REGISTI DA RISCOPRIRE: MARCO FERRERI

Introduzione

L’oblio è calato da tempo sul cineasta milanese. Ferreri fu un regista cult degli anni ’70-80 e un film come La grande abbuffata (1973) fu un cult movie perché suscitò scandalo e polemiche; ora che l’oblio è sceso anche su quella pellicola, vale la pena di ritornarci. La trama del film è semplice nella sua apparente follia: un gruppo di uomini si ritira in una villa isolata decidendo di consumare una strana forma di suicidio. Mangeranno fino a scoppiare e nel frattempo s’intratterranno con alcune donne ridotte a schiave sessuali. I protagonisti provengono tutti da ceti borghesi: un proprietario di ristorante che è anche chef, un produttore televisivo, un pilota dell’Alitalia e un magistrato. Costituiscono nel loro insieme un corpo intermedio variegato. Se il magistrato appartiene infatti a una professione borghese tradizionale, gli altri sono i figli del dopoguerra e del boom economico – l’Alitalia era allora un gioiello di famiglia del sistema industriale e dei trasporti italiani; quanto allo chef, il personaggio anticipa la tendenza oggi dilagante di programmi televisivi sul cibo. Bulimia televisiva e consumistica s’affacciano nel film in modo ancora artigianale e appena accennato. Nel finale, la metafora si complica. Quei corpi non riescono più a consumare. Tale contraddizione si riverbera anche nel comportamento sessuale. Dopo alcuni giorni non riescono più a fare sesso con le donne; si eccitano soltanto toccando le statue di marmo del giardino della villa. Alla fine il suicidio si compie.

Se allora gli elementi paradossali  e abnormi – peraltro sempre presenti nella cinematografia di Ferreri – furono dominanti nel determinare sia il successo della pellicola, sia per indicare i suoi limiti, possiamo tornarci oggi ripensando alla storia successiva. I quattro protagonisti maschili celebrano la morte del boom economico dei primi anni’60, ma lo fanno con tutta la scarsa consapevolezza di esserne in fondo dei protagonisti intermedi e grotteschi, affini alla loro condizione sociale: sospesi fra una drammaticità che non riesce a raggiungere la tragedia, come farà Pasolini con Salò due anni dopo, ma troppo abnormi per essere soltanto comici. Sono i vecchi Vitelloni o gli Amici miei della fortunata serie, oppure ricordano il protagonista del Sorpasso: personaggi della commedia all’italiana ormai decotti e senza però alcuna consapevolezza di quanto stesse accadendo intorno a loro. Consumano l’atto finale suicida e con esso la fine del neocapitalismo industriale, di cui erano stati dei beneficiari di riflesso. La metafora pensata da Ferreri appare per questo oggi più complessa di allora anche da un punto di vista sociologico. Il capitalismo fordista, che aveva bisogno di corpi viventi da bruciare nella produzione – il lavoro vivo di Marx – trovava il suo limite, anche perché le lotte operaie degli anni ’60-70 lo avevano messo in grave crisi. Cominciava a farsi strada l’idea di deindustrializzare l’occidente intero. Che fanno infatti i quattro maschi protagonisti del film? Se continuano a nutrirsi di corpi moriranno, ma se non lo fanno moriranno lo stesso perché ne hanno bisogno. Esaurita questa parte del film c’è tuttavia un altro elemento vistoso che, scevro degli aspetti più paradossali e scandalistici, s’impone a distanza di anni in modo ancor più potente. I quattro maschi, con i loro nomi veri (Ugo per Tognazzi, Marcello per Mastroianni, Philippe per Noiret e Michel per Piccoli), rappresentano in modo paradossale la crisi di tutto un mondo maschile che non è solo quello della commedia all’italiana, ma qualcosa di più. Infatti, da quel film in poi il cinema di Ferreri andrà in una direzione diversa.

La crisi del maschile

L’ultima donna del 1975 e Ciao maschio del 1978, magistralmente interpretati fra gli altri da Gérard Depardieu e Ornella Muti, sono i due più importanti. Sono passati solo due anni dalla Grande abbuffata ma è già cambiato quasi tutto. Il protagonista maschile del primo film è un ingegnere cassintegrato: un uomo in crisi prima di tutto da un punto di vista sociale. Lasciato dalla moglie vive con il figlio ancora piccolo. Conosce Valeria con la quale ha una storia che finisce nel nulla come tutte le altre. Alla fine, incapace di reggere le relazioni, non solo quelle sentimentali, si taglia il pene con un coltello elettrico.

Il secondo, del 1978, è dal punto di vista sociale ancora più disgregato. Il protagonista maschile non ha un vero lavoro, ne fa molti fra cui anche il cuoco tuttofare per una compagnia teatrale femminista e ogni tanto fa il volontario presso un gruppo di anziani. Tutti i protagonisti del film tranne il collettivo di teatranti femministe, sono figure evanescenti, soggetti di una disgregazione di cui oggi conosciamo tutte le tappe. La sceneggiatura riflette a sua volta tale venir meno dei vincoli sociali, perché si tratta di un film a scene ed episodi, ciascuno con una sua autonomia e senza alcun nesso con gli altri. La parte che si impresse nella memoria di tutti e che fece come sempre scandalo fu la scelta del protagonista di adottare come figlio una scimmia, pur di riaffermare il proprio predominio maschile.    

Gli ultimi film

Ne cito tre. I primi due, fin dai titoli, mettono ancor più l’accento sulla crisi del maschile, ma spostano l’attenzione del regista sul femminile: infatti Il futuro è donna del 1984, fu scritto in collaborazione con Dacia Maraini e Piera degli Esposti e affronta il tema della violenza sessuale maschile. Il secondo, I Love you, è un film sull’incertezza maschile, la difficoltà di decidere; in definitiva la sua fragilità. Tuttavia è nel terzo dove secondo me Ferreri riesce a completare il suo percorso d’autore e anche a uscire dalle sue personali ossessioni: Nitrato d’argento del 1996, girato un anno prima della morte. Il titolo richiama la composizione chimica delle vecchie pellicole, dunque alla loro alchimia e a quella del cinema. Il film documentario, infatti, ripercorre la storia della cinematografia a partire dal muto,  ma è anche una dichiarazione d’amore per il pubblico del cinema, per la sala piena ed eterogenea, dove i gusti e le classi sociali si mescolano: il cinema fu ed è ancora il trionfo della cultura di massa. Infine, il film è anche il suo congedo da un’arte la cui tecnologia stava rapidamente cambiando. Nitrato d’argento, se lo si confronta a tutti suoi film precedenti, possiede la serenità di fondo di una riconciliazione con il mondo. Ne ricordo in particolare una scena assai originale. Nel passaggio dal sonoro al muto in una sala da vecchio cinema, una donna vistosamente incinta segue la pellicola evidentemente comica ridendo come tutti, ma la sua risata è contagiosa ha qualcosa di più. Fino a che con una mossa che contraddice le regole della recitazione lei guarda nella macchina da presa e si rivolge a noi che vediamo il film e dice cosa c’è di meglio di venire al mondo ridendo. Le parole pronunciate riecheggiano un famoso slogan anarchico, ma mettendole in bocca a una donna che sta per partorire ma che è al tempo stesso lontana dal cliché del materno per come si presenta nella scena, Ferreri cambia di nuovo la prospettiva.

Per concludere

Marco Ferreri non fu un uomo e un regista delle sintesi: troppo anarchico e troppo milanese per esserlo. Tuttavia, nei suoi paradossi più estremi sapeva afferrare un lembo di realtà decisivo per capire un mondo, mettere a fuoco un problema: fin dai suoi inizi – penso per esempio a un film come L’ape regina. Si divertiva anche a prendere in giro un certa presunzione illuministica francese: il personaggio maschile di Ciao maschio si chiama LaFayette. Il suo linguaggio cinematografico fu sempre modernissimo, negli ultimi film la rinuncia programmatica a una narrazione lineare era in sintonia come pochi altri con le trasformazioni del linguaggio cinematografico e teatrale. Spesso straniante, era capace di intuizioni che andavano in profondo a una certa tematica e solo in quella. Credo che nella parte finale della sua vita pensasse che il cinema come lui lo aveva conosciuto e praticato stava per entrare in una grave crisi. Non aveva tutti i torti a pensarlo allora, ma a distanza di decenni e ricordando alcuni autori perlopiù europei e di altri continenti, credo si sbagliasse e che il cinema e anche il teatro godano di buona salute; anzi, pensando all’Italia, il confronto con il mondo letterario, per esempio, è quasi sempre a favore del primo.  Registi come Bellocchio, Moretti, Salvatores, Virzì, Cristina Comencini, Rohrwacher hanno degnamente rinnovato la tradizione del grande cinema italiano. Se dal linguaggio filmico torniamo allo sguardo che le arti hanno sulla realtà, Ferreri fu  fra i primi a capire che era successo qualcosa nel mondo delle relazioni fra i generi e infatti c’era stato il femminismo. Il regista ne fu interrogato, molto più di altri. Il primo romanzo scritto da un uomo che è riuscito felicemente a cimentarsi con le trasformazioni e le problematiche poste dal femminismo è il recente La scuola cattolica di Edoardo Albinati.

 

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