IN DIFESA DI ISMENE. Seconda parte

Gli anziani di Tebe

La prendono alla lontana i vecchi saggi, perché in un primo loro intervento c’è una bellissima descrizione naturalistica di un’alba a Tebe. Siamo immersi nella natura fisica, la luce, il sole, la terra. La descrizione è lunga quanto basta per pensare che Sofocle volesse indirizzare l’attenzione di chi assisteva allo spettacolo e di chi legge proprio sulla natura fisica. Improvvisamente però lo scenario muta e il coro racconta come la guerra si sia abbattuta sulla comunità e ne ricostruisce le diverse fasi fino alla fine. L’intento è quello di creare emotivamente una contrapposizione fra la natura solare e il comportamento umano? Lasciamo la domanda in sospeso. Questa parte, che si potrebbe definire descrittiva e narrativa, si conclude con l’entrata in scena di Creonte e il corifeo si domanda perché mai il re abbia indetto un’assemblea pubblica. Questo particolare è assai importante perché ci rivela indirettamente due cose: che gli anziani non sanno ciò che Creonte dirà nella pubblica piazza e tanto meno sanno ciò che accadrà subito dopo e cioè che appena udito il contenuto dell’editto che impedisce la sepoltura di Polinice, una delle guardie si presenterà per annunciare che qualcuno lo ha fatto, ma non sanno chi sia. Antigone era venuta a conoscenza delle intenzioni di Creonte per prima, ma per vie traverse, vivendo nella reggia e lo aveva rivelato solo alla sorella Ismene. Quando si conclude il dialogo fra il re e la guardia, con l’ingiunzione del primo a portare al più presto il colpevole, pena la sua punizione esemplare, ecco che gli anziani parlano di nuovo e siamo così arrivati al famoso e controverso primo stasimo. Eravamo partiti dalla natura, poi era seguita la descrizione della guerra. Ora il tono improvvisamente cambia: entra in scena anthropos e altrettanto improvvisamente dai prodigi della natura si passa a quelli di anthropos. La parola ha molti usi e la traduzione uomo inteso come maschio si sovrappone l’altra come umanità e dunque comprendente anche le donne. Che significato ha in questo contesto è chiaro: è il soggetto maschile anche perché le imprese che vengono ricordate sono tutte maschili. Ma la domanda forse più importante è un’altra: che senso ha questo discorso subito dopo avere udito l’editto di Creonte e avere saputo che qualcuno ha sepolto Polinice? Vediamo il testo nella sua prima parte.

Molti si dànno prodigi, e niuno

   meraviglioso piú dell’uomo.

   Sino di là dal canuto mare,

   col tempestoso Noto, procede

   l’uomo, valica l’estuare

   dei flutti, e il mugghio; e la piú antica

   degli Dei, l’immortale Terra,

   l’infaticata, col giro spossa,

   anno per anno, degli aratri,

   col travaglio d’equina prole.

                                       Antistrofe prima

   E degli augelli le stirpi liete

   cinge di reti, ne fa preda,

   e le tribú di selvagge fiere,

   e le marine stirpi del ponto

Oltre ogni umana credenza, il genio

   dell’arti inventore possiede;

   ed ora si volge a tristizia,

   ed ora a virtú.

   Se onora le leggi

   dei padri, e degl’Inferi

   il giuro, la patria egli esalta.4

L’essere umano maschile porta nel mondo una forma diversa di meraviglia, che si manifesta in diversi modi: la capacità di navigare, di arare la terra e di trasformarla, in una parola la tecnologia. Nell’antistrofe emerge l’altra e cioè la capacità di legiferare, di stabilire delle regole di convivenza sociale. Poiché donne e meteci erano esclusi dalla polis è dunque sensato pensare che il coro si riferisca qui alla sola comunità maschile che legifera per tutti. Nella chiusa, che riporto qui sotto di seguito, avviene però un salto logico improvviso e il discorso non può essere rapportato facilmente alla tecnica, intesa in questo caso come atto giuridico, per esprimerci in un linguaggio moderno. A dire il vero, un accenno vagamente sinistro, che anticipa la conclusione qui di seguito, c’era anche nell’ultima parte del brano precedente, laddove in modo del tutto gratuito e inopinato si diceva ed ora si volge a tristizia ed ora a virtù. A chi si riferiscono questi versi: alla natura profonda di anthropos oppure alla tecnologia che può essere buona o cattiva? Il tutto è ancora più complicato dalla diversità delle traduzioni perché in quella di Cantarella e di Tonelli non si parla di tristizia e di virtù, ma addiritturadi bene e di male, come si è visto.5 Veniamo allora agli ultimi versi:

Ma patria non ha chi per colmo

d’audacia s’appiglia a tristizia.

Vicino all’ara mia

mai non s’annidi l’uom che cosí adopera,

e mai concorde al mio pensier non sia.6

L’oscurità consiste in un doppio movimento e anche in un repentino cambio di registro linguistico. Da entusiastico nell’ammirare i prodigi di anthropos, il tono diventa di colpo dolente, austero e preoccupato, nei primi due versi. Infine, severo, allontana dall’ara domestica chi si adopera in quel modo. Quale modo? E cosa significa quell’appellarsi alla tristizia o al male? La parola indica un legame con i due versi ricordati in precedenza, ma questo non risolve il mistero. A chi si rivolge il coro e con lui Sofocle? Ad anthropos in modo generale e generico, o a qualcuno di preciso e cioè a colui che ha trasgredito l’editto (il coro come Creonte non sa ancora che è una donna e non un uomo ad avere sepolto Polinice), oppure a Polinice medesimo che ha preso le armi contro la propria comunità? Proviamo a rispondere alle domande attenendoci al testo e alle differenti traduzioni. L’atteggiamento prima riflessivo e poi dolente del coro è causato di certo dal discorso di Creonte, ma non mi convince del tutto che si riferisca alla tecnica. Il coro si domanda come sia possibile che anthropos, fattore di molte meraviglie (o tremendità), si volga a volte verso il bene a volte verso il male: s’interroga cioè sulla natura umana e non sulla tecnica o sulla tecnologia. Siamo noi a farlo, anche se penso che vi sia in questo passaggio un tratto di irriducibile oscurità, come suggerisce anche Montani. Alla fine, il verso finale va inteso a mio avviso in questo senso: colui (e non vi è dubbio che pensino a un soggetto maschile), che per colmo d’audacia s’appiglia a tristizia (o al male) vicino all’ara mia mai non sia. Il coro si riferisce probabilmente a Polinice che, per colmo d’audacia – anche di arroganza e di hybris? – ha rivolto le proprie armi contro la comunità e lo bandisce persino dall’ara domestica e mai non sia il mio pensiero come il suo. La traduzione di Tonelli inclina decisamente in questa direzione: Ma è fuori dalla città, inizia la sua parte finale, mentre Del Corno è più sfumato. Il coro sembra qui accettare l’idea di Creonte, estrema di certo per tutti e cioè che Polinice sia indegno anche della semplice devozione domestica, cioè le famose leggi del sangue, la legge calda per dirla con Zagrebelsky. La scena però non si conclude qui perché subito dopo la guardia trascina Antigone al cospetto di tutti e il coro a quella vista rimane sgomento.

(Entra la guardia sospingendo Antigone)

A questo prodigio straordinario rimango perplesso/Come negare, conoscendola, /che questa è la giovane Antigone?7

Nessuno si aspettava che fosse una donna ad avere trasgredito l’editto e lo sgomento del coro è ben più grande di quello di Creonte medesimo! Quest’ultimo, posto di fronte a un fatto del tutto inatteso, appare subito dominato da una formazione reattiva più che da un’identificazione inflessibile con la legge. Se mai c’era un modo di farlo ragionare era proprio quello di condizionarlo senza mettersi in concorrenza con lui. La battuta chiave di tutto il suo gran parlare, in questa prima fase, è questa rivolta ad Antigone:

E allora se devi amare, va sotterra e ama quelli di là; a me finché vivo non comanderà una donna.8

Tutto il busillis sta lì, anche perché ripeterà in modi simili e anche più rozzi lo stesso concetto in altre battute successive. Vien persino da pensare che se fosse stato un uomo a seppellire Polinice, Creonte avrebbe potuto ragionarci, ma è una donna – Antigone – e non bisogna dimenticare mai che le donne sono escluse dalla polis e che per giunta Antigone è pure una meteca!9

Il discorso di Emone

Rossana Rossanda vede nel discorso di Emone il germe di una soluzione politica diversa e dunque possibile anche in quel contesto: indirettamente dunque l’intervento di Rossanda rifiuta l’idea che fosse presente uno stato d’eccezione. Riporto le parti essenziali del discorso, saltando l’inizio dove Emone con grande circospezione cerca di avvicinarsi in punta di piedi alle questioni salienti, che vengono poi introdotte così: 

Padre,… La tua presenza, sbigottiti rende

   i cittadini, sí che non ti dicono

   mai ciò che udire non ti piace: invece

   io tutto posso udir, quanto nell’ombra

   dicendo van: che la città commisera

   questa fanciulla, immacolata piú

   d’ogni altra donna, e che compiuta ha l’opera

   la piú nobile, e in cambio ne riceve

   la piú misera morte. Essa il fratello

   che nel suo sangue cadde, non lasciò

   che dai cani voraci e dagli uccelli

   fosse distrutto: non è dunque degna

   d’esser coperta d’oro? – Ecco le voci

che, basse, oscure, vanno attorno. Ora, io,

Or tu, nell’animo

   non accoglier quest’unico pensiero,

   che ciò che dici tu, quello sia giusto,

   e poi null’altro. Chi d’avere crede

   senno egli solo, ed anima e parola

   come niun altri, se lo cerchi dentro,

   vuoto lo trovi. A un uomo, e sia pur saggio,

   non è disdoro molte cose apprendere,

   e non esser cosí rigido. Vedi

presso i torrenti impetuosi, gli alberi

   che si flettono, intatti i rami serbano:

   quelli che invece fan contrasto, svelti

   dalle radici piombano. E cosí,

   chi su la nave troppo tese tiene

   sempre le scotte, e mai non le rallenta,

   naufraga infine, e naviga sui banchi

   capovolti. Su via, l’ira tua frena,

   e muta il tuo parer. Ché, se a me giovane

   dare un consiglio è lecito, io ti dico

   che per un uomo, il meglio è certo nascere

   pien di saggezza; ma tal sorte è rara;

   e bello è pur da chi ben dice apprendere10

I contenuti del discorso di Emone sono certamente condivisibili e saggi: non ascoltare solo te stesso, ascolta quello che ormai tutti dicono a Tebe e cioè che Antigone sta solo seppellendo un fratello morto: di che cosa può essere ritenuta colpevole? I contenuti di un discorso, tuttavia, in politica, sono solo una parte di ciò che è essenziale, perché in politica la forma è quasi sempre sostanza. La politica o è pubblica o non è e il discorso di Emone, accettabile nei suoi contenuti, non è tuttavia un discorso pubblico. Lo capiamo da un altro passaggio nel quale sarà proprio Ismene ad avere un ruolo importante. Quando anche lei viene trascinata dalle guardie davanti a Creonte e si auto accusa come Antigone di un atto che tuttavia non ha commesso, sarà proprio lei a compiere un ultimo tentativo, disperato ma non privo di una sua logica, per cercare di dare alla storia un altro finale. Si rivolge al re come padre: 

Ismene:

   La sposa di tuo figlio ucciderai?

Creonte:

   Altri solchi ci sono, e arar si possono.

Ismene:

   Ma non com’era questa a quello adatta!

Creonte:

   Pei figli miei detesto tristi femmine!

Antigone:

   Come, diletto Emón, t’offende il padre!11 L’ultima battuta di Antigone può avere solo un significato e cioè che Emone è presente a quel drammatico colloquio e in quel contesto tace! Dunque, quello di Emone è il discorso di un consigliere del Re, dunque dietro le quinte del potere, seppure rispettabile nei contenuti. Tuttavia riconosco che a questa mia interpretazione si può opporre  che il personale è politico e visto che ci siamo chiesti se vi sia o meno uno stato d’eccezione, allo stesso titolo possiamo attualizzare il discorso di Emone in una chiave che il femminismo ci ha insegnato a leggere. Tuttavia continua a non convincermi del tutto l’ipotesi formulata da Rossanda e cioè che anche in quel contesto sarebbe stata possibile una soluzione politica diversa: la possiamo intravedere noi perché il discorso di Emone ci appare senz’altro molto vicino a una sensibilità che sentiamo nostra, più di altri discorsi ed è quindi legittimo interpretarlo in tal senso. Tuttavia non credo fosse possibile allora una soluzione. Ancora una volta è il testo sofocleo a stupirci per la sua profondità e ambivalenza, ma il silenzio di Emone durante la pubblica assemblea esprime un’impotenza reale che non dipende da lui e non è imputabile a una mancanza di carattere e a una forma di vigliaccheria. Il modo con cui comunque affronta il padre nel brano ricordato sopra dice che il coraggio non gli mancava. Neppure lui, tuttavia, poteva, se non a prezzo della propria vita, prendere una posizione forte rispetto a una questione politica da cui le donne sono escluse: se si dimentica questo si rischia di non comprendere i comportamenti di tutti, focalizzando troppo l’attenzione sui due protagonisti principali, che è anche un po’ il limite dell’interpretazione hegeliana della tragedia. Nonostante la scelta del modello eroico, infatti, ridurre il testo alla tenzone fra Antigone e Creonte oscura il fatto che in questa tragedia i protagonisti sono molti e che gli altri non sono semplici marionette nelle mani del Destino, ma si avvicinano a una tipologia umana più complessa. Quanto a Ismene, dopo avere compiuto il suo tentativo estremo di cambiare il finale della storia, esce di scena e ricade nella sua opacità. Però, anche Antigone rimane sola, in un contesto che non le appartiene, ma nel quale si trova prigioniera come lo è Creonte per ragioni opposte alle sue. Gli altri stanno tutti nel mezzo.


4 La traduzione di cui sopra è del celebre grecista dei primo del ‘900 Ettore Romagnoli.  Nei punti essenziali e controversi dello stasimo citerò poi le altre due. La differenza, molto rilevante, in questa prima parte è che in entrambe le traduzioni di Cantarella e Tonelli si usano i termini bene e male e non tristizia e virtù.

5Rispetto al passaggio più controverso ecco come traduce Raffaele Cantarella: …./Possedendo di là di ogni speranza,/l’inventiva dell’arte che è saggezza,/talora muove verso il male, talora verso il bene… In  Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone A cura di Dario del Corno, traduzione di Raffaele Cantarella, Biblioteca Arnoldo Mondadori editore, Milano 1982, pag. 283. Tonelli, non si discosta da quest’ultima traducendo e inclina ora al male ora al bene. Sofocle, Le tragedie. A cura e traduzione di Angelo Tonelli, Marsilio, Venezia 2004. Pag. 187. Tuttavia è importante notare come Del Corno e Tonelli traducono l’inizio dello stasimo, particolare niente affatto neutro. Del Corno traduce: Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo. Tonelli traduce: Molte sono le cose tremende, ma nulla è più tremendo dell’uomo. Intorno a questo stasimo si giocano molte diverse interpretazioni e quella di Romagnoli, che si scosta di molto rispetto alle due più recenti, va comunque considerata anch’essa, per ribadire che la traduzione di questo passaggio rimarrà alla fine, assai controversa e in parte anche misteriosa. Quanto alla traduzione di Tonelli, secondo me filologicamente più accurata, bisogna considerare che il meraviglioso e il tremendo non sono una coppia ossimoro per la lingua greca antica e un concetto analogo è stato ripreso da John Ruskin  a proposito del sublime e del numinoso, che hanno un aspetto che è al tempo stesso meraviglioso e orrido e inquietante quando non terribile; qualcosa di simile possiamo ritrovarlo anche nel concetto di perturbante in Freud. Io penso che Tonelli abbia dunque rispettato profondamente – con quella traduzione – un’ambivalenza che è in Sofocle e che scorre come un filo rosso lungo tutta la tragedia di Antigone.

6 Anche questa prima traduzione è di Romagnoli. Le altre due. Del Corno: … ma senza patria è colui/ che per temerità si congiunge al male:/non abiti il mio focolare/né pensi come come/chi agisce così. Tonelli: Ma è fuori dalla città/chi frequenta il male/per compiacere la sua audacia temeraria./Stia lontano dal mio focolare,/stia lontano dalla mia amicizia,/colui che agisce in questo modo!/

7 La traduzione che ho scelto in questo caso è quella di Cantarella, Op. cit. pag. 283. La traduzione di Tonelli, tuttavia, non si discosta da questa.

8 Op.cit. pag. 293.

9 Per tutte queste ragioni non mi convincono alcune rappresentazioni, o meglio attualizzazioni moderne, che attribuiscono a Creonte una forza che in realtà egli non ha e che Sofocle non gli attribuisce, dal momento che, quando verrà posto di fronte alla realtà dei suoi atti, collasserà su se stesso in un istante, prima di tutto perché non è stato in grado di valutare le conseguenze del suo editto e della sua ostinazione. Creonte è un uomo che, posto di fronte a una decisione difficile e a un comportamento inatteso, perde la testa perché non è in grado di governarli né dal punto di vista emotivo e neppure politico: esibisce allora un surplus d’inflessibilità perché è preso dal panico e deve mostrarsi forte a tutti i costi: è un meccanismo psicologico noto.

10 Ho scelto in questo caso la traduzione di Romagnoli essendo i contenuti del discorso chiari e senza ambivalenze di sorta.

11 Ivi.

IN DIFESA DI ISMENE. Prima parte

Il testo che segue fu pubblicato sulla rivista online Overleft nel 2019, nella sezione Dopo il Diluvio.

Prima parte: La sorella opaca.

L’esaltazione di Antigone non mi ha mai convinto del tutto. Il personaggio è certamente fra i più affascinanti inventati dall’arte di Sofocle ed è, come tutti quelli classici, poliedrico, perché ritorna in scena più volte, in contesti, tragedie e narrazioni diverse. Antigone, in Edipo a Colono, per esempio, è un personaggio assai diverso e altrettanto grande, rispetto a quello più celebrato nella tragedia che porta il suo nome. Probabilmente, gioca a favore del testo sofocleo una maestria compositiva che tocca in Antigone (come in Edipo re) i suoi livelli più eccelsi: Hegel la definì, cito a memoria, la tragedia perfetta; mentre in Edipo a Colono la materia si diluisce di più.

Insieme a lei, nella tragedia eponima, c’è una seconda protagonista femminile – Ismene – la sorella opaca come è stata definita, per contrapporla all’eroina. La mia lettura testuale non tende tanto a smitizzare Antigone, se mai a insinuare qualche dubbio; ma, specialmente, si propone di tornare a riflettere su alcune interpretazioni classiche e su altre più recenti. Molto di più cercherò, in tale contesto, di rivalutare Ismene, almeno in parte, dall’opacità; pur senza pretendere di rovesciare i ruoli. Nel Pantheon dei grandi personaggi delle tragedie greche e dei miti, Ismene rimarrà alla fine una figura minore, ma forse oggi siamo in grado di capire meglio i motivi per cui non poteva uscire da quel ruolo, ma senza farla ricadere in un’indistinta natura femminile, come viene di solito interpretata. C’è tuttavia una difficoltà in più da considerare prima di entrare nel merito delle questioni poste. Le interpretazioni della tragedia e del personaggio non si possono più da tempo distaccare dal testo medesimo. Antigone è come la Divina Commedia e Amleto: sono opere ormai inseparabili dai loro esegeti, dalle note a margine, dai commentari, dai numerosi testi teatrali che portano il suo nome. Questo però rischia anche di essere un limite: tornare al testo originale nudo e proporsi una sorta di sospensione del giudizio è un’operazione che a volte bisogna tornare a fare, senza avere la pretesa di aggirare o ignorare quanto si è sedimentato nei commenti secolari, ma neppure soggiacere a una sorta di ipse dixit involontario; piuttosto, andando di nuovo a cercare nella fonte originaria se per caso qualcosa non sia sfuggito. Penso che tale atteggiamento sia ancor più necessario quando ci si trova davanti a nuove letture. Proprio da quattro recenti interventi, infatti, cominceremo: la lectio magistralis tenuta nel 2015 da Gustavo Zagrebelsky, l’introduzione di Pietro Montani a un seminario che si tenne anni fa presso la Sapienza di Roma, introduzione che Montani ha ampliato e riscritto nel 2017: un saggio di Elena Porciani di cui riporto un breve ma decisivo passaggio.1 Questi tre interventi si possono a mio giudizio anche far dialogare fra di loro e uno dei miei intenti sarà proprio questo; naturalmente la responsabilità nel farlo è tutta mia. Infine, un intervento di Rossana Rossanda.

La comunità.

Cominciamo da Zagrebelsky perché all’inizio della conferenza egli si pone un problema di contesto, domandandosi cioè cosa chiedesse la comunità a Sofocle nel momento in cui gli fu commissionata la tragedia.2 Seguendo il suo ragionamento intorno alle trasformazioni che stavano avvenendo nella società greca del tempo, un passaggio delicato da una società fondata sui clan famigliari, a una diversa forma che sfocerà compiutamente nella città stato, il costituzionalista lo definisce come il passaggio da una legge calda a una legge fredda. La prima, basata sugli usi e le tradizioni rispetto alle quali, specialmente in un ambito famigliare o di clan, non c’è alcuna necessità – per esempio – che regole o leggi siano scritte, è la legge calda, mentre per la seconda e ancor più nella polis, la scrittura diventa necessaria, come pure una certa freddezza e imparzialità della decisione. Creonte si trova a governare questo passaggio difficile. Continuando nel suo ragionamento, Zagreblesky insiste sulla delicatezza del momento, evidente per esempio, nelle continue oscillazioni del coro: schierato all’inizio dalla parte di Creonte, la posizione muta fino a saltare dalla parte opposta. Montani, nel suo saggio, accoglie l’orizzonte proposto da Zagreblesky, ma radicalizzando il discorso del costituzionalista, si chiede se ci sia di mezzo la questione della tecnica, riferendosi al famoso primo stasimo della tragedia in cui parlano i vecchi tebani. Montani giunge così a domandarsi se il dilemma posto da Sofocle s’avvicini al nostro concetto di stato d’eccezione, cioè una situazione che pone tutti di fronte a qualcosa d’imprevisto, oppure talmente al limite della consapevolezza giuridica di una comunità, da non poter essere governato dalla tecnica corrente. Zagrebelsky tira le fila di questo ragionamento che a me pare sostanzialmente simile a quello di Montani, nel finale della sua lectio, distinguendo la legge dal diritto e sostenendo che Antigone non si pone tanto (o non solo) dalla parte della tradizione, degli usi e costumi e delle leggi del sangue, o addirittura degli dei, secondo i più comuni e secolari canoni interpretativi, ma dalla parte del diritto e della fonte di ogni diritto. Zagreblesky conclude dicendo che tale problema sarà risolto migliaia di anni dopo con le costituzioni, che non sono una legge, né tanto meno una legge ordinaria, ma il patto fondante di una comunità, patto che sostituisce l’alternativa fra usi e consuetudini da un lato e legge fredda, cioè quel doppio vincolo da cui sia Creonte sia Antigone non furono in grado di sottrarsi. Anche in questa riflessione di Elena Porciani, ritroviamo un ragionamento sostanzialmente analogo a quello sostenuto da Montani e Zagrebelsky – sebbene esso nasca da considerazioni diverse – su un punto importante e cioè che Antigone non può essere chiusa dentro il recinto delle interpretazioni più canoniche:

… Antigone, che viene a consistere nel fatto che «la posizione spostata [del personaggio] è precisamente quella da cui la contestazione di questo ordine che si può chiamare ‘patriarcale’ è possibile» (ivi, p. 42), anche quando sia ostacolata dalla «difficoltà, anzi l’impossibilità di dire, di articolare la rivendicazione» (ibidem). Ecco quindi che per capire in che senso «Antigone mette i piedi là dove una donna non deve porli» (ivi, p. 57) è necessario uno spostamento là dove diventi possibile esprimere ciò che nel qui ed ora non lo è ancora: Antigone «cerca di dire una legge che non ha ancora un contenuto, perché non si tratta di un ritorno alla legge del sangue e della natura» (ivi, p. 98), dato che alla themis si è sottratta….3

Il fascino e anche l’acume di ricostruzioni come queste, permette di fare un passo avanti o a lato delle interpretazioni che si sono sedimentate nella storia e quindi di costringerci fare i conti con una novità. Tuttavia, c’è qualcosa in esse che mi lascia perplesso. Fino a che punto è possibile attualizzare un testo, facendo ricorso addirittura a un concetto come quello di stato d’eccezione, teorizzato da Karl Schmitt negli anni ’30 del 1900, ripreso da Agamben in Italia, su cui in definitiva si discute da così poco tempo anche nella contemporaneità? Non si rischia così di mettere sulle spalle di Antigone una nuova interpretazione, forse più congrua di altre o almeno più vicina a noi per la sua comprensibilità, ma alla fine arbitraria e che rischia di diventare un dialogo fra interpretazioni e non un dialogo fra un’interpretazione e il testo? Tuttavia riconosco a Zagrebelky, a Montani e a Porciani un merito indiscutibile e cioè che proprio la loro analisi porta a dire che non c’era una vera possibilità di scelta in quel contesto e che dunque in un certo senso la questione non era risolvibile e per questo tragica nel senso etimologico del termine: probabilmente Sofocle volle mettere in scena proprio tale impossibilità. A questa visione, tuttavia, si oppone Rossana Rossanda, con la sua riflessione su Emone, perché attribuisce al discorso del figlio di Creonte il ruolo di una moderna accezione del discorso politico e dunque possibile anche in quel contesto.

Come verificare tali nuove ipotesi, tutte suggestive?

Sulla soglia della polis.

Antigone sceglie di varcare una soglia, superando il divieto che esclude le donne dal governo della città e così facendo assume il ruolo sacrificale di vittima del potere: indica una possibile via d’uscita, oppure è lei medesima prigioniera delle stesse logiche di quel potere? La risposta di molta letteratura, femminista e non, la vede interna ai meccanismi vigenti, specialmente laddove il suo ricorso alla legge degli dei (non è Giove cha ha scritto questo editto), non solo non scalfisce il potere di Creonte, ma non ripristina neppure una legge divina perché tutta la vicenda è politica, ha a che fare con la legge e la polis. Creonte, infatti, si perderà di suo e non grazie alla ribellione di Antigone e sui modi in cui si perderà ritorneremo più avanti. Tuttavia, mi sembra riduttivo fermarsi alla semplice constatazione che Antigone è interna ai meccanismi del potere: mi sembra un modo di giudicarla con il senno di poi. Forse c’è una lettura possibile più generosa nei suoi confronti, come quella di Elena Porciani e anche di Martha Nussbaum che vedremo più avanti; senza farne naturalmente un femminista ante litteram – che non è – ma neppure avallare la visione cristiana, addirittura prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Il testo è molto più ambivalente e fermarsi a quella battuta – non è Giove che ha scritto l’editto – è troppo poco, anche perché in altri passaggi della tragedia dirà altro da questo, altrettanto e forse più importante. Le stesse interpretazioni canoniche del comportamento di Antigone lo dimostrato. Ne richiamo le più note a partire da quella formulata da Hegel: Antigone s’ispira alle leggi del sangue e a quelle dell’Ade. Hegel, infatti, sostiene che il comportamento suo e quello di Creonte sono entrambi legittimi; anzi, leggendo il capitolo della Fenomenologia dello spirito in cui alle donne viene assegnato il governo del domestico, è quasi naturale arrivare alla conclusione che infondo era lei a essere legittimata a governare in quella circostanza perché nella divisione sessuale dei doveri e dei diritti, le leggi del sangue e dell’Ade sono prerogativa femminile e non maschile per cui in un certo senso Creonte non aveva giurisdizione sulla materia, neppure per dire che Polinice andava sepolto. Lo fa notare molto sottilmente anche Nussbuam in un altro modo. Dal momento che il modello scelto da Sofocle per i due protagonisti è quello eroico, ci sarà pure una ragione per cui la tragedia s’intitola Antigone e non Creonte! Nel linguaggio di Sofocle lei è l’eroina, non la vittima! Per iniziare a mettere alla prova le diverse ipotesi, partiamo dal coro e cioè dalla voce collettiva che sembra dare plausibilità alle tesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. La continua oscillazione, che è poi la stessa di Sofocle, fa pensare che ci troviamo davvero di fronte a un caso inedito ed estremo, che si potrebbe dunque paragonare allo stato d’eccezione o comunque a qualcosa che era difficile da affrontare in quel contesto. Ammettiamo allora che il coro dica questo. Abbiamo superato un ostacolo ma ne troviamo subito un altro: Qual è questo evento inedito e inaudito? Qual è lo stato di eccezione, in che cosa si estrinseca? Lo dice il coro questo? Oppure, qualcun altro lo dice? Nel tentare di rispondere a questi interrogativi entriamo subito in una zona d’ombra perché ci troviamo a corto di citazioni possibili, però qualche ipotesi la possiamo fare. Possiamo andare per tentativi e constatare prima di tutto che non può essere la sepoltura in sé il problema. Anche Creonte sa che l’inumazione dei defunti fa parte delle cosiddette leggi non scritte, dal momento che il rinvenimento della loro origine ci porta indietro nel tempo fino a raggiungere una cattiva infinità, senza peraltro trovare l’origine medesima. Creonte non ha emesso un editto per bandire la sepoltura dei corpi, ma solo quello di Polinice: lo stato d’eccezione dunque è lui, ma il motivo non lo abbiamo ancora trovato. Domandarsi perché lo ha fatto è la stessa cosa che chiedersi dunque quale sia lo stato di eccezione? Sì, perché l’editto è di certo un atto estremo anche per Creonte. Rimane una sola ipotesi e cioè che il primus, l’inedito e inaudito, fosse proprio la guerra civile: che Sofocle e la comunità avessero voluto – con quella tragedia – rappresentare una sorta di paradigma, la prima guerra civile della storia occidentale, un inedito, nel senso che mentre la guerra è del tutto e sempre legittima nel mondo antico e anche per gran parte del nostro (non dimentichiamolo), ma lo è sempre nei confronti di altri, in quel caso essa stava dentro la comunità. È questo lo stato d’eccezione? L’ipotesi è suggestiva ma se così fosse sarebbe la rappresentazione di un evento avvenuto in tempi arcaici, anzi del tutto mitologici, dal momento che Erodoto, quasi contemporaneo di Sofocle, avrebbe scritto in quegli stessi anni che le guerre sono tutte civili. Forse, per fare un passo avanti, dobbiamo interrogare ancora una volta il coro.


1 La lectio di Zagrebleskj è disponibile per intero su youtube. Del  professor Pietro Montani suggerisco il libro Antigone e la filosofia Donzelli editore.  Per quanto riguarda il convegno tenutosi alla sapienza e alle due prefazioni del 2012 e poi 2017, esse sono disponibili in formato pdf in rete.

2 La ritualità del teatro greco, la sua natura religiosa e le altre valenze simboliche sono ricostruite in modo assai puntuale in diverse prefazioni ai testi. Ne cito soltanto due e cioè le edizioni cui mi sono prevalentemente riferito in questo studio.  Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone con testo a fronte, traduzione di Raffaele Cantarella, a cura di Dario Del Corno, Biblioteca Arnoldo Mondadori, Milano 1982. Sofocle le tragedie, traduzione e cura di Angelo Tonelli, Grandi classici tascabili, Marsilio Venezia 2004. Per alcuni frammenti mi sono avvalso anche delle traduzioni di un celebre grecista del primo novecento: Ettore Romagnoli.

3 Elena Porciani, Nostra sorella Antigone In Il primo amore . Nella citazione di cui sopra Porciani cita anche alcuni giudizi di Duroux e di altre, con le quali anche lei concorda. Il saggio di Porciani è assai ampio e complesso e contiene riflessioni che vanno oltre l’orizzonte di questo mio saggio ed è scritto anche per rispondere a Rossana Rossanda su Emone. Tuttavia mi sembrava importante il passaggio citato perché anche in esso ci si discosta dalle interpretazioni più canoniche.