FURIO JESI: PARTE SECONDA

Introduzione

L’oggetto di questa seconda parte verte essenzialmente intorno alla questione del tempo che è sempre centrale nelle opere di Furio Jesi, come si è già visto nella prima parte a proposito delle differenze fra rivolta e rivoluzione. L’accento sarà ora posto sulla festa perché anch’essa, come sostiene Jesi, sospende il tempo storico e ne instaura un altro.   

Il tempo della festa

Furio Jesi non ha mai scritto un libro con questo titolo; tuttavia, l’assemblaggio di alcuni suoi saggi, curata da Andrea Cavalletti per Nottetempo, ha una giustificazione, perché in essi vengono esplicitati alcuni passaggi cruciali nel suo percorso e specialmente si gettano le fondamenta per una critica che supera quanto scritto in Spartakus, pur senza rinnegarne l’esperienza. I due saggi più importanti di tale assemblaggio, oltre alla Lettura del Battello ebbro di cui ho già scritto, sono il primo, Conoscibilità della festa, e Cesare Pavese e il mito. Gli altri saggi sulle Elegie di Rilke e l’interpretazione del racconto biblico di Susanna e i vecchioni e quello su uno scritto giovanile di Lukacs, pur interessanti e come sempre pieni di intuizioni, sono di minore importanza per il discorso che si fa qui1. Perché la festa? La risposta è complessa nel senso che si tratta di ipotesi a volte esplicite altre volte che si possono dedurre: vi sono poi dei richiami impliciti al saggio di Benjamin sul Surrealismo e specialmente al concetto di ebbrezza, illuminazione laica, antropologica e materialista.2 Dietro la riflessione di Jesi, ma anche fra le righe del saggio di Benjamin, c’è una domanda nascosta, più evidente in Jesi: cosa unisce la festa alla rivolta e alla rivoluzione? Tutte e tre con le loro diverse modalità spezzano la serialità del quotidiano e hanno a che fare con la sospensione del tempo; tutte e tre sfuggono alla tirannia del tempo storico. Rivolgersi alla festa significa dunque per Jesi tornare a interrogarsi sulle diverse modalità di sospensione del tempo; ma anche di rivolgersi al folklore, alle radici antropologiche di una civiltà e naturalmente alla macchina mitologica, espressione che Jesi userà sempre invece della parola mito. Nel primo saggio, intitolato come ho detto Conoscibilità della festa Jesi inizia ricordando uno scritto polemico di Benedetto Croce, nei confronti di un cronista – tale Conti – che aveva definito l’eruzione del Vesuvio del 1906 con accenti di vera e propria meraviglia. La polemica di Croce viene criticata da Jesi in modo assai sottile, nel senso che, dedicando alla reprimenda del povero Conti una pagina che sembra scritta dal filosofo solo per schiacciare il proprio interlocutore, Croce finisce per dare all’evento luttuoso – l’eruzione vulcanica – il contorno letterario di una pagina talmente ben scritta da suscitare a sua volta meraviglia. Peraltro, lo sgomento di fronte a fenomeni naturali o epidemici particolarmente estremi non è nuova e ha sempre prodotto pagine memorabili. Gli esempi che Jesi fa sono classici che spaziano da Erodoto alla descrizione della peste in Manzoni; ma anche in occasione della recente pandemia di Covid 19 si sono letti brani di grande suggestione, a prescindere dal loro contenuto. Va pure ricordato che il concetto di sublime, elaborato da Edmond Burke, è assai ambivalente come peraltro quello di numinoso, entrambi riferiti a eventi che possono essere sia di festa vera e propria della natura, sia a eventi catastrofici ma dotati di uno strano fascino, proprio per la loro potenza in atto. Feste crudeli le definisce Jesi e possiamo estendere tale concetto alle guerre: Thomas Mann alla fine de La montagna incantata parla del primo conflitto mondiale come una festa di morte. Occuparsi della festa significa dunque immergersi in quel patrimonio antropologico che Benjamin, nel saggio sul Surrealismo, aveva indicato con i termini di illuminazione profana. Se infatti è possibile dichiararsi non cristiani (a dispetto di ciò che pensa Croce), da un punto di vista religioso, filosofico e del pensiero in senso lato, è a livello antropologico che le religioni operano più in profondo. L’illuminazione laica e antropologica materialista che Benjamin attribuisce al Surrealismo, va molto più fondata sulla critica del costume e anche le riflessioni di Jesi vanno in quel senso. Quanto alla festa, essa occupa una parte preminente nell’antropologia profonda dei popoli: il Carnevale, le Feste dei Folli medioevali, le diverse forme di rovesciamento delle gerarchie, il paese di Cuccagna, i Fuochi di sant’Antonio, il culto dei morti. Cosa avviene però con la modernità? Jesi distingue fra dimensione epifanica della festa e conoscenza della festa come processo gnoseologico, grazie all’etnologia e alla ricerca sul campo. Egli polemizza con Adorno, che nella Dialettica dell’illuminismo si riferisce alle feste orgiastiche dei primitivi, facendo notare come questa espressione dia per scontato di sapere cosa fosse un festa primitiva e ironizza su certe descrizioni moderne come quelle citate, che sembrano piuttosto travestire i selvaggi di Rousseau per farli passeggiare nella Vienna di Freud.3 Sono affermazioni che per Jesi si muovono ambiguamente fra scienza etnologica e fantasticherie. In realtà, nella modernità si può solo constatare che il concetto di festa collettiva come si suppone sia stato anticamente il Carnevale è perduto, oppure si trasforma in consumismo spettacolare di massa: pensiamo cosa è diventato l’antico rito celtico del culto dei morti nella riproposizione di Halloween. Gli esempi di feste che costellano la letteratura europea degli ultimi due secoli, dalla Montagna incantata alla Recherche, sono feste crudeli o feste interiori: entrambe le cose in alcuni casi. Oppure, nel caso Musil, la festa diventa una impossibile e grottesca messa in scena che infatti alla fine non ha luogo.4

Jesi non prende in considerazione le feste canoniche dettate dalle scadenze religiose (il Natale cristiano per esempio), ma sottolinea come la posizione dell’etnografo sia quella di studiare la festa dei diversi – siano essi i popoli cosiddetti primitivi, oppure ciò che emerge dagli studi sul folklore – non potendo più partecipare alla festa in senso epifanico, cosa che nella modernità non sembra essere più possibile. In realtà nelle conclusioni Jesi dirà qualcosa di diverso come si vedrà: lo stesso si può dire della conclusione del saggio di Benjamin sul Surrealismo, ma prima di arrivare a quel punto occorre capire meglio la dialettica fra macchina antropologica, festa come evento epifanico e ricerca sul campo. Il folklore, in tutto questo svolge una decisiva funzione di cerniera perché è un ponte, instabile ma pur sempre un tramite, che permette di avere un’idea meno fantasiosa delle feste epifaniche del passato. A questo  proposito va detto che la ricerca antropologica ha fatto passi da gigante negli ultimi venti anni. Mi riferisco per esempio a opere recenti come quelle di Graeber e altri.5 Abbandoniamo momentaneamente il primo saggio e rivolgiamoci al secondo.

Festa e sacrificio

Nel saggio su Pavese, Jesi torna alla letteratura e ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo che ha come sempre aspetti di critica letteraria e connessioni remote con la macchina mitologica. Il discorso è assai complesso e parte dal modo che Pavese ha di concepire la natura:

[…] Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura […] Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.

Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza: di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6 Tale linguaggio, che Jesi attribuisce a Pavese, equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto. Subito dopo, Jesi entra nel vivo del dibattito su Pavese che aveva in quegli anni molti protagonisti. Egli nega l’appartenenza dello scrittore piemontese al decadentismo e si premura di chiarire la questione rispetto a un proprio saggio che poteva generare equivoci al proposito. Jesi cita Venturi con il quale si era aperta la polemica, ma ricorda pure gli interventi di Pasolini e Moravia. Quella polemica è in parte datata, ma è comunque la spia ancora attuale di una difficoltà reale: la collocazione di Pavese nel contesto letterario italiano a cavallo fra primo e secondo ’900 è difficile da districare, perché la sua presenza è fortemente anomala. Pavese ha di certo nel mito una fonte d’ispirazione, ma si tratta di un modo d’intendere la mitologia che non ha nulla a che vedere con il fascismo e la sua mitologia. In secondo luogo Pavese non ha nulla a che vedere con l’ermetismo. Infine c’è un contrasto evidente fra il suo americanismo e il sentirsi radicato in una cultura contadina e provinciale come quella delle Langhe. Pavese sta dentro una contraddizione, anche nel dopoguerra. Faccio un solo esempio. Si batté nella casa editrice Eianudi per avere fra i collaboratori Angelo Brelich, uno studioso del mito fra i più importanti di quegli anni, ma è pure vero che la concezione del mito di Brelich è assai diversa rispetto a quella di Pavese ma lo scrittore sembra non comprenderlo. Credo che un parziale errore di Jesi  sia quello di attribuire a Pavese una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, grandi, ma poche: I mari del sud, I dialoghi con Leucò e La Luna e i falò. 7 In altre parti di Lavorare stanca possiamo trovare dei testi sicuramente forti e apprezzabili e che proprio per questa ragione incorsero nella censura fascista; ma nessuno ha la forza a mio avviso dei tre ricordati in precedenza. Jesi solleva però un problema reale quando attribuisce a Pavese il tentativo di conciliare la modernità con il mito: le modalità scelte porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo, per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. Jesi, al contrario, rifiuta l’interiorizzazione, ma si domanda anche quale sia il mito che la rende possibile e la risposta che si dà è molto netta: si tratta un mito di sacrificio e di morte, il solo che non produce intorno a sé altro se non l’aspetto sacrificale. Per Jesi, dunque, Pavese, pur non essendo un decadente, accetta l’impossibilità del mito come esperienza comunitaria della modernità e la trasforma nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti. Anche Jesi, come il suo maestro Kerényi, prende atto che nella modernità l’epifania come si è conosciuta in passato non è più proponibile, ma per lui si tratta di quelle forme storiche e antropologiche, che tuttavia non possono essere considerate come eterne e statiche, perché la macchina mitologica non ha smesso di funzionare e di produrre narrazioni mitologiche anche in piena modernità.

La festa nel tempo della modernità

Per Jesi non si tratta di ritornare a una individualità separata, piuttosto di porsi il problema di comprendere in che modo possono esistere ritualità comunitarie anche nella modernità e nella post modernità, le quali, in qualche caso, possono persino recuperare frammenti da salvaguardare delle forme passate. In sostanza si tratta di esplorare il campo vastissimo del folklore ma anche interrogarsi sui tentativi moderni di ritualità collettive. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine. Tuttavia, se si considera l’insieme della sua produzione, possiamo ricostruire tutta una serie di esempi che hanno tratti interessanti comuni con quanto Benjamin aveva scritto negli anni ’30. Jesi, in alcuni altri scritti dedicati alle rivolte popolari, sottolinea come uno dei limiti dello Spartachismo, per esempio, fu quello di lasciare ai margini il concetto di festività come modalità di sospensione del tempo, che non può essere disgiunta dall’altra modalità di sospensione e cioè la rivolta. Ebbene, quando Benjamin nel saggio sul Surrealismo scrive che occorre portare alla rivoluzione le forze dell’ebbrezza, cosa afferma se non questo? Jesi, che ben conosceva Benjamin anche se le citazioni sono quasi sempre indirette e sotto traccia, riprende uno dei leitmotiv di quel saggio cui si può aggiungere il concetto altrettanto importante di illuminazione profana e materialista, precedentemente citato.8 Sempre Benjamin, a proposito della ritualità festiva delle manifestazioni operaie, aveva posto l’accento su un famoso episodio, accaduto durante la Rivoluzione di Luglio a Parigi, quando i rivoltosi distrussero tutti gli orologi, simbolo della cadenza industriale del tempo governata dal lavoro salariato. Sempre in Benjamin si trovano alcuni spunti interessanti nel saggio sulla riproduzione tecnica dell’opera d’arte, sui modi di festeggiare il Primo Maggio.

[…] i film di Ejzenštejn, il teatro didattico di Brecht, le feste del primo maggio con gli slogan di Majakovskij, le messe in scena di Malevič  e di Mejerchol’d.

Questa citazione si trova nell’introduzione al saggio dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sulla riproducibilità tecnica, traduzione e cura di Enrico Filippini, Einaudi Torino 1966, alla pagina 11. Non è la sola in cui Benjamin si occupa delle modalità di una ritualità collettiva nel tempo della modernità. Questa frase è particolarmente significativa perché àncora i riferimenti di Benjamin  alle esperienze più radicali dell’avanguardia russa di quegli anni e al teatro di Brecht, ma si tiene a distanza dal realismo socialista.

In conclusione, l’intento di Jesi, come di Benjamin decenni prima, è quello di tornare a significare in modo diverso sia la festa sia la rivolta, sia la rivoluzione, come rito collettivo anche nella piena modernità; ma questo è un capitolo tutto da pensare.

Adrien Moreau, Processione di carnevale, 1887


1 Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea cavalletti, Nottetempo, Milano 2023.

2 L’espressione è usata da Benjamin più volte nel saggio sul Surrealismo e nelle carte preparatorie.

3 Furio Jesi, op. cit., pag.69.

4 Mi riferisco al romanzo L’Uomo senza qualità.

5 Mi riferisco in particolare al libro L’alba di tutto, scritto da David Graeber e David Wengrow , edito da Rzzoli nel 2021.

6 Furio Jesi, op. cit., pp. 122-23.

7 Nel blog diepicanuova, curato da Paolo Rabissi e da me, che presto diventerà un libro pubblicato, I Mari del sud sono uno dei testi manifesto cui è dedicata un’ampia riflessione critica.

8 Il saggio sul Surrealismo è un testo fondamentale di cui consiglio la lettura completa insieme alle carte preparatorie.