Introduzione
Questo scritto è la rielaborazione di un mio intervento nel dibattito nato su Overleft intorno al cinema del dopoguerra, al quale oltre la redazione partecipò anche Adriano Voltolin, e una mia riflessione precedente sulla canzone italiana. Lo ripropongo in uno dei momenti topici della cultura di massa in Italia.
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Cameriere e casalinghe di Voghera
Forse ancora oggi non molti sanno che il fotoromanzo nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro di Anna Bravo1 ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro della Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire al storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi che possiamo suddividere in momenti diversi.
La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazioni desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.
Seconda fase. Nel giro di pochi anni l’atteggiamento del Pci cambia repentinamente. Bravo accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani e Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (quella della cosiddetta Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso e, dulcis in fundo, Cesare Zavattini a cui si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono che per primo si cimenta con una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani che scrive queste storie.
Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere, rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto.
La terza fase riguarda il cinema su cui si sofferma il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera ed è proprio su quest’ultima che mi sembra importante soffermarsi.
Prima e dopo la guerra
Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola per malattia e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazionalpopolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino alla fine degli anni ‘50. Quando iniziò la rottura di questo equilibrio? La domanda mi riporta anche al cinema perché fu proprio in alcuni anni chiave fra la fine dei ’50 e gli inizi del ’60, che tutto cominciò a cambiare e fu proprio il cinema da cui prese inizio una cesura e anche una polemica molto aspra fra gli intellettuali vicini al Pci. In quegli anni, infatti, mentre venivano esaltati Zavattini, Damiani e Del Buono, i registi della seconda generazione neorealista citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti. Come mai?
A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci.
La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazionalpopolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953, con il fotoromanzo, verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri.
Per quanto riguarda il cinema, tutto era diverso perché la sua ricezione da parte della cultura comunista era molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura popolare e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica propagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt’altro che banali per gli anni in cui si formarono e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.
Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale, infatti, viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura, e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa. Ed è qui che entra di nuovo scena una protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Pasolini fu un testimone particolarmente importante di questo passaggio. Quando Calvino e Fortini diedero inizio alla polemica sul festival di Sanremo, egli aderì e negli stessi anni, sia Cantacronache, sia altri gruppi si posero il problema di una canzone colta. Un titolo per tutte: Dove vola l’avvoltoio. La polemica però finì nel nulla e il primo a prenderne atto fu proprio Pasolini quando riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.
La rottura, però, era iniziata prima: nel 1957 con Come prima di Tony Dallara e reiterata con Nel blu dipinto di blu (1958) cui è associato un ricordo personale, ma che ritengo importante per ragione di costume. Il padre di Dorelli, che aveva cantato con Modugno, era Nino D’Aurelio, tenore il cui nome è oggi sconosciuto ma che allora era un personaggio per Meda, il comune dove ero nato e dove abitavo. Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità mondana da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica. La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a persone discretamente bigotte, fra cui mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco. La cultura di massa si presenta sempre a due o più facce e a volte sono proprio dei cambiamenti in apparenza minori a dare il via a movimenti imprevedibili. Quello che la canzone colta di Calvino e Fortini non riuscì a fare lo fecero personaggi come Fred Buscaglione – Eri piccola così è del 1958. Tua, interpretata da Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la Rai non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del ’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60. Il meglio, però, doveva ancora arrivare. Gaber e Jannacci, Tenco, Bindi, Lauzi, De Andrè e poi Fossati e tanti altri. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia, mentre continuava quella del cinema con Il sorpasso; cominciava invece a ridursi l’influenza del fotoromanzo e finiva davvero il dopoguerra.
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- Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, 2003 ↩︎