Il testo che segue fu pubblicato sulla rivista online Overleft nel 2019, nella sezione Dopo il Diluvio.
Prima parte: La sorella opaca.
L’esaltazione di Antigone non mi ha mai convinto del tutto. Il personaggio è certamente fra i più affascinanti inventati dall’arte di Sofocle ed è, come tutti quelli classici, poliedrico, perché ritorna in scena più volte, in contesti, tragedie e narrazioni diverse. Antigone, in Edipo a Colono, per esempio, è un personaggio assai diverso e altrettanto grande, rispetto a quello più celebrato nella tragedia che porta il suo nome. Probabilmente, gioca a favore del testo sofocleo una maestria compositiva che tocca in Antigone (come in Edipo re) i suoi livelli più eccelsi: Hegel la definì, cito a memoria, la tragedia perfetta; mentre in Edipo a Colono la materia si diluisce di più.
Insieme a lei, nella tragedia eponima, c’è una seconda protagonista femminile – Ismene – la sorella opaca come è stata definita, per contrapporla all’eroina. La mia lettura testuale non tende tanto a smitizzare Antigone, se mai a insinuare qualche dubbio; ma, specialmente, si propone di tornare a riflettere su alcune interpretazioni classiche e su altre più recenti. Molto di più cercherò, in tale contesto, di rivalutare Ismene, almeno in parte, dall’opacità; pur senza pretendere di rovesciare i ruoli. Nel Pantheon dei grandi personaggi delle tragedie greche e dei miti, Ismene rimarrà alla fine una figura minore, ma forse oggi siamo in grado di capire meglio i motivi per cui non poteva uscire da quel ruolo, ma senza farla ricadere in un’indistinta natura femminile, come viene di solito interpretata. C’è tuttavia una difficoltà in più da considerare prima di entrare nel merito delle questioni poste. Le interpretazioni della tragedia e del personaggio non si possono più da tempo distaccare dal testo medesimo. Antigone è come la Divina Commedia e Amleto: sono opere ormai inseparabili dai loro esegeti, dalle note a margine, dai commentari, dai numerosi testi teatrali che portano il suo nome. Questo però rischia anche di essere un limite: tornare al testo originale nudo e proporsi una sorta di sospensione del giudizio è un’operazione che a volte bisogna tornare a fare, senza avere la pretesa di aggirare o ignorare quanto si è sedimentato nei commenti secolari, ma neppure soggiacere a una sorta di ipse dixit involontario; piuttosto, andando di nuovo a cercare nella fonte originaria se per caso qualcosa non sia sfuggito. Penso che tale atteggiamento sia ancor più necessario quando ci si trova davanti a nuove letture. Proprio da quattro recenti interventi, infatti, cominceremo: la lectio magistralis tenuta nel 2015 da Gustavo Zagrebelsky, l’introduzione di Pietro Montani a un seminario che si tenne anni fa presso la Sapienza di Roma, introduzione che Montani ha ampliato e riscritto nel 2017: un saggio di Elena Porciani di cui riporto un breve ma decisivo passaggio.1 Questi tre interventi si possono a mio giudizio anche far dialogare fra di loro e uno dei miei intenti sarà proprio questo; naturalmente la responsabilità nel farlo è tutta mia. Infine, un intervento di Rossana Rossanda.
La comunità.
Cominciamo da Zagrebelsky perché all’inizio della conferenza egli si pone un problema di contesto, domandandosi cioè cosa chiedesse la comunità a Sofocle nel momento in cui gli fu commissionata la tragedia.2 Seguendo il suo ragionamento intorno alle trasformazioni che stavano avvenendo nella società greca del tempo, un passaggio delicato da una società fondata sui clan famigliari, a una diversa forma che sfocerà compiutamente nella città stato, il costituzionalista lo definisce come il passaggio da una legge calda a una legge fredda. La prima, basata sugli usi e le tradizioni rispetto alle quali, specialmente in un ambito famigliare o di clan, non c’è alcuna necessità – per esempio – che regole o leggi siano scritte, è la legge calda, mentre per la seconda e ancor più nella polis, la scrittura diventa necessaria, come pure una certa freddezza e imparzialità della decisione. Creonte si trova a governare questo passaggio difficile. Continuando nel suo ragionamento, Zagreblesky insiste sulla delicatezza del momento, evidente per esempio, nelle continue oscillazioni del coro: schierato all’inizio dalla parte di Creonte, la posizione muta fino a saltare dalla parte opposta. Montani, nel suo saggio, accoglie l’orizzonte proposto da Zagreblesky, ma radicalizzando il discorso del costituzionalista, si chiede se ci sia di mezzo la questione della tecnica, riferendosi al famoso primo stasimo della tragedia in cui parlano i vecchi tebani. Montani giunge così a domandarsi se il dilemma posto da Sofocle s’avvicini al nostro concetto di stato d’eccezione, cioè una situazione che pone tutti di fronte a qualcosa d’imprevisto, oppure talmente al limite della consapevolezza giuridica di una comunità, da non poter essere governato dalla tecnica corrente. Zagrebelsky tira le fila di questo ragionamento che a me pare sostanzialmente simile a quello di Montani, nel finale della sua lectio, distinguendo la legge dal diritto e sostenendo che Antigone non si pone tanto (o non solo) dalla parte della tradizione, degli usi e costumi e delle leggi del sangue, o addirittura degli dei, secondo i più comuni e secolari canoni interpretativi, ma dalla parte del diritto e della fonte di ogni diritto. Zagreblesky conclude dicendo che tale problema sarà risolto migliaia di anni dopo con le costituzioni, che non sono una legge, né tanto meno una legge ordinaria, ma il patto fondante di una comunità, patto che sostituisce l’alternativa fra usi e consuetudini da un lato e legge fredda, cioè quel doppio vincolo da cui sia Creonte sia Antigone non furono in grado di sottrarsi. Anche in questa riflessione di Elena Porciani, ritroviamo un ragionamento sostanzialmente analogo a quello sostenuto da Montani e Zagrebelsky – sebbene esso nasca da considerazioni diverse – su un punto importante e cioè che Antigone non può essere chiusa dentro il recinto delle interpretazioni più canoniche:
… Antigone, che viene a consistere nel fatto che «la posizione spostata [del personaggio] è precisamente quella da cui la contestazione di questo ordine che si può chiamare ‘patriarcale’ è possibile» (ivi, p. 42), anche quando sia ostacolata dalla «difficoltà, anzi l’impossibilità di dire, di articolare la rivendicazione» (ibidem). Ecco quindi che per capire in che senso «Antigone mette i piedi là dove una donna non deve porli» (ivi, p. 57) è necessario uno spostamento là dove diventi possibile esprimere ciò che nel qui ed ora non lo è ancora: Antigone «cerca di dire una legge che non ha ancora un contenuto, perché non si tratta di un ritorno alla legge del sangue e della natura» (ivi, p. 98), dato che alla themis si è sottratta….3
Il fascino e anche l’acume di ricostruzioni come queste, permette di fare un passo avanti o a lato delle interpretazioni che si sono sedimentate nella storia e quindi di costringerci fare i conti con una novità. Tuttavia, c’è qualcosa in esse che mi lascia perplesso. Fino a che punto è possibile attualizzare un testo, facendo ricorso addirittura a un concetto come quello di stato d’eccezione, teorizzato da Karl Schmitt negli anni ’30 del 1900, ripreso da Agamben in Italia, su cui in definitiva si discute da così poco tempo anche nella contemporaneità? Non si rischia così di mettere sulle spalle di Antigone una nuova interpretazione, forse più congrua di altre o almeno più vicina a noi per la sua comprensibilità, ma alla fine arbitraria e che rischia di diventare un dialogo fra interpretazioni e non un dialogo fra un’interpretazione e il testo? Tuttavia riconosco a Zagrebelky, a Montani e a Porciani un merito indiscutibile e cioè che proprio la loro analisi porta a dire che non c’era una vera possibilità di scelta in quel contesto e che dunque in un certo senso la questione non era risolvibile e per questo tragica nel senso etimologico del termine: probabilmente Sofocle volle mettere in scena proprio tale impossibilità. A questa visione, tuttavia, si oppone Rossana Rossanda, con la sua riflessione su Emone, perché attribuisce al discorso del figlio di Creonte il ruolo di una moderna accezione del discorso politico e dunque possibile anche in quel contesto.
Come verificare tali nuove ipotesi, tutte suggestive?
Sulla soglia della polis.
Antigone sceglie di varcare una soglia, superando il divieto che esclude le donne dal governo della città e così facendo assume il ruolo sacrificale di vittima del potere: indica una possibile via d’uscita, oppure è lei medesima prigioniera delle stesse logiche di quel potere? La risposta di molta letteratura, femminista e non, la vede interna ai meccanismi vigenti, specialmente laddove il suo ricorso alla legge degli dei (non è Giove cha ha scritto questo editto), non solo non scalfisce il potere di Creonte, ma non ripristina neppure una legge divina perché tutta la vicenda è politica, ha a che fare con la legge e la polis. Creonte, infatti, si perderà di suo e non grazie alla ribellione di Antigone e sui modi in cui si perderà ritorneremo più avanti. Tuttavia, mi sembra riduttivo fermarsi alla semplice constatazione che Antigone è interna ai meccanismi del potere: mi sembra un modo di giudicarla con il senno di poi. Forse c’è una lettura possibile più generosa nei suoi confronti, come quella di Elena Porciani e anche di Martha Nussbaum che vedremo più avanti; senza farne naturalmente un femminista ante litteram – che non è – ma neppure avallare la visione cristiana, addirittura prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Il testo è molto più ambivalente e fermarsi a quella battuta – non è Giove che ha scritto l’editto – è troppo poco, anche perché in altri passaggi della tragedia dirà altro da questo, altrettanto e forse più importante. Le stesse interpretazioni canoniche del comportamento di Antigone lo dimostrato. Ne richiamo le più note a partire da quella formulata da Hegel: Antigone s’ispira alle leggi del sangue e a quelle dell’Ade. Hegel, infatti, sostiene che il comportamento suo e quello di Creonte sono entrambi legittimi; anzi, leggendo il capitolo della Fenomenologia dello spirito in cui alle donne viene assegnato il governo del domestico, è quasi naturale arrivare alla conclusione che infondo era lei a essere legittimata a governare in quella circostanza perché nella divisione sessuale dei doveri e dei diritti, le leggi del sangue e dell’Ade sono prerogativa femminile e non maschile per cui in un certo senso Creonte non aveva giurisdizione sulla materia, neppure per dire che Polinice andava sepolto. Lo fa notare molto sottilmente anche Nussbuam in un altro modo. Dal momento che il modello scelto da Sofocle per i due protagonisti è quello eroico, ci sarà pure una ragione per cui la tragedia s’intitola Antigone e non Creonte! Nel linguaggio di Sofocle lei è l’eroina, non la vittima! Per iniziare a mettere alla prova le diverse ipotesi, partiamo dal coro e cioè dalla voce collettiva che sembra dare plausibilità alle tesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. La continua oscillazione, che è poi la stessa di Sofocle, fa pensare che ci troviamo davvero di fronte a un caso inedito ed estremo, che si potrebbe dunque paragonare allo stato d’eccezione o comunque a qualcosa che era difficile da affrontare in quel contesto. Ammettiamo allora che il coro dica questo. Abbiamo superato un ostacolo ma ne troviamo subito un altro: Qual è questo evento inedito e inaudito? Qual è lo stato di eccezione, in che cosa si estrinseca? Lo dice il coro questo? Oppure, qualcun altro lo dice? Nel tentare di rispondere a questi interrogativi entriamo subito in una zona d’ombra perché ci troviamo a corto di citazioni possibili, però qualche ipotesi la possiamo fare. Possiamo andare per tentativi e constatare prima di tutto che non può essere la sepoltura in sé il problema. Anche Creonte sa che l’inumazione dei defunti fa parte delle cosiddette leggi non scritte, dal momento che il rinvenimento della loro origine ci porta indietro nel tempo fino a raggiungere una cattiva infinità, senza peraltro trovare l’origine medesima. Creonte non ha emesso un editto per bandire la sepoltura dei corpi, ma solo quello di Polinice: lo stato d’eccezione dunque è lui, ma il motivo non lo abbiamo ancora trovato. Domandarsi perché lo ha fatto è la stessa cosa che chiedersi dunque quale sia lo stato di eccezione? Sì, perché l’editto è di certo un atto estremo anche per Creonte. Rimane una sola ipotesi e cioè che il primus, l’inedito e inaudito, fosse proprio la guerra civile: che Sofocle e la comunità avessero voluto – con quella tragedia – rappresentare una sorta di paradigma, la prima guerra civile della storia occidentale, un inedito, nel senso che mentre la guerra è del tutto e sempre legittima nel mondo antico e anche per gran parte del nostro (non dimentichiamolo), ma lo è sempre nei confronti di altri, in quel caso essa stava dentro la comunità. È questo lo stato d’eccezione? L’ipotesi è suggestiva ma se così fosse sarebbe la rappresentazione di un evento avvenuto in tempi arcaici, anzi del tutto mitologici, dal momento che Erodoto, quasi contemporaneo di Sofocle, avrebbe scritto in quegli stessi anni che le guerre sono tutte civili. Forse, per fare un passo avanti, dobbiamo interrogare ancora una volta il coro.
1 La lectio di Zagrebleskj è disponibile per intero su youtube. Del professor Pietro Montani suggerisco il libro Antigone e la filosofia Donzelli editore. Per quanto riguarda il convegno tenutosi alla sapienza e alle due prefazioni del 2012 e poi 2017, esse sono disponibili in formato pdf in rete.
2 La ritualità del teatro greco, la sua natura religiosa e le altre valenze simboliche sono ricostruite in modo assai puntuale in diverse prefazioni ai testi. Ne cito soltanto due e cioè le edizioni cui mi sono prevalentemente riferito in questo studio. Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone con testo a fronte, traduzione di Raffaele Cantarella, a cura di Dario Del Corno, Biblioteca Arnoldo Mondadori, Milano 1982. Sofocle le tragedie, traduzione e cura di Angelo Tonelli, Grandi classici tascabili, Marsilio Venezia 2004. Per alcuni frammenti mi sono avvalso anche delle traduzioni di un celebre grecista del primo novecento: Ettore Romagnoli.
3 Elena Porciani, Nostra sorella Antigone In Il primo amore . Nella citazione di cui sopra Porciani cita anche alcuni giudizi di Duroux e di altre, con le quali anche lei concorda. Il saggio di Porciani è assai ampio e complesso e contiene riflessioni che vanno oltre l’orizzonte di questo mio saggio ed è scritto anche per rispondere a Rossana Rossanda su Emone. Tuttavia mi sembrava importante il passaggio citato perché anche in esso ci si discosta dalle interpretazioni più canoniche.