UN GIORNO DEVI ANDARE di Giorgio Diritti

Rio delle Amazzoni

Introduzione

Il film va iscritto nel novero delle opere mistiche del nostro tempo, almeno per quello che sembrano le intenzioni del regista. Mi rifaccio all’etimologia della parola: essa comprende in sé i concetti di mistero, del chiudere e del tacere, che sfociano nella contemplazione. Lévy-Bruhl parlava, a questo proposito, di partecipazione mistica per quanto attiene le religioni primitive, cioè quel sentimento che riscontra il sacro ovunque, in qualsiasi fenomeno naturale di una certa rilevanza. Naturalmente, quanto più ci si distacca da quel sentimento effusivo e di fusione con la natura organica, processo che avviene sia con le religioni cosiddette positive sia con la cultura laica e il materialismo moderno, tanto più l’esperienza mistica deve essere anche ricercata, in qualche modo perseguita, con la meditazione, il silenzio, l’ascolto di sé, ricorrendo anche a tecniche appropriate. Tali percorsi sono squisitamente individuali, ma nel concetto di mistico nel senso cui si riferiva Lévy-Bruhl, l’aspetto sociale non poteva essere scisso da quello personale e individuale. Mi avvicino così al film di Giorgio Diritti, considerandolo da quello che mi sembra il punto di vista scelto dal regista, il suo filtro per guardare al mondo e al sociale, presente in quest’opera come nelle precedenti, fin dall’indimenticabile Il vento fa il suo giro. A me sembra che Diritti, con la sua cinematografia, cerchi da un lato di scandagliare alcune esperienze eretiche appartenenti a sensibilità religiose diverse, dall’altro si pone l’interrogativo se l’esperienza mistica sia compatibile con la modernità.

Quattro donne e due comunità

A una prima approssimazione, il film ha una protagonista principale, Augusta, una giovane donna italiana. È la prima che lo spettatore vede sullo schermo e sarà l’ultima a essere inquadrata: o meglio la sua barca. Tuttavia, essa non ha la forza di un’eroina che da sola occupa la scena. Inoltre, pur essendo la prima figura umana che il pubblico vede, di notte, mentre piange sul ponte del battello, la sua inquadratura è preceduta da una lunga sequenza in cui la luna è schermata dalle nubi. L’immagine si trasforma in un quadro dai contorni prima imprecisi, poi sempre più chiari: è un feto nel ventre di una madre. Da quella inquadratura si passa lentamente al volto di Augusta: dunque, è lei che, scorgendo la luna, piange o sogna un figlio.

Augusta è una ragazza molto normale, persino un po’ antipatica, che s’allontana da una storia personale molto dolorosa. Del resto, crisi esistenziale e fuga sono, dagli anni ’60 in poi, un clichè abbastanza praticato dalla gioventù europea. Se mai la curiosità sta nella scelta del luogo dove fuggire: non la Turchia, l’India o il Nepal, ma il profondo sud ovest brasiliano. I silenzi di Augusta, per una lunga parte del film, non sono di meditazione, ma di fastidio, sgomento e fatica a entrare in quel mondo. Per dirla con Chatwin, sembra sempre sul punto di domandarsi: ma che ci faccio qui?

La seconda donna a entrare in scena è Franca, una suora laica cattolica, che percorre il fiume con un battello che serve a tante cose: presidio medico, solidarietà con le comunità indigene più disperse, cui porta cibo, santini e un’evangelizzazione piuttosto ingenua e alla buona, che i bambini sembrano accogliere in modo non troppo convinto.

A queste due prime protagoniste fanno da contrappunto altre due donne e un secondo gruppo, sempre femminile: Anna, madre di Augusta e Antonia la nonna della ragazza.

Vivono in una cittadina del trentino e si dedicano a opere di solidarietà: fanno parte di un gruppo di suore laiche, qualcosa di più e diverso dalle famose dame si san Vincenzo, prima di tutto per la differente estrazione sociale. Il nesso fra le due comunità è molto chiaro: alla staticità della comunità trentina, sostanzialmente dedita alla preghiera, alla raccolta di vestiti, il disegno delle icone e poco altro, si contrappone il dinamismo della comunità cattolica brasiliana, impegnata nella costruzione di pollai e centri residenziali che, al di là di ogni possibile sforzo di fantasia, assomigliano sempre a dei villaggi turistici; naturalmente, il capitale investito viene dall’Italia o da donazioni provenienti dal ricco mondo occidentale. Il missionario barbuto che gestisce capitali e progetti sembra un nonno dei fiori sessantottino che mostra carte, mappe e grafici all’indio che gli sta davanti. Immediato il riferimento al primo film di Diritti, Il vento fa il suo giro: il solerte amministratore locale progressista della comunità occitana, che fa da guida ai giornalisti per promuovere il suo programma di rilancio della valle, ricorda assai il missionario.

Due universi

Il motore del film sta nel rapporto dialettico fra questi due universi, ma è sempre più Augusta a divenire una sorta di catalizzatore telepatico, è lei a mettere in moto il montaggio del film, che passa con sequenze rapidissime da una comunità all’altra, non in base a qualcosa di oggettivo, ma rispetto alle sensazioni, le intuizioni (più spesso quelle di Augusta, ma talvolta provenienti anche dal lontano Trentino innevato). In Brasile domina la difficoltà di comprensione fra indigeni che resistono a ogni forma di cambiamento e una tipologia di missionario che pretende sempre di proporre le migliori soluzioni. Anche la versione più positiva di tale atteggiamento, rappresentato da Franca, la suora laica anziana, si scontra con una realtà che lei comprende fino a un certo punto, e rispetto alla quale non si pone grandi domande: cerca di fare bene il suo lavoro e si accontenta di ciò. Augusta reagisce con insofferenza giovanile, è polemica – a volte gratuitamente – finché non si arriva a una svolta del film, che ne chiude la prima parte: la ragazza decide di lasciare Franca, vuole proseguire da sola il suo viaggio e sceglie di vivere nella favela di Manaus, dove può contare sull’appoggio di una struttura comunitaria anch’essa religiosa. Dalla natura immensa e abbacinante lungo il fiume, si ritrova nell’inferno urbano. Vive presso una famiglia, i cui figli provengono da padri diversi: conosce così Arizete, Janina e Paulo Joao, l’unico con cui pare esservi un dialogo fatto di delicata seduzione. Nella favela di Manaus esplodono tutte le contraddizioni della comunità brasiliana, nella quale Augusta comincia a muoversi con autorevolezza e buon senso. Cerca di aiutare in modo discreto e rispettoso, diverso dai modi delle religiose, tranne in un caso che la spingerà a cambiare di nuovo. Quando il governo il primo governo Lula  propone il trasferimento della comunità in un nuovo quartiere di brutte villette con una sola strada nel mezzo, lei difende l’idea di rimanere nella favela e quando gli uomini lavorano per il nuovo progetto li affronta bruscamente. La risposta piccata di uno di essi la riporta alla realtà, seppure dopo un momento di rabbia. Augusta è pur sempre una gringa, una occidentale, non è la sua comunità quella. Per un istante, anche lei cede al vezzo tutto nostro di sapere sempre quali sono le soluzioni migliori, ma è solo un momento. Quando nella comunità si consuma la tragedia del bambino venduto, ma ritenuto morto annegato, Augusta tira le sue conclusioni: non il ritorno in Italia e neppure la vita nella favela, ma il proseguimento del viaggio in una solitudine estrema. Prima di quest’ultimo passaggio il film ritorna dall’altra parte del mondo. Augusta ha aiutato Jainina a trasferirsi in Trentino per diventare la badante della nonna di Augusta, che muore però dopo poco tempo. Con la preghiera funebre intensissima e anche molto pagana di Jainina il film si congeda dalla comunità trentina.

Favela brasiliana

Quanto ad Augusta,  la natura ritorna prepotentemente a chiamarla a sé e lei vive tutta una serie di esperienze al limite della propria tenuta fisica, ma finalmente entra in contatto con essa. Ce ne accorgiamo perché Diritti si avvale di una finezza della colonna sonora, per molti altri aspetti la sola parte debole del film: Augusta ode per la prima volta in modo vistoso (e anche noi spettatori lo condividiamo con lei), i rumori e i suoni della selva, un linguaggio sconosciuto che fino a quel momento era rimasto ai margini della sua sensibilità uditiva. Sente per la prima volta il luogo, la sua forza, il suo genius, i versi dei piccoli animali, con una intensità che prima le era sconosciuta. La sua casa è un’amaca sotto un grande intreccio di alberi su cui è appesa anche una icona con il volto di Cristo, che lei guarda interrogativamente e intensamente, ma con un fondo di scetticismo.

Con l’immersione piena nella natura inizia e si conclude la brevissima terza parte del film. Augusta vive ormai di quello che trova, come un’arcaica raccoglitrice, oppure di quello che le lascia il pescatore indigeno, senza avere bisogno di alcuna parola, dal momento in cui l’uomo comprende la radicalità della sua scelta di vita. Un giorno arriva alla sua amaca un bambino con cui lei gioca tutto il pomeriggio, felice di ritrovare un contatto umano, ma anche di ritrovare in qualche modo il figlio che, ora sappiamo, lei ha perduto. L’incontro, tuttavia, non è il prodromo a una soluzione di buoni sentimenti: il bambino ritorna a casa sua con i genitori a fine giornata, Augusta ha fatto quello che doveva fare, ma quel figlio non è suo e quando l’ultima scena del film inquadra la punta della sua barca che fende lentamente le alghe, capiamo che Augusta non tornerà, ma che ha imparato a lasciare.

Maschile seriale, donne plurali

I protagonisti maschili del film impressionano tutti per la loro disperante miseria morale e inettitudine (tranne Paulo Joao) e questo è uno dei motivi che corrono sotto traccia rispetto alla trama di superficie e che si rivela alla fine un controcanto importantissimo proprio perché Diritti non voleva fare un film sulle differenze di genere, né ammiccare al femminismo. Perciò l’apparire di queste maschere risulta alla fine potente e miserando al tempo stesso. Del missionario nonno dei fiori ho già scritto, ma anche l’indigeno con la sua staticità, refrattario a qualsiasi cambiamento, per non parlare di quelli che considerano impure le due donne europee. Le espressioni più tragicomiche di questo maschile seriale sono il telepredicatore e il sacerdote (laico o meno non si capisce), che con una radio improvvisata si rivolge dalla poltrona, dalla quale non si distacca quasi mai, all’intera comunità della favela di Manaus. La sua casa con balcone è prospiciente un fatiscente campetto nel quale avvengono tutte le cerimonie pubbliche e gli svaghi di massa della comunità: il ballo, il gioco dei bambini, le partite di calcio. Per fare la radiocronaca degli incontri,  che da quella posizione vede solo in parte, piuttosto che usare un altro stratagemma – per esempio allungare il filo del microfono – scosta la tendina e segue la partita stando sempre seduto. Questa specie di Oblomov della favela non può convincere nessuno e infatti i suoi proclami e le sue prediche vengono seguite nella generale indifferenza. Anche quando difende la comunità e il suo diritto a rimanere nella favela, temendo che il trasferimento ne provochi la disgregazione, non è credibile perché sembra difendere più che altro la sua postazione sul divano di casa. Lo vediamo finalmente in piedi e addirittura a camminare solo una volta, quando segue nelle ultime fila il funerale del bimbo venduto, ma che lui crede come tutti (ma non dovrebbe forse dubitarne visto che sa come vanno le cose?) annegato.

Le case dove si traferiranno sono certamente brutte, il luogo anonimo, ma una comunità non è fatta di persone? Forse c’era anche una qualche ragione nel difendere quel luogo, ma una volta persa la partita non si può ricreare la comunità, seppure in situazioni diverse? Invece reitera le sue stanche critiche al governo, senza fare niente altro. Infatti, anche le donne, che pure hanno qualche dubbio sul trasferimento, non lo ascoltano neppure loro, ma accettano di rapportarsi alla novità!

Il tragico panorama maschile finisce con le due figure più orrende: il padre che vende il figlio al mercante per un po’di denaro e poi lo fa credere annegato e il marito di Augusta, che l’aveva abbandonata dopo che lei aveva perso il figlio.   

Le donne protagoniste del film non sono eccezionali. Tuttavia, hanno quasi tutte una caratteristica che manca in misura maggiore o minore agli uomini: la flessibilità necessaria per aderire al cambiamento anche senza approvarlo del tutto (anche loro hanno dubbi sulla validità del trasferimento della comunità in un nuovo quartiere), ma con una capacità di immergersi nella realtà diversa che si trovano a dover affrontare, di accettarla seppure criticamente. La sola eccezione è Franca, la missionaria che sembra peraltro non del tutto convinta lei stessa di quello che fa: trasmette una sfiducia di fondo che è  un po’ il contraltare dell’ottimismo acefalo del missionario. Quando rimprovera Augusta, specialmente all’inizio del film,  ha spesso ragione, ma è una ragione povera in definitiva, perché non sa rispondere ad alcuna delle domande decisive e ragionevoli che la giovane donna le pone.

Di Anna e Antonia, la madre e la nonna di Augusta non vi è molto da dire. Il solidarismo cattolico è il loro orizzonte, lo praticano come una tradizione che si perde nel tempo e che non viene più interrogata nelle sue ragioni e negli effetti che produce.

Fra le donne della comunità brasiliana è Janina la più interessante. Accoglie la possibilità di un lavoro che aiuterà la famiglia come un’occasione da cogliere subito, si trasferisce in Trentino e nel suo sguardo appare talvolta anche un certo sgomento nel ritrovarsi in un mondo così diverso dal suo; ma fa bene il suo lavoro è attenta e sollecita, ma è di fronte alla morte di Antonia che dà il meglio di sé. È lei che si trova, da sola, ad accompagnare l’anziana donna. Non si scompone, accetta ciò che si compie ai suoi occhi. Alla fine si avvicina al corpo, lo tocca dolcemente in più parti e per ognuna di esse trova le parole giuste per valorizzare ciò che Antonia ha compiuto di buono nella sua vita: nel silenzio e nella solitudine del momento, la sua voce flebile ma chiara e dolce, intona un canto funebre di rara potenza.  

Infine, ancora Augusta che lascio però alle conclusioni.     

Sacro e gratuito nella crisi della modernità     

Questo film contiene in sé la domanda se l’esperienza del mistico possa essere salvaguardata come valore nelle nostre società. La risposta è almeno apparentemente negativa. Il film ironizza – con leggerezza – sulle figure religiose istituzionali. Nel film Il vento fa il suo giro, peraltro, aveva messo in mora la visione illuminista, rappresentata dall’amministratore locale. La forza del cinema di Diritti, tuttavia, sta nelle domande che pone e nella capacità di evitare le risposte semplicistiche. Al centro di questo film a me sembra ce ne siano due.

Vi è prima di tutto una domanda sociale, che si può formulare così: può una comunità fare a meno della gratuità assoluta, del dono senza ricompensa? A tale interrogativo il film non dà alcuna riposta ma invita a guardare comunque a quelle che la politica può fornire: le famose villette brutte erano pur sempre un modo di togliere dalla povertà estrema una comunità di persone. D’altro canto, tutta l’imponente ricerca femminista a partire dagli ’70 ha prodotto dovizia di materiali dai quali si deduce che le nostre società vivono largamente sul lavoro non pagato delle donne. Il fatto che tale problema non sia nell’orizzonte tematico del film di Diritti, non per questo può essere dimenticato e lo riprenderò nelle conclusioni.

La seconda domanda riguarda l’individuo, maschio o femmina che sia. Il finale del film, più drammatico di quanto appaia superficialmente, mi ha ricordato una celebre storia sufi di cui esistono molte versioni: la riassumo.

Un maestro sufi si attarda nel deserto e non s’accorge che la notte sta per arrivare. Quando se ne avvede ne ha paura, ma poi scorge in lontananza una luce che sembra indicare un accampamento. Accelera e infatti scorge tre uomini che stanno discutendo animatamente e piangendo: sono tre fratelli. Non appena lo vedono e riconoscono in lui un sufi, lo accolgono con reverenza e lui chiede quale sia la causa di tale angustia. Il maggiore spiega che è per via del loro padre che li ha lasciati orfani ma ha aggiunto a questo dolore il peso di un’eredità che non possono dividere fra loro: essa è costituita da nove cammelli che l’uomo mostra al maestro. Questi chiede il motivo di ciò e l’uomo spiega che il padre ha lasciato scritto di dividerli in questo modo: due terzi al maggiore dei figli la metà di quelli che rimangono al secondogenito e la metà successiva al terzo: una divisione impossibile per porterebbe a dividere in due uno dei cammelli. Il sufi, allora, si chiude in raccoglimento e traccia dei segni sulla sabbia: alla fine si rivolge ai fratelli e regala loro il proprio cammello.  Con dieci cammelli il calcolo viene perfettamente ma rimane come resto un cammello con il quale il sufi si allontana dall’accampamento mentre i fratelli si abbracciano felici.

Augusta s’allontana da sola con la sua barca, corre verso l’ignoto come il maestro che, lasciato l’accampamento dei fratelli, va verso la notte nel deserto e senza alcuna protezione: può essere un andare verso la morte. Anche la scelta estrema di Augusta, ci consegna un messaggio da decifrare. Mentre vediamo la barca che fende le acque senza che lei venga più inquadrata, in sovraimpressione appare il titolo del film: Un giorno devi andare. La frase si apre a una molteplicità di significati assai ampia. Credo che Diritti volesse sottolineare con essa il senso profondo e il valore della metamorfosi, che non ha un punto d’arrivo e infatti il film si chiude bruscamente su quella immagine. Il destino di Augusta rimane fuori dalla scena così come il maestro sufi, con l’atto finale, esce dal racconto: ciò che entrambi hanno fatto è accettare un cambiamento che per diverse ragioni non potevano rifiutare. Per entrambi è la capacità di lasciare, di non trattenere per sé, di rinunciare al potere che i loro stessi gesti hanno messo alla loro portata. Sembrerebbe dunque di vedere, nell’esperienza di Augusta, la possibilità di far vivere nella nostra contemporaneità, la saggezza che traspare dal racconto sufi, ma in realtà si tratta di un’illusione ottica. Quella del maestro aveva una valenza sociale riconosciuta, quella di Augusta può essere solo una scelta personale, peraltro fondata su due presupposti dai piedi d’argilla: il primo è la possibilità di ripristinare un rapporto armonico con la prima natura, anche quella più estrema. In realtà, le acque che Augusta fende nel finale del film sono quelle della foresta Amazzonica. Da quando la pellicola di Diritti è stata girata a oggi, quella foresta è stata violata e saccheggiata al ritmo della superficie di un campo di calcio ogni 24 ore. Se Augusta non andrà verso la morte, come è probabile sia avvenuto per il maestro sufi, è perché s’imbatterà nelle ruspe di una multinazionale  che  costruisce autostrade nella foresta. Il secondo presupposto sarebbe la possibilità di ristabilire quel rapporto di partecipazione mistica che apparteneva alle religioni animistiche o arcaiche. Augusta forse lo ha pensato quando rivela tutto il suo scetticismo osservando l’icona di Cristo, ma è illusorio pensare di sfuggire alla modernità seguendo quella strada. Questo non toglie valore a lei e alla sua scelta: Augusta, insieme a Janina, è di gran lunga il personaggio più positivo del film, ma del tutto scisso da una dimensione sociale.

Per concludere  

La domanda però rimane: può una società fare del tutto a meno del dono e della gratuità? Il discorso è complesso e travalica il tema di questo scritto, che è pur sempre la riflessione su un film. Essa non può essere continuata qui se non indicando alcuni orizzonti possibili. Il primo riguarda quanto prodotto dal femminismo dagli anni ’70 in poi di termini di lavoro occulto femminile. Il secondo è tutto il discorso sulla cura e i beni comuni. Il terzo riguarda il ritorno in auge del mutualismo e del concetto di mutuo soccorso che peraltro è tanta parte degli albori del movimento operaio. Infine alcune riflessioni che si trovano in due pensatori anomali come Walter Benjamin e Furio Jesi. Mi riferisco in particolare a concetti quali l’illuminazione  profana e il valore del binomio festa/rivolta. Molti di questi temi sono già presenti nel blog in altre rubriche e verranno ripresi in quel contesto. Molte altre riflessioni specialmente su cura e femminismo si trovano anche nella rivista online Overleft.     

Foresta amazzonica oggi

Una prima versione di questo saggio fu pubblicato sulla rivista online Overleft nella rubrica Spigolature

IN DIFESA DI ISMENE. Prima parte

Il testo che segue fu pubblicato sulla rivista online Overleft nel 2019, nella sezione Dopo il Diluvio.

Prima parte: La sorella opaca.

L’esaltazione di Antigone non mi ha mai convinto del tutto. Il personaggio è certamente fra i più affascinanti inventati dall’arte di Sofocle ed è, come tutti quelli classici, poliedrico, perché ritorna in scena più volte, in contesti, tragedie e narrazioni diverse. Antigone, in Edipo a Colono, per esempio, è un personaggio assai diverso e altrettanto grande, rispetto a quello più celebrato nella tragedia che porta il suo nome. Probabilmente, gioca a favore del testo sofocleo una maestria compositiva che tocca in Antigone (come in Edipo re) i suoi livelli più eccelsi: Hegel la definì, cito a memoria, la tragedia perfetta; mentre in Edipo a Colono la materia si diluisce di più.

Insieme a lei, nella tragedia eponima, c’è una seconda protagonista femminile – Ismene – la sorella opaca come è stata definita, per contrapporla all’eroina. La mia lettura testuale non tende tanto a smitizzare Antigone, se mai a insinuare qualche dubbio; ma, specialmente, si propone di tornare a riflettere su alcune interpretazioni classiche e su altre più recenti. Molto di più cercherò, in tale contesto, di rivalutare Ismene, almeno in parte, dall’opacità; pur senza pretendere di rovesciare i ruoli. Nel Pantheon dei grandi personaggi delle tragedie greche e dei miti, Ismene rimarrà alla fine una figura minore, ma forse oggi siamo in grado di capire meglio i motivi per cui non poteva uscire da quel ruolo, ma senza farla ricadere in un’indistinta natura femminile, come viene di solito interpretata. C’è tuttavia una difficoltà in più da considerare prima di entrare nel merito delle questioni poste. Le interpretazioni della tragedia e del personaggio non si possono più da tempo distaccare dal testo medesimo. Antigone è come la Divina Commedia e Amleto: sono opere ormai inseparabili dai loro esegeti, dalle note a margine, dai commentari, dai numerosi testi teatrali che portano il suo nome. Questo però rischia anche di essere un limite: tornare al testo originale nudo e proporsi una sorta di sospensione del giudizio è un’operazione che a volte bisogna tornare a fare, senza avere la pretesa di aggirare o ignorare quanto si è sedimentato nei commenti secolari, ma neppure soggiacere a una sorta di ipse dixit involontario; piuttosto, andando di nuovo a cercare nella fonte originaria se per caso qualcosa non sia sfuggito. Penso che tale atteggiamento sia ancor più necessario quando ci si trova davanti a nuove letture. Proprio da quattro recenti interventi, infatti, cominceremo: la lectio magistralis tenuta nel 2015 da Gustavo Zagrebelsky, l’introduzione di Pietro Montani a un seminario che si tenne anni fa presso la Sapienza di Roma, introduzione che Montani ha ampliato e riscritto nel 2017: un saggio di Elena Porciani di cui riporto un breve ma decisivo passaggio.1 Questi tre interventi si possono a mio giudizio anche far dialogare fra di loro e uno dei miei intenti sarà proprio questo; naturalmente la responsabilità nel farlo è tutta mia. Infine, un intervento di Rossana Rossanda.

La comunità.

Cominciamo da Zagrebelsky perché all’inizio della conferenza egli si pone un problema di contesto, domandandosi cioè cosa chiedesse la comunità a Sofocle nel momento in cui gli fu commissionata la tragedia.2 Seguendo il suo ragionamento intorno alle trasformazioni che stavano avvenendo nella società greca del tempo, un passaggio delicato da una società fondata sui clan famigliari, a una diversa forma che sfocerà compiutamente nella città stato, il costituzionalista lo definisce come il passaggio da una legge calda a una legge fredda. La prima, basata sugli usi e le tradizioni rispetto alle quali, specialmente in un ambito famigliare o di clan, non c’è alcuna necessità – per esempio – che regole o leggi siano scritte, è la legge calda, mentre per la seconda e ancor più nella polis, la scrittura diventa necessaria, come pure una certa freddezza e imparzialità della decisione. Creonte si trova a governare questo passaggio difficile. Continuando nel suo ragionamento, Zagreblesky insiste sulla delicatezza del momento, evidente per esempio, nelle continue oscillazioni del coro: schierato all’inizio dalla parte di Creonte, la posizione muta fino a saltare dalla parte opposta. Montani, nel suo saggio, accoglie l’orizzonte proposto da Zagreblesky, ma radicalizzando il discorso del costituzionalista, si chiede se ci sia di mezzo la questione della tecnica, riferendosi al famoso primo stasimo della tragedia in cui parlano i vecchi tebani. Montani giunge così a domandarsi se il dilemma posto da Sofocle s’avvicini al nostro concetto di stato d’eccezione, cioè una situazione che pone tutti di fronte a qualcosa d’imprevisto, oppure talmente al limite della consapevolezza giuridica di una comunità, da non poter essere governato dalla tecnica corrente. Zagrebelsky tira le fila di questo ragionamento che a me pare sostanzialmente simile a quello di Montani, nel finale della sua lectio, distinguendo la legge dal diritto e sostenendo che Antigone non si pone tanto (o non solo) dalla parte della tradizione, degli usi e costumi e delle leggi del sangue, o addirittura degli dei, secondo i più comuni e secolari canoni interpretativi, ma dalla parte del diritto e della fonte di ogni diritto. Zagreblesky conclude dicendo che tale problema sarà risolto migliaia di anni dopo con le costituzioni, che non sono una legge, né tanto meno una legge ordinaria, ma il patto fondante di una comunità, patto che sostituisce l’alternativa fra usi e consuetudini da un lato e legge fredda, cioè quel doppio vincolo da cui sia Creonte sia Antigone non furono in grado di sottrarsi. Anche in questa riflessione di Elena Porciani, ritroviamo un ragionamento sostanzialmente analogo a quello sostenuto da Montani e Zagrebelsky – sebbene esso nasca da considerazioni diverse – su un punto importante e cioè che Antigone non può essere chiusa dentro il recinto delle interpretazioni più canoniche:

… Antigone, che viene a consistere nel fatto che «la posizione spostata [del personaggio] è precisamente quella da cui la contestazione di questo ordine che si può chiamare ‘patriarcale’ è possibile» (ivi, p. 42), anche quando sia ostacolata dalla «difficoltà, anzi l’impossibilità di dire, di articolare la rivendicazione» (ibidem). Ecco quindi che per capire in che senso «Antigone mette i piedi là dove una donna non deve porli» (ivi, p. 57) è necessario uno spostamento là dove diventi possibile esprimere ciò che nel qui ed ora non lo è ancora: Antigone «cerca di dire una legge che non ha ancora un contenuto, perché non si tratta di un ritorno alla legge del sangue e della natura» (ivi, p. 98), dato che alla themis si è sottratta….3

Il fascino e anche l’acume di ricostruzioni come queste, permette di fare un passo avanti o a lato delle interpretazioni che si sono sedimentate nella storia e quindi di costringerci fare i conti con una novità. Tuttavia, c’è qualcosa in esse che mi lascia perplesso. Fino a che punto è possibile attualizzare un testo, facendo ricorso addirittura a un concetto come quello di stato d’eccezione, teorizzato da Karl Schmitt negli anni ’30 del 1900, ripreso da Agamben in Italia, su cui in definitiva si discute da così poco tempo anche nella contemporaneità? Non si rischia così di mettere sulle spalle di Antigone una nuova interpretazione, forse più congrua di altre o almeno più vicina a noi per la sua comprensibilità, ma alla fine arbitraria e che rischia di diventare un dialogo fra interpretazioni e non un dialogo fra un’interpretazione e il testo? Tuttavia riconosco a Zagrebelky, a Montani e a Porciani un merito indiscutibile e cioè che proprio la loro analisi porta a dire che non c’era una vera possibilità di scelta in quel contesto e che dunque in un certo senso la questione non era risolvibile e per questo tragica nel senso etimologico del termine: probabilmente Sofocle volle mettere in scena proprio tale impossibilità. A questa visione, tuttavia, si oppone Rossana Rossanda, con la sua riflessione su Emone, perché attribuisce al discorso del figlio di Creonte il ruolo di una moderna accezione del discorso politico e dunque possibile anche in quel contesto.

Come verificare tali nuove ipotesi, tutte suggestive?

Sulla soglia della polis.

Antigone sceglie di varcare una soglia, superando il divieto che esclude le donne dal governo della città e così facendo assume il ruolo sacrificale di vittima del potere: indica una possibile via d’uscita, oppure è lei medesima prigioniera delle stesse logiche di quel potere? La risposta di molta letteratura, femminista e non, la vede interna ai meccanismi vigenti, specialmente laddove il suo ricorso alla legge degli dei (non è Giove cha ha scritto questo editto), non solo non scalfisce il potere di Creonte, ma non ripristina neppure una legge divina perché tutta la vicenda è politica, ha a che fare con la legge e la polis. Creonte, infatti, si perderà di suo e non grazie alla ribellione di Antigone e sui modi in cui si perderà ritorneremo più avanti. Tuttavia, mi sembra riduttivo fermarsi alla semplice constatazione che Antigone è interna ai meccanismi del potere: mi sembra un modo di giudicarla con il senno di poi. Forse c’è una lettura possibile più generosa nei suoi confronti, come quella di Elena Porciani e anche di Martha Nussbaum che vedremo più avanti; senza farne naturalmente un femminista ante litteram – che non è – ma neppure avallare la visione cristiana, addirittura prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Il testo è molto più ambivalente e fermarsi a quella battuta – non è Giove che ha scritto l’editto – è troppo poco, anche perché in altri passaggi della tragedia dirà altro da questo, altrettanto e forse più importante. Le stesse interpretazioni canoniche del comportamento di Antigone lo dimostrato. Ne richiamo le più note a partire da quella formulata da Hegel: Antigone s’ispira alle leggi del sangue e a quelle dell’Ade. Hegel, infatti, sostiene che il comportamento suo e quello di Creonte sono entrambi legittimi; anzi, leggendo il capitolo della Fenomenologia dello spirito in cui alle donne viene assegnato il governo del domestico, è quasi naturale arrivare alla conclusione che infondo era lei a essere legittimata a governare in quella circostanza perché nella divisione sessuale dei doveri e dei diritti, le leggi del sangue e dell’Ade sono prerogativa femminile e non maschile per cui in un certo senso Creonte non aveva giurisdizione sulla materia, neppure per dire che Polinice andava sepolto. Lo fa notare molto sottilmente anche Nussbuam in un altro modo. Dal momento che il modello scelto da Sofocle per i due protagonisti è quello eroico, ci sarà pure una ragione per cui la tragedia s’intitola Antigone e non Creonte! Nel linguaggio di Sofocle lei è l’eroina, non la vittima! Per iniziare a mettere alla prova le diverse ipotesi, partiamo dal coro e cioè dalla voce collettiva che sembra dare plausibilità alle tesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. La continua oscillazione, che è poi la stessa di Sofocle, fa pensare che ci troviamo davvero di fronte a un caso inedito ed estremo, che si potrebbe dunque paragonare allo stato d’eccezione o comunque a qualcosa che era difficile da affrontare in quel contesto. Ammettiamo allora che il coro dica questo. Abbiamo superato un ostacolo ma ne troviamo subito un altro: Qual è questo evento inedito e inaudito? Qual è lo stato di eccezione, in che cosa si estrinseca? Lo dice il coro questo? Oppure, qualcun altro lo dice? Nel tentare di rispondere a questi interrogativi entriamo subito in una zona d’ombra perché ci troviamo a corto di citazioni possibili, però qualche ipotesi la possiamo fare. Possiamo andare per tentativi e constatare prima di tutto che non può essere la sepoltura in sé il problema. Anche Creonte sa che l’inumazione dei defunti fa parte delle cosiddette leggi non scritte, dal momento che il rinvenimento della loro origine ci porta indietro nel tempo fino a raggiungere una cattiva infinità, senza peraltro trovare l’origine medesima. Creonte non ha emesso un editto per bandire la sepoltura dei corpi, ma solo quello di Polinice: lo stato d’eccezione dunque è lui, ma il motivo non lo abbiamo ancora trovato. Domandarsi perché lo ha fatto è la stessa cosa che chiedersi dunque quale sia lo stato di eccezione? Sì, perché l’editto è di certo un atto estremo anche per Creonte. Rimane una sola ipotesi e cioè che il primus, l’inedito e inaudito, fosse proprio la guerra civile: che Sofocle e la comunità avessero voluto – con quella tragedia – rappresentare una sorta di paradigma, la prima guerra civile della storia occidentale, un inedito, nel senso che mentre la guerra è del tutto e sempre legittima nel mondo antico e anche per gran parte del nostro (non dimentichiamolo), ma lo è sempre nei confronti di altri, in quel caso essa stava dentro la comunità. È questo lo stato d’eccezione? L’ipotesi è suggestiva ma se così fosse sarebbe la rappresentazione di un evento avvenuto in tempi arcaici, anzi del tutto mitologici, dal momento che Erodoto, quasi contemporaneo di Sofocle, avrebbe scritto in quegli stessi anni che le guerre sono tutte civili. Forse, per fare un passo avanti, dobbiamo interrogare ancora una volta il coro.


1 La lectio di Zagrebleskj è disponibile per intero su youtube. Del  professor Pietro Montani suggerisco il libro Antigone e la filosofia Donzelli editore.  Per quanto riguarda il convegno tenutosi alla sapienza e alle due prefazioni del 2012 e poi 2017, esse sono disponibili in formato pdf in rete.

2 La ritualità del teatro greco, la sua natura religiosa e le altre valenze simboliche sono ricostruite in modo assai puntuale in diverse prefazioni ai testi. Ne cito soltanto due e cioè le edizioni cui mi sono prevalentemente riferito in questo studio.  Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone con testo a fronte, traduzione di Raffaele Cantarella, a cura di Dario Del Corno, Biblioteca Arnoldo Mondadori, Milano 1982. Sofocle le tragedie, traduzione e cura di Angelo Tonelli, Grandi classici tascabili, Marsilio Venezia 2004. Per alcuni frammenti mi sono avvalso anche delle traduzioni di un celebre grecista del primo novecento: Ettore Romagnoli.

3 Elena Porciani, Nostra sorella Antigone In Il primo amore . Nella citazione di cui sopra Porciani cita anche alcuni giudizi di Duroux e di altre, con le quali anche lei concorda. Il saggio di Porciani è assai ampio e complesso e contiene riflessioni che vanno oltre l’orizzonte di questo mio saggio ed è scritto anche per rispondere a Rossana Rossanda su Emone. Tuttavia mi sembrava importante il passaggio citato perché anche in esso ci si discosta dalle interpretazioni più canoniche.