IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO QUARTO ED EPILOGO

Sigmund Freud Park in Wien

Ora sono di nuovo fermi sulla banchina insieme ad altri che attendono. Il vecchio e il cane avvicinano a un’altra figura maschile, che se ne sta sola e lontana dagli altri. Il vecchio è incuriosito dai suoi gesti: la figura, infatti, si muove come se stesse tirando verso l’alto la carrucola di un pozzo. Avvicinandosi vede che si tratta di un filo che si accumula ai suoi piedi. Quando si arrestano vicino a lui, la figura diventa reale poi una voce prorompe in un riso contenuto e malinconico.  

M: Ahh, ahh. ohhh

Il personaggio maschile smette di colpo di muoversi; anche il vecchio e il cane si guardano intorno stupiti perché non vedono nessuno.

F: Perché ridi?

M: Per il tuo volto e anche un po’ quello che stai facendo.

Silenzio lungo. Il tono di voce, la cadenza, il timbro rendono incerto il genere di appartenenza. Potrebbe essere sia maschile sia femminile. L’altro si guarda intorno irritato, poi ricomincia a tirare il filo che sembra quello di una carrucola.

F: Chi sei?

M: Una parte di te, la memoria senza volto dei tuoi momenti felici.

F: Una parte di me!

M: Sì, la più oscura e molto altro.

F: Non ho fatto altro che cercare la parte oscura. Non ti sembra di essere presuntuosa, o presuntuoso? Dimmi chi sei.

M: La lontana che affiora involontariamente nei tuoi sogni.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce.

F: Perché ti fa così ridere il mio volto?

M: Perché sei così attaccato alla lettera delle mie parole?

F: Che altro sai di me? Chi sei?

M: Il tuo tarlo dormiente, la buia smania che affiora quando meno te l’aspetti, la candela che si accende nei tuoi momenti più bui.

F: Parli per enigmi e paradossi.

M: Il paradosso è il mio travestimento d’occasione: vai oltre la maschera, cerca il volto scavato e lucente di chi ha aperto le porte al dolore, oppure alla gioia che fa vacillare.

F: Ne sei così sicura?

M: Il tuo volto mi dice che lo sai, ma che desideri allontanare da te quel peso: non difenderti dall’onda alta, lasciati portare, scoprirai che il piombo del mondo può diventare oro. Ti ricordi quella notte in treno?

La figura maschile si fa pensierosa e smette di nuovo di tirare la carrucola.

F: In treno?

M: Sì, in treno.

F: Ricordo molti viaggi in treno…

M: Ma io parlo di quel treno, di quella notte, di quella porta che si apre improvvisa, dello specchio che sbatte e rimbalza contro di te come un singhiozzo; parlo della tua sorpresa, del tuo sgomento, della tua tosse, della tua cravatta appena spostata dal suo asse. Per una volta avevi perso la testa e ti guardavi allo specchio con la stessa espressione con cui un boia guarda l’impiccato ed eri entrambi.

F: Chi sei?

M: Un grido di libertà.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce, ricordati delle sedie.

F: Perché le sedie?

M: Non ricordi?

La figura maschile è pensierosa e incerta.

F: No, non ricordo. Perché ti nascondi?

M: Non cambiare discorso.

F: Non mi hai risposto, ti ho chiesto perché ti nascondi.

M: Non mi nascondo, è la mia natura; sei tu che non mi vedi e poi ti avevo chiesto delle sedie.

F: Nessuno ha una sola natura, cosa sognavi?

M: Sognavo quello che sognano tutti ed ero anche sognata; ma solo chi mi vede può sognarmi davvero.

F: Non capisco. Chi sei?

M: Ho tanti nomi, nomi antichi. Vengo dal più profondo del mare, quel mare di Cipro dove sono nata la prima volta, uso la sciabola anche con chi amo, ogni tanto ritorno, mi mostro nella mia nudità, nello scandalo di essere vera e intero, enigmatico e invitante. Sono l’aperta nella quale nessuno riesce a penetrare.

F: Non ti capisco, oppure sei semplicemente volgare.

M: La volgarità è lo splendore debordante del mio doppio aspetto, il copione infranto di ogni recita. Essa mi dà la pienezza negata e la darebbe anche a loro e a te, se soltanto capiste! É il gesto delle mie tante sorelle e di un mio fratello divino, lacerato e diviso come lo sono stata io. Sarò sempre la voce che eccede o si ritira, che più si mostra e meno si fa vedere.

La figura maschile smette di tirare il filo e assume un atteggiamento pensieroso.

L’altro/a tace e allora la figura maschile riprende a tirare la carrucola.

La figura, fino a quel momento totalmente invisibile, si materializza. Si intuisce che è completamente nuda. La figura maschile la scruta aggrottando al fronte.

F: Ti vedo e non ti vedo, sembri un sogno.

M: Conosco la tua sottigliezza, guardami, lascia per un momento le sfumature dell’intelligenza nei loro angoli bui; serviti della penombra per capire, del miele del geroglifico, dell’abito ribaldo della vita così come esso si dà nei sogni a lungo incubati, nell’inciampo di ogni giorno, in quello che accade mentre stai facendo altri progetti.

F: È la tua lingua a disturbarmi, non ti capisco!

M: Ma non eri impareggiabile proprio in questo? Nel tradurre e decodificare? Non giocavi proprio tu con il linguaggio e i segni?

F: Non era un gioco, tu ora stai giocando con me, ma non ti temo.

M: Nel dirlo mi temi di più; potresti invece abbandonarti a me nell’assenza consapevole della tua ragione astratta e vanamente tagliente.

F: Perché vanamente tagliente?

M: Perché la tua lama tagliava l’idea, ma non il pane che nutre, spezzava l’immagine solenne prima ancora di avere forgiato l’anfora che la contiene.

F: Hai detto che ritorni ogni tanto; perché lo fai?

M: Perché fui costretta a migrare e lo sono ancora: per Afrodite non c’era posto neppure nell’Olimpo, tanto meno nel mondo di oggi.

La figura maschile, la guarda, sospira, poi lascia cadere a terra il filo che tiene ancora fra le mani; si capisce che non tirerà più la carrucola. Poi si sposta leggermente per guardare meglio la figura femminile.

F: Perché mi tormenti anche qui dove non serve più a nulla il tormento?

M: Perché potevi liberarmi.

F: Liberarti?

M: Sì, liberarmi dalla necessità di ripetermi. Fissavi la soglia, ma poi la tua testa si voltava e si piegava, la marea che avevi dentro si acquietava. Ti rimettevi le tue cravatte, il cappello elegante, la camicia senza macchie, poi tornavi ad avvicinarti. Forse, mi dissi, ecco che la sapienza antica ritorna grazie a quest’uomo buffo, che eri tu, con la tua tenera ossessione, con i tuoi tremiti, come quando quella sera hai sentito un brivido sfiorandola mentre scivolavi da una sedia all’altra del tuo salotto.

Dopo questa battuta, la figura maschile, come colpita da una rivelazione, comincia a parlare concitatamente.

F: Proprio a quello ti riferirvi allora, le sedie, sì le sedie.

M: Sì.

F: Noi esseri umani siamo degli iceberg. Tu dici che avrei dovuto attraversare la soglia per vederti, ma ero io l’invaso: non ero più nulla se non ciò che si appiccicava su di me dell’esperienza altrui. Non credo che avrei mai potuto liberarti se anche ti avessi incontrata.

Pronunciate queste parole la figura maschile si contorce e muta; i suoi tratti cambiano come se si stesse trasformando in un’altra figura. L’altra lo guarda e comincia a muoversi in una specie di danza, come se fosse lei a modellarne l’immagine mutante.

M: M’incontravi ogni giorno, eri così abitudinario! Mi presagivi quando cercavi di dare un nome ad ogni sfumatura dell’anima. Moltiplicavi i personaggi e a ognuno di loro davi un abito e un linguaggio, ma non a me.

F: Perché, perché non hai fatto tu il primo passo? Forse ci saremmo salvati entrambi.

M: No, non ci saremmo salvati! Sarei stata soltanto un passo in più fra i piedi dei tuoi visitatori. Io non ero la uno in più, ma la prima di un’altra scala numerica.

La figura maschile sembra non ascoltare più ma seguire il filo dei propri pensieri.

F: Ero abitudinario per tenere a bada l’oceano. Cercavo la regola ma ognuno di quelli e di quelle che si rivolgevano a me era diverso dagli altri. Le loro voci si sovrapponevano. La notte, un personaggio cominciava a parlarmi e io dovevo alzarmi e scrivere, seguirlo. Il suo volto diventava sempre più preciso; sognavo in modo duplicato, il sogno era diventato la mia vita a enne dimensioni, che produceva forme e linguaggi a mia insaputa. Se mai una vita l’avevo avuta essa si era volatilizzata in un fumo sottile. Fu quello a divorare dall’interno la bocca con cui pronunciavo le mie sentenze.

M: Ogni sapienza della parola ha per concime la carne e il sangue. Chi viene oggi dice che la mia ultima apparizione nel mondo durò trentatré anni, che della mia morte non vi è traccia, che il mio corpo scomparve nel nulla. Non mi vedono quando ci sono e quando non ci sono più la struggente nostalgia che hanno di me inventa la bugia della mia immortalità. Se imparassero a conoscermi potrei finalmente morire anch’io come tutti e diventerei più vera anche a me stessa.

F: Cosa significa tutto questo?

M: Che dovrò tornare, rinascere ma sempre esule da tutti i templi e da tutti gli olimpi. Tuttavia ti sono grata: hai aperto una porta attraverso la quale chi vuole può vedermi nell’interezza. Sei stato generoso ma ti sei perso nei meandri di un labirinto che tu stesso ti eri costruito intorno. Avresti dovuto raccontare soltanto la favola, non scrivere il teorema che da essa si poteva ricavare. Altri l’avrebbero fatto ma tu potevi seguire il senso del tuo primo gesto: avere tolto il velo alla gioia negata. Se tu avessi avuto il coraggio di tenere gli occhi aperti, in quel momento, mi avresti vista.

F: Torno a non capirti, anche se le tue parole si riversano in me come una cascata di verità; ma essa continua a sfuggirmi. Sei la metà che stava nel lato in ombra dei personaggi che si moltiplicavano all’infinito e di quell’altra metà, il femminile, mi resi conto alla fine di non avere compreso nulla.

M: Sono tornata poco tempo dopo la tua morte; mi hanno fatta nascere in Europa; ma ho trovato un mondo corrotto e disperato. Fui costretta a scindermi: vedevo la parte migliore di me prostituirsi all’altra ed entrambe, come le due mani congiunte in preghiera, venivamo offerte nude e indifese al teatro del mondo. Essi non vedevano in quella congiunzione se non il segno volgare, non l’omaggio alla vita. Per questo mi rosi, mi consumai e mi inflissi una morte fulminea che nessuno comprese e su quella incomprensione hanno replicato il teatro della presunta morte; ma anche quando scrivono sui muri “È viva” non sanno cosa dicono. Credono che mi sia nascosta per godere della ricchezza effimera di cui mi coprirono, credono che io sia fuggita sulla carrozza dorata dei loro sogni impotenti, trasformati in denaro. Il mio oro era altro da quello che spacciavano per vero. Dissipai la ricchezza apparente che avevo accumulato, senza rendermene conto, per semplice noncuranza. 

Odilon Redon, La nascita di Venere, 1912

EPILOGO.

Il vecchio e il cane si siedono e mentre loro si materializzano come personaggi in carne ed ossa, le altre figure diventano ombre e scompaiono. Il vecchio si alza e si rivolge al pubblico. Questo monologo finale va recitato in ogni lingua o dialetto del luogo in cui va in scena, con qualche eccezione nel saper distinguere lingue da dialetti.

Ûh vìst, ûh vìst, parlèmen no, uh sentì, parlèmen no! Anche voi avete visto e udito, siete i miei testimoni. Ho gettato i dadi, ma non potevo sapere che il tempo era finito, el luego cerrado. Io sentivo rumori veri, ma antichi, ora ho capito, sì! Antichi como la luz de las estrehlas che ci insegue dopo che la loro sostanza materiale si è estinta da migliaia di anni. E noi che dobbiamo fare se non seguirla comunque? Ci avete guadagnato qualcosa voi, che sapete che è così? Che quella luce è un inganno? Tell me, tell me! Have you got more than me?

Si contorce, si porta le mani ai capelli e si trascina per la scena, poi ricomincia a parlare.

Mi scuso con tutti di essere stato crudele a causa di un disegno che non avevo voluto e solo accettato perché it was my job: nonostante fossi soltanto il custode della soglia, il bivio, ahora lo entiendo, llegava siempre a la muerte. Entrambe le schiere lo testimoniavano. Ora capisco che erano spinte da una forza che le dominava in absentia. Si sa, the power doesn’t show itself, si nasconde dietro una tenda, fa sentire la sua presenza attraverso la voce dei servi; oppure mulinando l’ascia bipenne della giustizia, che taglia da ogni lato come se tutti avessero due teste. Avrei dovuto capire che la puerta de la ley estaba cerrada, che non c’era nessun giudice at the end of the tunnell, ma solo i rotoli infiniti di una norma senza re.

Ha un sussulto improvviso, si abbatte sulla panca della banchina, poi si alza di nuovo in piedi portandosi le mani alla testa.

E se questo mio ultimo gesto fosse soltanto temerario e blasfemo? Oppure avrei dovuto ribellarmi prima?

Tace per un tempo lungo e poi riprende…

Who knows, who knows? Ho violato le consegne. Non ero venuto davanti a voi con la certezza di quel che avrei trovato, scendendo, but now I know! L’ho fatto per un tardivo amore per voi e per cercare la mia via, per riscattarmi. In fondo dovevo capirlo; le urla che sentivo venivano sempre dal vostro lato, not beyond and elsewhere! Anche il riso, la stoltezza e la sontuosità, el miedo y la tristeza, gli atti eroici, così come la stupidità irritante. Tutto questo non chiedeva alcun giudizio, ma solo l’accoglienza amorosa e casta del sorriso benedicente, l’accettazione di una strampalata armonia molteplice fatta di contrasti e oscillazioni. Non ne possono più delle loro vite, ma poi quando arrivano qui viven nel recuerdo inùtil! But it wasn’t up to me to solve the problem; anzi ne ero vittima! A me avevano detto che importava ciò che avveniva dopo! In realtà non siete fatti né per l’inferno vuoto inventato dai furbi, né per un’eternità beata e impotente. Siete fatti per bruciare una sola volta o tante, ma sempre per bruciare di vita e solo in mezzo alla vita andava cercato il senso. Sono sceso come tutti, come i vivi, alive! la cui ambizione era solo quella di raccontare cosa si erano immaginati di vedere scendendo fin qui. In realtà nessuno di loro aveva visto, han dumà guardà per gratà tücc quel che truvaven, per scrivere i loro poemi brillanti e disperati, si sono verniciati le unghie con questa eternità da palcoscenico per aumentare la loro potenza mondana, ma sempre di là volevano vivere! E io ho tenuto bordone a tutto questo, sono stato la pedina di un gioco di cui non conoscevo tutte le regole. Per millenni ho svolto diligentemente il mio lavoro; pensavo di traghettare le anime da un mondo imperfetto alla perfezione: it was a maze. Qui dove voi siete scesi insieme a me vedete soltanto degli sconfitti o dei manichini che gan semper i öcc vultà de là, che ripetono stancamente e recriminano, piangono o ridono ma sempre dentro i binari delle loro vite invece de menà i toll e fala finida una volta per tücc.

Non appena pronunciate queste parole si sente il rumore di una carrozza in arrivo. Sembra completamente vuota, poi quando le porte si aprono, due enormi figure in ombra appaiono sul predellino. Il vecchio si volta e la guarda, poi si rivolge di nuovo al pubblico.

Di tutti questi morti che non vogliono morire, sarò l’unico a morire davvero. Perdonatemi anche questo e accettate il mio gesto per quello che è: la resa di un vecchio alla legge che gli ha dato da vivere; una legge inventata, forse da nessuno, ma alla quale mi sono consegnato. Si hay una verdad, essa si trova in mezzo a voi: cercatela come l’ho cercata io, cercatela anche per me!

Il vecchio e il cane s’avvicinano alla carrozza e vi salgono. Si siedono in mezzo alle due figure. Si sente il rumore della carrozza che si allontana mentre in sala si fa buio. 

Gustave Doré, Caronte, 1861

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.