTE

Castello di Charlottemburg.

Marzo 2014

A Berlino l’arte non sta nei musei, nonostante la presenza della celeberrima Inseln, una spianata ampia, dove si trova anche il brutto e imponente Duomo. In quella zona si possono ammirare l’altare di Pergamo, la porta di Ishtar e altre meraviglie. Poi ci sono gli altri musei, la Galleria nazionale, il Berrgruen. Però  l’architettura è la regina delle arti a Berlino e quella si ammira nelle strade. L’imponenza degli edifici di Potsdamer mi ricorda le città statunitensi (e del resto gli architetti tedeschi più importanti fuggirono alla persecuzione nazista rifugiandosi negli States). L’area divide l’opinione pubblica: per alcuni questi palazzi imponenti, costruiti con materiali freddi e non ergonomici, sono ostili a una vita comunitaria: più che abitazioni e uffici sono spazi. Non luoghi? A me non fanno la stessa impressione di certe stazioni e aeroporti, se mai la curiosa sensazione che si prova avventurandosi fra questi edifici è l’evidente eterogeneità dei progetti, che si spiega con una decisione che esula dal campo artistico. Lo stato tedesco, infatti, ha affidato a molti architetti provenienti da tutto il mondo la progettazione di quest’area: è uno dei tanti modi con cui la nuova Gemania ha voluto rompere con la propria storia d’intolleranza e disprezzo verso le forme artistiche moderne. Questo però ha portato a un eclettismo eccessivo, a una mescolanza di stili, di forme che s’accavallano le une sulle altre. Sì, c’è qualcosa di paradossale in tutto ciò, ma mi sembrerebbe ingeneroso non riconoscere le buone ragioni di chi ha pensato a questa soluzione. E intanto eccola di nuovo la porta di Brandeburgo, minuta ormai rispetto a ciò che la circonda, eppure sempre affascinante, in fondo al rettifilo dove, all’altro lato s’eleva la colonna con sopra la statua dorata, immortalata da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino. Unter den Linden è più elegante che mai, anche i palazzi delle ambasciate e dei consolati degli ex paesi socialisti: tutti raggruppati qui, sembrano meno tetri. Certo, fa effetto vedere ancora nello stesso luogo la bandiera della confederazione russa, dove un militare distratto fa la guardia (si fa per dire) dentro la sua garitta. Non custodisce più nulla: i simboli attirano su di sé suggestioni e idolatrie, violenze, slanci ideali e furori ideologici, il niente non attira più nessuno anche se c’è sempre un militare addetto a custodire il bidone vuoto.

2 Aprile.

“Ma è proprio vero che a Berlino si può vivere con ottocento euro al mese? Dico vivere bene e non sopravvivere, perché questo lo fanno in molti anche a Milano e a Roma …”

“Sì” mi risponde decisa un’amica che lavora qui, che vive e lavora qui …

“Ma come è possibile?”

Più o meno ho potuto constatarlo pure io, ma m’interessa il suo parere.

“Perché la gente che vive qui ha pochi soldi e se i prezzi fossero più alti se ne andrebbero via e molte attività chiuderebbero bottega. Del resto molti che cercano lavoro nell’industria o in settori diversi dal terziario o la pubblica amministrazione se ne sono già andati. Qui il lavoro è poco, la città vive di sussidi, ma la qualità della vita è elevata …”

Il paradosso di Berlino è proprio questo. Una capitale indebitata fino al collo ma ricca e dove si può vivere bene con poco: dove si trova al mondo un luogo come questo? Dove un affitto in una casa del centro arriva al massimo ai quattrocento euro al mese? Tutte le grandi capitali dell’Occidente sono città che vivono sui servizi, l’impiego pubblico e il turismo, ma a differenza delle altre, qui la rendita dei suoli urbani non cresce vertiginosamente e la dinamica dei prezzi è contenuta.  

Intanto, chiacchiera dopo chiacchiera siamo arrivati in Weser Strasse:

“Dicono che assomigli alla Quinta Avenue …” mi dice l’amica sorridendo.

Non sono mai stato a New York e quindi …

È un viale molto lungo e diritto come tutte le arterie berlinesi, costeggiato da due filari di tigli, l’albero berlinese per eccellenza. Parte da Hermann Platz, luogo di ritrovo di giovani e di ubriachi la notte, discretamente sorvegliato dalla polizia. Non è trafficata come la parallela, Karl Marx Strasse, ed è piena di locali, che distinguo subito per uno stile comune anche a quelli che già conosco, dislocati in altri quartieri. Sono locali poveri, i tavoli, le poltrone, persino i divani sono riciclati, comperati da rigattieri e assemblati in qualche modo. In essi si tengono concerti di musica, performance, letture di poesia, rappresentazioni teatrali, almeno tre giorni la settimana. Mi ricordano quelli che ho già visto nella zona compresa fra le fermate del metro di Ederswalder e di Shönhauser, sulla linea due della metropolitana; forse in quel quartiere sono un tantino più eleganti. La vera differenza si scopre lentamente osservando le vetrine: molte si richiamano in modo esplicito all’omosessualità maschile e femminile. Alcuni locali, dalle 21 di sera in poi, sono aperti solo alle donne o solo agli uomini: altri sono misti, ma la presenza di icone omosessuali e lesbiche è esplicita. La via, lunghissima, ha un’illuminazione assai suggestiva, le vecchie lampade che creano una luce intima. Vi regna una tranquillità molto piacevole, i locali e i ristoranti sono diversissimi per prezzo ed eleganza. Ovunque, ci sono spettacoli, improvvisazioni e altro e questa  crea intorno a questa strada affascinante una molteplicità di occasioni di lavoro, specialmente per i giovani. D’inverno ci vengono anche gli anziani in questi locali, sono luoghi caldi e accoglienti e il divieto di fumo non è passato, ci sono state grandi proteste perché, specialmente d’inverno, fumare fuori sui marciapiedi a molti gradi sotto zero è impossibile e i locali rischiavano di chiudere. L’amministrazione comunale ha dovuto cedere. Ci fermiamo in uno dei più tipici, con i tavoloni in legno l’immancabile candela che viene subito accesa anche quanto si è soli, le luci basse e discrete. Il programma è nutrito: musica dal vivo, letture, mostre d’arte.

4 Aprile.

Torno in Hermann Platz e mi avvio per Kottbusser Strasse. In fondo, proprio vicino al ponte su uno dei tanti canali in cui si diramano i fiumi berlinesi, c’è il mercato turco. Si tiene due volte la settimana, il martedì e il venerdì: vi prevalgono di gran lunga i prodotti ortofrutticoli.

Come tutti i mercati del mondo è colorato, anche se lontano dalla fantasmagoria di quelli sudamericani; quello che balza subito all’occhio è che l’offerta di derrate è ben più ampia ed economica di quella che si trova in un qualsiasi supermercato. La seconda considerazione è che i tedeschi che ci vanno sono un’esigua minoranza. Sono i turchi a frequentarlo e sono in grande maggioranza rispetto a tutte le altre comunità presenti in città, che tuttavia sono visibili nella folla che si accalca alle bancarelle.

Per un italiano il mercato turco è una pacchia e infatti ne vengo via ben rifornito.  Esserci venuto, tuttavia, mi conferma una convinzione. A Berlino (non so nel resto della Germania), non prevale il modello d’integrazione alla francese. Il modello berlinese è quello della convivenza cordiale e serena fra diversi. Poche regole comuni, trasmesse in corsi che chi vive qui a lungo è tenuto a frequentare, e poi tutti secondo le proprie tradizioni e consuetudini: integrazione, mescolanze, meticciato, sono, se mai, il risultato finale di un percorso lungo e al largo, non un punto di partenza. Solo a livello individuale (i matrimoni misti esistono anche qui come dappertutto) oppure ad alto livello istituzionale, l’interscambio è più intenso e ricercato. Durante tutti i miei soggiorni, per esempio, mi è capitato di notare come siano frequenti le iniziative che riguardano la Turchia, sempre molto presente nella vita della Germania ed è sufficiente seguire quotidianamente il telegiornale per rendersene conto.

Il modello della pacifica convivenza fra diversi sembra funzionare ed essere accettato da tutti. L’investimento nella mediazione culturale è elevato e intelligente, ma comporta ovviamente un impiego massiccio di risorse umane e finanziarie. Chi decide di stabilirsi a Berlino per un lungo periodo e cerca lavoro deve frequentare un corso di lingua tedesca, cultura, usi e tradizioni, dal costo di 140 euro al mese per sei mesi. Il corso prevede esami che, se vengono superati, danno diritto a un rimborso del costo versato fino al quaranta o cinquanta per cento dell’importo totale. Tale sistema premiale risulta assai motivante e viene apprezzato da tutti. Quanto alla cultura tedesca, usi e tradizioni vengono porti sobriamente, insistendo molto sul rispetto reciproco delle differenze. Certo, vi è uno sforzo particolare dei tedeschi per far dimenticare l’intolleranza del loro passato recente, ma lo fanno con un impegno e un’intelligenza che sembrano contagiare chi vive qui.

Fino a quando potrà reggere tale modello? Il dato nevralgico è la quantità d’investimento pubblico necessario a farlo funzionare. Basso consumo di qualità e prezzi bassi alimentano un circuito di attività che regge proprio perché si mantiene a quel livello e quanto alla convivenza essa sembra tenere in larga parte della città, tranne che nel quartiere intorno alla stazione Lichtenberg, nel profondo est.

6 Aprile

Inevitabile tornarci a Lichtenberg. Lì il clima è diverso: è il quartiere dei naziskin, che si vedono poco in altre parti della città ma sono subito distinguibili. A parte la testa rasata, prerogativa peraltro comune anche ad altri che nazi non sono, indossano un lungo giubbotto nero con uno stemma rotondo in cui la parola skin è visibile. È una specie di divisa, ma non trasandata come nel militare di moda fatto di tute mimetiche sbrecciate, stivaloni indossati anche dalle ragazze; colpisce l’ordine. Ne avevo uno ieri seduto davanti a me sul metro, che sembrava a dire il vero un po’ stranito nel ritrovarsi in mezzo a gente normale che torna a casa la sera con le borse della spesa; tanto poco eroica e guerriera. A Lichtenberg invece è davvero diverso. Non mi stupisce più di tanto.

I luoghi hanno il loro genius, che può essere benefico o malefico e questa stazione mi aveva colpito anche nel 1991 per la sua tetraggine, per quel che di funesto che le si vedeva addosso e che allora poteva essere attribuito, con molte semplificazioni al clima desolante appena successivo al disfacimento della DDR.

Lontana dal centro della città, da quella stazione partivano i treni per Kiev, Mosca, Varsavia, Sofia. Nel’91 mi aveva colpito vederne uno, totalmente vuoto, diretto alla capitale ucraina. Una signora, che aveva colto lo stupore con cui osservavo la scena mi spiegò che i tedeschi non ci salivano più perché in territorio ucraino e bielorusso se c’erano occidentali a bordo i treni venivano assaliti e si veniva derubati di tutto. Rimasi perplesso e incerto se si trattasse di verità o di leggenda metropolitana, ma quando tornai in Italia vidi un servizio della BBC in cui tutto questo era documentato.

Questo luogo, funestato dalla doppia tragedia della storia tedesca, si trova oggi dalla parte opposta del pendolo, immagine di quel passato che non passa e che sembra ripercorrere le sue strade obbligate. Tuttavia nel resto della città tutto questo non si avverte, se non quando ricorrono le date di nascita di Hitler o altre ricorrenze legate al nazismo; allora anche i naziskin abbandonano i loro territori e arrivano fino in centro.

Ottobre 2018.

Il metro mi riporta in piazza Wagner, la fermata del mio rientro a casa. Il luogo è particolarmente tranquillo: ex zona inglese, in fondo al viale di Otto Suhr troneggia il castello di Charlottenburg, un avamposto dentro Berlino della città imperiale di Posdam che si trova a trenta chilometri da qui. Il fiume, in corrispondenza del castello s’allarga e forma una grande ansa, si può scendere e percorrerne le rive dove d’estate attraccano anche i battelli.

Il mio modo di sentire quando una città diventa un luogo in cui vivere è piacevole e non semplicemente un punto di transito è molto semplice: quando i siti più comuni, quelli più famosi e che per forza di cose si visitano per primi, non mi attirano più come le prime volte che ci approdavo. Il passo definitivo, però, è quando avverto il piacere di fare vita di quartiere, di stare dove sono e condividere con gli altri, anche se sconosciuti, la vita quotidiana, con le sue abitudini e la sua gente: nel mio caso, per esempio, il supermercato, il bar delle turche dove la colazione è particolarmente ricca e l’altro, sempre delle turche (li definisco così perché ci lavorano solo giovani donne turche), dove vado la sera quando ci sono le partite di Champions: la consumazione, fra l’altro, costa tre euro invece dei sei di Milano. A Berlino questo passaggio al piacere quotidiano della condivisione di vie e luoghi è avvenuto più in fretta che altrove. In fondo la sfida di un mondo vivibile possibile del futuro è proprio questa: l’utopia di potersi sentire a casa potenzialmente ovunque, utopia nel senso di un orizzonte che ti fa camminare, come scrive Galeano. Cittadini del mondo oggi non è più uno slogan: avviene quotidianamente ovunque, non può essere arrestato come processo: si può soltanto decidere se debba avvenire fra scontri civili, oppure essere il volto alternativo alla superficiale e distruttiva globalizzazione finanziaria. A Berlino sembra di potersi avvicinare a questa utopia: la Berlino non certamente elegante come Parigi, non imperiale come Londra, non stratificata sui millenni come Roma, ma capitale di un’Europa di convivenza pacifica fra diversi, ancora lontana.

Mercato turco