A PROPOSITO DI CULTURA DI MASSA: IL FESTIVAL DI SANREMO

Jula De Palma

Introduzione

Questo scritto è la rielaborazione di un mio intervento nel dibattito nato su Overleft intorno al cinema del dopoguerra, al quale oltre la redazione partecipò anche Adriano Voltolin, e una mia riflessione precedente sulla canzone italiana. Lo ripropongo in uno dei momenti topici della cultura di massa in Italia.

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Cameriere e casalinghe di Voghera

Forse ancora oggi non molti sanno che il fotoromanzo nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro di Anna Bravo1 ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro della Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire al storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi che possiamo suddividere in momenti diversi.

La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazioni desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.

Seconda fase. Nel giro di pochi anni l’atteggiamento del Pci cambia repentinamente. Bravo accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani e Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (quella della cosiddetta Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso e, dulcis in fundo, Cesare Zavattini a cui si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono che per primo si cimenta con una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani che scrive queste storie.

Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto. 

La terza fase riguarda il cinema su cui si sofferma il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera ed è proprio su quest’ultima che mi sembra importante soffermarsi.

Prima e dopo la guerra

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola per malattia e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazionalpopolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino alla fine degli anni ‘50. Quando iniziò la rottura di questo equilibrio? La domanda mi riporta anche al cinema perché fu proprio in alcuni anni chiave fra la fine dei ’50 e gli inizi del ’60, che tutto cominciò a cambiare e fu proprio il cinema da cui prese inizio una cesura e anche una polemica molto aspra fra gli intellettuali vicini al Pci. In  quegli anni, infatti, mentre venivano esaltati Zavattini, Damiani e Del Buono, i registi della seconda generazione neorealista citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti. Come mai?

A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci.

La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazionalpopolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953, con il fotoromanzo, verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri.

Per quanto riguarda il cinema, tutto era diverso perché la sua ricezione da parte della cultura comunista era molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura popolare e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica propagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt’altro che banali per gli anni in cui si formarono e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.

Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale, infatti, viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura, e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa. Ed è qui che entra di nuovo scena una protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Pasolini fu un testimone particolarmente importante di questo passaggio. Quando Calvino e Fortini diedero inizio alla polemica sul festival di Sanremo, egli aderì e negli stessi anni, sia Cantacronache, sia altri gruppi si posero il problema di una canzone colta. Un titolo per tutte: Dove vola l’avvoltoio. La polemica però finì nel nulla e il primo a prenderne atto fu proprio Pasolini quando riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

La rottura, però, era iniziata prima: nel 1957 con Come prima di Tony Dallara e reiterata con Nel blu dipinto di blu (1958) cui è associato un ricordo personale, ma che ritengo importante per ragione di costume. Il padre di Dorelli, che aveva cantato con Modugno, era Nino D’Aurelio, tenore il cui nome è oggi sconosciuto ma che allora era un personaggio per Meda, il comune dove ero nato e dove abitavo. Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità mondana da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica. La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a persone discretamente bigotte, fra cui mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco. La cultura di massa si presenta sempre a due o più facce e a volte sono proprio dei cambiamenti in apparenza minori a dare il via a movimenti imprevedibili. Quello che la canzone colta di Calvino e Fortini non riuscì a fare lo fecero personaggi come  Fred Buscaglione – Eri piccola così è del 1958. Tua, interpretata da Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la Rai non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del ’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60. Il meglio, però, doveva ancora arrivare. Gaber e Jannacci, Tenco, Bindi, Lauzi, De Andrè e poi Fossati e tanti altri. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia, mentre continuava quella del cinema con Il sorpasso; cominciava invece a ridursi l’influenza del fotoromanzo e finiva davvero il dopoguerra.

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  1. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, 2003 ↩︎

REGISTI DA RISCOPRIRE: EDOARDO WINSPEARE GUICCIARDI

La pizzica salentina

Premessa

Questo articolo fu pubblicato sulla rivista Wall Street Journal nel 2014: lo ripropongo nel blog con alcune modifiche e integrazioni.

L’ospite discreto

Winspeare è una presenza costante nel panorama culturale italiano: eclettica nel modo di porsi, ma anche protetta da un cono di riservatezza. Molto attivo nel cinema, oltre alla cinepresa, che egli conosce sia nel ruolo di regista sia in quello di attore (interpretava Nisco nel film Noi credevamo di Mario Martone), sia in quello di documentarista, ha dato vita a complessi musicali, ma si può parlare di lui anche come antropologo delle tradizioni salentine. Il Salento, infatti, è il microcosmo da cui il regista, formatosi alla scuola di cinema di Monaco, guarda alla realtà attuale. Dal 2004 ha fondato Coppula tisa: associazione per la Bellezza dei luoghi, un’organizzazione no profit che ha come scopo di ripristinare i luoghi del Salento colpiti dall’abuso edilizio e da altri scempi.  

La mia riflessione sulla sua opera cinematografica inizia da In grazia di Dio, una sintesi riuscita di questo suo eclettismo, il suo film più maturo, seppure non esente da qualche pecca. La storia è molto semplice e può essere raccontata senza tema di tradire il pubblico che non lo ha ancora visto: è ambientata in un triangolo di paesi dell’immediato retroterra della costa salentina intorno a Tricase. Una famiglia di sarte composta da quattro donne e un uomo che esce subito di scena, cerca di fronteggiare la crisi del settore. Confezionano abiti per le case di moda del nord che chiedono continui ribassi del costo di produzione. L’ultima spiaggia è un cliente di Treviso con il quale hanno rapporti da tempo: sperano che egli capisca che oltre un certo limite non si può scendere, ma al rifiuto da parte dei trevigiani non rimane che chiudere la fabbrica. Dietro lo scenario, s’intravede la concorrenza dei laboratori clandestini, cinesi e non, descritti anche in Gomorra; fatto sta che non rimane altra scelta. Le quattro protagoniste sono: Salvatrice, da tempo vedova, le due figlie di lei Maria Concetta e Adele e la figlia di quest’ultima, Ina. Maria Concetta ha velleità d’attrice e spera in un provino che ci sarà a Lecce, mentre Ina, la ragazza, è una studentessa svogliata; Adele è, almeno in prima istanza, il perno della famiglia. Riescono finalmente a vendere e a sanare buona parte dei debiti; si trasferiscono in campagna nel fondo di famiglia e pian piano riusciranno a ricostruire la loro esistenza, aiutati anche da un contadino, Cosimo (che ritroverà un suo ruolo grazie a loro) e sostenute dalla solidarietà attiva di altri. Nella loro rinascita partono dall’anello più basso della catena economica e cioè barattano i prodotti della loro terra con altri generi necessari, finché non riescono a vendere nei mercati locali e a dare un assetto stabile alla loro nuova esistenza.

Quattro donne, tre generazioni

Con il trasferimento al fondo e l’emigrazione in Svizzera dell’unico maschio della famiglia (del marito separato di Adele dirò in seguito), prende avvio una saga famigliare al femminile, che è il vero motore del film. Le quattro donne rappresentano tre generazioni diverse, ma nel prosieguo della pellicola Winspeare confonde assai le carte e in modo il più delle volte felice, perché ognuna di loro, alla fine, si colloca fuori dagli stereotipi, con esiti sorprendenti, anche comici. La più anziana, Salvatrice, peraltro una nonna giovane visto che ha 65 anni, sarà di gran lunga il personaggio più equilibrato, capace di saggezza e di tenuta anche nei momenti più difficili; ma anche di sapersi godere la vita in una misura sconosciuta alle altre tre protagoniste. Il motore che spinge in avanti la narrazione è la dinamica delle relazioni che s’instaurano fra queste quattro donne molto diverse fra loro, ma sarebbe fuorviante a mio avviso il paragone con il film di Monicelli Speriamo che sia femmina, che qualche critico ha proposto: il romanzo famigliare al femminile di Winspeare non è solo psicologico, ma nel modo sommesso, tipico del suo cinema, attraverso l’intreccio dei loro diversi modi di affrontare la vita in tutti i suoi aspetti, emergono in superficie le dinamiche sociali di una comunità e non semplicemente una galleria di personaggi femminili peraltro assai delineati e memorabili nel senso letterale della parole e cioè degni di essere ricordati.

Adele (Celeste Casciaro) è una donna forte e autoritaria; si capisce che era lei la vera spina dorsale della fabbrica, molto più del fratello emigrato in Svizzera. È lei a guidare con polso sicuro l’intera famiglia. Si lamenta di dover fare tutto e non ha torto, ma è anche il suo carattere che non le permette di delegare ad altri certi ruoli: non stima Maria Concetta (Barbara De Matteis), nei momenti di rabbia le dice cose tremende e offensive. La sorella, peraltro, è comicamente desolante nelle sue velleità d’attrice. Adele è autoritaria anche con la figlia Ina (Laura Licchetta), di cui non capisce le inquietudini generazionali. La rimprovera di non fare nulla, ha nei suoi confronti improvvise esplosioni di rabbia che tuttavia non portano a niente. Adele, nevrotica, in perenne lotta con tutti e specialmente con se stessa, non sa godersi la vita. Il suo egoismo ne fa un personaggio estremo e riuscitissimo; vittima di se stessa, ma anche di una falsa idea di emancipazione che lascia intatto un sostrato arcaico. Quando vede la figlia Ina indossare un suo vestito assai seducente, la insegue e l’apostrofa, reagendo come la matrigna cattiva di Biancaneve; ma non riesce ad avere del tutto ragione (ne avrebbe molte) anche quando rifiuta il corteggiamento impacciato in un modo a dir poco desolante di Stefano, il suo vecchio compagno di scuola che vive ancora con la madre novantenne. Quanto a Maria Concetta sembra non contemplare l’universo maschile nel suo modo di porsi; forse anche perché la sorella Adele, molto più bella di lei, glielo fa continuamente pesare.

Ina, la più giovane del quartetto, è una ragazza sbandata: rischia di essere bocciata per l’ennesima volta, esce con ragazzi diversi cui si concede per noia, senza un vero trasporto con nessuno di loro, ricambiata peraltro nello stesso modo: emblematica e assai riuscita la rapida scena in cui, dentro un automobile, insieme a uno dei suoi occasionali compagni, quest’ultimo le palpa le tette (nella totale indifferenza di lei) con lo stesso trasporto emotivo con cui potrebbe giocare con due palle da tennis. Si riscatterà dalla sua deriva solo quando scoprirà di essere incinta. Decide di tenere il bambino nonostante le urla della madre Adele, che le rimprovera di essere una irresponsabile a mettere al mondo un figlio di cui non sa neppure chi sia veramente il padre. Il figlio in arrivo la spinge anche a studiare come si deve, aiutata da Stefano, un vecchio compagno di scuola della madre.

Una delle costanti della cinematografia del regista pugliese è il ruolo minore che rivestono i personaggi maschili: minore in tutti i sensi e prima di tutto rispetto alla forza di quelli femminili. Insomma, per il regista, il Salento e tutto il sud sono ancora il regno della Grande Madre Mediterranea. Credo che questo sia vero fino a un certo punto, a dispetto di quanto Winspeare stesso possa credere e così altri registi che si sono espressi su tematiche simili: penso per esempio al film di alcuni anni fa La Terra di Sergio Rubini. Tuttavia, da questa forte convinzione occorre partire, anche perché i personaggi che il regista mette in scena sono il più delle volte credibili, con qualche eccezione proprio per quest’ultimo, In grazia di Dio. In Galantuomini, per esempio, il film con maggiore presenza di personaggi maschili memorabili, essi – e non a caso – sono tutti dei malavitosi, esponenti della nascente Sacra Corona Unita; ma anche in quel film, il personaggio più forte è ancora una volta una donna, Lucia, la spietata e seducente capobanda che guida i suoi uomini nella sfida mortale con i concorrenti. In quest’ultimo film, In grazia di Dio, non mancano i personaggi maschili positivi, seppure sempre ancillari: Stefano (Gustavo Caputo), l’ex compagno di classe, ora funzionario di Equitalia che aiuta Adele a ridurre le multe che ancora deve pagare e che a modo suo la corteggia; ma specialmente Cosimo, il vecchio contadino silenzioso, concreto e solido, che è diventato il nuovo compagno di Salvatrice, la nonna. I personaggi maschili del tutto negativi o anonimi, invece, non sempre sono riusciti. Senz’altro ottimamente rappresentati sono i giovani compagni di strada di Ina, disperati e sbandati come lei, ma violenti e incapaci di riscatto, a differenza della ragazza. La scena in cui lei viene picchiata da uno di essi quando le rivela di essere incinta e di sospettare che sia lui il padre, Winspeare la rappresenta con tutta la delicatezza possibile, facendola intuire e vedere soltanto dopo attraverso gli effetti sul corpo di lei. Deboli e non del tutto credibili sono invece il fratello di Adele e di Maria Concetta, e il marito separato di Adele, un piccolo malavitoso fallito, ancora in carcere per aver cercato di mettere in piedi uno strampalato business e cioè il trasporto di migranti clandestini nel canale d’Otranto. Insieme al fratello di Adele, vengono scoperti, a causa della loro totale imperizia. Semmai non è tanto la scelta di tenere gli uomini in un ruolo ancillare il problema: è quando tale lateralità diventa troppo caricaturale fino a divenire bozzettistica che il film cade un po’.

Il mondo salvato dalle nonne … e dai bambini

Nel primo film che gli diede la notorietà, Il miracolo, i protagonisti principali sono una ragazza adolescente ribelle e border line, che rischia continuamente di perdersi. Ciò che la salva è la relazione di amicizia con un bambino nel quale s’identifica in parte vedendo tramite lui, la propria storia infantile. Alla fine del film sarà proprio lui a strapparla all’ultimo momento dal suicidio. In quest’ultimo film sono Salvatrice e Cosimo i soli in armonia con la natura, la cultura e la vita, ed è ancora una volta la generazione di mezzo, quella dei padri e delle madri a mancare totalmente, sebbene la giovane età della nonna la collochi temporalmente in una situazione di cerniera fra le generazioni; ma tant’è. Anche le altre tre donne, infatti, pur forti, determinate, e – ripeto memorabili – sono figure che non riescono a essere del tutto positive, sentono la mancanza di uomini autorevoli a fianco, ma a vederle si direbbe pure che sarebbe assai difficile avere una relazione con loro, tranne che – ancora una volta – con Salvatrice, il cui nome dice tutto. Il pregio di Winspeare è proprio questo: la seduzione e il fascino che il mondo femminile esercitano su di lui sono profondi e sinceri e questo gli permette di mettere in scena figure memorabili perché non sono mai agiografiche. Egli vede con grande acutezza e profondità anche nelle contraddizioni dei suoi personaggi femminili, che risultano per questo complessi e problematici. Del mondo femminile il regista pugliese sa cogliere sottigliezze con uno sguardo che riesce sempre ad avere in egual misura durezza quando serve (ma senza esagerare) e delicatezza. Nel rappresentare le quattro donne di In grazia di Dio, il pregio maggiore è forse quello di sapere cogliere alcune differenze fondamentali nel modo di gestire i conflitti e le situazioni estreme, fra uomini e donne.

Il fratello e il marito separato di Adele, di fronte alla situazione disperata della famiglia, cercano subito la soluzione, una qualsiasi, ed è per quello che s’imbarcano in quella strampalata idea di trasportare migranti clandestini. Le donne, invece, sanno aspettare, è la soluzione che le cerca nel senso che essa ha più a che fare con la capacità di ascoltare e cogliere i segni piuttosto che agire immediatamente. Questo nel film è rappresentato in alcuni momenti emblematici e in modo assai convincente. Nella prima parte, quando Adele decide di vendere anche sotto costo la fabbrica perché capisce che rinviare quella decisione porterebbe davvero al disastro; ma anni dopo, quando la proprietà è diventata qualcosa di più che non un mezzo di sopravvivenza, Adele e Salvatrice hanno il coraggio di rifiutare un’offerta di acquisto proveniente da un riccone del nord, il cui mediatore è lo stesso affarista locale in odore di criminalità che aveva gestito la vendita dell’azienda. Il ritorno alla terra, la solidità di una vita ricostruita spinge Adele al rifiuto, ma emblematica ancora una volta è la frase con cui Salvatrice suggella la bontà della scelta:

“Diciamolo fra qualche anno a Ina e a Concetta”

perché ha capito benissimo come sarebbe difficile far digerire alla ragazza un rifiuto del genere, visto che Ina è del tutto prigioniera dei peggiori stereotipi del consumismo, della moda e di altro.

Il secondo aspetto riguarda proprio i rapporti fra loro quattro. Se al loro posto ci fossero stati quattro uomini che si fossero scambiati le parole aspre e talvolta spietate che si sono scambiate le quattro protagoniste, si sarebbe arrivati ai coltelli dopo una settimana di convivenza. Invece, esse hanno una capacità di reggere il conflitto senza che esso si trasformi in guerra. Certamente, è fondamentale in questo il ruolo di Salvatrice, ma non si tratta di una matriarca autoritaria e cattiva, ma piuttosto buona e silenziosa. Non interviene sempre, anzi quasi mai, anche perché le piace farsi la propria vita; soltanto quando l’asprezza del conflitto è giunto davvero vicino al punto di degenerare, allora si fa sentire. Lo si vede bene quando le quattro donne si ritrovano unite intorno al letto, dove giace Ina ferita, ma salva insieme al suo bambino nonostante le botte. La macchina da presa le inquadra prima da vicino, poi in piano medio che sfuma nel lungo, mentre le cantano una ninna nanna: un quadro di Van Gogh con la luce di un Caravaggio.

Arcaico e moderno

A ogni uscita di un film di Winspeare è difficile evitare di discutere intorno al magico salentino, al suo mondo arcaico e anche al rapporto con il sacro. Vale anche per questo film, sebbene in misura minore che non per Il miracolo, che già nel titolo stesso si richiama a una dimensione sacrale e religiosa. Anzi, il regista si prende qualche ironica libertà in quest’ultimo, come quando Adele, vinta dalla fatica e dallo sconforto si rivolge con una preghiera alla statua della Madonna, invocando di farne andare bene almeno una. Suonano alla porta e si presenta l’agente delle tasse. Certo, il fascino della natura, certi silenzi, il mare appena intravisto in alcuni momenti, la terra che si trasforma sotto gli occhi dello spettatore, creano intorno al film un alone di magia, ma essa corre come sempre nelle pieghe, si affaccia in punta di piedi e nel caso di In grazia Dio, è prima di tutto legata all’uso sapiente del dialetto, la vera colonna sonora del film. Un momento di grande tenerezza e commozione avviene quando Cosimo e Salvatrice decidono di sposarsi: la semplice religiosità di entrambi si affaccia delicatamente, ma pur essendo rivolta ai simboli cristiani è impossibile non avvertire dietro la lunga scia un mondo pagano che nel Salento ha diverse e notissime sfaccettature a cominciare dalla pizzica.

Qualche critico ha rivolto un’accusa di passatismo, critica che Winspeare ha – a mio avviso con ragione – respinto. La pellicola semmai, mette in discussione i falsi miti di una certa modernizzazione, ne dissolve la patina facile e superficiale dietro la quale le costanti antropologiche, le strutture della lunga durata di cui ha scritto Braudel, ritornano in primo piano. Però va subito aggiunto che una nonna come Salvatrice non potrebbe esistere se non ci fossero stati il ’68 e il femminismo. Anche lei, pur con tutta la sua antica sapienza da matriarca, è stata toccata dai fermenti nuovi. Semmai ci sarebbe da chiedersi dove si siano perduti quei fermenti nei passaggi da una generazione all’altra se la nipote Ina può parlare di lei con tale disprezzo e incapacità di accettare che una donna di 65 anni possa innamorarsi e fare l’amore con un uomo peraltro suo coetaneo! Infatti, è proprio Ina la più fragile fra le quattro, nonostante il suo avviato riscatto. Su di lei come sui suoi coetanei si abbatte tutto il precipitato sociale di una crisi che è cominciata negli anni ’80 e che fa della sua generazione la prima, dopo cento e più anni di crescita del tenore di vita, quella che sta peggio sia dei suoi genitori che dei suoi nonni. Tuttavia, emerge anche tutta la disgregazione culturale e i falsi valori che tale generazione ha introiettato: cinici e impotenti, disimpegnati in tutto ma attenti al consumismo, a questi giovani non va lisciato il pelo, ma vanno richiamati alle loro responsabilità. I padri assenti, ma anche le madri come Adele, non riescono a farlo: saranno le nonne a salvare il mondo? Oppure ci salverà un mondo di Arianne e Telemachi che cominceranno a prendere fra le mani il loro destino?

REGISTI DA RISCOPRIRE: MARCO FERRERI

Introduzione

L’oblio è calato da tempo sul cineasta milanese. Ferreri fu un regista cult degli anni ’70-80 e un film come La grande abbuffata (1973) fu un cult movie perché suscitò scandalo e polemiche; ora che l’oblio è sceso anche su quella pellicola, vale la pena di ritornarci. La trama del film è semplice nella sua apparente follia: un gruppo di uomini si ritira in una villa isolata decidendo di consumare una strana forma di suicidio. Mangeranno fino a scoppiare e nel frattempo s’intratterranno con alcune donne ridotte a schiave sessuali. I protagonisti provengono tutti da ceti borghesi: un proprietario di ristorante che è anche chef, un produttore televisivo, un pilota dell’Alitalia e un magistrato. Costituiscono nel loro insieme un corpo intermedio variegato. Se il magistrato appartiene infatti a una professione borghese tradizionale, gli altri sono i figli del dopoguerra e del boom economico – l’Alitalia era allora un gioiello di famiglia del sistema industriale e dei trasporti italiani; quanto allo chef, il personaggio anticipa la tendenza oggi dilagante di programmi televisivi sul cibo. Bulimia televisiva e consumistica s’affacciano nel film in modo ancora artigianale e appena accennato. Nel finale, la metafora si complica. Quei corpi non riescono più a consumare. Tale contraddizione si riverbera anche nel comportamento sessuale. Dopo alcuni giorni non riescono più a fare sesso con le donne; si eccitano soltanto toccando le statue di marmo del giardino della villa. Alla fine il suicidio si compie.

Se allora gli elementi paradossali  e abnormi – peraltro sempre presenti nella cinematografia di Ferreri – furono dominanti nel determinare sia il successo della pellicola, sia per indicare i suoi limiti, possiamo tornarci oggi ripensando alla storia successiva. I quattro protagonisti maschili celebrano la morte del boom economico dei primi anni’60, ma lo fanno con tutta la scarsa consapevolezza di esserne in fondo dei protagonisti intermedi e grotteschi, affini alla loro condizione sociale: sospesi fra una drammaticità che non riesce a raggiungere la tragedia, come farà Pasolini con Salò due anni dopo, ma troppo abnormi per essere soltanto comici. Sono i vecchi Vitelloni o gli Amici miei della fortunata serie, oppure ricordano il protagonista del Sorpasso: personaggi della commedia all’italiana ormai decotti e senza però alcuna consapevolezza di quanto stesse accadendo intorno a loro. Consumano l’atto finale suicida e con esso la fine del neocapitalismo industriale, di cui erano stati dei beneficiari di riflesso. La metafora pensata da Ferreri appare per questo oggi più complessa di allora anche da un punto di vista sociologico. Il capitalismo fordista, che aveva bisogno di corpi viventi da bruciare nella produzione – il lavoro vivo di Marx – trovava il suo limite, anche perché le lotte operaie degli anni ’60-70 lo avevano messo in grave crisi. Cominciava a farsi strada l’idea di deindustrializzare l’occidente intero. Che fanno infatti i quattro maschi protagonisti del film? Se continuano a nutrirsi di corpi moriranno, ma se non lo fanno moriranno lo stesso perché ne hanno bisogno. Esaurita questa parte del film c’è tuttavia un altro elemento vistoso che, scevro degli aspetti più paradossali e scandalistici, s’impone a distanza di anni in modo ancor più potente. I quattro maschi, con i loro nomi veri (Ugo per Tognazzi, Marcello per Mastroianni, Philippe per Noiret e Michel per Piccoli), rappresentano in modo paradossale la crisi di tutto un mondo maschile che non è solo quello della commedia all’italiana, ma qualcosa di più. Infatti, da quel film in poi il cinema di Ferreri andrà in una direzione diversa.

La crisi del maschile

L’ultima donna del 1975 e Ciao maschio del 1978, magistralmente interpretati fra gli altri da Gérard Depardieu e Ornella Muti, sono i due più importanti. Sono passati solo due anni dalla Grande abbuffata ma è già cambiato quasi tutto. Il protagonista maschile del primo film è un ingegnere cassintegrato: un uomo in crisi prima di tutto da un punto di vista sociale. Lasciato dalla moglie vive con il figlio ancora piccolo. Conosce Valeria con la quale ha una storia che finisce nel nulla come tutte le altre. Alla fine, incapace di reggere le relazioni, non solo quelle sentimentali, si taglia il pene con un coltello elettrico.

Il secondo, del 1978, è dal punto di vista sociale ancora più disgregato. Il protagonista maschile non ha un vero lavoro, ne fa molti fra cui anche il cuoco tuttofare per una compagnia teatrale femminista e ogni tanto fa il volontario presso un gruppo di anziani. Tutti i protagonisti del film tranne il collettivo di teatranti femministe, sono figure evanescenti, soggetti di una disgregazione di cui oggi conosciamo tutte le tappe. La sceneggiatura riflette a sua volta tale venir meno dei vincoli sociali, perché si tratta di un film a scene ed episodi, ciascuno con una sua autonomia e senza alcun nesso con gli altri. La parte che si impresse nella memoria di tutti e che fece come sempre scandalo fu la scelta del protagonista di adottare come figlio una scimmia, pur di riaffermare il proprio predominio maschile.    

Gli ultimi film

Ne cito tre. I primi due, fin dai titoli, mettono ancor più l’accento sulla crisi del maschile, ma spostano l’attenzione del regista sul femminile: infatti Il futuro è donna del 1984, fu scritto in collaborazione con Dacia Maraini e Piera degli Esposti e affronta il tema della violenza sessuale maschile. Il secondo, I Love you, è un film sull’incertezza maschile, la difficoltà di decidere; in definitiva la sua fragilità. Tuttavia è nel terzo dove secondo me Ferreri riesce a completare il suo percorso d’autore e anche a uscire dalle sue personali ossessioni: Nitrato d’argento del 1996, girato un anno prima della morte. Il titolo richiama la composizione chimica delle vecchie pellicole, dunque alla loro alchimia e a quella del cinema. Il film documentario, infatti, ripercorre la storia della cinematografia a partire dal muto,  ma è anche una dichiarazione d’amore per il pubblico del cinema, per la sala piena ed eterogenea, dove i gusti e le classi sociali si mescolano: il cinema fu ed è ancora il trionfo della cultura di massa. Infine, il film è anche il suo congedo da un’arte la cui tecnologia stava rapidamente cambiando. Nitrato d’argento, se lo si confronta a tutti suoi film precedenti, possiede la serenità di fondo di una riconciliazione con il mondo. Ne ricordo in particolare una scena assai originale. Nel passaggio dal sonoro al muto in una sala da vecchio cinema, una donna vistosamente incinta segue la pellicola evidentemente comica ridendo come tutti, ma la sua risata è contagiosa ha qualcosa di più. Fino a che con una mossa che contraddice le regole della recitazione lei guarda nella macchina da presa e si rivolge a noi che vediamo il film e dice cosa c’è di meglio di venire al mondo ridendo. Le parole pronunciate riecheggiano un famoso slogan anarchico, ma mettendole in bocca a una donna che sta per partorire ma che è al tempo stesso lontana dal cliché del materno per come si presenta nella scena, Ferreri cambia di nuovo la prospettiva.

Per concludere

Marco Ferreri non fu un uomo e un regista delle sintesi: troppo anarchico e troppo milanese per esserlo. Tuttavia, nei suoi paradossi più estremi sapeva afferrare un lembo di realtà decisivo per capire un mondo, mettere a fuoco un problema: fin dai suoi inizi – penso per esempio a un film come L’ape regina. Si divertiva anche a prendere in giro un certa presunzione illuministica francese: il personaggio maschile di Ciao maschio si chiama LaFayette. Il suo linguaggio cinematografico fu sempre modernissimo, negli ultimi film la rinuncia programmatica a una narrazione lineare era in sintonia come pochi altri con le trasformazioni del linguaggio cinematografico e teatrale. Spesso straniante, era capace di intuizioni che andavano in profondo a una certa tematica e solo in quella. Credo che nella parte finale della sua vita pensasse che il cinema come lui lo aveva conosciuto e praticato stava per entrare in una grave crisi. Non aveva tutti i torti a pensarlo allora, ma a distanza di decenni e ricordando alcuni autori perlopiù europei e di altri continenti, credo si sbagliasse e che il cinema e anche il teatro godano di buona salute; anzi, pensando all’Italia, il confronto con il mondo letterario, per esempio, è quasi sempre a favore del primo.  Registi come Bellocchio, Moretti, Salvatores, Virzì, Cristina Comencini, Rohrwacher hanno degnamente rinnovato la tradizione del grande cinema italiano. Se dal linguaggio filmico torniamo allo sguardo che le arti hanno sulla realtà, Ferreri fu  fra i primi a capire che era successo qualcosa nel mondo delle relazioni fra i generi e infatti c’era stato il femminismo. Il regista ne fu interrogato, molto più di altri. Il primo romanzo scritto da un uomo che è riuscito felicemente a cimentarsi con le trasformazioni e le problematiche poste dal femminismo è il recente La scuola cattolica di Edoardo Albinati.

 

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ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Terza parte

Un tentativo di bilancio

L’originalità di questo frammento di storia culturale italiana è indubbia, sia per la durata nel tempo, sia perché è sufficiente una rapida indagine per capire che in nessun altro paese occidentale è esistito qualcosa di paragonabile. A valle dei cicli industriali conclusi è nata in Gran Bretagna e nel nord Europa una disciplina come l’archeologia industriale, che si è diffusa in vario modo anche in altri paesi. Il restauro dei docks di Londra, piuttosto che i villaggi minerari sono esempi straordinari di queste nuove discipline, nonché attrazioni turistiche; ma siamo nell’ambito di una cultura museale, seppure profondamente diversa dal museo tradizionale.9

In sede conclusiva mi pongo due interrogativi in particolare: è esistita un’egemonia della cultura di sinistra nell’Italia del secondo dopoguerra? Il particolare rapporto fra cultura, industria e movimento operaio, può essere considerato un segmento importante della traduzione originale in lingua italiana del compromesso fordista fra capitale e lavoro che ha caratterizzato l’intero mondo occidentale post bellico?10 Anticipo le conclusioni dicendo che, pur nel loro intreccio, fra le due domande vi è una notevole asimmetria. Mentre alla seconda mi sentirei di dare una risposta affermativa, sulla prima occorre innanzi tutto scorporare dall’analisi concreta dei processi concreti, la narrazione propagandistica che è stata alimentata, per opposte ragioni, sia da destra sia da sinistra.

Il rapporto virtuoso fra scienza, cultura industriale, capacità manageriali e cultura tout court fu un fattore determinante nella rinascita post bellica, fino al boom economico. La politica petrolifera di Mattei, l’invenzione del Moplen – il padre della plastica – da parte di Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 e che fu prodotto dalla Montedison, sono tappe decisive – insieme a quelle già ricordate in precedenza – per affermare che l’intreccio del tutto particolare fra cultura e industria fu un elemento propulsivo della società italiana. A questo aggiungerei la consulenza dell’economista Federico Caffè ai primissimi governi di centro sinistra. Alcuni capitani d’industria come Olivetti e Luraghi e un banchiere come Raffaele Mattioli hanno giocato un ruolo di primaria importanza che va molto oltre le loro funzioni istituzionali e ha costituito un tessuto intermedio, più che un corpo intermedio vero e proprio; piuttosto una trama trasversale fra impresa, istituzioni culturali e politica che ha permesso la crescita di una cultura laica e in molti casi di sinistra, protetta da interventi censori, che pur non mancarono e furono molto gravi. Valga per tutto la fondazione a Milano, per esempio, della casa della Cultura, un baluardo della sinistra non solo milanese, alla cui nascita contribuirono personaggi di spicco del capitalismo italiano, oltre a quelli già ricordati; lo stesso si può dire della casa editrice Einaudi a Torino. Laici e in qualche caso – Mattioli – in odore di massoneria, ma lontano dagli scandali che sarebbero scoppiati decenni dopo, svolsero insieme a un pezzo consistente di sinistra socialista un ruolo terzo – basato sul rispetto dell’autonomia della cultura e sulla diversità – rispetto sia ai democristiani sia ai comunisti: in molti casi, questo mondo intermedio offrì più di una sponda alla crescita di una cultura democratica e fu assai importante nelle trasformazioni del sindacato. Capitalismo illuminato? Sì, ma con dei limiti molto precisi. Gli imprenditori citati, cui possiamo aggiungere anche Mattei, erano prima di tutto una minoranza anomala rispetto a un mondo imprenditoriale acefalo e reazionario, diretto a bacchetta da un altro banchiere – Enrico Cuccia – e tenuto a balia dalla sua creazione – Mediobanca – che suppliva con le sue acrobazie finanziarie alla storica incapacità del capitalismo italiano di ricapitalizzarsi con le proprie forze. In secondo luogo, non erano di certo gli Olivetti a dirigere Confindustria e a trattare con i sindacati: questo compito era lasciato ai mazzieri come Valletta e Costa, nonché alla Celere di Scelba. Tuttavia, i vari Olivetti, Girotti e alcuni dei managers di stato costituirono un cuscinetto che permise una certa flessibilità e fin quando riuscirono ad avere voce in capitolo, poterono far pesare la loro autorevolezza sia in campo economico, sia ancor più in campo culturale, dove nessuno si permetteva di criticare anche le loro scelte più eccentriche, tenuto conto dell’ignoranza congenita di gran parte del ceto imprenditoriale italiano. Quegli uomini, tuttavia, non avevano eredi e quando la crisi del boom economico portò al pettine molti nodi sociali e politici, già nel 1963, le redini furono prese dai settori più reazionari ed eversivi: cominciava a finire quella tradizione anomala, fatta anche di salotti trasversali – per esempio quello di Giulia Maria Crespi a Milano – e iniziava un’altra storia.

Diverso il discorso sulla cosiddetta egemonia della cultura di sinistra, sebbene s’intrecci con la questione del compromesso fordista. Credo ci sia una prima considerazione da fare: intellettuali come i coniugi Steiner e come Elio Vittorini permisero alla stampa del Pci di avvalersi delle menti migliori e dei progetti grafici più avanzati esistenti in quegli anni. Politecnico rimane un’impresa straordinaria – lo sarà Alfabeta in un contesto diverso anni dopo –  e anche Rinascita, la rivista teorica del Pci, era quanto di più moderno si potesse pensare in quegli anni. Se parliamo di egemonia in senso gramsciano possiamo dire che la pubblicistica comunista si avvalse del meglio e così pure altre istituzioni culturali. Tuttavia, ci sono due problemi di cui tenere conto: prima di tutto la stagione dei rapporti idilliaci fra Pci e intellettuali s’incrinò molto presto, almeno con alcuni di loro. In secondo luogo, la cultura del militante medio del Pci, non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda di chi dirigeva la politica culturale nel partito. L’egemonia che il Pci cercava di esercitare sugli intellettuali come mondo separato era un mondo a se stante. In buona sostanza, l’intellettuale organico del Pci, quello che si occupava della cultura intesa come lavoro di massa da un lato, ma che al tempo stesso teneva i rapporti con i grandi intellettuali dall’altro, parlava ai colti con un linguaggio e agli incliti con un altro, riproducendo al proprio interno una tradizione curiale tutta italiana. Questa contraddizione fu particolarmente visibile rispetto a tre nuovi aspetti della cultura di massa: il fotoromanzo, il cinema e la canzone. 11

Il fotoromanzo come genere nacque infatti nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ne ricostruisce puntualmente la storia.12 L’autrice ricostruisce le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. L’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche della Dc, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni furono immediate. In questa prima fase la diffusione del fotoromanzo si scontrò con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, per i primi, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe, per i secondi. Cosa accadde, però, nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda, accennando a un dibattito assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente, intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che ebbero un ruolo politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero. Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma di Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affrontavano temi come contraccezione e aborto.

La terza fase riguarda il cinema e i cambiamenti che stavano avvenendo nell’ambito della musica cosiddetta leggera. Come mai gli intellettuali vincenti come Zavattini and company, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi venivano bollati da Aristarco – anch’egli intellettuale di punta del partito –  come pornografi dei sentimenti? 13 A mio giudizio  le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura profonda della dirigenza comunista era umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante l’omaggio formale alle avanguardie sovietiche, che avevano aperto sia nel cinema sia nella grafica le maggiori e più importanti trasformazioni novecentesche e proprio nella Russia del primo decennio del secolo e poi nei primi anni successivi la Rivoluzione Bolscevica, Il Pci scelse da subito e molto di più gli interventi censori di Stalin e Zadanov, ben rappresentato da Mario Alicata, il cui furore non era infondo diverso da quello dei sovietici. La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente – anche in Gramsci – di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini, cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo. Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista fu molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual’era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro.

Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica della propaganda fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni – tutt’altro che banali – e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada. Nel mezzo e grazie al cinema, cresceva una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: da quel momento iniziò anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale erano venuto prima, con buona pace del nesso struttura sovrastrutture e riguardava proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa nel contesto del neocapitalismo italiano. Entra in scena anche un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo, cui anche lui aveva dato un contributo all’inizio, riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

Il combinato disposto fra queste spinte e contro spinte contraddittorie, faceva del mondo comunista una società nella società come avrebbe detto anni dopo Pasolini, ma in un’ottica di arroccamento difensivo. Se parliamo dell’insieme della società italiana, non vi è dubbio che l’egemonia culturale clerico-fascista fosse di gran lunga prevalente ed esercitò un plumbeo dominio fino alla metà degli anni ’60. Basti pensare ai processi che subì Pasolini, alla canea reazionaria che travolse Fausto Coppi, a Braibanti, ai casi continui di censura, al sequestro di film e romanzi, alla censura televisiva nei confronti di Dario Fo e Franca Rame. Tale egemonia cominciò a essere messa in discussione non tanto dalla critica comunista, ma dai processi di modernizzazione innescati dal boom economico e dall’irruzione della sociologia statunitense negli atenei italiani. Tale processo non fu affatto compreso dal Pci. Non bisogna infatti dimenticare che i grandi consiglieri politici del partito non erano più gli Steiner e i Vittorini, non erano gli economisti, ma piuttosto esponenti importanti del mondo cattolico come Franco Rodano, oppure uomini come Ambrogio Donini, che guardavano prima di tutto al mondo cattolico, da atei, ma anche ostili alla cultura laica e socialista più progressista; prima di tutto in materia di sessualità e famiglia. I primi movimenti di massa anticapitalistici durante quegli anni, furono certamente tenuti a battesimo anche dal Pci – si pensi al luglio del 1960 – ma furono le riviste eretiche del marxismo italiano, nate da costole socialiste e comuniste, fu l’opera di intellettuali come Fortini, Beccalli, Panzieri, Bellocchio, Morandi, Pirelli, infine il Concilio Vaticano Secondo, a creare quello strano crogiolo, frutto dell’eterogenesi dei fini, che sarebbe esploso nel triennio 1967-69 e che spazzò via per un decennio l’egemonia clerico-fascista.11 Fu una parentesi felice, ma mise anche in evidenza che se egemonia vi fu, essa non venne prevalentemente dalla cultura del Pci, ma da una sinistra più vasta, operaista e antiautoritaria, o dalla teologia della liberazione. Il Pci cercò di cavalcare i movimenti, poi fu costretto a inseguire, come su tutta la materia riguardante i diritti civili, poi a cercare di egemonizzare o reprimere. Le trame eversive criminali, le stragi e la scelta sciagurata della lotta armata posero fine alla parentesi più felice della storia italiana recente e travolsero anche il Pci.


9 Insieme all’archeologia industriale è nata, in particolare in alcuni paesi del nord Europa come Danimarca e Olanda, l’idea del turismo antropologico, cioè rivolto al passato. Ci sono molte agenzie che se ne occupano in quei paesi. Si tratta di trascorrere un periodo di vacanza in villaggi che sono stati ricostruiti in base agli studi etnografici. Si sceglie il periodo storico nel quale si vuole viaggiare e ci si ritrova a vivere nelle condizioni di cinque o diecimila anni fa.  Nel nord Europa questi villaggi sono usati anche per fini didattici.

10 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

11 Questa parte del saggio dedicata al cinema, al fotoromanzo e alle canzoni, è la rielaborazione di un testo già pubblicato sulla rivista online Overleft, nell’ambito di una dibattito della redazione cui parteciparono anche altri.

12 Il fotoromanzo174 pag., Euro 12.00 – Edizioni il Mulino (L’identità italiana n.22) ISBN.

13 A questo proposito mi riferisco all’espressione usata da Adriano Voltolin nel suo intervento su Oveleft.

11 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio.