PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO QUARTO ED EPILOGO

Sigmund Freud Park in Wien

Ora sono di nuovo fermi sulla banchina insieme ad altri che attendono. Il vecchio e il cane avvicinano a un’altra figura maschile, che se ne sta sola e lontana dagli altri. Il vecchio è incuriosito dai suoi gesti: la figura, infatti, si muove come se stesse tirando verso l’alto la carrucola di un pozzo. Avvicinandosi vede che si tratta di un filo che si accumula ai suoi piedi. Quando si arrestano vicino a lui, la figura diventa reale poi una voce prorompe in un riso contenuto e malinconico.  

M: Ahh, ahh. ohhh

Il personaggio maschile smette di colpo di muoversi; anche il vecchio e il cane si guardano intorno stupiti perché non vedono nessuno.

F: Perché ridi?

M: Per il tuo volto e anche un po’ quello che stai facendo.

Silenzio lungo. Il tono di voce, la cadenza, il timbro rendono incerto il genere di appartenenza. Potrebbe essere sia maschile sia femminile. L’altro si guarda intorno irritato, poi ricomincia a tirare il filo che sembra quello di una carrucola.

F: Chi sei?

M: Una parte di te, la memoria senza volto dei tuoi momenti felici.

F: Una parte di me!

M: Sì, la più oscura e molto altro.

F: Non ho fatto altro che cercare la parte oscura. Non ti sembra di essere presuntuosa, o presuntuoso? Dimmi chi sei.

M: La lontana che affiora involontariamente nei tuoi sogni.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce.

F: Perché ti fa così ridere il mio volto?

M: Perché sei così attaccato alla lettera delle mie parole?

F: Che altro sai di me? Chi sei?

M: Il tuo tarlo dormiente, la buia smania che affiora quando meno te l’aspetti, la candela che si accende nei tuoi momenti più bui.

F: Parli per enigmi e paradossi.

M: Il paradosso è il mio travestimento d’occasione: vai oltre la maschera, cerca il volto scavato e lucente di chi ha aperto le porte al dolore, oppure alla gioia che fa vacillare.

F: Ne sei così sicura?

M: Il tuo volto mi dice che lo sai, ma che desideri allontanare da te quel peso: non difenderti dall’onda alta, lasciati portare, scoprirai che il piombo del mondo può diventare oro. Ti ricordi quella notte in treno?

La figura maschile si fa pensierosa e smette di nuovo di tirare la carrucola.

F: In treno?

M: Sì, in treno.

F: Ricordo molti viaggi in treno…

M: Ma io parlo di quel treno, di quella notte, di quella porta che si apre improvvisa, dello specchio che sbatte e rimbalza contro di te come un singhiozzo; parlo della tua sorpresa, del tuo sgomento, della tua tosse, della tua cravatta appena spostata dal suo asse. Per una volta avevi perso la testa e ti guardavi allo specchio con la stessa espressione con cui un boia guarda l’impiccato ed eri entrambi.

F: Chi sei?

M: Un grido di libertà.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce, ricordati delle sedie.

F: Perché le sedie?

M: Non ricordi?

La figura maschile è pensierosa e incerta.

F: No, non ricordo. Perché ti nascondi?

M: Non cambiare discorso.

F: Non mi hai risposto, ti ho chiesto perché ti nascondi.

M: Non mi nascondo, è la mia natura; sei tu che non mi vedi e poi ti avevo chiesto delle sedie.

F: Nessuno ha una sola natura, cosa sognavi?

M: Sognavo quello che sognano tutti ed ero anche sognata; ma solo chi mi vede può sognarmi davvero.

F: Non capisco. Chi sei?

M: Ho tanti nomi, nomi antichi. Vengo dal più profondo del mare, quel mare di Cipro dove sono nata la prima volta, uso la sciabola anche con chi amo, ogni tanto ritorno, mi mostro nella mia nudità, nello scandalo di essere vera e intero, enigmatico e invitante. Sono l’aperta nella quale nessuno riesce a penetrare.

F: Non ti capisco, oppure sei semplicemente volgare.

M: La volgarità è lo splendore debordante del mio doppio aspetto, il copione infranto di ogni recita. Essa mi dà la pienezza negata e la darebbe anche a loro e a te, se soltanto capiste! É il gesto delle mie tante sorelle e di un mio fratello divino, lacerato e diviso come lo sono stata io. Sarò sempre la voce che eccede o si ritira, che più si mostra e meno si fa vedere.

La figura maschile smette di tirare il filo e assume un atteggiamento pensieroso.

L’altro/a tace e allora la figura maschile riprende a tirare la carrucola.

La figura, fino a quel momento totalmente invisibile, si materializza. Si intuisce che è completamente nuda. La figura maschile la scruta aggrottando al fronte.

F: Ti vedo e non ti vedo, sembri un sogno.

M: Conosco la tua sottigliezza, guardami, lascia per un momento le sfumature dell’intelligenza nei loro angoli bui; serviti della penombra per capire, del miele del geroglifico, dell’abito ribaldo della vita così come esso si dà nei sogni a lungo incubati, nell’inciampo di ogni giorno, in quello che accade mentre stai facendo altri progetti.

F: È la tua lingua a disturbarmi, non ti capisco!

M: Ma non eri impareggiabile proprio in questo? Nel tradurre e decodificare? Non giocavi proprio tu con il linguaggio e i segni?

F: Non era un gioco, tu ora stai giocando con me, ma non ti temo.

M: Nel dirlo mi temi di più; potresti invece abbandonarti a me nell’assenza consapevole della tua ragione astratta e vanamente tagliente.

F: Perché vanamente tagliente?

M: Perché la tua lama tagliava l’idea, ma non il pane che nutre, spezzava l’immagine solenne prima ancora di avere forgiato l’anfora che la contiene.

F: Hai detto che ritorni ogni tanto; perché lo fai?

M: Perché fui costretta a migrare e lo sono ancora: per Afrodite non c’era posto neppure nell’Olimpo, tanto meno nel mondo di oggi.

La figura maschile, la guarda, sospira, poi lascia cadere a terra il filo che tiene ancora fra le mani; si capisce che non tirerà più la carrucola. Poi si sposta leggermente per guardare meglio la figura femminile.

F: Perché mi tormenti anche qui dove non serve più a nulla il tormento?

M: Perché potevi liberarmi.

F: Liberarti?

M: Sì, liberarmi dalla necessità di ripetermi. Fissavi la soglia, ma poi la tua testa si voltava e si piegava, la marea che avevi dentro si acquietava. Ti rimettevi le tue cravatte, il cappello elegante, la camicia senza macchie, poi tornavi ad avvicinarti. Forse, mi dissi, ecco che la sapienza antica ritorna grazie a quest’uomo buffo, che eri tu, con la tua tenera ossessione, con i tuoi tremiti, come quando quella sera hai sentito un brivido sfiorandola mentre scivolavi da una sedia all’altra del tuo salotto.

Dopo questa battuta, la figura maschile, come colpita da una rivelazione, comincia a parlare concitatamente.

F: Proprio a quello ti riferirvi allora, le sedie, sì le sedie.

M: Sì.

F: Noi esseri umani siamo degli iceberg. Tu dici che avrei dovuto attraversare la soglia per vederti, ma ero io l’invaso: non ero più nulla se non ciò che si appiccicava su di me dell’esperienza altrui. Non credo che avrei mai potuto liberarti se anche ti avessi incontrata.

Pronunciate queste parole la figura maschile si contorce e muta; i suoi tratti cambiano come se si stesse trasformando in un’altra figura. L’altra lo guarda e comincia a muoversi in una specie di danza, come se fosse lei a modellarne l’immagine mutante.

M: M’incontravi ogni giorno, eri così abitudinario! Mi presagivi quando cercavi di dare un nome ad ogni sfumatura dell’anima. Moltiplicavi i personaggi e a ognuno di loro davi un abito e un linguaggio, ma non a me.

F: Perché, perché non hai fatto tu il primo passo? Forse ci saremmo salvati entrambi.

M: No, non ci saremmo salvati! Sarei stata soltanto un passo in più fra i piedi dei tuoi visitatori. Io non ero la uno in più, ma la prima di un’altra scala numerica.

La figura maschile sembra non ascoltare più ma seguire il filo dei propri pensieri.

F: Ero abitudinario per tenere a bada l’oceano. Cercavo la regola ma ognuno di quelli e di quelle che si rivolgevano a me era diverso dagli altri. Le loro voci si sovrapponevano. La notte, un personaggio cominciava a parlarmi e io dovevo alzarmi e scrivere, seguirlo. Il suo volto diventava sempre più preciso; sognavo in modo duplicato, il sogno era diventato la mia vita a enne dimensioni, che produceva forme e linguaggi a mia insaputa. Se mai una vita l’avevo avuta essa si era volatilizzata in un fumo sottile. Fu quello a divorare dall’interno la bocca con cui pronunciavo le mie sentenze.

M: Ogni sapienza della parola ha per concime la carne e il sangue. Chi viene oggi dice che la mia ultima apparizione nel mondo durò trentatré anni, che della mia morte non vi è traccia, che il mio corpo scomparve nel nulla. Non mi vedono quando ci sono e quando non ci sono più la struggente nostalgia che hanno di me inventa la bugia della mia immortalità. Se imparassero a conoscermi potrei finalmente morire anch’io come tutti e diventerei più vera anche a me stessa.

F: Cosa significa tutto questo?

M: Che dovrò tornare, rinascere ma sempre esule da tutti i templi e da tutti gli olimpi. Tuttavia ti sono grata: hai aperto una porta attraverso la quale chi vuole può vedermi nell’interezza. Sei stato generoso ma ti sei perso nei meandri di un labirinto che tu stesso ti eri costruito intorno. Avresti dovuto raccontare soltanto la favola, non scrivere il teorema che da essa si poteva ricavare. Altri l’avrebbero fatto ma tu potevi seguire il senso del tuo primo gesto: avere tolto il velo alla gioia negata. Se tu avessi avuto il coraggio di tenere gli occhi aperti, in quel momento, mi avresti vista.

F: Torno a non capirti, anche se le tue parole si riversano in me come una cascata di verità; ma essa continua a sfuggirmi. Sei la metà che stava nel lato in ombra dei personaggi che si moltiplicavano all’infinito e di quell’altra metà, il femminile, mi resi conto alla fine di non avere compreso nulla.

M: Sono tornata poco tempo dopo la tua morte; mi hanno fatta nascere in Europa; ma ho trovato un mondo corrotto e disperato. Fui costretta a scindermi: vedevo la parte migliore di me prostituirsi all’altra ed entrambe, come le due mani congiunte in preghiera, venivamo offerte nude e indifese al teatro del mondo. Essi non vedevano in quella congiunzione se non il segno volgare, non l’omaggio alla vita. Per questo mi rosi, mi consumai e mi inflissi una morte fulminea che nessuno comprese e su quella incomprensione hanno replicato il teatro della presunta morte; ma anche quando scrivono sui muri “È viva” non sanno cosa dicono. Credono che mi sia nascosta per godere della ricchezza effimera di cui mi coprirono, credono che io sia fuggita sulla carrozza dorata dei loro sogni impotenti, trasformati in denaro. Il mio oro era altro da quello che spacciavano per vero. Dissipai la ricchezza apparente che avevo accumulato, senza rendermene conto, per semplice noncuranza. 

Odilon Redon, La nascita di Venere, 1912

EPILOGO.

Il vecchio e il cane si siedono e mentre loro si materializzano come personaggi in carne ed ossa, le altre figure diventano ombre e scompaiono. Il vecchio si alza e si rivolge al pubblico. Questo monologo finale va recitato in ogni lingua o dialetto del luogo in cui va in scena, con qualche eccezione nel saper distinguere lingue da dialetti.

Ûh vìst, ûh vìst, parlèmen no, uh sentì, parlèmen no! Anche voi avete visto e udito, siete i miei testimoni. Ho gettato i dadi, ma non potevo sapere che il tempo era finito, el luego cerrado. Io sentivo rumori veri, ma antichi, ora ho capito, sì! Antichi como la luz de las estrehlas che ci insegue dopo che la loro sostanza materiale si è estinta da migliaia di anni. E noi che dobbiamo fare se non seguirla comunque? Ci avete guadagnato qualcosa voi, che sapete che è così? Che quella luce è un inganno? Tell me, tell me! Have you got more than me?

Si contorce, si porta le mani ai capelli e si trascina per la scena, poi ricomincia a parlare.

Mi scuso con tutti di essere stato crudele a causa di un disegno che non avevo voluto e solo accettato perché it was my job: nonostante fossi soltanto il custode della soglia, il bivio, ahora lo entiendo, llegava siempre a la muerte. Entrambe le schiere lo testimoniavano. Ora capisco che erano spinte da una forza che le dominava in absentia. Si sa, the power doesn’t show itself, si nasconde dietro una tenda, fa sentire la sua presenza attraverso la voce dei servi; oppure mulinando l’ascia bipenne della giustizia, che taglia da ogni lato come se tutti avessero due teste. Avrei dovuto capire che la puerta de la ley estaba cerrada, che non c’era nessun giudice at the end of the tunnell, ma solo i rotoli infiniti di una norma senza re.

Ha un sussulto improvviso, si abbatte sulla panca della banchina, poi si alza di nuovo in piedi portandosi le mani alla testa.

E se questo mio ultimo gesto fosse soltanto temerario e blasfemo? Oppure avrei dovuto ribellarmi prima?

Tace per un tempo lungo e poi riprende…

Who knows, who knows? Ho violato le consegne. Non ero venuto davanti a voi con la certezza di quel che avrei trovato, scendendo, but now I know! L’ho fatto per un tardivo amore per voi e per cercare la mia via, per riscattarmi. In fondo dovevo capirlo; le urla che sentivo venivano sempre dal vostro lato, not beyond and elsewhere! Anche il riso, la stoltezza e la sontuosità, el miedo y la tristeza, gli atti eroici, così come la stupidità irritante. Tutto questo non chiedeva alcun giudizio, ma solo l’accoglienza amorosa e casta del sorriso benedicente, l’accettazione di una strampalata armonia molteplice fatta di contrasti e oscillazioni. Non ne possono più delle loro vite, ma poi quando arrivano qui viven nel recuerdo inùtil! But it wasn’t up to me to solve the problem; anzi ne ero vittima! A me avevano detto che importava ciò che avveniva dopo! In realtà non siete fatti né per l’inferno vuoto inventato dai furbi, né per un’eternità beata e impotente. Siete fatti per bruciare una sola volta o tante, ma sempre per bruciare di vita e solo in mezzo alla vita andava cercato il senso. Sono sceso come tutti, come i vivi, alive! la cui ambizione era solo quella di raccontare cosa si erano immaginati di vedere scendendo fin qui. In realtà nessuno di loro aveva visto, han dumà guardà per gratà tücc quel che truvaven, per scrivere i loro poemi brillanti e disperati, si sono verniciati le unghie con questa eternità da palcoscenico per aumentare la loro potenza mondana, ma sempre di là volevano vivere! E io ho tenuto bordone a tutto questo, sono stato la pedina di un gioco di cui non conoscevo tutte le regole. Per millenni ho svolto diligentemente il mio lavoro; pensavo di traghettare le anime da un mondo imperfetto alla perfezione: it was a maze. Qui dove voi siete scesi insieme a me vedete soltanto degli sconfitti o dei manichini che gan semper i öcc vultà de là, che ripetono stancamente e recriminano, piangono o ridono ma sempre dentro i binari delle loro vite invece de menà i toll e fala finida una volta per tücc.

Non appena pronunciate queste parole si sente il rumore di una carrozza in arrivo. Sembra completamente vuota, poi quando le porte si aprono, due enormi figure in ombra appaiono sul predellino. Il vecchio si volta e la guarda, poi si rivolge di nuovo al pubblico.

Di tutti questi morti che non vogliono morire, sarò l’unico a morire davvero. Perdonatemi anche questo e accettate il mio gesto per quello che è: la resa di un vecchio alla legge che gli ha dato da vivere; una legge inventata, forse da nessuno, ma alla quale mi sono consegnato. Si hay una verdad, essa si trova in mezzo a voi: cercatela come l’ho cercata io, cercatela anche per me!

Il vecchio e il cane s’avvicinano alla carrozza e vi salgono. Si siedono in mezzo alle due figure. Si sente il rumore della carrozza che si allontana mentre in sala si fa buio. 

Gustave Doré, Caronte, 1861

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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA

Dramma in quattro atti, un prologo e un epilogo scritto da Franco Romanò.

Questo testo teatrale è stato scritto molti anni fa e proposto per la rappresentazione a diverse compagnie e registi. Da molti giudicato valido da un punto di vista letterario ma pressoché non rappresentabile per la staticità delle scene e l’eccessiva densità di personaggi, se ne è rimasto acquattato fra i miei file per lungo tempo. Decisi a proporlo anche in forma di lettura scenica a Giacomo Guidetti e Barbara Gabotto. Con l’aiuto prezioso di Francesco Orlando, con cui ho discusso una parte  del testo e la disponibilità altrettanto preziosa del compianto Roberto Carusi, la lettura scenica si fece 7 maggio 2008 allo Spazio Scopricoop via Arona 15. In scena: Roberto Carusi (Caronte), Ulisse Romanò (Leone Trotzskj), Irene Burratti (Malinche). Regia di Giacomo Guidetti Contributi scenici di Barbara Gabotto.

Nel 2016, uno stralcio del testo e precisamente il monologo di Picasso, ribattezzato  Il Minotauro e la scimmia fu pubblicato sul magazine del Wall Street Journal Italia, diretto da Nathalie Dodd. Il testo fu rappresentato a Milano per la regia di Stefano Tenconi. Una seconda e libera versione tratta dal medesimo testo e intitolata Pablo, è stata messa in scena da Fabrizia Fazi a Massa Carrara e a La Spezia. 

Ora ho deciso di proporre l’intero testo qui. Continuo  a pensare che un testo teatrale debba trovare in scena la sua morte; tuttavia credo che nel blog possa fare la sua figura anche come testo letterario. Poiché le diverse parti – sono tutti dialoghi a due – godono di una loro autonomia, la pubblicazione avverrà atto per atto a cominciare dal prologo per finire con l’epilogo. Qui di seguito però riporto tutti i personaggi in ordine di apparizione per dare a chi legge un’idea del testo nella sua interezza.

PERSONAGGI IN ORDINE DI APPARIZIONE.

Caronte e Cerbero.

Leone Trotzsky e Malinche (il suo nome è incerto perché appare con diversi nomi negli annali: si sa comunque che fu l’interprete e traduttrice fra Fernando Cortez e Montezuma).

Jean-Antoine Condorcet ed Ettore Majorana. Condorcet si può considerare il primo ministro dell’istruzione pubblica.

Bach e Picasso.

Moana Pozzi e Sigmund Freud.

PROLOGO

La scena è in penombra, leggermente nebbiosa: è una banchina, s’intravede la sagoma di una grande imbarcazione. Giungono dei rumori attutiti, in un alternarsi caotico. Suoni, voci che a volte sembrano di gioia, poi diventano strazianti, poi battute scherzose o spot pubblicitari. In scena c’è soltanto un vecchio con una folta barba, seduto su una roccia. Si alza inquieto, tende l’orecchio e scuote la testa, portandosi le mani alle orecchie. I rumori cessano di colpo, il vecchio distende le braccia, guarda verso il pubblico rimanendo ancora in silenzio per qualche secondo, poi si alza in piedi e inizia a urlare stringendosi la testa fra le mani. Il personaggio di Caronte usa diverse lingue e dialetti; la soluzione migliore per quest’ultimo sia di inserire espressioni dialettali dei luoghi in cui il testo venga rappresentato, a sostituire le espressioni che nello scritto sono in dialetto milanese.

Caronte: Enough, enough! I’m tired! Anche prima li sentivo ridere, piangere, vusà me’ i matt, solitari o in tanti. A volte era la pugna, oppure lo strazio di una madre, sempre lì a strepenare. Idioti! A cercare di capire, a capire cosa, what!

Scuote la testa e si siede di nuovo, la scena si illumina leggermente di più e per pochi secondi si sentono ancora i rumori. Il vecchio sembra non accorgersene più; è di nuovo silenzio, ricomincia a parlare in modo concitato ma senza urlare come prima.

Tutti passavano di qui. Pero no voy a fahlar de los muertos, ma dei vivi … alive. Si tuffavano e andavano giù, io li avvertivo, be careful! Guardate che ben pochi ci sono riusciti. A loro non facevo pagare le due monete, ai vivi dico. Tornavano diversi, tenìan una luz en lo ojos, ademàs la tristeza che volevano cancellare scendendo, risalendo la portavano doppia. Come il musico, Orfeo, poor boy, lui ci credeva e non è vero che si è voltato io ho visto tutto. Lui pensava di andare giù e invece andava su se l’è trovata davanti, de bótt, una maschera di ghiaccio. Non l’ha nemmeno visto lei e quando quello con le ali glielo ha detto che lui si era voltato lei gli ha risposto Who? Chi? Non si ricordava più di lui!

Lunghi sospiri, irrompono di nuovo i suoni, poi di nuovo silenzio. Il vecchiosi mette a impastare del pane con l’acqua e continua a parlare.

Li ricordavo tutti quando tornavano la seconda volta, quelli che erano scesi anche da vivi. Tremavo solo per loro quando li accompagnavo. Gli altri, cosa volete, ognuno ha il suo karma e di certe vite cosa vuoi farne, di certe anime perse. Con loro era diverso, el coeur el me batéva fòrt mentre arrancavo al bivio e stavano per dirmi dove li dovevo traghettare. Trattenevo il fiato. Tutto finito adesso, vivo di ricordi come tutti i vecchi e sono stanco; la memoire est le répas de celui qui va a mourir: a cosa serve una porta se non l’attraversa nessuno?

Intanto ha finito d’impastare del pane con acqua, si asciuga le mani, torna a sedersi sulla panca e mette la ciotola per terra, poco distante da lui; poi alza lo sguardo in direzione di quella che sembra una montagnola di stracci. È Cerbero.

Amico mio, il solo rimasto! Magna che l’è prùnt! Eh ridete, ridete, ma qui la borsa è vuota, i patti non erano questi! Da qui dovevano passare tutti, anche dopo il cambio di gestione, era un gentlemen’ agreement, cosa sono in fondo due monete! Sarà questa poi la ragione? Gli ultimi due vivi che volevano andar giù hanno persino cercato di fingersi morti per derubarmi gli oboli della giornata! Fuck them! Che vadano all’inferno, non era mai accaduto che qualcuno avesse una tale mancanza di rispetto. Cosa credete che si tratta solo di portarli di là? Vi sbagliate! Quando arrivano da noi, hanno, gli occhi aperti, sono pieni del mondo, sentono il richiamo, tienen la vida en los ojos. Ci voleva tempo per preparare la barca, loro si spengono lentamente, talvolta li scuoto, y despuès se llega, empieza el tiempo de l’olvido, ritornano nella valle dove si erano spogliati delle vite precedenti e poi …e poi non li vedo più, it’s not my business, sono il guardiano della soglia io, posso soltanto immaginare cosa ci sia dalla vostra e da quell’altra che sta di là. Ma a cosa serve una soglia se non c’è più nulla da attraversare. È per questo che mi sono deciso, mettetevi nei miei panni! Come posso continuare a fare finta di niente? Riuscite a immaginarle le mie giornate? Qui in questo luogo tetro, puzzolente. Una volta non ci facevo caso, mai un momento di sosta, di respiro e non mi sono mai lamentato. Ora di notte mi sveglio di colpo, sento le urla di quelli che trasportavo e mi sembra che siano tornati, ma quando mi alzo il y a un silence … Ho deciso di scendere. Sì, io! Avete capito bene? Ho deciso di scendere e lui verrà con me, non lo lascio qui. Domani ce ne andiamo.

Si guarda intorno, quasi volesse imprimersi negli occhi la scena, nel presentimento di abbandonarla per sempre, poi si distende sul giaciglio. Buio e cambio di scena.

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LE VITE IMMAGINARIE, I MIMI E I DIALOGHI CON LEUCÓ

Premessa

Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Il cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo ora nel blog con qualche modifica.

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo, per esempio, è stato nell’immaginario collettivo, più importante di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge.

Le vite immaginarie e I mimi di Marcel Schwob fanno parte di quest’ultima categoria. Le opere risalgono alla fine dell”800, in un’epoca di svolta della storia europea, quando cominciava a profilarsi quella crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera che ricorda il Giano del mito classico. Esse hanno lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca; tuttavia le loro radici profonde affondano nella classicità. Esse richiamano alla memoria, nel titolo, le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi 1.

Allo stesso modo I mimi, opera certamente meno celebre della prima ma non per questo minore, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: che la verità di una vita stia nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca spasmodica del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare “al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale”2. Affermazione sorprendente, se ci pensiamo bene; perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte e cioè la ricerca dell’universalità. In realtà, la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune. Rispetto all’avvento di una società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma del suo contrario.

Canone e anti canone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe, la più diversa fra tutte, rispetto alle altre sue, sebbene una traccia di continuità si possa riscontrare nel riferimento al mito come fonte d’ispirazione. Pavese era un conoscitore profondo e acuto delle opere di Károly Kerényi e di altri studiosi, ma I dialoghi sono opera letteraria, governata da una tensione dialogica che rimanda al teatro.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quelli immortalati dagli scrittori più celebrati del ‘900, ma dagli effetti dirompenti, a tanti anni di distanza.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e dicendo questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjant subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione del personaggio: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni d’inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure altri che come la Deledda in Italia, continueranno imperterriti nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista.

Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto, i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiamo alla struttura sotterranea rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico d’ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo, però, Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto e il premio è la gloria. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro.

Pavese segue un percorso diverso. Egli cerca, nelle pieghe del mito, la risposta al mistero, si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, si pone l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata … Orfeo gli risponde: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla”3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. 4.

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.5.

Parole straordinarie e quanto mai attuali in una società che vive sospesa fra il paese dei balocchi e la guerra di tutti contro tutti. L’illusione dell’orgia continua, della festa perenne, di un’ansia dionisiaca selvaggia, nascondono il delirio di onnipotenza; occorre il senso del limite, ma questo non cancella la necessità di accettare quella sfida. È necessario, oggi come ieri, scendere nel proprio inferno; la consapevolezza nasce dall’incontro con il limite, il canto è ancora una volta la risposta. Il paradosso di Pavese emerge qui in tutta la sua forza: il ricorso al mito è indispensabile anche se non gli si può più credere alla lettera. Esso apre ancora, come sempre, le porte alla sublimazione simbolica: senza quest’ultima vi è soltanto il pendolo depressivo che oscilla fra le esaltazioni dell’orgia o gli agiti, nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine.

Il maestro e gli allievi

Schwob, per ragioni anagrafiche, va considerato il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900; ma il suo esempio è tutt’altro che solitario. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges, che gli attribuisce un ruolo primario come ispiratore:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve qualcosa.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. In altre culture letterarie ha pesato meno che da noi il pensiero negativo. Tuttavia, sempre Schwob, ci dimostra come fosse possibile un’interpretazione diversa da quella letterale della morte di dio, così come appare nello Zarathustra nicciano. Anche i suoi Mimi prendono spunto dalla morte di Pan (così s’intitola proprio l’ultimo dei racconti dell’opera), ma egli non ne tira le conseguenze filosofiche. Pur prendendo atto della fine egli rilancia il mito come narrazione: ritesse la tela assumendo la maschera di personaggi inventati ma plausibili che ci offrono vie d’uscita laterali; Pavese, in fondo farà, a modo suo, la stessa cosa.

Nel ‘900 e dopo Nietzsche, invece, il mito come narrazione è sostituito dal concetto filosofico di mito; si parlerà, per esempio, in modo del tutto improprio, di mito del superuomo, espressione – questa – che contiene più di un’imprecisione.

È ipotizzabile un’influenza diretta di Schwob su Pavese? La voluminosa antologia della critica pavesiana non ne parla: né Givone né altri, che si sono occupati in modo particolare dei Dialoghi con Leucò vi accennano. Soltanto Roberto Speziale lo fa di sfuggita nella quarta di copertina de I Mimi 6

Bisogna però considerare che la fortuna di Schwob in Italia è recente. Introdotto dagli Adelphi, il libro ha vissuto una fortuna limitata alla cerchia dei francesisti e poco più. Rilanciato dalle traduzioni recenti dalla casa editrice Azimut e oggetto di nuove attenzioni è stato di nuovo proposto dalla casa editrice Adelphi, ma ci troviamo sempre in un ambito ristretto. È difficile ipotizzare una conoscenza diretta da parte di Pavese della sua opera, ma di certo lo scrittore delle Langhe conosceva Borges e può essersi imbattuto nel suo giudizio su Schwob.

Forse, semplicemente, accade che scrittori anche lontani e indipendenti l’uno dall’altro, fiutino nell’aria le stesse atmosfere o le stesse necessità e diano risposte analoghe. C’è un’aria di famiglia che si avverte leggendo questi tre libri, le loro diversità non cancellano quel sentire comune che li percorre. La ragione del loro fascino può essere rilanciata oggi perché il contrasto evidente fra un razionalismo positivista imperante, di carattere puramente tecnologico, cui fa da contraltare un agito che salta la mediazione del simbolico, ci stanno portando in un vicolo cieco. Queste opere ci ricordano che il simbolico esiste e che è necessario per vivere, non per intrattenerci. Nel nostro mondo postmoderno, una vulgata largamente diffusa ritiene che ogni narrazione sia divenuta impossibile perché tutto è alla luce del sole, verificabile, documentato, senza mistero. Il narrare, in tale contesto, non può che essere sempre più confinato in generi: il giallo, la fantascienza ecc..

Quale sciocca miopia! Faccio tre semplicissimi esempi che smentiscono questa illusione ottica. Negli Stati Uniti d’America, secondo decine e forse centinaia di migliaia di persone Elvis Presley non è morto nella data indicata dai suoi biografi e forse per alcuni è ancora vivo! Sempre nella patria della tecnologia più avanzata un’alta percentuale di statunitensi, dopo aver visto il film Capricorn one, si convinse che gli astronauti non erano mai sbarcati sulla Luna, ma che quell’evento non fosse altro che un’ingegnosa messa in scena hollywodiana girata nel deserto del Nevada. Infine l’Italia: in occasione del decennale della morte di Moana Pozzi, abbiamo assistito a seri programmi televisivi in cui commentatori tutt’altro che sprovveduti, avanzavano più di un dubbio sulla sua morte. Se per avventura rimanessero solo questi documenti e testimonianze, fra le poche cose conservate della nostra civiltà e fra mille anni capitassero nella mani di colonizzatori extraterrestri, Elvis Presley e Moana Pozzi verrebbero considerati eroi come Achille e Cassandra, mentre l’avventura lunare statunitense rientrerebbe nella infinita catena di narrazioni sull’argomento: dalla Storia vera di Luciano di Samosata, passando all’Orlando Furioso e via di seguito.

Del mito inteso come narrazione fantastica non si può fare a meno perché esso contiene una verità che non può essere detta degli storici. Non si tratta naturalmente di sostituire una ricerca di verità a un’altra, di attribuire a queste avventure dello spirito lo stesso rango. La razionalità storica, la cura certosina della ricostruzione minuta e documentaria parla alla nostra ragione, la narrazione fantastica parla al nostro inconscio: abbiamo bisogno di entrambi. Le commistioni indebite, le confusioni e quant’altro, hanno spazio proprio nei momenti storici in cui la pari dignità fra questi modi di cercare la verità viene cancellata e repressa. Nascono allora gli apprendisti stregoni che mescolano tutto con tutto arbitrariamente, invadendo i campi degli altri perché non riconoscono più il loro; oppure perché costretti da una cultura che riconosce solo certi statuti e percorsi, tendendo a eliminarne altri.


1 Marcel Schwob, Vite immaginarie, prefazione dell’autore, traduzione di Cristiana Lardo, Azimut editore, Roma 2005, p.9

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4.Ivi, p. 77

5.Ivi, p.79

6 Marcel Schwob, I mimi, a cura di Roberto Speziale, :duepunti edizioni, Palermo 2006.


 

 

 

IN DIFESA DI ISMENE. Prima parte

Il testo che segue fu pubblicato sulla rivista online Overleft nel 2019, nella sezione Dopo il Diluvio.

Prima parte: La sorella opaca.

L’esaltazione di Antigone non mi ha mai convinto del tutto. Il personaggio è certamente fra i più affascinanti inventati dall’arte di Sofocle ed è, come tutti quelli classici, poliedrico, perché ritorna in scena più volte, in contesti, tragedie e narrazioni diverse. Antigone, in Edipo a Colono, per esempio, è un personaggio assai diverso e altrettanto grande, rispetto a quello più celebrato nella tragedia che porta il suo nome. Probabilmente, gioca a favore del testo sofocleo una maestria compositiva che tocca in Antigone (come in Edipo re) i suoi livelli più eccelsi: Hegel la definì, cito a memoria, la tragedia perfetta; mentre in Edipo a Colono la materia si diluisce di più.

Insieme a lei, nella tragedia eponima, c’è una seconda protagonista femminile – Ismene – la sorella opaca come è stata definita, per contrapporla all’eroina. La mia lettura testuale non tende tanto a smitizzare Antigone, se mai a insinuare qualche dubbio; ma, specialmente, si propone di tornare a riflettere su alcune interpretazioni classiche e su altre più recenti. Molto di più cercherò, in tale contesto, di rivalutare Ismene, almeno in parte, dall’opacità; pur senza pretendere di rovesciare i ruoli. Nel Pantheon dei grandi personaggi delle tragedie greche e dei miti, Ismene rimarrà alla fine una figura minore, ma forse oggi siamo in grado di capire meglio i motivi per cui non poteva uscire da quel ruolo, ma senza farla ricadere in un’indistinta natura femminile, come viene di solito interpretata. C’è tuttavia una difficoltà in più da considerare prima di entrare nel merito delle questioni poste. Le interpretazioni della tragedia e del personaggio non si possono più da tempo distaccare dal testo medesimo. Antigone è come la Divina Commedia e Amleto: sono opere ormai inseparabili dai loro esegeti, dalle note a margine, dai commentari, dai numerosi testi teatrali che portano il suo nome. Questo però rischia anche di essere un limite: tornare al testo originale nudo e proporsi una sorta di sospensione del giudizio è un’operazione che a volte bisogna tornare a fare, senza avere la pretesa di aggirare o ignorare quanto si è sedimentato nei commenti secolari, ma neppure soggiacere a una sorta di ipse dixit involontario; piuttosto, andando di nuovo a cercare nella fonte originaria se per caso qualcosa non sia sfuggito. Penso che tale atteggiamento sia ancor più necessario quando ci si trova davanti a nuove letture. Proprio da quattro recenti interventi, infatti, cominceremo: la lectio magistralis tenuta nel 2015 da Gustavo Zagrebelsky, l’introduzione di Pietro Montani a un seminario che si tenne anni fa presso la Sapienza di Roma, introduzione che Montani ha ampliato e riscritto nel 2017: un saggio di Elena Porciani di cui riporto un breve ma decisivo passaggio.1 Questi tre interventi si possono a mio giudizio anche far dialogare fra di loro e uno dei miei intenti sarà proprio questo; naturalmente la responsabilità nel farlo è tutta mia. Infine, un intervento di Rossana Rossanda.

La comunità.

Cominciamo da Zagrebelsky perché all’inizio della conferenza egli si pone un problema di contesto, domandandosi cioè cosa chiedesse la comunità a Sofocle nel momento in cui gli fu commissionata la tragedia.2 Seguendo il suo ragionamento intorno alle trasformazioni che stavano avvenendo nella società greca del tempo, un passaggio delicato da una società fondata sui clan famigliari, a una diversa forma che sfocerà compiutamente nella città stato, il costituzionalista lo definisce come il passaggio da una legge calda a una legge fredda. La prima, basata sugli usi e le tradizioni rispetto alle quali, specialmente in un ambito famigliare o di clan, non c’è alcuna necessità – per esempio – che regole o leggi siano scritte, è la legge calda, mentre per la seconda e ancor più nella polis, la scrittura diventa necessaria, come pure una certa freddezza e imparzialità della decisione. Creonte si trova a governare questo passaggio difficile. Continuando nel suo ragionamento, Zagreblesky insiste sulla delicatezza del momento, evidente per esempio, nelle continue oscillazioni del coro: schierato all’inizio dalla parte di Creonte, la posizione muta fino a saltare dalla parte opposta. Montani, nel suo saggio, accoglie l’orizzonte proposto da Zagreblesky, ma radicalizzando il discorso del costituzionalista, si chiede se ci sia di mezzo la questione della tecnica, riferendosi al famoso primo stasimo della tragedia in cui parlano i vecchi tebani. Montani giunge così a domandarsi se il dilemma posto da Sofocle s’avvicini al nostro concetto di stato d’eccezione, cioè una situazione che pone tutti di fronte a qualcosa d’imprevisto, oppure talmente al limite della consapevolezza giuridica di una comunità, da non poter essere governato dalla tecnica corrente. Zagrebelsky tira le fila di questo ragionamento che a me pare sostanzialmente simile a quello di Montani, nel finale della sua lectio, distinguendo la legge dal diritto e sostenendo che Antigone non si pone tanto (o non solo) dalla parte della tradizione, degli usi e costumi e delle leggi del sangue, o addirittura degli dei, secondo i più comuni e secolari canoni interpretativi, ma dalla parte del diritto e della fonte di ogni diritto. Zagreblesky conclude dicendo che tale problema sarà risolto migliaia di anni dopo con le costituzioni, che non sono una legge, né tanto meno una legge ordinaria, ma il patto fondante di una comunità, patto che sostituisce l’alternativa fra usi e consuetudini da un lato e legge fredda, cioè quel doppio vincolo da cui sia Creonte sia Antigone non furono in grado di sottrarsi. Anche in questa riflessione di Elena Porciani, ritroviamo un ragionamento sostanzialmente analogo a quello sostenuto da Montani e Zagrebelsky – sebbene esso nasca da considerazioni diverse – su un punto importante e cioè che Antigone non può essere chiusa dentro il recinto delle interpretazioni più canoniche:

… Antigone, che viene a consistere nel fatto che «la posizione spostata [del personaggio] è precisamente quella da cui la contestazione di questo ordine che si può chiamare ‘patriarcale’ è possibile» (ivi, p. 42), anche quando sia ostacolata dalla «difficoltà, anzi l’impossibilità di dire, di articolare la rivendicazione» (ibidem). Ecco quindi che per capire in che senso «Antigone mette i piedi là dove una donna non deve porli» (ivi, p. 57) è necessario uno spostamento là dove diventi possibile esprimere ciò che nel qui ed ora non lo è ancora: Antigone «cerca di dire una legge che non ha ancora un contenuto, perché non si tratta di un ritorno alla legge del sangue e della natura» (ivi, p. 98), dato che alla themis si è sottratta….3

Il fascino e anche l’acume di ricostruzioni come queste, permette di fare un passo avanti o a lato delle interpretazioni che si sono sedimentate nella storia e quindi di costringerci fare i conti con una novità. Tuttavia, c’è qualcosa in esse che mi lascia perplesso. Fino a che punto è possibile attualizzare un testo, facendo ricorso addirittura a un concetto come quello di stato d’eccezione, teorizzato da Karl Schmitt negli anni ’30 del 1900, ripreso da Agamben in Italia, su cui in definitiva si discute da così poco tempo anche nella contemporaneità? Non si rischia così di mettere sulle spalle di Antigone una nuova interpretazione, forse più congrua di altre o almeno più vicina a noi per la sua comprensibilità, ma alla fine arbitraria e che rischia di diventare un dialogo fra interpretazioni e non un dialogo fra un’interpretazione e il testo? Tuttavia riconosco a Zagrebelky, a Montani e a Porciani un merito indiscutibile e cioè che proprio la loro analisi porta a dire che non c’era una vera possibilità di scelta in quel contesto e che dunque in un certo senso la questione non era risolvibile e per questo tragica nel senso etimologico del termine: probabilmente Sofocle volle mettere in scena proprio tale impossibilità. A questa visione, tuttavia, si oppone Rossana Rossanda, con la sua riflessione su Emone, perché attribuisce al discorso del figlio di Creonte il ruolo di una moderna accezione del discorso politico e dunque possibile anche in quel contesto.

Come verificare tali nuove ipotesi, tutte suggestive?

Sulla soglia della polis.

Antigone sceglie di varcare una soglia, superando il divieto che esclude le donne dal governo della città e così facendo assume il ruolo sacrificale di vittima del potere: indica una possibile via d’uscita, oppure è lei medesima prigioniera delle stesse logiche di quel potere? La risposta di molta letteratura, femminista e non, la vede interna ai meccanismi vigenti, specialmente laddove il suo ricorso alla legge degli dei (non è Giove cha ha scritto questo editto), non solo non scalfisce il potere di Creonte, ma non ripristina neppure una legge divina perché tutta la vicenda è politica, ha a che fare con la legge e la polis. Creonte, infatti, si perderà di suo e non grazie alla ribellione di Antigone e sui modi in cui si perderà ritorneremo più avanti. Tuttavia, mi sembra riduttivo fermarsi alla semplice constatazione che Antigone è interna ai meccanismi del potere: mi sembra un modo di giudicarla con il senno di poi. Forse c’è una lettura possibile più generosa nei suoi confronti, come quella di Elena Porciani e anche di Martha Nussbaum che vedremo più avanti; senza farne naturalmente un femminista ante litteram – che non è – ma neppure avallare la visione cristiana, addirittura prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Il testo è molto più ambivalente e fermarsi a quella battuta – non è Giove che ha scritto l’editto – è troppo poco, anche perché in altri passaggi della tragedia dirà altro da questo, altrettanto e forse più importante. Le stesse interpretazioni canoniche del comportamento di Antigone lo dimostrato. Ne richiamo le più note a partire da quella formulata da Hegel: Antigone s’ispira alle leggi del sangue e a quelle dell’Ade. Hegel, infatti, sostiene che il comportamento suo e quello di Creonte sono entrambi legittimi; anzi, leggendo il capitolo della Fenomenologia dello spirito in cui alle donne viene assegnato il governo del domestico, è quasi naturale arrivare alla conclusione che infondo era lei a essere legittimata a governare in quella circostanza perché nella divisione sessuale dei doveri e dei diritti, le leggi del sangue e dell’Ade sono prerogativa femminile e non maschile per cui in un certo senso Creonte non aveva giurisdizione sulla materia, neppure per dire che Polinice andava sepolto. Lo fa notare molto sottilmente anche Nussbuam in un altro modo. Dal momento che il modello scelto da Sofocle per i due protagonisti è quello eroico, ci sarà pure una ragione per cui la tragedia s’intitola Antigone e non Creonte! Nel linguaggio di Sofocle lei è l’eroina, non la vittima! Per iniziare a mettere alla prova le diverse ipotesi, partiamo dal coro e cioè dalla voce collettiva che sembra dare plausibilità alle tesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. La continua oscillazione, che è poi la stessa di Sofocle, fa pensare che ci troviamo davvero di fronte a un caso inedito ed estremo, che si potrebbe dunque paragonare allo stato d’eccezione o comunque a qualcosa che era difficile da affrontare in quel contesto. Ammettiamo allora che il coro dica questo. Abbiamo superato un ostacolo ma ne troviamo subito un altro: Qual è questo evento inedito e inaudito? Qual è lo stato di eccezione, in che cosa si estrinseca? Lo dice il coro questo? Oppure, qualcun altro lo dice? Nel tentare di rispondere a questi interrogativi entriamo subito in una zona d’ombra perché ci troviamo a corto di citazioni possibili, però qualche ipotesi la possiamo fare. Possiamo andare per tentativi e constatare prima di tutto che non può essere la sepoltura in sé il problema. Anche Creonte sa che l’inumazione dei defunti fa parte delle cosiddette leggi non scritte, dal momento che il rinvenimento della loro origine ci porta indietro nel tempo fino a raggiungere una cattiva infinità, senza peraltro trovare l’origine medesima. Creonte non ha emesso un editto per bandire la sepoltura dei corpi, ma solo quello di Polinice: lo stato d’eccezione dunque è lui, ma il motivo non lo abbiamo ancora trovato. Domandarsi perché lo ha fatto è la stessa cosa che chiedersi dunque quale sia lo stato di eccezione? Sì, perché l’editto è di certo un atto estremo anche per Creonte. Rimane una sola ipotesi e cioè che il primus, l’inedito e inaudito, fosse proprio la guerra civile: che Sofocle e la comunità avessero voluto – con quella tragedia – rappresentare una sorta di paradigma, la prima guerra civile della storia occidentale, un inedito, nel senso che mentre la guerra è del tutto e sempre legittima nel mondo antico e anche per gran parte del nostro (non dimentichiamolo), ma lo è sempre nei confronti di altri, in quel caso essa stava dentro la comunità. È questo lo stato d’eccezione? L’ipotesi è suggestiva ma se così fosse sarebbe la rappresentazione di un evento avvenuto in tempi arcaici, anzi del tutto mitologici, dal momento che Erodoto, quasi contemporaneo di Sofocle, avrebbe scritto in quegli stessi anni che le guerre sono tutte civili. Forse, per fare un passo avanti, dobbiamo interrogare ancora una volta il coro.


1 La lectio di Zagrebleskj è disponibile per intero su youtube. Del  professor Pietro Montani suggerisco il libro Antigone e la filosofia Donzelli editore.  Per quanto riguarda il convegno tenutosi alla sapienza e alle due prefazioni del 2012 e poi 2017, esse sono disponibili in formato pdf in rete.

2 La ritualità del teatro greco, la sua natura religiosa e le altre valenze simboliche sono ricostruite in modo assai puntuale in diverse prefazioni ai testi. Ne cito soltanto due e cioè le edizioni cui mi sono prevalentemente riferito in questo studio.  Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone con testo a fronte, traduzione di Raffaele Cantarella, a cura di Dario Del Corno, Biblioteca Arnoldo Mondadori, Milano 1982. Sofocle le tragedie, traduzione e cura di Angelo Tonelli, Grandi classici tascabili, Marsilio Venezia 2004. Per alcuni frammenti mi sono avvalso anche delle traduzioni di un celebre grecista del primo novecento: Ettore Romagnoli.

3 Elena Porciani, Nostra sorella Antigone In Il primo amore . Nella citazione di cui sopra Porciani cita anche alcuni giudizi di Duroux e di altre, con le quali anche lei concorda. Il saggio di Porciani è assai ampio e complesso e contiene riflessioni che vanno oltre l’orizzonte di questo mio saggio ed è scritto anche per rispondere a Rossana Rossanda su Emone. Tuttavia mi sembrava importante il passaggio citato perché anche in esso ci si discosta dalle interpretazioni più canoniche.