ONDA SONORA, UN PROGETTO INTERMEDIALE

Festa per Vocale.

Premessa

Su invito della curatrice Elisa Longo ho partecipato a una puntata di Vocale, andata in onda su Fango Radio il primo aprile scorso e ora disponibile in podcast: un’esperienza per me nuova, assai intrigante che mi ha spinto a una riflessione che vuole essere però anche un dialogo. Ho proposto allora alla curatrice un’intervista che viene pubblicata qui di seguito insieme a tutti riferimenti riguardanti anche tutte le puntate precedenti di Onda sonora di Vocale e il progetto trasmesso da Fango Radio.

Franco Romanò: Parto dalla mia esperienza di ascoltatore che ha cercato di dimenticare la sua partecipazione in quanto autore: ho ascoltato tutto due volte, seguendo le istruzioni che lei aveva dato e cioè di ascoltare in cuffia. Il tempo è passato rapidamente e giunto alla fine a me era arrivato l’effetto di flusso, peraltro evocato anche nell’espressione onda sonora: probabilmente per cogliere anche le sfumature due ascolti non bastano, oppure è una questione di abitudine e di certo andrò ad ascoltare anche le puntate precedenti. Questa è la mia prima riflessione e questione che le pongo, basata unicamente sulla mia esperienza.

Elisa Longo: In primo luogo sono contenta del dialogo, per le sue riflessioni e la curiosità verso questo progetto.

Vocale rappresenta un flusso, un’onda, un viaggio attraverso il vasto campo della Poesia. Il suo fondamento si ritrova nel concetto di stream of consciousness introdotto da Joyce. Quando mi immergo nella lettura e nell’ascolto della poesia, la mia mente si popola di pensieri, suggestioni, e altro ancora, che talvolta sembrano estranei alla stessa poesia. Ho l’abitudine di registrare le poesie che mi colpiscono di più e di riascoltarle durante le mie attività quotidiane. Mentre le ascolto, si mescolano suoni, melodie, parole e dialoghi provenienti dal mondo circostante. Questo fenomeno a volte può risultare fastidioso, ma altre volte arricchisce l’esperienza d’ascolto, spingendomi a essere più attenta. La presenza di scenari reali in cui la poesia si inserisce mi fa percepire la poesia stessa come parte integrante della vita quotidiana. Vocale riporta la poesia alla sua dimensione vitale, integrandola nel flusso della vita di tutti i giorni.

Quante volte ci capita di essere interrotti durante la lettura da suoni estranei, come un messaggio o una canzone? Vocale si muove a destrutturare lo spazio tradizionalmente adibito alla poesia, che sia una pagina, un contesto o un ambiente. La poesia è concepita come un’entità permeabile e penetrante, che convive con l’ambiente circostante senza perdere la sua integrità.

A volte, è necessario fare più di un ascolto per cogliere appieno l’essenza di un’opera. In certi momenti, possiamo guardare qualcosa distrattamente, trascurando alcuni dettagli, ma se ripercorriamo l’esperienza con attenzione, ci accorgiamo che sono proprio quei dettagli a determinare l’intero quadro. Vocale è pensato sia per coloro che desiderano godere della poesia e dei suoni con un semplice ascolto e farsi travolgere dall’onda, sia per coloro che vogliono prendersi il tempo di rallentare, ripercorrere e approfondire. È per questo che ogni episodio del podcast è accompagnato da una tracklist completa degli autori, delle autrici, dei brani e delle suggestioni utilizzate. Io nutro sempre la speranza che ci sia un desiderio di approfondimento, e lo suggerisco senza imporlo.

FR: Vengo ora a un secondo aspetto più teorico: l’esperienza di Vocale è da un lato una evoluzione della poesia sonora, dall’altro però l’uso di diversi mezzi ne fa qualcosa di completamente diverso. Nelle performance che ricordo e mi riferisco in particolare a Milanopoesia, il festival organizzato da Gianni Sassi del 1983 nel ’91, c’era pur sempre un autore che andava su un palco anche se poi ci sono documentazioni video di quelle serate. Ecco, qual è stato lo spunto iniziale che ha dato vita a questo progetto e che relazione c’è – se c’è – con la poesia sonora?

EL: Per me, il processo di decontestualizzazione artistica è di fondamentale importanza. Agire in un ambiente predisposto all’ascolto o che suscita emozioni, è un territorio ben noto e relativamente semplice. Ciò che mi interessa veramente è esplorare la potenza e la resistenza della parola quando viene messa in contatto con ambienti insoliti, anche quelli che contrastano con il suo significato. Ricordo chiaramente un’esperienza in cui ho trovato un vecchio furgone russo in mezzo al nulla, in un prato in alta montagna, o quando ho visto un gregge di pecore attraversare una superstrada. In entrambi i casi, gli elementi principali mi erano noti, ma il contesto a loro estraneo rendeva l’esperienza molto più intensa. Il ricordo di quei momenti mi porta ancora a interrogarmi su come quei soggetti siano arrivati lì e sulle potenzialità del circostante, non come luogo accessorio, ma come luogo del re incontro con ciò che si è appreso, al quale si attribuisce un pensiero marmoreo e statico: una risignificazione dell’oggetto stesso e della parola che ne viene associata. Se penso a un gregge di pecore, in automatico il mio cervello associa a questa immagine un contesto appreso – un campo, un prato – a questo concetto e a questo ambiente a noi noto associamo una serie di vocaboli, emozioni, odori, sensazioni. Se invece le dico: “pensi a un gregge che attraversa una superstrada”, immediatamente a questa suggestione aggiunge una serie di emozioni, sensazioni e odori diversi, ma mette anche in gioco tutta un’area semantica di parole che nell’immagine usuale del gregge non avremmo mai pensato. Mi interessa lo scarto che si crea tra le prime parole, quelle note, e le nuove che il cervello associa all’oggetto stesso in un contesto inusuale. Trovo affascinante il ragionamento deduttivo e il contrasto. Penso che tutto quello che posso fare in questo momento, come amante e autrice di Poesia, sia cercare di portare energia e stimoli, di creare delle suggestioni per altri, che come me, lavorano in modo creativo. Quello che la Poesia rincorre è il linguaggio. A me interessa stimolare la mente di chi ascolta, fare in modo che si creino nuovi scenari e con essi nuove pensieri che risignifichino la parola stessa, non erudire.

La tradizione della Poesia sonora è senza dubbio fondamentale, ma in Vocale tutto viene ampliato, spostato e liberato dai confini. La poesia sonora si fonde con gli esperimenti dei rumoristi e si mescola a suoni diversi, alla musica e alle voci dei poeti, sia con scritture più tradizionali che sperimentali. L’obiettivo è rendere la poesia viva e dinamica in un ambiente non preconfezionato, ma piuttosto in un terreno di scambio, anche se spesso è un terreno denso di rumori e scarti che tentano di sconvolgere il significato della parola. Mi interessa particolarmente osservare e studiare quali parti del linguaggio riescono a sopravvivere a questa miscela o a questa lotta. Questo è ciò che mi appassiona e ciò su cui desidero concentrarmi con Vocale.

FR: Nella presentazione del progetto lei cita Jankins, Baruchello, Cage e Kandinskij. Sono nomi noti e importanti per diverse ragioni, ma la combinazione mi riporta una seconda volta al termine multimediale, ma anche intermediale. Vorrei che su questo punto dicesse qualcosa di più, anche perché mi sembra un aspetto centrale del progetto.

EL: Mi sforzo di sfruttare ogni elemento della realtà e tutti quegli strumenti, sia mediatici che non, che ci vengono messi a disposizione. In Vocale trovano spazio le voci dei lettori di Google, le frasi emesse dai distributori automatici e dalle casse automatiche, così come i suoni delle fontane, delle campane e dei sistemi in disuso come le audiocassette. Inoltre, ci sono riferimenti all’arte contemporanea, al cinema. Tutto ciò fa parte della nostra cultura. Nessuna forma d’arte può sopravvivere da sola. La poesia si inserisce nell’intero panorama culturale, senza confini, le voci dei poeti e delle poete dialogano tra loro e con il circostante.

Inoltre, Vocale opera anche con la dimensione dello spazio-tempo, riportando in auge conoscenze e interrogativi ancora attuali, già esplorati dai grandi maestri della poesia del passato. Mi impegno a recuperare tali domande attraverso l’utilizzo di filmati d’epoca e a reinserirle nel contesto contemporaneo, riattualizzandole. Nell’era attuale, la durata di vita di un libro è sempre più breve, e mi appassiona coinvolgere autori con opere meno recenti affinché leggano estratti dei loro scritti, così da riportare in circolo quel linguaggio e quei concetti.

Spesso, quando si pensa a una lettura poetica o a un programma radiofonico dedicato alla poesia, si crea un ambiente sterile, con una sorta di separazione silenziosa tra le parole, chi le ascolta e l’ambiente circostante. Tuttavia, le parole del poeta traggono origine da suggestioni spesso estranee al silenzio.

FR: Quello che lei dice mi fa venire in mente due nomi e un episodio legato a uno dei due: Benjamin e Brecht. Il primo perché i suoi saggi sul rapporto fra parola, arte in  generale e le trasformazioni tecniche avvenute dall’avvento della fotografia e del cinema in poi, sono una pietra miliare della critica novecentesca. Il secondo perché alla domanda se avesse bisogno del silenzio per scrivere, lui rispose – cito a memoria ma il concetto è quello – che preferiva le finestre aperte e il rumore dei clacson.

EL: I suoni ci rimettono al mondo. Lo dico in ognuno dei sensi che possono essere attribuiti a questa mia frase e in questo sono in totale accordo con ciò che diceva Brecht. I suoni che arrivano da una finestra aperta ci possono risvegliare da un torpore, ci ricordano che esiste altro oltre noi, tengono il nostro ego a bada, ci aiutano a posizionarci nel lavoro artistico che stiamo affrontando.

Posso cercare il silenzio durante la scrittura, ma non mi separo, poiché in ogni cosa esiste un dialogo costante. Vocale incarna la molteplicità di voci, suggestioni e riferimenti che prendono vita nella mente di chi scrive, ma è anche la stessa molteplicità che si anima nella mente di chi ascolta.

Ciò che Walter Benjamin vedeva nel suo saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica era: la cultura di massa da una parte e l’avanguardia artistica dall’altra, che secondo Benjamin, sono accomunate dalla perdita dell’aura. L’aura per Benjamin era il concetto di sacro che l’arte aveva custodito nei secoli precedenti e che era stata distrutta dalla rapida riproducibilità tecnica che portò alla cultura di massa da una parte, ma anche dalla dissacrazione dell’arte usata in modo provocatorio dalle avanguardie.

L’arte perdeva la sua aura, la sua sacralità e con questa il concetto di autentico e Benjamin vedeva questa spoliazione come funzionale al progredire dell’arte, della sua trasmissione, riproduzione e accessibilità.

Il problema dell’accessibilità, nei nostri giorni pone di nuovo alla ribalta il tema dell’autentico, sia per l’arte massificata, nell’accezione dell’attribuzione di opera di genio ( si veda il caso degli NFT in arte), sia per le aree dell’arte che si occupano di ricerca, nell’accezione di forma.

Vocale usa audio “sporchi”, non perfetti. In questo modo l’opera, seppur riproducibile si autentica sfuggendo alla massificazione, in un’epoca dove la riproducibilità di massa è perfezione (del suono, dell’immagine, etc). Per questo in Vocale tengo gli errori di registrazione, ci sono vasi che si rompono in diretta perché sono caduti mentre registravo, papere, errori di pronuncia. Tutto viene lasciato come marchio di produzione creativa umana fallace.

L’intermedialità mi aiuta invece a livello formale sfidando ciò che definisco la struttura del pensiero borghese, costruito e orientato secondo il binomio bene-male. Vocale adotta una struttura che definirei schizofrenica: un pensiero che non segue le logiche del bene o del male, ma quelle della sopravvivenza. Tale non-struttura mi consente di creare scenari atipici che favoriscono la formazione del pensiero e lo stimolano, inoltre pone il progetto in un continuum che sfugge alla sua definizione.

FR: Nel rivolgervi a poeti a artisti come vi siete orientati? Avete trovare solo consenso oppure anche scetticismo?

EL: Ho selezionato le voci dei poeti e delle poete che avrei voluto ascoltare di nuovo, come facevo con la mia vecchia cassettina da adolescente. Scelgo autori che ammiro, altri che desidero esplorare, alcuni che mi incuriosiscono per un lavoro particolare, mentre altri li scelgo per vedere come il loro testo reagisce a un ambiente diverso.

Devo dire che la stragrande maggioranza degli autori e delle autrici contattati ha risposto con entusiasmo. Alcuni lo prendono come un semplice reading, ma sono pochi; altri provengono da esperienze sonore e sono abituati a questa forma di espressione, mentre altri si cimentano per la prima volta e si divertono. Mi impegno per offrire ai miei ascoltatori il meglio degli autori e delle autrici a cui riesco a accedere, e a volte può essere difficile mantenere un alto livello. Il concetto che è difficile da spiegare ai poeti è quello del pensiero unico che viene decontestualizzato, spezzato, ma integrato. 

FR: Fango Radio è stato il veicolo di Vocale, ma è anche un emittente; oppure è nata solo per il progetto? E perché la scelta di questo nome?

EL: A questa domanda le riporto la risposta del collettivo fondatore di Fango Radio. “FANGO è un nome scelto di pancia. FANGO RADIO è una piattaforma di sperimentazione, una porta aperta alle belle elucubrazioni. FANGO RADIO scava nei suoni. Trasmette dal lunedì al venerdì: qualche volta succede qualche trasmissione speciale il sabato o la domenica. Per ascoltarci puoi usare il nostro player o collegarti direttamente a questo link.  

Siamo su Facebook

https://www.facebook.com/fangoradio

Su Instagram

https://www.instagram.com/fangoradio

Abbiamo qualche mercanzia su Bandcamp

https://fangoradioeditions.bandcamp.com/

FANGO RADIO compie 5 anni quest’anno e ha ancora tanto da imparare:

https://www.fangoradio.com/events/344

https://www.facebook.com/events/7535527493159200

FR: Il venti aprile si terrà una vostra performance pubblica a Busto Arsizio al circolo Gagarin: ce la vuole presentare?

EL: Vocale è stato invitato come ospite all’Aperitivo Letterario per festeggiare il quinto anniversario di Fango Radio e ha preparato uno spettacolo unico dal titolo “Non è un reading”.

Si tratta di una performance che unisce poeti, poete e sound artist che leggeranno le proprie opere accompagnate dall’energia di suoni e musica preparati in perfetto stile Vocale. Durante lo spettacolo, non ci si siederà semplicemente ad ascoltare, ma ci si lascerà trasportare dall’intensità delle parole degli autori e delle autrici che saliranno sul palco.

Il vero risultato della performance verrà catturato dalla radio, che oltre alle voci dei performer, registrerà anche i suoni e le voci del pubblico presente.

Alla guida di questa prestigiosa banda ci sarò io, Elisa Longo, accompagnata da Giorgia La Placa, Ilaria Boffa, Laura Recanati, Emanuele Bottazzi Grifoni, Silvia Atzori, Benedetta Manzi e con le interferenze sonore di Mariagiorgia Ulbar, Michelangelo Coviello e Danilo Paris.

L’evento si terrà sabato 20 aprile dalle 19:00 alle 20:00 sul palco Vocale live – Non è un reading presso il Circolo Gagarin di Busto Arsizio (VA), nell’ambito della celebrazione Fango Radio 5Years, dove artisti sonori internazionali, musicisti e poeti si esibiranno fino a tarda notte. Potrete anche ascoltarci in streaming su Fango Radio.

La ringrazio per questo straordinario scambio e invito tutti a seguirci sulla pagina Instagram di Vocale, che trovate con il nome Vocale.poesia. Per chi volesse riascoltare le puntate, potrà farlo visitando il seguente indirizzo: https://www.fangoradio.com/shows/301

GRADIVA, RIVISTA INTERNAZIONALE DI POESIA ITALIANA

Nello scorso mese di novembre è uscito il numero 64 di Gradiva, rivista internazionale di poesia italiana, diretta da Alessandro Carrera edita da Lo S. Olschki. L’edizione si apre con l’editoriale del direttore dal titolo Il poeta  e la sua ombra. Il numero è diviso in due parti. La prima è dedicata a Gianpiero Neri. La rassegna critica a lui riservata inizia da un’ampia intervista al poeta curata da Claudia Crocco. Le domande, sempre puntuali, nonché le generose risposte di Neri restituiscono a chi legge un ritratto del poeta davvero prezioso. Seguono nella stessa sezione i saggi di Silvio Aman, Pietro Berra, Roberto Caracci, Gabriela Fantato e Daniela Marcheschi.

A questa prima parte seguono le ricerche tradizionali della rivista: la sezione dedicata alla poesia. Si comincia con Italian poetry contemporanea con testi di Rita Argentiero, Maria Rita Bozzetti e Gabriela Fantato, seguita da Intermezzo con testi di Claudia Blanco, Lazzaro Doiepp, Grazia Frisina, Lorenzo Pataro.

A seguire l’ampia e ricca sezione critica, divisa a sua volta in rubriche diverse, Articles Essay and notes e Translations dedicata alla traduzione di poesie italiane da parte di studiosi statunitensi.

Impossibile rendere conto in poche parole della ricchezza delle tematiche e dei contributi. Mi soffermerò allora soltanto su alcuni di essi. Il primo si trova nella rubrica gli strumenti della poesia a cura di Mario Buonofiglio: si tratta di uno studio sulla Chimera nell’opera di Campana, con rimandi ad altri autori che si sono occupati del mostro mitologico.  Il secondo è il saggio che Luigi Fontanella dedicata ad Alessandro Ricci, da lui definito il più nascosto poeta del ‘900: una felice scoperta anche per me.

Infine la rubrica su Musica e poesia e l’ampia rassegna critica riviste curata da Plinio Perilli.

PICCOLI DILEMMI QUOTIDIANI

Introduzione

I testi che seguono furono pubblicati sul numero 23-24 della rivista Poiesis nel 1993. Uno di essi, il primo, fu tradotto da Jean Portante e pubblicato su una rivista francese che non ritrovo. Una soltanto di queste poesie – La piccionaia – è poi confluita nel libro L’epoca e i giorni pubblicato nel 2008 per le edizioni Viennepierre di Milano. Le ragioni per cui un testo entra o non entra in una raccolta sono diverse, il montaggio ha una parte importante nella composizione di un libro, anche se nel pensarci a distanza di anni, non ricordo le motivazioni per cui alcune furono escluse. Le ripropongo nel blog con il titolo originale – Piccoli dilemmi quotidiani –  con il quale furono pubblicate su Poeisis.  

In ogni carne affondano il coltello

versano il vino con la stessa mano

come distilla terra il fungo amico

e veste da sicario il suo gemello.

Sotto la prima crosta la radice

una semplice patata cresce sotto

e sotto la seconda superficie

l’acqua ci nutre mescolando umori.

L’aria che respiriamo è in alto,

l’orizzonte un po’ più in là …

la nube e la luna di cui tutti

guardano ancora l’incedere grandioso

sono entrambe un po’ più sopra.

Così gli animali transitano

e hanno nel letargo quel profondo

che scava il rifugio e il pudore

oppure dall’alto di una rupe

spalancano una porta all’infinito.

Soltanto noi siamo qui

né in alto né sotto né più in là

ombre che abitano la zona grigia

dove si specchia la luna

in un catino d’acqua sporca.

La piccionaia

Amo di Genova il suo disordine ordinato

L’età sovrapposte come le casse impilate

Di piazza Caricamento, i ristoranti

dai tavoli trasandati, dove da sempre

è seduta una signora che sogna

di un americano che la porterà

a New York in transatlantico.

Ed io che vivo nella pianura nebbiosa

un poco la capisco la signora

e ho scelto di abitare un eremo di vento

trafitto dal sole che ci resta

un piccolo scrigno dove danzano insieme

cornici paterne e maschere africane

un coltello da pirata che mio figlio

mi portò da Mali…e dell’India

conservo un’intera madia, intrisa

di odori speziati e nel suo specchio a notte

danzano tigri luminose e quando piove

il vetro scroscia una foresta pluviale.

Forse non è una vera casa

(è persino imbarazzante portarci una donna)

ma uno di quei luoghi da cui sempre si parte

e il ritorno è festa improvvisata

dove trovano rifugio poeti e marinai del tempo

felici d’esser soli in mezzo al brulichio

di ogni vita, come bambini che ascoltano gli adulti

parlare nella stanza accanto

e si addormentano beati

gravidi di ogni idioma del mondo.

Il migratore

È tornato quest’oggi il migratore,

ha cantato alla ringhiera

ferito dolcemente la mia mano.

Non cercava solo cibo, aveva un suono

un suono tutto suo l’esile grido

inconfondibile e raro … diceva

il verso non sia soltanto umano,

è più vasta la culla del tuo sogno.

Cercatore di funghi

Nella matrice signora originaria

cercare fra gli arbusti e i rami secchi

sentire i piedi, il morbido gonfiore

scostare foglie attento a non far male.

Per ore camminare occhio radente

fino alla visione solitaria …

Simile al suo cercare chi si danna

nel bianco deserto rettangolare

distillando dalla mano la sua acqua …

e a sera chinati insieme a misurare

se nel canestro il mosaico di forme

sia la città del rame o il suo miraggio.

T.S. ELIOT: IL TEMPO E LA STORIA

Apocalypse

La questione del tempo e del luogo, come abbiamo già visto abbondantemente, è cruciale fin dall’esergo eracliteo del Quartetti qui di seguito e nei primi cinque versi della prima sezione citati in precedenza:

Benché la parola sia comune a tutti, la maggioranza degli uomini vive come se ciascuno di essi avesse una saggezza particolare … La via che sale e la via che discende sono una medesima cosa.18 

All’inizio della prima sezione dell’ultimo Quartetto – Little Gidding –  Eliot riprende un tema molto celebrato di Waste land:

Midwinter spring is its own season/Sempiternal though sodden towards, sundown,/

(Primavera cresciuta  a mezzo inverno/è la sola stagione sempiterna/)19

Dall’aprile mese più crudele il poeta trova un approdo in questa immagine, in cui forse si può intravedere anche l’estate di San Martino.

La stagione sempiterna non può essere l’estate, perché la pienezza non appartiene agli umani, è solo un inganno. Nel caso di Eliot si può di certo parlare di una poesia del tempo di povertà molto più che per altri. Una volta indicato il tempo atmosferico e i colori di questo quartetto, autunnale seppure temperato, altrettanto importante è il luogo. Little Gidding, è il nome di un villaggio che fu sede di una delle più importanti comunità religiose inglesi, fondata nel 1600. Durante tutto il secolo, il villaggio fu visitato da personalità illustri del cristianesimo britannico; tuttavia non fu solo questo, ma anche il luogo dove il fuggiasco Re Carlo cercò rifugio prima di essere di essere arrestato e poi decapitato dalle truppe puritane e repubblicane di Cromwell. La storia entra quindi nel testo possiamo vedere nella scelta anche un modo da parte di Eliot per marcare la sua lontananza dalla rivoluzione repubblicana e puritana. Sempre nella prima sezione si chiarisce meglio in che modo: 

If you came this way,/taking the route you would be likely to take/From the place you would be likely to come from,/In you came this way in may time you would find the hedges/White again in May, with voluptuary sweetness./It would be the same and the end of the journey…

(Se tu in questi luoghi fossi giunto,/per una via qualunque, partendo da un luogo qualunque/in qualsiasi stagione e in ogni tempo,/sarebbe stato uguale …)

La comunità di Little Gidding, vista in modo retrospettivo, è per Eliot il luogo che ha riscattato il 1600 dai suoi orrori. Nella conclusione del primo movimento, il paese sede della comunità diventa l’Inghilterra intera, ma potrebbe essere qualunque luogo.

Simboli e riferimenti s’inseguono nel testo: da un famoso motto di Maria Stuarda, si passa a una figura storica del misticismo britannico, Giuliana di Norwick. La storia ha una duplice valenza nella partitura dei Quartetti: mentre la contemporaneità viene vista da Eliot nella sua concretezza e mai elusa, il passato viene rivisitato solo attraverso il filtro della comunità cristiana.20 Credo che in questa asimmetria vada riconosciuto prima di tutto la natura del suo misticismo, che il poeta traduce in una suggestiva raffigurazione rovesciata dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin: quest’ultimo corre in avanti e ha gli occhi rivolti all’indietro, così da vedere l’immane distruzione che il suo procedere si lascia alle spalle. L’angelo di Eliot, corre all’indietro, ma i suoi occhi sono puntati sia sul passato alla ricerca di una prefigurazione di salvezza, sia davanti, così da vedere le distruzioni e le immani tragedie del momento: un angelo Giano quello di Eliot. Il rapporto con l’escatologia cristiana assume una declinazione molto particolare. Le origini statunitensi di Eliot mostrano la grana che sta sotto l’apparenza: la sua educazione avvenne pur sempre in un ambiente prevalentemente protestante. Che Dio è allora quello del poeta? Più che Gesù di Nazareth o quello dei Vangeli, è piuttosto il Dio dell’Apocalisse di Giovanni. Se il tempo storico non può essere redento, è tutta la vicenda umana a non poterlo essere. Eliot è però convinto che si possano rintracciare i segni, seppure intermittenti, di una prefigurazione futura della città di Dio e questo può avvenire solo all’interno della comunità cristiana: l’immagine della Tenda di Dio piantata nel mondo che si trova nelle visioni apocalittiche di Giovanni, può aiutare a comprendere la presenza di queste comunità che sono la prefigurazione di quanto accadrà alla fine dei tempi: Little Gidding è una di esse. Il mondo per Eliot è sempre uguale, la contemporaneità comprende in sé ed è sintesi – come ripete più volte nei suoi versi – di presente, passato e futuro. I tre momenti sono mescolati in un intreccio inesplicabile, che soltanto guardando all’indietro rivela qualcosa. Perciò i segni di questa prefigurazione non possono essere visti nel presente. Il Dio di Eliot è apocalittico sia nel senso proprio del termine e cioè di rivelazione, sia nell’altro senso – come nozione corrente – e cioè di catastrofe apocalittica che riguarda l’intera storia mondana. Eliot scelse l’Europa, non solo l’Inghilterra, perché scelse prima di tutto la tradizione cristiana europea, inscindibile dalla sua poetica, dal momento che ne costituisce il nerbo, intorno al quale ruotano come intorno a un sole: il neohegelismo di Bradley, l’antropologia di Frazer, il folklore britannico, qualche maldestra incursione nel salotto di Madame Blavatskj. È la cultura di un conservatore europeo cristiano, con punte reazionarie, qualche traccia di antisemitismo e di manie esoteriche, che ripete in termini moderni il ciclo dantesco. Dall’immersione nell’inferno metropolitano (Prufrock e i primi poemi) al purgatorio di Waste Land, fino all’ascesa e il tentativo di una nuova sintesi nei Quartetti. Ripercorrendo oggi l’intera sua opera, essa appare datata in tutte le sue parti. Essa s’inscrive in una narrazione del ‘900 che è diventata nel tempo un’icona ma anche un guardarsi allo specchio, per quanto infranto esso sia, tanto da assumere anche un aspetto di manierismo narcisista, che si coglie nelle sue citazioni, che sono citazioni e niente altro. La contemplazione della decadenza, alla fine, è diventata un meta discorso, al quale Eliot cerca di sottrarsi nei Quartetti, esorcizzando però il fatto che in definitiva, il cristianesimo europeo, in tutte le sue componenti, non è stato una risposta alla crisi di civiltà ma un aspetto della medesima: non bastano due guerre mondiali, dove i popoli cristiani si sono scannati come belve a sancirlo?22 Eliot cercherà di fare un passo indietro (o avanti) rispetto alla visione apocalittica che ispira l’ultimo Quartetto – Little Gidding – affermando, al contrario, che era ancora possibile ricreare la comunità cristiana anche nel presente storico. Il tentativo si risolse in una modesta proposta nel momento in cui il poeta pretese addirittura di trasportarla dal piano poetico a quello sociale. L’illusione di ristabilire una neo medioevalista comunità cristiana non poteva che cadere nel nulla.

Little Gidding

18 Ivi.

19 Op. cit. pag.63.

20 È facile notare che, qualora si fosse interrogati su che cosa ricordiamo del ‘600 inglese e quali siano i nomi e le vicende che per primi ci vengono alla mente pensando a quel secolo, pochi storici e forse neppure molti credenti indicherebbero ai primi posti Little Gidding e Giuliana di Norwick. Si ricorderebbero la morte d’Elisabetta, di Giacomo I e quella di Shakespeare, la cui celebrità costruita nel secolo precedente è ormai affermata; si ricorderebbero  di John Donne e di John Milton, di Cromwell e della decapitazione di Carlo. Molti si ricorderebbero Locke e Hobbes e anche di Newton, che muove i suoi primi passi nel secolo. Se proprio si dovessero nominare dei gruppi religiosi probabilmente si citerebbero i Diggers e i Levellers. Tutto questo non viene considerato nell’orizzonte eliotiano e non ritengo ragionevole né esaustiva l’obiezione che alla poesia non si debba chiedere la fedeltà alla storia: prima di tutto perché per Eliot medesimo non è così e tutta la sua riflessione sul correlativo oggettivo lo dimostra.  

22 Credo sia utile ricordare il dibattito che ci fu in merito alla necessità di inserire  un richiamo alle radici cristiane dell’Europa nello statuto che fonda l’Unione Europea. La proposta fu giudicata irricevibile, direi del tutto opportunamente, dal momento che le radici europee, assai meticce e frutto di contaminazioni disparate, o vengono nominate tutte (cosa assai difficile), oppure lasciate alla sensibilità di ciascuna cultura senza ulteriori precisazioni.

T. S. ELIOT: I QUARTETTI

East Coker

Nel secolo della relatività dei concetti di spazio/tempo, Eliot ritrova l’eterno come archetipo e su di esso proietta lo scenario del secolo tragico che sta alle nostre spalle. Versi come:

O Dark dark dark. They all go into the dark/The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant/ The captains, merchant bankers, eminent men of letters,/The generous patrons of art, the statesmen and the rulers,/Distinguished civil servants, chairmen of many committees,/ Industrial lords and petty contractors,/ all go into the dark.

(O tenebra tenebra tenebra. Loro/tutti vanno nelle tenebre, nei vuoti/spazi interstellari, il vuoto/va nel vuoto, capitani uomini/d’affari, eminenti letterati generosi/patroni delle arti, uomini di stato/ e governanti, insigni/funzionari, presidenti/di molti comitati, signori/dell’industria e piccoli/imprenditori,/tutti vanno nelle tenebre, e tenebre./) 7

colpiscono profondamente chi li legge per la loro semplicità, per l’immediatezza del loro impatto sonoro e d’immagine, per gli echi che rimandano. Questo è già stato detto eppure risuona come nuovo, non l’abbiamo mai udito in questa forma, sebbene ci sia familiare. Il letterato o chi è abituato a leggere molta poesia sentirà immediatamente l’eco di riferimenti scontati: dal memento mori, al Gongora di alcuni sonetti. Anche chi letterato non è sentirà in questi versi l’eco di qualcosa di profondo e smisurato. Cosa crea questo effetto? Penso che abbiamo qui a che fare con un procedimento che consiste nell’accostare due concretezze in una similitudine asimmetrica. L’elenco di personaggi normalmente considerati impoetici (presidenti, funzionari, piccoli imprenditori ecc.) si accoppia all’altrettanto concreta indicazione di un orizzonte (la tenebra) come luogo e destino di ciò che è stato nominato in precedenza. Tornando allora alla concretezza dell’elenco precedente, ci rendiamo conto della sua finitezza e storicità; dunque della sua intrinseca limitatezza. Quell’elenco di figure che, in altri contesti, incarnano il massimo della potenza mondana, vengono da questi versi sigillati e ricondotti alla loro piccolezza. Sono due concretezze diverse che si accostano; quella di ciò che è infinitamente piccolo (pur apparendo potente) e quella di ciò che è infinitamente grande. Poste l’una vicina all’altra esse creano un corto circuito mentale ed emozionale insieme, oltre che la forza delle immagini. La precisione di Eliot nell’elencare fa risaltare questi figure e le rende  immediatamente riconoscibili; non abbiamo a che fare solo con il concreto e l’astratto, tanto meno con il generico, ma neppure con qualcosa di spiritualistico e disincarnato. È solo dopo avere dato concretezza a ognuna di queste figure e al destino che le attende che il poeta può liberare la sua poesia fino a estendere la visione a quella che chiamiamo convenzionalmente condizione umana:

And all we go with them, into the silent funeral/

(E noi tutti andiamo con loro/nel funerale silenzioso/) 8

Torniamo ancora una volta per un momento a queste figure che corrono verso la tenebra. In esse riconosciamo facilmente la mondanità del ‘900; non manca nessuno e c’è da credere che se Eliot fosse stato vivo nel pieno degli anni ’90, il suo scrupoloso elencare non avrebbe trascurato operatori di Internet, gnomi della finanza, funzionari della Big Science, guru della Silicon Valley, anchor men televisivi, brokers e riviste di informatica. È la potenza del mondo e dei suoi burocrati e funzionari, che sfilano sotto i nostri occhi; vedendo il loro destino ultimo Eliot li riduce a ombre e li fa rientrare nella condizione che ci vuole sottoposti a una legge più grande dell’umana potenza; ma c’è anche qualcosa di più perché se pensiamo bene a questo elenco e lo riportiamo all’oggi, capiremmo subito come alcune di quelle figure sono già passate in giudicato. In sostanza, la potenza mondana muta più in fretta di quanto non si creda, anche all’interno del suo codice. Con la sua precisa nominazione Eliot dice indirettamente che il poeta troppo attento al mondo o che scambia l’attualità per la storia, può finire in un vicolo cieco e non potrà certo scrivere una grande poesia. Ciò che importa però non è tanto la ripetizione di una verità che il sermone cristiano ha tramandato nei secoli con le modalità che gli sono proprie, ma la rappresentazione scenica, l’effetto di contrasto fra tempo storico ed eternità, tempo umano e tempo cosmico; la percezione di entrambi è immediata e concreta perché incarnata nella storia così come in figure emblematiche.

Eliot ha descritto questo procedimento con l’espressione di correlativo oggettivo, un concetto complesso che è il risultato di un lento distillato di riflessioni.

Se si guarda al testo poetico va detto che con esso si ritorna alla concretezza della similitudine per arrivare alla metafora e all’allegoria. Nel procedimento di Eliot la metafora non è una similitudine cui siano stati elisi i connettivi, perché essa stessa è il punto di partenza; così come lo era in John Donne, cui Eliot deve più che qualcosa, anche se quando si pensa a lui i riferimenti sono solitamente altri, Dante in primo luogo.

La prima sezione dei Four Quartets, intitolata Burnt Norton, ripropone il nesso fra luogo, tempo storico ed eternità. Nell’esplorare tale relazione Eliot si trova nel mezzo di una contraddizione: per lui, nella storia così come nella politica che la produce, non vi può essere redenzione. Il poeta, dunque, deve aprirsi a una dimensione che travalica la vicenda umana. È da questo che nasce una concezione del tempo che Eliot vede come un’unità fra passato e futuro che precipita sempre nel presente:

/Time past and time future/What might have been and what has been/Point to one end, which is always present./  9

(Il tempo passato e il tempo futuro/ciò che poteva essere e ciò che è stato/Tendono a un solo fine, che è sempre presente./)

È una concezione vicina a quella espressa da Jung nei saggi sulla sincronicità; senza per questo ipotizzare alcuna influenza diretta o indiretta, sebbene la questione vada almeno accennata.

La definizione che Eliot stesso ha dato di correlativo oggettivo, si trova un passaggio celeberrimo e molto citato dei suoi scritti teorici. Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920, così scrive:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.” E più oltre così continua: “L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione 10

Se restiamo alla lettera e allo spirito della citazione il correlativo oggettivo eliotiano non ha nulla a che vedere con il ricordo e la memoria in senso soggettivo (e la differenza con Montale, associato spesso ma arbitrariamente a lui, è cruciale), ma neppure con le epifanie joyciane o proustiane.

La memoria soggettiva, volontaria o involontaria che sia, presuppone un soggetto e un dato (oppure un oggetto ricordato), che riguardano soltanto la persona che ricorda. Naturalmente il grande poeta sa rendere universale le emozioni indipendentemente dal punto di partenza, ma qui non è in gioco il valore di un testo in sé, ma la comprensione di un procedimento: che rimane differente, perché il correlativo oggettivo necessita di una soggettività dal ruolo diverso. Il problema sta proprio nel soggetto che seleziona gli oggetti a partire da sé, mentre nel correlativo oggettivo il punto di partenza è dato da una concatenazione di oggetti o stratificazioni che portano in sé dei significati, che sono esposti allo sguardo e che hanno una relativa autonomia da chi li osserva.

Il caso più emblematico di procedimento soggettivo è quello ben noto della madeleine proustiana, un oggetto attraverso il quale il soggetto può accedere a un rimosso, facendolo rivivere; ma la madeleine di Proust sarà sempre la sua, mentre London Bridge o Burnt Norton non sono ricordi personali di T. S. Eliot, ma luoghi continuamente esposti alla vista che in un certo momento appare non semplicemente per ciò che mostra a tutti, ma trasfigurato.

Il correlativo oggettivo è altra cosa anche perché ha prima di tutto a che fare con lo spazio entro il quale sono collocati degli oggetti che portano su di essi il marchio della stratificazione delle età, come accade ai tronchi degli alberi quando vengono tagliati; mentre la madeleine proustiana ha a che fare solo con il tempo, la rimozione e lo psichico.

L’inizio della seconda sezione di Burnt Norton, più precisamente i primi quindici versi, sono un esempio emblematico del modo di operare del correlativo oggettivo eliotiano. Il primo verso è una citazione di Mallarmè, tratta da un testo che è un omaggio a Baudelaire:

/Garlic and sapphires in the mud/.

(/Aglio e zaffiri nel fango./)

In questo modo il poeta stabilisce una genealogia, una catena che instaura una fraternità poetica rivolta ai suoi sodali più vicini nel tempo: i modernisti di cui fa parte anche Laforgue, che ispirò i testi giovanili di Eliot.

Aglio, zaffiro e fango, tuttavia, sono anche tre parole molto concrete; c’è un carro che avanza faticosamente in questi versi, trattenuto da tre elementi che costituiscono la natura organica:

/Garlic and sapphires in the mud/Clot the bedded axle-tree./

(/Aglio e zaffiri nel fango./S’aggrumano sul mozzo confitto./)

Preso nel suo insieme il distico è una concrezione di senso e costituisce, come vedremo, il primo termine di paragone di una similitudine. I versi seguenti indicano una situazione intermedia:

 /The trilling wire in the blood/

(/Il filo vibrante del sangue/)

può essere il segno lasciato dal carro, metafora della condizione umana. Tuttavia questo filo non è soltanto doloroso perché:

/Sings below inveterate scars /11

(/Canta sotto le vecchie ferite/)

L’ossimoro rappresentato in questo sangue che canta, chiude una prima fase.

Il lenimento del dolore, il peso della storia, confluiscono in questo intreccio fra similitudine e metafora. I tre versi successivi diventano il secondo termine di paragone della similitudine: la raffigurazione e rappresentazione del corso degli astri. Anche in questi versi troviamo una condensazione che per forza sintetica richiama il primo distico:  

/The dance along the artery/The circulation of the lymph/are figured in the drift of stars/Ascend to summer in the tree/.12

(/La danza lungo l’arteria/la circolazione della linfa/Han figura nel corso degli astri,/raggiungono l’estate nell’albero./)

La concretezza della dizione (corso degli astri è un’espressione molto comune), richiama sia i segni dello zodiaco sia le costellazioni. Ancora una volta due concretezze asimmetriche creano un effetto di moltiplicazione del senso. Lo zodiaco e le costellazioni diventano il luogo su cui si proiettano le vicende umane; come su una tela simile a quella dove Aracne aveva rappresentato le vicende che riguardavano gli dei. Il soggetto del passaggio alla seconda parte è una danza complessa, attraverso l’arteria in cui circola la linfa vitale. Essa ha il potere di ascendere nell’albero e noi – elemento umano che compare per la prima volta nel testo – ascendiamo più in alto dell’albero stesso. In tale ascesa:

/We move above the moving tree/In light upon the figured leaf/And hear upon the sodden floor/Below, the boarhound and the boar/Pursue their pattern as before/But reconciled among the stars./ 13

(/Noi muoviamo al di sopra dell’albero/In moto/nella luce sopra le foglie/Istoriate/E udiamo sul suolo bagnato/ Lì sotto, il veltro e il cinghiale/Continuare la trama di sempre/ ma riconciliati tra gli astri./)

Ancora una volta torna in questi versi che chiudono i primi quindici una forte concentrazione di elementi concreti e simbolici. Eliot cita Dante, suo primo maestro, ma ciò che importa è quel piano acquitrinoso che segue la legge di sempre. Siamo qui in presenza di una spiritualità impastata con il fango, il peso della storia; non un’entità disincarnata. Il mondo segue la legge di sempre, ma proiettato sulla sfera celeste esso appare riconciliato perché ricondotto a un ordine superiore. Tale ordine, tuttavia, non è semplicemente quello cristiano: non si tratta in sostanza di un’assunzione al cielo. La ciclicità cui si allude in questi versi coniuga la sapienza antica dello zodiaco con il mito cristiano; ma in una mescolanza che la poesia rende inestricabile.

L’inizio della seconda sezione termina dunque con l’indicazione di un luogo, o meglio di due mondi – l’uno terrestre, l’altro celeste – che diventano i due termini di paragone di questo fitto intreccio di similitudini, ma anche di metonimie.

Nel prosieguo, tale luogo della proiezione diviene l’immobile punto dell’universo che ruota, il perno di ogni senso; simile al punto di Lagrange fra la Terra e la Luna, dove le forze gravitazionali s’equivalgono così da creare una sorta di culla astrale. È il punto della rigenerazione, molto vicino al concetto di vuoto per il Tao Te Ching; ma può essere anche interpretato come motore immobile. Più che un dio personale siamo in presenza dell’energia cosmica:

 /And the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless;/ Neither from not towards; at the still point, there the dance is,/ But neither arrest or movement. And do not call it fixity,/ Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,/ Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point,/ There would be no dance, and there is only the dance./

(/Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo, né incorporeo;/Ne muove dà né verso; al punto fermo. Là è la danza,/Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,/Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/Né ascesa né declino./Tranne che per il punto, il punto fermo./Non ci sarebbe la danza, e c’è solo la danza./)

Nel prosieguo della ricompaiono tutti gli elementi che ripropongono la drammaticità irrisolta del rovello eliotiano.

/But only in time can the moment in the rose-garden, The moment in the harbour where the rain beat,/The moment in the draughty church at smoke fall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered./ 14

(/Ma solo nel tempo il momento nel giardino delle rose./Il momento sotto la pergola dove la pioggia batteva,/Il momento nella chiesa piena di correnti d’aria all’ora che il fumo ristagna,/Possono essere ricordati, mischiati al passato e al futuro,/Solo col tempo si conquista il tempo./

È nel tempo, nel momento in cui si manifesta la rosa, ma non si tratta del tempo storico.

La terza sezione dei Quartets, East Cocker, può da sola costituire una sintesi dell’opera. I primi nove versi solenni, già citati, delineano uno scenario di grande suggestione e potenza. Gli echi che rimandano sono tanti, alcuni già ricordati. Il tono, per esempio, ricorda l’Ecclesiaste, ma anche il verso più solenne di John Donne e addirittura una eco dei suoi sermoni. Eppure la sorpresa permane. È vero che abbiamo già udito queste parole e sarà lo stesso Eliot a ricordarcelo in un verso:

/You say I am repeating/ Something  I have said before. I will say it again./

(/Dici che sto ripetendo/Qualcosa che ho già detto. Lo dirò ancora./)

Riflettendo ancora sulla concretezza della similitudine possiamo constatare che l’effetto della concatenazione diviene sempre più rarefatto e sottile; ma sempre legato a quella concretezza iniziale. L’effetto ottenuto da Eliot è lo stesso del gettare un sasso in uno stagno. I cerchi d’acqua diventano sempre più tenui quanto più ci si allontana dal punto d’impatto. Probabilmente la loro espansione è indefinita e se avessimo strumenti di misurazione potremmo verificarlo, ma anche senza di essi sappiamo intuitivamente che così è. La concretezza e la materialità di quel gesto iniziale produce un’espansione che diviene rarefatta. Mutatis mutandis, la forza della similitudine porta con sé le sottigliezze della metafora, ma le porta non astrattamente ma concretamente in sé. La rarefazione non nasce dal nulla o da un puro volo della fantasia, ma ha un ancoraggio preciso che mai viene meno e dunque non perde la sua incarnazione.

A partire da:

/I said to my soul…/

(/Dissi alla mia anima…/)

la sezione riprende il tono solenne dei primi nove versi, ma vi è anche un cambio di scena suggerito da Eliot stesso con la metafora del teatro. L’Io che viene messo in scena qui è paradossalmente impersonale. Eliot non usa noi oppure un altro pronome personale di cui la lingua inglese solitamente si serve per il pronome impersonale perché in questo caso l’io sta proprio per l’umanità intera ridotta alla sua piccolezza. Le similitudini che seguono, piuttosto elementari, si addicono proprio alle dimensioni di questo io-noi. Siamo piccoli in preda a piccoli espedienti di suggestione: siamo sgomenti persino a teatro quando cambia scena, perché avevamo sospeso il giudizio e creduto a quei colli di cartone che vedevamo; così come è sufficiente un treno fermo fra due stazioni della metropolitana per gettarci nel panico. Torniamo ora a quel distico che ci siamo lasciati alle spalle: il nono e il decimo, che chiude la sfilata delle ombre in questo modo:

/And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ 15

(/E tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso/Il funerale di nessuno, perché nessuno è da seppellire./)

Esso fa da cerniera fra i primi nove e il nuovo attacco che abbiamo già visto. È veramente necessario tale stacco da un punto di vista poetico, oppure abbassa il tono senza aggiungere altro al senso profondo di questa sezione? L’immagine del funerale silenzioso era già implicita e concretissima nella sfilata. Eliot pensa alla resurrezione nel verso finale?

La quarta sezione di East Cocker riporta al centro la figura del Cristo come chirurgo e la terra ritorna ad essere la valle di lacrime. Non sono però due Eliot; ancora una volta si ripropone qui il suo solito dilemma. Il poeta vede certamente nella conversione il modo di resistere agli aspetti deteriori della modernità, ma il ricorso al mito cristiano come elemento portante della tradizione occidentale appare a volte come una sovrapposizione alla sua poesia, altre volte come un dei tanti elementi; un mito, appunto, una narrazione non diversa da altri miti. È per questo, in definitiva, che la sua poesia è intrisa di elementi esoterici, spazia indefinitamente anche oltre la simbologia biblica.  

La quinta sezione può essere considerata una dichiarazione di poetica in versi. L’inizio è un richiamo esplicito alla Commedia

So here I am, in the middle way, having had twenty years,/Twenty years largely wasted, the years of entre deux guerres,

(/Così qui mi trovo, nel mezzo della vita, avendo avuto/ vent’anni – /vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres – /)

La consapevolezza della crisi in cui il poeta si trova e che richiama la crisi personale di Dante medesimo, assume qui degli accenti drammatici che hanno perso ogni orpello collusivo, ancora presente in Waste land, dove il sentimento della crisi non si è ancora confrontato con la seconda tragedia secolare: non bisogna mai dimenticare che questa parte dei Quartetti fu scritta nel 1942. Lo sgomento e lo smarrimento sono espressi in versi che sembrano azzerare la sezione precedente dove il chirurgo e cioè Cristo, sembrava ancora poter risanare le ferite della storia. Invece ora sperimenta:

Is a wholly new start, and a different kind of failure,/Because one has only learnt to get the better o f the words/For the thing on no longer has to say,  or the way in which one is no longer disposed to say it. And so each venture/Is a new beginning, a raid on the inarticulate/With shabby equipment always deteriorating…/ In a general mess f imprecision of feeling/Undisciplined squash  of emotions.

(/… una nuova e completa partenza, un genere diverso di /sconfitta,/perché uno ha imparato soltanto le più esatte parole/per la cosa che ormai non ha da dire, e nel modo nel quale /a dirla non è più disposto. E così ogni avventura/è un nuovo principio, un irrompere inarticolato/un equipaggiamento lacero e sempre alterato,/nel generale disordine dell’impreciso sentire,/schiere indisciplinate di emozione …/)

Il ritmo distorto, jazzistico fino all’esasperazione, fatto di cesure che si sforzano di aderire al caos che sta rappresentando sono un’irruzione che disarticola ogni parola possibile.16 Che fare allora? Nell’ultima parte, più pacata, il poeta ritrova il linguaggio solenne dell’Ecclesiaste:

There is a time for the evening under starlight A time for the evening under lamplight

(/C’è un tempo per la sera sotto al luce stellare,/un tempo per la sera sotto la lampada accesa/)

Nella chiusa si compie la metamorfosi dall’uomo che ha attraversato mille esperienze al vecchio:

Old men ought to be explorers/Here and there does not matter/We must still and still moving/Into another intensity/For a further union, a deeper communion,/Through the dark cold and the empty desolation,/The wave cry, the wind cry,  the vast waters/of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.

(/I vecchi dovrebbero esplorare/ non importa qua o là/noi dobbiamo esser quieti e quieti muovere in un’altra intensità/per una più intima unione, per una comunione più profonda/attraverso il rigore tenebroso e la vuota desolazione,/Nell’onda che grida, nel vento che urla, nelle acque immense/dell’Orca e della Procellaria. Nella mia fine è il mio principio.) 17

L’irruzione della storia e di un presente drammatico, si chiude a questi punto con un ritorno circolare su se stessa. Sarà nell’ultimo dei Quartetti che Eliot compirà un passo successivo e in qualche modo definitivo.

Funzionari

7 Da La terra desolata e Quattro Quartetti. Traduzione e cura di Angelo Tonelli, introduzione di Milosz, Feltrinelli 2000 pag. 11.  I saggi introduttivi alle sue opere sono tutti assai interessanti. A parte quelli già citati e che lo saranno nel prosieguo, importanti sono quelli scritti da Roberto Sanesi.

8 Op. cit. pag. 11.

9 Op. cit. pag. 12-13

10 T.S. Eliot, Il bosco sacro, Saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello, Bompiani 2016.

11 T.S. Eliot, Quattro Quartetti, Burnt Norton seconda sezione.

12 Ivi.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Attilio Brilli, è forse il critico italiano che ha più evidenziato che i Quartetti hanno una struttura sia concettuale sia musicale. In alcuni casi il primo tempo presenta due temi contrastanti eppure connessi tra loro. Rimando all’analisi da lui compiuta per approfondire tale tematica sebbene a me sembri che la variazione jazzistica, più che non il riferimento alla partitura di una sinfonia, sia l’elemento musicale più presente nella sua opera. Eliot è un modernista convinto anche quando critica la modernità e non mi sembra un caso, peraltro, che l’ultimo dei Quartetti – Little Gidding – sia stato musicato da Stravinskij e da Sofia Gubaidulina, esponenti dell’avanguardia musicale novecentesca. 

17 T.S. Eliot. Quattro quartetti, Traduzione di Roberto Sanesi, Book editore ed eredi Sanesi, Milano 2002, pag.46.

T. S. ELIOT, GIANO NOVECENTESCO

Introduzione

Il dilemma e l’ambivalenza in cui si dibatte l’intera opera di T.S.Eliot hanno accompagnato decenni di riflessioni sulla poesia, ma sono diventati anche il limite che ci sta sempre più distanziando dalla modernità e dalla post modernità.

Intorno al nome di Eliot, inoltre, si gioca un discorso tutto italiano che riguarda il modo in cui la sua opera è stata recepita da noi e ancor più l’accostamento che è stato proposto fra il poeta anglo statunitense ed Eugenio Montale.

Eliot è stato un personaggio icona delle lettere novecentesche, ma occorre andare un po’ più indietro nel tempo per trovare alcuni presupposti della sua opera.

Fu Hugo Von Hofmannsthal, nella Lettera di Lord Chandos, a proporre per primo un’immagine che s’imporrà negli anni successivi la fine della Prima Guerra Mondiale e che diventerà, con il tempo, uno slogan e un’icona del ‘900: lo specchio infranto e la conseguente moltiplicazione dei punti di vista come metafora della disintegrazione di un mondo e di una civiltà fondati su una solida identità.1 Che tale unitarietà e solidità esistessero davvero, prima di quel tempo, è assai discutibile e infatti tale punto di partenza è anche in parte il frutto di un equivoco, perché von Hofmannsthal fa parte di quella schiera di intellettuali della finis Austriae che colsero per primi la crisi dell’Impero austro ungarico, rimanendone però dentro i suoi recinti. La Gran Bretagna era lontana anni luce da quel mondo, eppure la Waste land è sembrata incarnare, pochi decenni dopo lo scrittore mitteleuropeo, la metafora dello specchio infranto; non solo perché un verso della prima parte riecheggia l’espressione usata da Von Hofmannsthal,2 ma per il modo stesso in cui il Novecento ha percepito se stesso.

Il poema aperto, disincantato, l’uso di registri linguistici diversi, il tono allusivo che chiama il lettore a una complicità un po’ pelosa, sono diventati nel tempo gli emblemi di tante crisi diverse fra loro, per finire nella constatazione dolente, ma più spesso compiaciuta, del relativismo e del nichilismo.

A questo quadro La terra desolata e ancora di più le opere giovanili di Eliot, quali The love song of J. Alfred Prufrock, Portrait of a lady, nonché l’immagine sintetica degli hollow men, hanno dato il loro potente contributo. Così ne parla Attilio Brilli:

The waste land, pubblicata nel 1922 … è forse l’opera del Novecento che ha maggiormente influenzato intere generazioni di poeti … La terra desolata è per antonomasia la poesia dell’angoscia e dell’alienazione. Essa mantiene integro il suo fascino di drammatica testimonianza di un’epoca nella forma frammentaria, ove l’unità è il frutto della cooperazione del lettore … ormai avvezzo e quasi naturalmente scaltrito ad operare all’interno di un sistema di agganci e di allusioni culturali.3

Si può dire che queste poche parole esprimano coerentemente uno degli assi di lettura dell’intero Novecento. La sua influenza è stata così vasta da travalicare i confini delle arti e si può convenire con Czeslav Milosz quando afferma che certe atmosfere dei film di Antonioni e Fellini:

sembrano la traduzione di una poesia di Eliot 4

Eppure, svoltato il crinale del cambio di secolo da oltre un ventennio, è lecito domandarsi se tale lettura, non sia ormai troppo datata. E se è vero che, come afferma Brilli:

pochi poemi hanno influenzato come questo intere generazioni di poeti 5

va anche detto che all’ordine del giorno di oggi non sembra più esserci la modernità in quanto tale, neppure per criticarla; nel suo inferno ci siamo scesi molte volte, il cosiddetto abisso è stato esplorato. Il postmodernismo, peraltro, ha rielaborato in forme parodistiche e paradossali i materiali della modernità, ma di fronte al caos sistemico di oggi, al ritorno delle guerre come modo di soluzione dei conflitti, abbiamo bisogno d’altro per cercare di tornare a significare il mondo in cui viviamo.

Eliot e l’eredità del ‘900.

Eliot ha rivendicato nei suoi scritti teorici la necessità di non leggere la sua opera in modo storicistico o evoluzionistico: non vi è sviluppo in essa, né progressione, a meno di sposare la tesi di un Eliot prima della conversione e di un secondo dopo la stessa. Il poeta di Saint Luis non è Manzoni; anzi, le parti della sua opera in versi più esplicitamente e dichiaratamente ispirate dalla conversione cattolico-anglicana, quali per esempio i Cori de La Rocca, sono testi minori; mentre per l’autore de I promessi sposi avviene il contrario.

Nell’opera poetica di Eliot vi è la presenza costante di alcuni temi sui quali egli ritorna, mantenendo rispetto a essi un’ambivalenza che non verrà mai meno, sebbene nell’Eliot giovane prevalga la messa a punto delle sue dramatis personae preferite: il dandy salottiero, la signora annoiata, i protagonisti del demi monde culturale di massa: The Love song of Alfred Prufrock, Portrait of a Lady. Questi testi vengono successivamente metabolizzati e resi drammatici nella Waste Land e in Hollow men.6

Quando mi avvicinai per la prima volta a Eliot da studente delle scuole superiori, il poeta era in seconda linea, almeno in Italia; a quel tempo egli trionfava come autore di teatro e ricordo una memorabile rappresentazione di Assassinio nella cattedrale cui assistemmo come classe. I Quartetti non venivano mai citati, The waste land sì, ma la lessi per la prima volta da studente universitario. Dovevano passare ancora molti anni e molte riletture prima di imbattermi nei Quartetti. Da allora in poi si rafforzò in me la convinzione che i Quartetti fossero l’opera più importante scritta da Eliot, ma anche quella che permette maggiormente di capire il limite novecentesco  dell’intero suo percorso e non soltanto di una parte di esso.

T. S. Eliot


1 . Allora … tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese né quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia;”  Dopo aver così descritto lo stato unitario del mondo, alcune pagine più avanti così prosegue la lettera: “… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni … Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto.”

Da Lettera di Lord Chandos, introduzione di Claudio Magris, traduzione di Magda Vidusso Feriani, biblioteca Universale Rizzoli 1974. Pag. 37 e 43.

2 /A heap of broken images, where the sun beats,/… (/un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole./) Da La sepoltura dei morti, in ‘T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

3 Attilio Brilli, introduzione a Quattro quartetti. Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

4 Da T. S. Eliot La terra desolata e Quattro quartetti, traduzione e cura di Angelo Tonelli. Introduzione di Czeslav Milosz. Universale Economica Feltrinelli . Aprile 2000, pag.11.

5 Attilio Brilli. Introduzione a Quattro Quartetti, Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

6 I critici cattolici insistono  molto sull’importanza di  Ash-Wendnesday (Mercoledì delel ceneri).

WALLACE STEVENS: IL MONDO COME MEDITAZIONE

Jorge Santayana

In quest’ultima parte del saggio sulla poesia di Stevens vengono esplorati alcuni territori meno frequentati ma niente affatto minori e specialmente ci si avvia verso le sue lezioni di poetica. Il mondo come meditazione non è soltanto un insieme di testi poetici, ma anche un modo di essere che permette di aprire due altri capitoli nel viaggio affascinante a fianco del poeta di Hartford. Il primo riguarda la cultura orientale.

La storia di questo rapporto viene da lontano, addirittura dagli esordi, quando il giovane Stevens, travestito da dandy, si aggirava per il Greenwich Village. Fu allora che incontrò per la prima volta il teatro giapponese. La fascinazione fu così forte che si cimentò anche con la scrittura teatrale: ben tre opere di cui non mi occuperò sia perché non sono disponibili in italiano e poco ritrovabili anche in lingua originale e in secondo luogo perché, come sostiene più di un critico, Stevens scrisse quelle pièce solo per farci capire che non era un drammaturgo. La fascinazione e lo studio della cultura orientale, invece, non vennero meno, ma si rivolsero a quella che era la sua arte, la poesia, anche se un occhio particolare lo si dovrà riservare anche al secondo dei suoi grandi amori e cioè la pittura. Utamaro e le sue belle sono presenti nella poesia degli esordi. Tale fascinazione per l’oriente in senso lato e per il Giappone in particolare lo si può cogliere, sotto traccia, nella sua poesia e in modo costante nel tempo, tanto da costituire un altro dei percorsi che rompono la sequenza diacronica del suo poetare. Vedremo nelle conclusioni come molto altro del pensiero orientale è presente in lui in modo più implicito e nascosto. Inizio l’esplorazione da un testo intitolato Tredici modi di guardare a un merlo . La sua composizione è assai originale, anche alla sola vista. Si tratta di brevissimi flash numerati. Ne riproduco alcuni:

1.

Fra venti monti innevati/la sola cosa in movimento/era l’occhio del merlo.

2.

Ero di tre opinioni,/come un albero/in cui stanno tre merli./

3.

Il merlo vorticava nei venti d’autunno./Era una parte piccola della pantomima.

In questi primi c’è un elemento dominante ed è la qualità pittorica, che ricorda certe stampe giapponesi e cinesi. Il bianco e il nero sono i colori dominanti. Nel primo e nel terzo prevale la notazione oggettiva e descrittiva: in quello di mezzo l’osservatore entra nel testo, creando una similitudine implicita. L’asimmetria fra le opinioni dell’osservatore e i tre merli introduce la meditazione nel testo, crea un chiasmo. Altri due qui di seguito ci portano in uno scenario ancora diverso:

5.

Non so cosa preferire,/la bellezza delle inflessioni/o la bellezza delle implicazioni,/il merlo che fischia/o subito dopo.

6. Ghiaccioli riempivano la lunga finestra/con vetro barbarico./L’ombra del merlo/l’attraversava, avanti e indietro./Lo stato d’animo/rintracciava nell’ombra/una causa indecifrabile./

L’osservazione oggettiva rimane nel campo della stampa giapponese, ma la soggettività dell’osservatore registra un dilemma che ha attraversato la poesia di Stevens dall’inizio alla fine e di cui abbiamo già visto esempi molto belli e significativi nelle opere della maturità: il contrasto fra ciò che ci appartiene come umani e ciò che ci è estraneo, o almeno che non è nostro nel mondo che abitiamo: la presenza animale, per esempio. L’ombra del merlo diviene così indecifrabile. Questo motivo ritorna nell’undicesimo flash, l’inquietudine diviene paura e il Connecticut non è lontano, come atmosfere e paesaggi, dal Tennessee.

XI

Attraversò il Connecticut/in una carrozza di vetro./Una volta, una paura lo trafisse,/in quanto scambiò/l’ombra del suo equipaggio/per tre merli.

Nell’ultimo flash il ritorno alla semplice contemplazione si apre già a quel sentimento di accettazione che diventerà più maturo e consapevole nelle opere finali.   

Era sera  tutto il pomeriggio,/Nevicava/E doveva nevicare/Il merlo sedeva nei rami di cedro./67

Un secondo testo, assai importante è Studio di due pere del 1938. Anche questa poesia è fatta di piccoli flash, di cui ne riporto soltanto uno.

Studio di due pere.

Opusculum paedagogum./Le pere non sono violoncelli,/nudi o bottiglie,/Non somigliano a niente altro./68

Le valenze di questo testo sono molteplici e vanno ben oltre il riferimento alla cultura orientale. Giocando sulla misura simile a quella dell’Aiku giapponese, Stevens pronuncia una sentenza che riempirà di contenuti nelle sue lezioni di poetica e negli aforismi.

Il secondo capitolo della meditazione di Stevens in versi e nelle riflessioni, ci porta a un tema lasciato in sospeso: la relazione fra il poeta di Hartford e il sentimento religioso

In The Rock, una delle ultime opere, c’è un lungo testo, un’elegia, che Stevens dedica al suo mentore: George Santayana. La poesia s’intitola To an old philosopher in Rome. Santayana trascorse gli ultimi anni della sua vita fino alla morte, avvenuta nel 1952, tre anni prima di quella di Stevens proprio a Roma.69 Stevens considerò sempre il suo vecchio docente come un maestro. Santayana insegnava ad Harvard quando il giovane Wallace s’iscrisse alla prestigiosa università. Di origine ispanica, era nato a Boston e aveva scelto gli Usa come luogo di esilio ed elezione. Di formazione cattolica, politicamente e culturalmente fu sempre su posizioni aristocratiche e quindi avverso sia agli aspetti modernisti dell’americanismo, sia al romanticismo idealistico dei filosofi come Emerson o Thoreau; infine avverso al pragmatismo tipicamente americano, nel quale vedeva un corruzione del senso. Uno strano europeo, dunque, che scelse gli Usa solo per rifiutare ogni aspetto dell’American way of life. L’evoluzione del suo pensiero avrà molti tratti in comune con quella del suo allievo. Santayana fu un uomo molto influente nella formazione dei giovani universitari del primo ‘900, ma la sua opera è stata dimenticata nonostante fosse nota fino agli anni ’30. Il suo antiamericanismo aristocratico, in una terra in cui l’aristocrazia poteva esistere solo come frammento europeo sempre più rarefatto, fanno di lui un alieno in quella cultura e questo spiega probabilmente il suo oblio nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la cultura statunitense diventerà egemone e dominante. Ci sono caratteristiche del pensiero e dello stile di Stevens, tuttavia, che lo rendono altrettanto alieno rispetto agli Usa. Peraltro, anche il loro rapporto con la religione è altrettanto controverso.

Garth Greenwell, in un saggio dal titolo A Home against One’s Self: Religious Tradition and Stevens’Architecture of thought (Una casa contro il proprio sé: Tradizione religiosa e architettura del pensiero in Stevens, sottolinea come si possono trovare nel poeta di Hartford citazioni che autorizzano qualsiasi interpretazione, riguardo al suo atteggiamento rispetto alla religione.70 Pur concordando in prima istanza, penso che sia possibile – seguendo il percorso di Stevens in parallelo a quello di Santayana – arrivare a una diversa approssimazione.

Il mondo irreligioso in cui Stevens ci aveva portati alla fine del suo poemetto più simbolista – Mattino domenicale – viene in qualche modo smentito o confermato alla fine della sua quest? To an old philosopher in Rome è solo un omaggio al maestro o qualcosa di più, una riconciliazione finale con il pensiero religioso in senso lato cristiano?  

Una celeberrima affermazione del poeta di Hartford suona così:

i grandi poemi dell’Inferno e del Paradiso sono stati scritti, ora dobbiamo scrivere i poemi della terra.”71

Accanto ad essa un’altra affermazione altrettanto perentoria  suona invece:

No one believes in the church as an institution more than I do.”

“Nessuno crede nella chiesa come istituzione più di quanto non faccia io.” 72

A quale di queste due frasi credere e sono poi così contraddittorie? Credo che, rifacendomi al testo poetico, si possano tenere separate senza preoccuparsi per il momento della loro reale o apparente contraddittorietà. To an old philosopher in Rome e un altro testo ricordato anch’esso da Greenwall (St. Armourer Church from the Oustside), vengono solitamente citati per avanzare l’ipotesi di un tardo ritorno alla cristianità.

Nei testi citati e anche in altri dello stesso periodo emerge la profonda nostalgia di Stevens per la possibilità di credere, almeno nel solco della scommessa pascaliana. Del resto, perché stupirsene? Tutta la sua opera è una quest dentro il pensiero occidentale e di ciò il cristianesimo costituisce gran parte; se consideriamo poi l’attitudine tipica di Stevens a ritornare continuamente agli stessi tropi e snodi, non stupisce che alla fine della sua vita sia tornato a queste domande fondamentali. Tuttavia, pensando all’omaggio rivolto a Santayana, il testo a lui dedicato potrebbe essere semplicemente un tenero accompagnamento del suo maestro, giunto alla soglia della fine e anche lui nostalgicamente legato, come vedremo, alla stessa possibilità. Cosa vede però il poeta in tale fine? Gli oggetti comuni che hanno accompagnato la sua vita e che Santayana medesimo ricordava spesso:

…/The bed, the books, the chair,, the moving nuns,/The candle as it evades the sight, these are/The source of happiness, in the shape of Rome,/A shape within the ancient circles of shapes,/And these beneath the shadow of a shape./

(/Il letto, I libri, la sedia, le monache che passano,/la candela mentre si sottrae alla vista, queste sono/fonti di felicità nella forma di Roma,/una forma entro gli antichi cerchi delle forme,/e questo sotto l’ombra di una forma/)73

Siamo in un convento ma anche questo non deve trarci in inganno e già il testo lo dice alludendo all’ombra di una forma. La poesia, inoltre, è un accompagnamento da lontano, come spesso avviene per Stevens, che mai si mosse dagli Stati Uniti; anzi che visse la gran parte della sua vita in uno spazio inferiore ai 100 chilometri quadrati (a parte la settimana che ogni anno lo vedeva ospite di amici, insieme alla moglie, in Florida), come se ci fosse in questo una presa di distanza dal nomadismo intellettuale così tipicamente statunitense. Dopo altre descrizioni come quella che ho citato, ecco che il poeta si rivolge a lui, al maestro:

…/ speak to your pillow if it was yourself./Be orator but with an accurate tongue/And without eloquence, o half-asleep/Of the pity that is the memorial of this room,/….

(/Parla al tuo guanciale come fosse te stesso,/sii oratore ma con lingua accurata,/senza eloquenza, oh semi addormentato,/della pietà che è monumento di questa stanza,/)

E più avanti:

/The sounds drift in. The buildings are remembered./The life of the city never lets go, nor do you/Ever want to. It is a part of the life in your room./Its domes are the architecture of your bed,/The bells keep on repeating solemn names./

(/I suoni arrivano fiochi. Gli edifici sono ricordi./la vita della città non smette mai, né tu mai/lo vorresti. È parte della vita nella stanza./Le cupole sono le architetture del tuo letto./ le campane vanno ripetendo nomi solenni./) …

Infine la conclusione:

…/It is a kind of total grandeur at the end,/With every visible thing enlarged and yet/No more than a bed, a char and mobbing nuns,/The immensest theatre, the pillar of the porch,/The book and candle in your ambered room//Total grandeur of a total edifice,/Chosen by an inquisitor of structures/For himself. He stops upon the threshold,/As if the design of all his words takes  form/And frame from  thinking and is realized./

(/E’ una sorta di grandezza totale alla fine:/tutto il visibile accresciuto e insieme/non più di un letto, una sedia, monache che passano,/il teatro più immenso, il portico con pilastri,/il libro e la candela nella sua stanza ambrata,//grandezza totale di un edificio totale/prescelto da un inquisitore di strutture/per sé. Si ferma sulla soglia,/quasi l’intento di ogni sua parola assume forma/e fattezza del pensiero si realizza./)74

Santayana giunse, alla fine della sua vita, a voler morire in un convento, ma da non credente! Lo rileva anche Greeenwall e ricorda che, secondo Harold Bloom, Stevens lesse questa scelta del filosofo come un tropismo del pathos75 e non appunto una scelta di fede. Penso si possa avanzare l’ipotesi che Stevens abbia visto in Santayana, suo alter ego morale e spirituale, qualcosa che poteva illuminare anche lui stesso e se si seguono i due pensieri in parallelo, tale scelta diventa assai plausibile. Entrambi hanno percorso l’intero arco della civiltà occidentale (Stevens di più perché il richiamo agli dei precedenti e al mondo greco e romano sono sempre presenti sotto traccia), entrambi hanno valutato il valore della fede, ma alla fine del loro percorso, riconoscono la grandezza del mito cristiano, ma lo intendono entrambi come mito fra i miti. L’omaggio che Santayana rivolge a Roma e a uno degli edifici più simbolici della civiltà cristiana (il convento nel suo caso, insieme all’eremo e alla chiesa), sono l’omaggio a una civiltà e non alla lettera della fede: quel convento, infatti, come abbiamo visto nei versi di Stevens e ancora più nel finale della poesia, non è pieno di dei e neppure delle loro tracce, per citare il famoso slogan di Heidegger, ma di libri, di monache che vanno e vengono, di tranquilla e serena attesa della fine. Sembra logico pensare che nei versi dedicati al suo vecchio maestro, Stevens ci ha lasciato un segno che riguarda lui medesimo, che a quella soglia arriverà pochi anni dopo.  

Quanto alla sua seconda frase in cui richiama il proprio attaccamento alla chiesa come istituzione, essa potrebbe avere un altro significato. In tale affermazione Stevens parla da uomo appartenente a quell’ambiente statunitense di high middle class che poteva trovare nel vecchio aristocratico Santayana quel residuo di una cultura d’antan: l’America agiata del primo decennio del secolo. Forse fu questa appartenenza la ragione di quella particolare intesa che si avverte anche nell’epistolario che Stevens intrattenne con Marianne Moore, con la quale s’incontrò una sola volta a un convegno, ma che poteva capire benissimo, anche nelle sue diverse eccentricità. In sostanza, la high middle class non ha mai dimenticato che la Chiesa come istituzione è pur sempre il coagulo concreto e istituzionale della filosofia del popolo e un popolo che alla religione si affida, è meno incline ad assumere comportamenti ribelli o rivoluzionari. L’appartenenza di Stevens a questo modo di essere e a questo stile, prima ancora che a una classe in senso prettamente economico, è quello tipico di conservatori che lo sono per un dna che portano in sé, liberi anche di prendere posizioni suggestivamente lontane da quel cliché senza per questo fuoriuscirne: è il caso di certi interventi di Stevens.76 È un atteggiamento che ha a che fare con abitudini di vita, letture, bon ton e buen vivir. Tutto questo appartiene loro con una punta di maggiore sobrietà nel caso di Moore, per via della rigida educazione presbiteriana. Tale appartenenza alle istituzioni tipiche di quel mondo, ha un rapporto con la fede che può essere assai elastico.

Frederick Jameson, nel suo monumentale libro sul postmodernismo pubblicato nel 1991, così si esprime nel primo paragrafo, a proposito delle arti del ‘900: 

… Thus abstract expressionism in painting, existentialism in philosophy, the final forms of representation in the novel, the films,…  or the modernist school of poetry (as institutionalized and canonized in the works of Wallace Stevens) all are now seen as the final, extraordinary flowering of a high-modernist impulse which is spent and exhausted with them.

Perciò l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo in filosofia, le forme finali di rappresentazione nel romanzo, i films … o la scuola modernista in poesia (così come è stata istituzionalizzata e canonizzata da Wallace Stevens), sono ora tutte viste come la finale straordinaria fioritura di un impulso modernista alto, che si è spento ed esaurito con loro.77

Quando Jameson parla di Stevens in questo modo non lo intende forse come l’ultimo dei classici, cioè appartenente alla grande cultura borghese, dissolta in Europa da due guerre mondali prima che dalle avanguardie artistiche, come troppo spesso si dice invertendo l’ordine di grandezza dei fattori, mentre negli Usa essa aveva ancora una vitalità che si sarebbe esaurita con quella generazione? Anche se è sempre possibile che ci sia un ultimo classico che viene dopo l’ultimo classico precedente, di certo non possiamo trovarlo in Andy Warhol, nella Beat Generation, negli urli di Ginzberg, nonostante la loro drammatica forza espressiva, nelle sbronze letterarie di Kerouac e Gregory Corso, oppure nel solitario Ferlinghetti che di quella generazione fu l’editore, ma che personalmente si tenne sempre alla larga dai loro eccessi. Forse possiamo ritrovarla in alcuni narratori, ma rimane profonda l’intuizione di Jameson: quella generazione di poeti e scrittori statunitensi, cui si possono aggiungere i nativi come William Carlos Williams, Robert Frost, Cormac McCarthy, Don De Lillo, oppure l’Arthur Miller di Morte di un commesso viaggiatore, furono gli ultimi rappresentanti della cultura borghese nelle sue vette più eccellenti. Chi venne dopo e si ribellò a certi suoi stilemi, o chi uscì come dissidente dalle società del socialismo reale, dimostra fra l’altro che il tentativo di superare la grande cultura borghese è assai arduo, fallito in alcuni tentativi quale per esempio il realismo socialista. Quanto agli uomini o alle donne come Stevens e Moore, non si può pretendere che superassero i limiti dell’ideologia personale e della loro classe. Facile rimproverare loro che proprio l’affluente sistema capitalistico statunitense avrebbe dissolto ogni vincolo sociale e cultura, aprendo le porte al postmodernismo, cui il ribellismo impotente e anche un po’ sciocco della Beat Generation offrì una sponda – appunto ribelle – ma niente affatto rivoluzionaria. Quanto accadde dagli anni ’80 in poi è lì a dimostrarlo e le conseguenze le vediamo tutte oggi con estrema chiarezza. Se mai si potrebbe aprire un altro filone di ricerca e cioè se la cultura musicale nera, Pete Seeger, Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springteen, Patty Smith, poeti e scrittori come Audre Lord, James Baldwin e Toni Morrison, possano rappresentare il germe di un percorso capace di conciliare cultura popolare di massa e alta cultura; ma questa ricerca esula dai limiti di questo studio.

Stevens morì nel 1955 quando ancora, uno come lui, che non ha mai accarezzato l’idea di una trasformazione radicale della società statunitense, poteva coltivare il sogno di un’alta cultura in una società di buone regole e bon ton. Marianne Moore, morendo nel 1972, si rese conto che ciò era sempre meno possibile: smise allora di scrivere, ritirandosi nella propria solitudine, ma senza sbattere porte. Del resto, lei che era stata editrice della rivista Dial e quindi in qualche modo militante, se n’era resa conto ben prima quando, pur pubblicandolo, aveva severamente rimproverato Ginzberg  per i suoi eccessi linguistici e non.

Stevens, infine, come tutti gli statunitensi dell’epoca, aveva un reale timore del possibile scoppio di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Tuttavia, in lui non vi fu mai alcun cedimento al millenarismo apocalittico statunitense. Anzi, proprio perché aveva una paura reale e non nascosta della possibilità di una guerra atomica, il suo esempio è ancora più significativo. Le aberrazioni del millenarismo politico, l’invocazione addirittura dell’Armageddon da parte di consiglieri di stato deliranti, che continuano a essere anche oggi una parte rilevante dell’americanismo reale non trovarono in lui e in Marianne Moore una sponda. Espressioni come la missione degli Usa nel mondo e i toni mistici che tale espressione si porta dietro sono estranee al suo linguaggio e questo non è poco. 78


67 Wallace Stevens Harmonium, a cura di Massimo, Einaudi Torino 1994, pp. 116-21

68 Op. cit. pag. 271.

69 Stevens morì nel 1955 a causa di un tumore.

70 Garth Greenwell, The Wallace Stevens Journal, volume 33 numero e Autunno 2009, pag. 147.

71 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo.

72 La seconda citazione è tratta dalla lettera 348. Io l’ho ripresa dal saggio di Grath Greenwell intitolato A Home against one’s  self. Religious tradition and Stevens. Architecture of thought. Il saggio è pubblicato sul numero due  Volume 33 del Wallace Stevens Journal, pubblicato dalla Wallace Stevens Society, Usa 2009, alla pagina 148.

73 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi Torino 19994, pp. 558-9

74 Op. cit. pp. 562-3

75 Op. cit. pag. 153 alla fine. Il saggio di Greenwall, in ogni caso è nella sua interezza assai importante. 

76 Mi riferisco a interviste varie, al dialogo che ebbe con critici che appartenevano all’ambito della sinistra e persino a un singolare omaggio a Stalin durante una conferenza dal titolo Il nobile Cavaliere e il suono della parole, che si trova nella raccolta di saggi più volte citata, dal titolo generale L’angelo necessario.

77 Frederick Jameson: Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism Verso, 1991, paragrafi iniziali.

78 Sull’uso del linguaggio apocalittico da parte di politici e consiglieri di stato statunitensi è utile leggere il libro di David Noble intitolato La Religione della tecnologia, Edizioni di Comunità, Torino 2000.

WALLACE STEVENS: LA POESIA SFIDA IL PENSIERO

Poets in the city: Wallace Stevens

Le Notes toward a supreme fiction (Note verso una finzione suprema) sono una meditazione in versi scritta nel 1942. L’opera è suddivisa in tre parti, intitolate: It must be abstract (Deve essere astratta), It must change (Deve cambiare) e It must give pleasure (Deve dare piacere.) Queste tre sezioni sono a loro volta suddivise in dieci stanze di 21 versi ciascuna suddivisa in sette terzine. Non sono esperto di numerologia, ma diversi critici hanno sottolineato la non casualità di tali scelte. Alle tre sezioni indicate avrebbe dovuto seguirne una quarta dal titolo It must be human (Deve essere umana), che il poeta non scrisse.

La metrica è solenne, il tono è alto: sono tutti blank verse, a volte maggiorati di un piede. È la misura più classica della poesia inglese, paragonabile all’endecasillabo, nel quale spesso Stevens sconfina, peraltro. L’uso della terzina, poi, con il suo andamento concatenato che ricorda anche il passo lento e costante di un viaggiatore che s’incammina verso una meta, sono una spia ulteriore dell’intenzione del poeta. Il richiamo dantesco è presente nel testo, ma non dobbiamo intenderlo in senso metafisico, né come citazionismo. Le Note, come ben afferma Nadia Fusini nel suo studio dedicato a quest’opera, sono una vera e propria quête, cioè un viaggio iniziatico, la cui meta però non sono le altezze del paradiso, ma quello che Stevens definirà come Canto della terra.28 L’anno in cui il poema è stato composto è per gli Usa la fine dell’illusione di star fuori dal conflitto mondiale: dopo Pearl Harbour i preparativi sono divenuti frenetici e le ultime resistenze della popolazione sono cadute. Non vi è una traccia diretta degli eventi storici nel poema – Stevens lo farà in un altro testo – ma se si torna al discorso dei due leoni, della necessità cioè che il leone del liuto non sia una pura fantasticheria ma un severo confronto con la pressione esercitata dal leone del reale, forse non è causale che la meditazione probabilmente più alta dell’intero percorso compiuto dal poeta, si collochi proprio in quel momento storico. L’inizio e cioè i primi sei versi della prima sezione indicano il tema del poema:

/Begin, ephebe, by perceiving the idea/Of this invention, this invented world,/The inconceivable idea of the sun.//You must become an ignorant man again/And see the sun again with ignorant eye/And see it clearly in the idea of it.//

(/Comincia, o efebo, col percepir l’idea/Di questa invenzione, questo mondo inventato,/L’inconcepibile idea del sole.//Devi tornare l’uomo ingenuo che eri/E vedere il sole con occhio ingenuo/ E vederlo chiaramente nell’idea.//)

Tale invocazione, non si rivolge alla musa o a figure trascendentali, ma a un efebo, immagine di una verginità dello spirito, tendenzialmente ermafrodito. Continuando sempre con la prima sezione e sempre rivolto all’efebo Stevens scrive:

/Never suppose an inventing mind as source/Of this idea not for that mind compose/ A voluminous master folded in his fire.//How clean the sun when seen in its idea/Washed in the remotest cleaness of a heaven/That has expelled us and our images …/

(/Non supporre mai una mente che crea all’origine/Dell’idea non creare per quella mente un ingombrante/Padrone avvolto in lingue di fuoco.//Com’è terso il sole se visto nell’idea/Purificato nella remota chiarità di un cielo/Liberatosi delle nostre immagini e di noi …//) 29

È solo tornando all’idea originaria del sole, che noi possiamo vederlo nella sua essenza, senza caricarlo di simboli o di idee che l’umano ha elaborato intorno alla stella: torna in questi versi una eco dell’ottava sezione di Sunday Morning.

Il tema è la meditazione sulla poesia, i suoi strumenti, il suo valore conoscitivo e il suo ruolo nella contemporaneità. La polarità immaginazione-realtà è qui in seconda linea perché la necessità primaria è porsi di fronte all’oggetto sgombri da ogni pregiudizio o idea precedente: questo il senso dell’esortazione a tornare ingenuo, rivolta all’efebo.30 È ancora una volta il tema dell’ultima sezione di Mattino domenicale, che da meditazione finale di quel percorso, diventa nelle Note punto di partenza. In Stevens, come dice ancora Nadia Fusini:

Il senso si costruisce così, per insistenza, ripetizione, ritorno31

Tuttavia un altro elemento va considerato oltre a questi: si tratta delle variazioni che il poeta introduce ogni volta che ritorna ai luoghi topici della sua poesia, variazioni che con il tempo non solo chiariscono sempre di più, con apporti continui di senso, la ricchezza della sua trama poetica, ma che diventano delle vere e proprie metamorfosi in atto. È quest’ultima caratteristica che diviene essenziale anche per chi legge: abbiamo sì la sensazione di tornare sempre laddove siamo già stati, ma il procedimento decreativo di Stevens non è una tela di Penelope, è una costruzione che si modifica ogni volta senza mai buttare via tutto quello che si era raggiunto in precedenza, ma conservandone invece una parte per trasformarla. Si tratta piuttosto di liberarsi di volta in volta delle scorie, salvando però il nucleo centrale dell’intuizione. Tale procedimento non porta all’accumulo, ma alla necessità di cambiamento che viene indicata nella seconda sezione delle Note (It must change). Torniamo però alla prima sezione intitolata Deve essere astratta. L’idea di astrazione, in Stevens, va intesa diversamente da come normalmente si pensa a questa parola, specialmente in relazione alla filosofia. Il poeta esorta l’efebo a liberarsi, nel guardare il sole, di tutte quelle ombre della lingua e del pensiero che impediscono alla visione di afferrarne la prima idea, l’idea originaria del sole. Piuttosto che di astrazione, siamo qui in presenza di un procedimento di spoliazione o rarefazione progressiva, di un invito a sospendere tutte le affermazioni fatte intorno alle cose reali, così da poterle vedere nella loro nuda essenza. È solo quando avremo tolto questi orpelli del pensiero, le scorie di cui si è detto più sopra, che – secondo Stevens – la realtà si risveglierà, al di là di ogni metaforica evasione; le cose, allora, cominceranno a parlare la loro lingua, a risuonare della loro musica: è il canto della terra.

Lo stile stevensiano, fatto di ripetizioni e accostamenti paratattici, ci permette d’introdurre un discorso che riguarda la tradizione. Vi sono concetti e parole che hanno una storia e anche un peso, se noi accettiamo di considerare il punto di vista di una tradizione che si estende a tutte le civiltà poetiche. Per rimanere in occidente, un lessico apparentemente così comune come quello usato da Stevens (il sole, il giorno e la notte), può essere accolto da uno sguardo ingenuo solo se si libera delle troppe costruzioni di senso. Le parole chiave di questa prima sezione girano intorno al tema dell’idea prima, dell’origine, su cui grava il peso della storia, ma anche quello della nostra semplice presenza di umani in un mondo che non è solo nostro. A volte il pensiero poetante di Stevens sfugge nella meditazione pura, non sempre facile da seguire, creando immagini concettuali  sorprendenti e a volte oscure, che sfociano però sempre in soluzioni che creano nuove immagini di grande limpidezza espressiva. Così nella quarta stanza Adamo è già padre di Cartesio, nel senso che la razionalizzazione matematico geometrica del mondo inizia già nell’Eden e quanto agli umani:

We are the mimics. Clouds are padagogues//… (/Noi siamo i mimi. Le nuvole i nostri maestri./) 33

L’umano turba l’idea prima e svolge un ruolo ambivalente che tormenterà il poeta per tutta la vita. Nella chiusa della quinta stanza, seppure con un tono ironico, la presenza dei sapiens sapiens rompe l’equilibrio naturale:

/These are the heroic children whom times breeds//Against the first idea – to lash the lion,/Caparison elephants, teach bears to juggle//…

(/Questi sono i giovani eroi che l’epoca genera//Contro la prima idea – per frustare il leone/Bardare l’elefante, domesticare l’orso nel circo.//) 34

Gli umani come progetto sbagliato della natura? Ci sono scienziati che lo sostengono, ma vennero tutti dopo.

Tuttavia, nella settima stanza, il destino degli umani si muta in qualcosa di diverso, cioè in un accesso possibile che sa ancora aprirsi a quell’andare fortuito verso le cose, che metta fra parentesi la ragione; allora:

/The truth depends on a walk around a lake … (/La verità dipende da una passeggiata/intorno al lago…)

e  nella chiusa della medesima:

/Perhaps there are moments of awakening./Extreme, fortuitous, personal in which//We more than awaken, sit on the edge of sleep,/As on an elevation, and behold/The academies like structures in a mist.//

(/Forse ci sono momenti di risveglio,/Estremi, fortuiti, personali, quando/…/Più che svegli, sediamo sull’orlo del sonno,/ Come su un’altura, e guardiamo/le accademie come fossero strutture di nebbia./) 35

Nell’ultima stanza Stevens si rivolge di nuovo all’efebo e torna all’umano, ma un umano che ha perso i suoi orpelli e che ritroveremo nelle opere della maturità: non più l’eroe che combatte (e siamo nel 1942!), ma l’uomo comune. Riporto l’intera sezione nella traduzione di Nadia Fusini:

/The major abstraction is the idea of man/And major man is the exponent, abler/In the abstract than in his singular,//More fecund as principle than particle,/Happy fecundity, flor-abundant force,/In being o more than an exception, part.//Though an heroic part, of a commonal,/The major abstraction is the commonal, /The inanimate, difficult visage. Who is it?//What rabbi, grown furious with human wish,/What chieftain, walking by himself, crying/Most miserable, most victorious,//Does not see the separate, figures one by  one,/And yet see the only one, in his old coat, /His slouching pantaloons, beyond the towns,//Looking for what was, where it used to be?/Cloudless the morning. It is he. The man/In his old coat, those sagging pantaloons,/it is of him, ephebe, to make, to confect,/the final elegance, non to console/Nor sanctify, but plainly to propound. //

(/L’astrazione maggiore è l’idea di uomo/E l’uomo maggiore il suo esponente, più capace/Nell’astratto che nel singolo caso,//Più fecondo come principio che come particella,/Felice abbondanza forza flor-abundante,/In quanto parte più che eccezione,//parte anche se eroica di ciò che è comune./L’astrazione più grande è il volto/Difficile, anonimo, dell’uomo comune. Chi è?//Quale rabbino, invasato di umano fervore/Quale capitano che cammini solo, piangente,/Il più miserabile, o il più vittorioso,//Non vede queste figure staccate, una per una?/E tuttavia una sola, un vecchio cappotto,/Un paio di pantaloni sgualciti, di là dal villaggio,//In cerca di ciò ch’è stato, com’era una volta.//Senza nubi il mattino. È lui l’uomo ravvolto/Nel vecchio cappotto, i pantaloni cascanti,//Di lui, efebo, dovrai fabbricare, ad arte/Confezionare l’eleganza finale, non per consolare/Né consacrare, ma solo presentare./)36

La seconda sezione s’intitola Deve cambiare. L’idea di metamorfosi è una presenza costante nell’opera di Stevens, ma in questo caso viene nominata espressamente. Dalla pittura l’accento si sposta sulla scultura, un’arte del tutto particolare, nel senso che la durezza dei suoi materiali evoca la pesantezza della staticità e quindi il contrario del cambiamento. Nella terza stanza la scultura è quella che immortala il generale Du Puy e sarà un’altra statua – quella di Bartolomeo Colleoni scolpita da Verrocchio – a occupare larga parte di uno dei suoi saggi più importanti.37

 /The great statue of general Du Puy/Rested immobile, though neighboring catafalques/Bore off the residents of its noble Place.//The rights, uplifted foreleg of the horse/Suggested that, at the final funeral,/The music halted and the horse stood still.//On Sundays, lawyers in their promenades/Approached this strongly-heightened effigy/To study the past, and doctors, having bathed//Themselves with care, sought out the nerveless frame/Of a suspension, a permanence, so rigid,/That it made their General a bit absurd,//Changed its true flesh to an inhuman bronze./There never had been, never could be, , such /A man. The lawyers disbelieved, the doctors,//Said that as keen, illustrious ornament,/As a setting for geraniums, the General,/The very Place Du Puys, in fact, belonged//Among our more vestigial states of mind./Nothing had happened because nothing had changed./Yet the General was rubbish in the  end.

(/La grande statua del generale Du Puy rimase /Immobile, mentre i vicini catafalchi inghiottivano/I residenti della nobile piazza.//La zampa destra del cavallo alzata/ Suggeriva che all’atto conclusivo del funerale/La musica/s’era arrestata e il cavallo ristette immobile.//La domenica gli avvocati passeggiando/Accostavano l’effigie austera in alto levata/Per studiare il passato, e i dottori,//Dopo accurati lavacri,indagavano la struttura/Inerte sospesa a una permanenza tanto rigida/Che rendeva il generale alquanto ridicolo,//E mutava la carne vera in bronzo inumano./Non c’era mai stato, né avrebbe potuto, un uomo/Così gli avvocati dubitavano, i dottori//Dicevano che il generale, la piazza Du Puy stessa,/Erano l’ornamento illustre, perfetto/Per i gerani, il vanto, la testimonianza//Tra le vestigia del nostro intelletto./Nulla era accaduto poiché nulla era mutato./Eppure il generale finì nell’immondizia.//)38

Una sottile ironia percorre l’intero testo, evocando al tempo stesso l’immutabilità della storia e il suo peso: la statua sopravvive a tutti coloro che hanno popolato quella piazza, ma solo come immagine sinistra d’immutabilità. Vale forse la pena di ricordare che non è estranea all’ironia il ricorso stesso a una figura come un generale tutto sommato anonimo, nel quale si possono anche identificare due personaggi diversi, anche se penso che si riferisca a quello che ebbe una parte importante nella Rivoluzione Francese. Nella stanza che segue, la quarta, Stevens contrappone alla staticità della scultura, l’immagine degli opposti che danno vita la cambiamento:

/Two things of opposite nature seem to depend/One another, as a man depends/On a woman, day on night, the imagined//On the real. This is the origin of change./Winter and spring, cold copulars, embrace/And forth the particulars of rapture come.//

(/Due cose di opposta natura sembrano dipendere/L’una dall’altra, come l’uomo dipende/Dalla donna,/il giorno dalla notte, l’immaginato//Da ciò che è reale. Questa è l’origine del mutamento/L’inverno e la primavera, gelidi congiunti, s’abbracciano/E alla luce nascono i particolari dell’estasi./)

La chiusa della sezione è ancora più esplicita:

/The partaker  partakes of that which changes him./The child that touches takes character from the thing,/The body, it touches. The captain and his men//Are one and the sailor and the sea are one./Follow after, O my companion, my fellow, my self,/Sister and solace, brother and delight.//

(/Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta./Il bimbo che tocca prende il carattere della cosa,/Del corpo che tocca. Il capitano e i suoi uomini//Sono tutt’uno e così il mare e i marinai./Seguita tu compagno, mio prossimo, me stesso, /Sorella e sostegno, fratello e diletto.//) 39

In questi versi Stevens rovescia la figura dell’ipocrita lettore di Baudelaire, ripreso da Eliot, per farne una figura del tutto diversa. Penso che il poeta di Hartford, in ogni caso, avesse in mente il secondo e non il primo perché, pur essendo identiche, le due formule hanno un senso diverso, dal momento che una citazione ha comunque un altro valore rispetto all’originale. Il verso di Baudelaire smascherava il linguaggio aulico e la figura sacrale del poeta contrapposta all’uomo comune, rovesciando al tempo stesso il linguaggio amoroso nel suo controcanto e invitando il lettore a uscire egli stesso dall’inganno e dalla complicità con il poeta. L’ipocrita lettore di Eliot, invece, s’inscrive nel solco del Tramonto dell’Occidente, per citare il libro di Spengler. Quello che Stevens propone al lettore è un patto di tipo nuovo, che spazza via ogni indulgenza verso il narcisismo del decadere, che del verso di Baudelaire hanno fatto in troppi, proponendo invece un patto di fratellanza e di sorellanza fondato sulla comune appartenenza al genere umano.40

Nella quinta stanza, all’inizio, Stevens ritorna al tema delle cose che permangono dopo di noi (un tema carissimo anche a Borges), ma in questo caso, esse a differenza della statua, esse sono un esempio di mutamento:

/On a blue Island in a sky-wide water/The wild orange trees continued to bloom and to bear,/Long after the planter’s death. A few limes remained,//Where his house had fallen, three scraggy trees weighted /With garbled green. These were the planter’s turquoise/And his orange blotches, these were his zero green,//A green backed greener in the greenest sun./…

(/Su un’isola azzurra in un ampio cielo d’acqua/gli aranci selvaggi seguitarono a dar fiore e frutto,/molto tempo dopo la morte del piantatore. Rimanevano//dov’era caduta la sua casa, tre scabri alberi di cedrina/grevi di mutilo verde./ Erano le chiazze turchesi e arance/del piantatore, erano il suo verde assoluto./…) 41

L’agricoltura, la base di ogni vita, delle stagioni che ritornano, i colori fulgidi ma anche normali di una natura che il lavoro umano non ha distrutto, ma valorizzato. Le stanze finali andrebbero citate tutte e per intero, sia per la loro bellezza, sia per la densità che esprimono. In esse, precisamente nell’ottava, appare rapidamente un’altra delle figure di Stevens, Nanzia Nunzio, la sposa di Ozymandias, che rimanda a Shelley. Metafora dell’incontro fra uomo e donna ma anche di realtà e immaginazione, il matrimonio non può essere mai del tutto raggiunto ma sempre sul punto di esserlo. Il poeta romantico inglese, evocato in questa sezione, torna della decima e ultima con la citazione del vento occidentale come fattore di mutamento continuo, di rimescolamento e metamorfosi ininterrotta.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere ed è fra le tre la più complessa e anche quella in cui il pensiero poetante entra ed esce dai confini che lo separano dalla filosofia. Il piacere di cui il poeta intende trattare è di ordine estetico e conoscitivo. La figura centrale di questa parte è il canonico Aspirin, non lontano dall’Angelo, anzi, tappa di avvicinamento a questa figura che il poeta metterà compiutamente in scena alla fine di Auroras of autumn.

Per delineare i contorni del piacere che la poesia deve dare Stevens ricorre a una serie di esempi, fra i quali scelgo per primo quello della festa.

/We drank Meursault, ate lobster Bombay with mango/Chutney. Then the Canon Aspirin declaimed/of his sister, in what a sensible ecstasy/She lived in her house…

(/Bevemmo Meursault, mangiammo aragosta Bombay/con salsa di mango. Poi il Canonico Aspirina declamò/della sorella/in quale estasi composta/abitasse la sua casa/)

Quando leggiamo questi versi, non sappiamo chi sia il soggetto della narrazione. L’iniziale noi si riferisce a un gruppo generico di persone. Con il secondo verso il Canonico Aspirina diviene protagonista del testo, ma è qualcun altro che sta parlando di lui. Il linguaggio è colloquiale e piano, il setting facile da definire: una festa importante, vista la preziosità dei cibi.  

Il Canonico Aspirina declama, una parola altisonante e in apparenza distante dall’atmosfera famigliare e ciò che egli declama è ancora più sorprendente: come sua sorella viva felice nella propria casa. Per lei, la sorella, tutto questo rappresenta una concreta estasi, un’altra coppia di termini di una certa importanza. Tuttavia, ancora  una volta, i protagonisti del canto sono destinati a cambiare rapidamente, ma è sempre qualcun altro che parla di volta in volta di loro. La sorella del Canonico è ora divenuta la figura in primo piano, solo che – come vedremo presto – è assente. Questa prospettiva tridimensionale costruita attraverso il linguaggio rimanda alla pittura: 

/…She had two daughters, one/Of four, and one of seven, whom she dressed/The way a painter of pauvred colors paints.// But still she painted them, appropriate to their poverty…./ 

(/Aveva due figlie, una /di Quattro anni l’altra di sette, che abbigliava/come dipinge un pittore parco di colore./Ma pur le dipingeva, in maniera conforme/alla loro povertà./)

Il dipingere, in questo caso, diviene metafora della poesia e sembra che Stevens stia suggerendo che anche la poesia può essere fatta di elementi poveri e prendere ispirazione dalle cose più comuni; per esempio una serata famigliare e colloquiale.  C’è di più: i colori, le forme, gli strumenti, sono appropriati alla loro povertà. Quanto al modo di procedere del testo è anch’esso assai pittorico e al lettore sembra quasi di assistere alla composizione di un affresco: prima un dettaglio sulla tavola imbandita, poi un personaggio, poi un altro. Solo alla fine del canto, forse, riusciremo ad afferrare il senso dell’intera composizione? Ci aspetteremmo qualcosa di più sulla sorella; invece, dopo aver continuato a descrivere i colori usati da lei, il Canonico tace. 

/The Canon Aspirin, having said these things,/Reflected, humming an outline of a fugue/Of praise, a conjugation done by choirs.//Yet when her children slept, his sister herself/Demanded of sleep, in the excitements of silence/Only the unmuddled self of sleep, for them/ 

(/Il Canonico Aspirina, dette queste cose, rifletté, canticchiando una fuga abbozzata/di elogio, una coniugazione per cori//Però quando le bimbe dormivano, sua sorella/chiese per se stessa il sonno/nel giubilo del silenzio/per loro soltanto l’io inconfuso del sonno./) 42

Questi versi sono davvero sorprendenti e polisemantici! Non solo tutto quanto precede è un parlare di assenti, ma nel momento in cui la sorella – vera protagonista della serata e della festa che si svolge proprio a casa sua – si materializza, lo fa per porre fine alla serata. La fuga improvvisata dal Canonico, anticipa quel momento di silenzio ed esaurimento del parlar conviviale, che precede i saluti di congedo. La composizione finale della scena ci fa comprendere, come in una retrospettiva, che la serata era andata avanti da molto tempo e che la sorella si era assentata proprio per mettere a letto le due figlie.

Fermiamoci un momento e poniamoci una domanda. I versi di cui sopra sono tratti dalla quinta stanza. Se Stevens, nella stanza successiva, avesse cambiato scenario, nessuno – credo – potrebbe pensare che quella precedente non sia risolta. La sua complessità, la tridimensionalità e le qualità pittoriche sono tutti elementi adeguati e coerenti con la situazione. Tuttavia, il Canonico Aspirina (un personaggio metafora della poesia stessa) non può fermarsi a questo.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere, ma si tratta di un piacere diverso da quello che può scaturire dalla rappresentazione di una festa conviviale, sebbene anche da questo la poesia possa partire. Del resto, Stevens lo aveva scritto nel primo canto di questa terza sezione:

/To sing jubilas at exact, accustomed times,/……./To speak of joy and to sing of it, borne on/the shoulders of joyous men,… This is a facile exercise …

(/Cantar jubila a scadenze esatte e fisse,/… parlar di gioia e cantarne,/portati a spalla da uomini gioiosi … Questo è un facile esercizio …/) 43

Anche condividere una festa può essere un facile esercizio. Ciò che accade nella sesta sezione è la trasformazione alchemica di quell’esperienza concreta, in sé già preziosa, in una metamorfosi che trasfigura la sostanza dell’esperienza festa, ora che essa è finita. Il silenzio che segue e che era stato anticipato dalla intonazione di una fuga, diviene il preludio a qualcosa d’altro. Il Canonico – tornato nel frattempo a casa sua e in procinto di addormentarsi – vive l’esperienza della solitudine, quel vuoto che segue gli incontri conviviali piacevoli.

/The nothingness was a nakedness, a point,// Beyond which fact could not progress as fact./

(/Il nulla fu una nudità, un punto/Oltre il quale il fatto in quanto fatto naufragava./)

Il piacere di condividere una festa non può essere esteso in modo indefinito, in quanto evento concreto, ma solo essere trasfigurato e tale processo ha a che fare con un materiale diverso, di tipo mentale. Si tratta di intonare il nudo fatto con la sua trasfigurazione e allora cosa vede il Canonico Aspirina?

/So that he was the ascending wings he saw/And moved on them in orbits’ outer stars/Descending to the children’s bed, on which// They lay. Forth then with huge pathetic force/Straight to the utmost crown of the night he flew./The nothingness was a nakedness, a point// Beyond which thought could not progress as thought./…

(/Così egli divenne le ali stesse della visione che vedeva/e ascese alle orbite più lontane delle stelle/discese al letto delle bimbe, dove/esse dormivano. Poi con impeto di passione/volò diritto al culmine della notte/Il nulla fu una nudità, un punto/oltre il quale il pensiero come tale naufragava./) 44

Le orbite delle stelle più lontane e il letto delle bambine sono i due estremi di una più ampia armonia che va oltre il pensiero perché è fusione fra la sostanza materiale delle cose e la sostanza materiale della mente. Tale più ampia consapevolezza non proviene dal pensiero o da un occhio che guarda dal di fuori e che domina la scena, ma da una percezione che sta internamente sia alle cose comuni, sia a quelle più vertiginose: le stelle più lontane (metafora delle altezze cui può aspirare la poesia) e il letto dove dormono le nipotine hanno la stessa importanza. In questi due canti Stevens non si limita a riproporre uno dei leit motiv  più celebrati della sua opera e cioè il confronto fra il leone del liuto e il leone della pietra, di cui si è già scritto a proposito del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra.

Nella parte conclusiva del sesto canto, il poeta fa un passo in più:

/He had to choose. But it was not a choice/Between excluding things. It was not a choice// Between, but of. He chose to include the things/That in each other are included, the whole, /The complicate, the amassing harmony.//

(/Dovette scegliere ma non fu una scelta /fra termini che si escludono. Non fu una scelta fra/ma di. Scelse di includere le cose/che s’includono a vicenda, l’intero/ la complessa, l’affollata armonia./) 45

Questi sono i versi chiave. Nel suo volo, il Canonico Aspirina viene messo di fronte a una delle antinomie tipiche del pensiero occidentale e si rende conto che la visione le comprende entrambe. Invece di insistere sulla mancanza che il poeta avverte dopo avere condiviso con altri l’esperienza a tutti comune, scopre l’impossibilità di separare l’esperienza comune dall’immaginazione. La sintesi è una nuova armonia in cui le figure stesse dei due leoni vengono superate. Essa è una quarta dimensione che potremmo paragonare al puro colore della pittura astratta, quando ogni sembiante figurativo si è dissolto. Tuttavia, il materiale della mente e quello dell’immaginazione non sono fatti di una sostanza diversa rispetto alle normali cose. Un chiaro di luna e un tramonto ci scuotono anche prima della loro trasfigurazione in versi memorabili. Se non fosse così la metamorfosi non sarebbe neppure possibile. Perciò la realtà non è solo il fardello del mondo, ma anche la sorgente di ogni ispirazione. Il poeta è un demiurgo e questo implica anche un passaggio nel silenzio e nella solitudine, un momento di vuoto; ma solo un momento, perché quando la metamorfosi è compiuta, nulla è andato perso. Soltanto separando perdiamo qualcosa, sia nel caso in cui rimaniamo legati e prigionieri alla lettera degli avvenimenti, sia perseguendo le rotte delle stelle come fuga, cadendo così in un vuoto spiritualismo. Il poeta demiurgo vola fra queste due polarità, ma Stevens ci sta forse suggerendo che per chiunque tale esperienza è possibile. Naturalmente siamo distanti dal modo ridicolo in cui una formula apparentemente simile è venuta in auge nel post modernismo italiano della fine degli anni ’90 e cioè che chiunque è poeta; ma nel senso che chiunque può raggiungere il concreto materiale della propria mente e della propria immaginazione, nei modi diversi accessibili a ciascuno. Quando siamo commossi fino alle lacrime, quando siamo colpiti da un ricordo improvviso, tale emozione non è differente da un processo di trasfigurazione. Il nudo fatto non è più presente in quel momento, ma è capace di agire a distanza di tempo e di luogo. Che tipo di esperienza è questa? È forse separabile da quel volto, quella voce, quel tramonto che hanno provocato il ricordo e fatto scattare quell’emozione? La poesia è più intensa, il poeta demiurgo è partecipe di esperienze comuni come tutti ma anche memorabili per chiunque, così che tutti possiamo a nostra volta rispecchiarci nelle medesime; altrimenti non potremmo. Probabilmente la grande poesia è quella in cui è attiva anche una capacità di sospendere il giudizio, di accedere a una dimensione astratta e per Stevens astratto non è l’opposto di concreto ma un andare verso un’esperienza concreta come se la si facesse per la prima volta. In definitiva, qual è allora la differenza fra il condividere il piacere di una festa e la poesia che la trasfigura? E fra il poeta e la persona comune nel sentire un’emozione? Abbiamo visto come per Stevens è un demiurgo, ma egli accompagna la parola a un aggettivo molto particolare: debole.

/The man-hero is not the exceptional monster,/But he that of repetition is most master./

(/L’uomo eroe non è il mostro eccezionale;/ma colui che della ripetizione è il miglior mastro./) 46

Soltanto tornando più volte alla stessa esperienza e raffinandola sempre di più è possibile intensificarne il senso: ma ripetere è l’opposto del separare e chi separa troppo cade in quello che i greci definivano hybris, l’arroganza, l’imporre ordine. Il nome del canonico – Aspirina – appare al fine del percorso, niente affatto una bizzarria. L’aspirina, con la sua debole effervescenza, scioglie comunque gli acidi e le incrostazioni, permette alla visione di togliere all’esperienza comune ciò che è troppo comune, per farla risplendere di una luce diversa: il debole demiurgo e l’aspirina condividono tale peculiarità e anche il poeta deve rinunciare alla propria di finzione, eccetto che in un caso:

…../ the fiction of an absolute-Angel,/Be silent in your luminous cloud and hear/The luminous melody of proper sound./ 

(/la finzione di un Angelo assoluto,/sii silente nella tua nube luminosa e ascolta/la luminosa melodia del suono appropriato./) 47 

Nella figura dell’Angelo precipitano (e uso il termine nel significato di reazione chimica) tutte le altre figure di cui di volta Stevens si è servito: ora è diventato l’Angelo della realtà che condivide la sostanza umana e quella divina, che altro non è se non  la parte eccedente noi stessi, ma che a noi ritorna sempre, senza allusioni a un favoloso altrove.

Stevens, coerentemente a quanto veniva scoprendo, rinunciò a darci una definizione esaustiva della Finzione Suprema, limitandosi a fornircene alcune Note, sebbene abbia lasciato qualche traccia della direzione che avrebbe preso la parte non scritta del Poema. Come Mosè egli ha puntato il suo dito verso la terra Promessa della Finzione Suprema. L’armonia molteplice è la contemplazione pacata e accolta del confine, cioè del limite: lo sguardo che da lì e per un attimo coglie l’intero, stando però un passo indietro. Qualcosa di simile deve aver sentito Michelangelo Buonarroti quando, nell’affrescare la Cappella Sistina, lasciò uno spazio vuoto fra il dito di Dio e quello dell’uomo.

Questa terza sezione del poema è quella nella quale Stevens raggiunge i toni più alti, le vette più estreme. Proprio in questo punto, però, la meditazione s’interrompe e la famosa quarta sezione, It must be human, rimane nella penna del poeta. Perché? Ed è proprio vero poi? Su tale mancanza i critici si sono arrovellati e hanno pure interrogato lo stesso Stevens, il quale – con il suo solito modo disarmante – ha risposto in modo a mio avviso esauriente, esponendo i motivi per cui la sezione quarta non fu scritta nella forma in cui lui stesso all’inizio aveva in mente: oppure, come sono propenso a credere, che abbia finto di avere in mente. Seguiamo il suo ragionamento. In una lettera all’amico Henry Church Stevens scrive:

Il nucleo della faccenda è espresso nel titolo…  E in un’altra lettera a Simons: Non ho certamente definito la finzione suprema, le note si limitano ad affermare alcune caratteristiche necessarie ad una finzione suprema48

E continua più avanti, sempre rivolta a Montague:

Per molto tempo ho pensato di aggiungere alle note altre sezioni, una in particolare – Deve essere umana -…Che il lavoro di un uomo rimanga incompiuto, è spesso un fatto intenzionale. Ad esempio, se devo pensare ad una finzione suprema, non riesco ad immaginare niente di più fatale che il definirla categoricamente e senza le necessarie cautele.” 49

A furia di pensarlo come un poeta oscuro, capita di equivocare la chiarezza di Stevens anche quando parla in prosa: forse basterebbe avere il semplice coraggio di prenderlo alla lettera. Quando il poeta afferma che il nocciolo della questione sta nel titolo, dice il vero perché il titolo è lì a dirlo. Le sue non sono Note about, circa oppure on (sulla)  finzione suprema, ma toward. Cosa significa la parola inglese usata da lui? Significa verso, indica cioè una direzione ma non il raggiungimento di una meta specifica, nella forma almeno della meditazione sulla propria poesia e poetica. In un’altra dichiarazione Stevens dice qualcosa di più che illumina definitivamente la questione anche a questo proposito, che illumina il senso delle note. Stevens sente di avere raggiunto il limite oltre il quale il pensiero poetante rischia di diventare filosofia pura e semplice, perciò la definizione di finzione assoluta non può essere raggiunta in poesia; ma manchiamo forse d’indicazione sulla terra promessa della finzione suprema? Niente affatto. Dopo avere toccato il vertice del linguaggio e dello stile alto e dopo essersi allontanato dall’umano troppo umano cioè, dopo avere indicato la via di una spoliazione della tentazione di rendere tutto antropomorfo, dopo avere indicato nell’idea prima della cosa il suo punto di arrivo, Stevens, vuole reintegrare l’umano in tutto questo, un umano però cosciente dei suoi limiti, ma anche della sua grandezza nell’insieme del cosmo.

Nadia Fusini ha bene intravisto questo percorso quando afferma nell’opera già citata:

C’è una curva che si descrive, una traiettoria che piega verso la terra. Comprendiamo che la finzione suprema, se fosse dato raggiungerla, avrebbe quell’inclinazione verso l’umano. 50

Ma non è forse vero – allora – che la quarta sezione non è affatto mancante ma che è stata scritta da Stevens in un altro modo, come una messa in pratica – se così si può dire – di quanto aveva intuito nei punti più alti delle Note? Se posso usare una analogia un po’ ardita direi che lo Stevens che giunge al punto più alto delle note è un Mosè alato che indica la terra promessa e che lo Stevens che scrive il poema le Aurore d’autunno, Un giorno qualunque a New Heaven, The rock e l’Opus postumus, è un Mosè che ha perso le ali ma che non ha rinunciato ad entrare nella terra promessa e che anzi ha compreso che per raggiungerla doveva farlo in altro modo, magari a piedi e anche senza farsi troppo riconoscere. E quale è la terra promessa cui Stevens finalmente approda? Semplicemente quella cui la sua poesia tende fin dagli inizi, in un processo di metamorfosi continua grazie alla quale la meta diventa sempre più chiara al poeta stesso: quel canto della terra e quel linguaggio semplice delle cose colte nella loro essenzialità, la luce che emana anche ciò che è comune e quotidiano.

Nei suoi grandi poemi finali ha raggiunto questa misura e infatti il tono altissimo delle Note cede il passo a quello meditativo e più sommesso, ma non basso: è lo splendore tenue ma costante della maturità autunnale, la luce che non abbaglia ma che rende tutto intimo e confortevole, è il tono di un umano finalmente reintegrato e riconciliato con le cose, persino con la roccia, cioè con il nocciolo duro e più ottuso della terra. La poesia di Stevens fa risplendere tutto questo della sua luce che non è più quella delle vertigini, che evocano:

il favoloso altrove che non esiste e che se anche esistesse non ci servirebbe qui dove siamo” 51

ma il canto di ciò che è più comune: della materia che risuona, della realtà che ha la sua musica. Nei suoi poemi finali Stevens dà a ciò che è più comune la dignità di essere parte di un cosmo.


28 Nadia Fusini, Note sulla finzione suprema, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag.33.

29 Op. cit. pp. 29-30

30 Quella che Stevens mette in atto è un invito alla sospensione del giudizio che diventerà ancora più chiaro in opere successive e in particolare in Aurore d’autunno. Il criterio della sospensione del giudizio ha una lunga storia nella filosofia occidentale. Se modernamente può essere fatta risalire a Kant e a come il filosofo tratta l’aspetto fenomenico dell’esperienza e poi nel ‘900 a Husserl, nell’antichità greca lo troviamo in Sesto Empirico. Stevens non ci lascia tracce evidenti dei suoi possibili riferimenti a questi autori o altro, tuttavia il modo di procedere sembra avere qualche ancoraggio a tali autori, in particolare quelli più antichi, insieme a Husserl.

31 Nadia Fusini, Op. cit. pag. 10.

33 Op. cit. pp.64-5

34 Op. cot. pp. 66-7

35 Op. cit. pp.70-1

36 Op.cit. pp. 77-8. Fusini a piè pagina del testo inglese e della sua traduzione cita molto opportunamente alcuni passaggi di lettere che Stevens indirizzò a Church e a Herringman e che si ricollegano a questo testo, ma che sono pure espressioni assai note che Stevens ha usato in altri contesti. Una l’abbiamo già citata, ma riproporla qui mi sembra assai significativo: “Caro Church, per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta, e la poesia non è che la difficile ricerca di questo.”

37 Wallace Stevens L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum editore, pp.77-112.

38 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, pp 84-5

39 Nadia Fusini, op. cit. pp.86-7.

40 Charles Baudelaire, I fiori del male, in Tutte le poesie, a cura e traduzione di Claudio Rendina con saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1972, pp.50-1.

41 In questo caso ho preferito la traduzione di Massimo Bacigalupo in Wallace Stevens Harmonium, Einaudi pag. 465.

42 Op. cit. pp.480-1

43 Op.cit. pp. 474-5

44 Op. cit. pp. 480-1

45 Su questo passaggio decisivo occorre soffermarsi molto, anche perché le differenze nelle traduzioni sono rilevanti. Il testo in lingua originale, le giustifica tutte, ma esse non sono ovviamente neutre l’una rispetto all’altra. Mi riferisco in particolare all’ultimo verso: The complicate, the amassing harmony. Ho scelto la traduzione di Nadia Fusini che rispetta prima di tutto la presenza della virgola fra l’aggettivo complicate e ciò che segue. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma non lo è affatto perché a mio giudizio Stevens voleva proprio distaccare i due concetti: l’armonia in altre parole non è complessa perché affollata, ma neppure il contrario. Detto ciò, alla traduzione affollata io avrei preferito la parola molteplice, ma è del tutto ragionevole che Fusini abbia fatto la sua scelta perché in una lettera a Simons riportata in calce alla traduzione, Stevens usa gli stessi termini anche in prosa.Non mi convincono invece le traduzioni che vedono nell’aggettivo amassing qualcosa che ha a che fare con l’accumulo. Da Nadia Fusini pp.112-13.

46 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema, terza parte, stanza nona. La traduzione è mia

47 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, in Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, I millenni Einaudi, Torino, pp. 484-5

48 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag 53. Il corredo di lettere che Fusini mette in calce alle tradizioni è preziosissimo. Ho mescolato in questo caso due citazioni da lettere diverse, ma si può dire che in ognuna di queste missive, Stevens ritorna più volte sullo stesso argomento precisandolo sempre di più.  

49 Op. cit. pag 154 nota 22

50 Ivi.

51 L’espressione è usata da Nadia Fusini nella sua introduzione alle Aurore d’autunno, Adelphi, Milano 2012, pag 42. Fusini ricorda l’assonanza con un’analoga espressione usata da Kafka.

WALLACE STEVENS: DAL GIARDINO INCANTATO AI DUE LEONI

Blue Guitar

Sunday morning (Mattino domenicale) è l’opera più simbolista scritta da Stevens. ll poemetto è del 1923 ed è diviso in otto brevi sezioni. Il setting è un giardino nel quale una dama medita solitaria una domenica mattina:

Complacencies of the peignoir, and late/ Coffee and oranges in a sunny chair,/And the green freedom of a cockatoo/Upon a rug mingle to dissipate/The holy hush of ancient sacrifice/.

(Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda/ Caffè ed arance sulla sedia al sole,/La verde libertà di un pappagallo,/Su un tappeto si fondono a disperdere/Silenzi d’un arcaico sacrificio.) 14

Rispetto allo scenario di Wordsworth, il giardino di Stevens è il luogo di una natura addomesticata ed elegante, che si manifesta anche nella presenza di un pappagallo, un animale esotico, ma anche imprigionato. Il gioco dei rimandi simbolici è raffinato, la dama dovrebbe recarsi a messa come vuole la sua tradizione religiosa, ma preferisce una meditazione solitaria, mentre il richiamo della divinità è lontano, non più in grado di muovere passioni. Nelle sezioni successive Stevens rivisita i diversi aspetti del tema. È un excursus che va dal dio cristiano agli dei precedenti del Pantheon occidentale, dentro una partitura testuale densa, con rime interne raffinate, nel metro più classico della poesia inglese, il blank verse. Gli echi e in particolare quello di Wordsworth sono presenti in più di un testo ma in particolare nella parte conclusiva della quinta sezione:

…/She makes the willow shiver in the sun/For maidens who were wont to sit and gaze/Upon the grass, relinquished to their feet./She causes boys to pile new plums and pears/On disregarded plate. The maidens taste/And stray impassioned in the littering leaves.

(/Ma essa fa tremare al sole il salice/Per le fanciulle avvezze a contemplare/I prati abbandonati ai loro piedi./Essa fa sì che ammucchino i ragazzi/pere e susine sui vassoi. Gustandone,/fra vie di foglie assorte errano le vergini./) 15 

Nelle sette sezioni del poema è riflesso anche il tema biblico dei sette giorni della creazione, se non che Stevens aggiunge un’ottava e ultima sezione, con la quale imprime una svolta al suo pensiero poetante. Usando un procedimento che Stevens medesimo ha definito decreativo 16, egli spezza la catena simbolica, sottrae gli oggetti al disegno interpretativo dato fino a quel momento e li restituisce nella loro nuda realtà all’occhio e all’orecchio del lettore; non al nulla dunque, ma all’increato, cioè alla loro sostanza come elementi, fisici o meno, che vengono liberati dalla catena simbolica entro la quale erano stati inscritti, anche dalla tradizione letteraria. Data la sua importanza riprodurrò la sezione ottava per intero:

/She hear, upon the water without sound,/A voice that cries: “The tomb in Palestine/is not the porch of spirit lingering./It is the grave of Jesus where he  lay”. We live in an  the old chaos of the sun,/Or old dependency of day and night,/Or island solitude, unsponsored and free,/of that wide water, inescapable./Deer walk upon our mountain, and the quail/Whistle about us their spontaneous cries;/Sweet berries ripened in the wilderness;/And, in the isolation of the sky,/At evening, causal flocks of pigeons make/Ambiguous undulations as they sink,/Downward to darkness, on extended wings./

(/Essa ode sull’acqua senza suono/Una voce che dice: “In Palestina/luogo non v’è d’indugio per gli spiriti,/Ma solo per la tomba di Gesù”./O sole, noi viviamo nel tuo caos, /Nel vincolo del giorno e della notte,/In un’isola libera e deserta,/Orfana in un oceano senza scampo./Sui nostri monti vanno i daini, e il fischio/Delle quaglie spontaneo ci risponde./Dolci bacche maturano nei boschi,/Passano rari stormi di colombi,/Che ambiguamente oscillano su tese/Ali quando sprofondano nel buio./) 17

Stevens è giunto al limite estremo della parabola simbolista, ma con questa sezione  si congeda da quella poetica e da questo momento la sua meditazione riprende per approdare a esiti diversi. Il mondo nel quale Stevens ci porta con l’ultima sezione del poema è un mondo irreligioso e di misteriosa bellezza. Il sole, il giorno e la notte ritrovano il loro significato originario, scandiscono i tempi del vivere, legano l’umano a una radice primordiale che preesiste all’umano, ma liberi anche dalla catena simbolico-religiosa costruita intorno ad essi. Il sole assume un ruolo fondamentale nella settima sezione:

Supple and turbulent, a ring of men/Shall chant in orgy on a summer morn/Their boisterous devotion to the sun,/Not as a god, but a god might be,/naked among them , like a savage source./

(… Un mattino d’estate agile e fiera, Un’orgiastica ronda di creature/canterà al sole inni di fedeltà:/Non un iddio, ma degno d’esser dio/nudo fra loro come una sorgiva …/) 18

Questo vero e proprio inno al sole, che ha evidenti tratti pagani, assume una notevole importanza nell’ultima sezione considerata in precedenza, perché apre le porte a un mondo irreligioso. Al Cristianesimo della croce, egli contrappone la vitalità dei riti pagani precedenti e ancora una volta in questa danza orgiastica di uomini e fenomeni naturali, non ritroviamo affatto Keats, ma ancora una volta Wordsworth, seppure in un contesto completamente diverso. Il romantico inglese, a differenza di Stevens, non rompeva la catena simbolica che per lui era la tradizione protestante inglese, ma celebrava la natura per contrapporla alla nascente società industriale. Per Stevens l’approdo a questo mondo irreligioso sembra qui definitivo anche se vedremo successivamente che le cose sono più complesse. Le immagini di una natura splendente, ma non titanica come era in Wordsworth, il ritorno a elementi così primari del vivere in senso puramente fisico (il sole, la notte, il giorno), sono l’avvio di un percorso del tutto nuovo, che emergerà nel tempo, costruendosi passo dopo passo.19 Quella che viene sicuramente abbandonata con quest’opera, è la poetica simbolista e anche quel rischio di estetismo che il simbolismo porta sempre con sé. Tale abbandono coincide, per Stevens, con un cambiamento radicale di prospettiva: è la poesia stessa a divenire oggetto della sua poesia e con essa l’immaginazione. Cosa sono entrambe? E quale rapporto hanno con la realtà?

La prima realizzazione matura in un testo poetico della meditazione stevensiana intorno al rapporto fra realtà e immaginazione si trova nel poemetto The man and the blue guitar (L’uomo e la chitarra azzurra), pubblicato nel 1937, ma già in Peter Quincy at the clavier, (1915), si era cimentato con il tema. La prima sezione del poemetto contiene un verso che diventerà celebre nel tempo e costituirà una specie di icona: le cose come sono.

The man bent over his guitar,/A shearsmen of sorts. The day was green.//They said: “You have a blue guitar,/ you do not play things as they are”.//The man replied: “Things as they are/ are changed upon the blue guitar.//And they said again:”But play, you must,/A tune beyond us, yet ourselves,//A tune upon the blue guitar/Of things exactly as they are.”/

(/L’uomo chinato sulla sua chitarra/Nella verde giornata. Forse un sarto.//Gli dissero:“Sulla chitarra azzurra /Tu non suoni le cose come sono.”//Egli disse: “Le cose come sono/Si cambiano sulla chitarra azzurra.”//Risposero:“Ma tu devi suonare/un’aria che sia noi e ci trascenda,//Un’aria sopra la chitarra azzurra/Delle cose così come esse sono.) 20

Questo primo testo si rifà alla lirica Introduzione che apre I canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake. La scena ha qualcosa di analogo ma la diversa scelta dei personaggi è assai interessante. Blake immagina un suonatore di piffero cui appare una figura angelica e cioè un bimbo su una nuvola che gli rivolge un invito: Suona una canzone dell’Agnello!. La scena è agreste come si evince facilmente dal testo, il suonatore stesso potrebbe essere un pastore. Il pifferaio accoglie l’invito ma successivamente il bimbo gli consiglia di fare di quelle canzoni un libro. Il suonatore allora abbandona lo strumento musicale e:

…And I pluck’d a hollow reed,//And I made a rural pen,/And I stain’d the water clear ,/And I wrote my happy songs,/Every child may joy to hear.!!

(Ed io staccai una canna vuota,/E ne feci una penna agreste/E macchia la limpida acqua/E scrissi le mie canzoni felici/Che ogni bimbo può sentire con gioia./21

Nella poesia di Stevens abbiamo un sarto, dunque un artigiano. In entrambi i casi abbiamo a che fare con persone semplici e con le cose come sono, cioè l’icona di una realtà persino modesta, ma che la chitarra azzurra però deve cambiare. Il tema viene svolto in diversi modi nelle sezioni successive con alcune parole chiave che si ripetono, finché non arriviamo a un primo snodo che ci riporta anche ai motivi che avevano ispirato Mattino domenicale e che ritroviamo proprio nei versi conclusivi della quinta  sezione:

Exceeding music must take the place/Of empty heaven and its hymns,/Ourselves in poetry must take that place,/even in the chattering of your guitar./

(La musica trascende e tiene luogo/Del cielo vuoto e dei suoi inni. Il loro//Posto prendiamo noi nella poesia,/E nelle ciarle della tua chitarra.) 22

La musica è metafora della poesia e prende il posto degli inni religiosi rivolti a un cielo ormai vuoto di dei. Nella dodicesima sezione, il suonatore si rivolge al suo pubblico in questi termini:

Tom-tom, c’est moi. The blue guitar/ and I are one. The orchestra //fills the high wall with shuffling men/High as the hall. The whirling noise/ of a multitude dwindles, all said,/To his breath that lies awake at night./…

(Tom-tom, c’est moi. Io e la chitarra azzurra/ siamo una cosa unica. L’orchestra// Riempie l’aula di gente scalpicciante, /Alta fino al soffitto. Il vorticoso// Clamore d’una turba si riduce/Solo a un alito vigile di notte.) 23

Qual è l’elemento sorprendente di questi versi che peraltro continua a ritornare? È l’azzurro, che non siamo abituati ad associare all’oggetto in questione e cioè una chitarra: ma siamo proprio sicuri che Stevens alluda al colore dello strumento fisico e non invece a qualcos’altro? I versi successivi, il primo distico ci danno una risposta quasi ovvia: è la musica ciò cui il poeta allude e l’azzurro24 esprime una qualità dell’oggetto che lo trascende e lo trasfigura pur non potendo prescinderne. La trascendenza cui porta la musica, tuttavia, non ha nulla di metafisico, non porta ai cieli vuoti. Tuttavia nella sezione di cui sopra è avvenuta anche una piccola metamorfosi perché il suonatore e l’oggetto chitarra sono diventati una cosa sola. Il sarto della prima sezione, cioè l’immagine dell’uomo comune nella sua semplicità, è diventato altro perché ha incorporato in sé lo strumento e la sua musica; anche lui si è colorato d’azzurro pur rimanendo un uomo semplice. Nella diciannovesima sezione del poemetto, troviamo un primo momento di sintesi, dove Stevens paragona realtà e immaginazione a due leoni:

/That I may reduce the monster to/Myself, and then may be myself// In face of the monster, be more than part/Of it, more than the monstrous player of// One of his monstrous lutes, not be/Alone, but reduce the monster and be,// Two things, the two together as one,/ And play of the monster and of myself,//Or better not as myself at all,/But of that as its intelligence,//Being the lion in the lute/Before the lion locked in stone./

(Oh ch’io possa ridurre il mostro a me/ Medesimo, e poi essere me stesso// Di fronte al mostro, più che una sua parte,/O più che il mostruoso suonatore// D’uno dei liuti mostruosi; solo// Non rimanere, ma trionfarne e farsi// Due cose, le due insieme come una,/ E suonare del mostro e di me stesso,// O meglio non di me ma sol di lui,/Della sua mostruosa intelligenza,// Ed il leone essere del liuto, Di fronte a quello chiuso nella pietra.) 25

La poesia nasce dunque da una tensione mai risolta fra realtà e immaginazione e dunque la scelta di due leoni implica l’impossibilità dell’uno di vincere in modo definitivo sull’altro. Se l’esercizio della facoltà immaginativa fosse inconsapevole della forza degli ostacoli con cui deve misurarsi, per il poeta statunitense finirebbe per dare vita a pure fantasticherie; soltanto cimentandosi con la durezza della realtà, con il suo peso, la sua impenetrabilità, essa si affina diventando il leone del liuto. D’altro canto se i poeti cedessero al peso di una realtà greve, la poesia perderebbe la propria prerogativa, diventando essa stessa prosa del mondo. La sfida consiste proprio nel sapere infondere il soffio vitale anche nella materia più dura e a questo proposito, come non ricordare l’opera che Gaston Bachelard dedica proprio all’elemento terra e alla forgia che ne doma la durezza?26

Per riuscire in questo intento, tuttavia, il poeta stesso deve trasfigurarsi (a questo allude Stevens quando definisce mostruoso il suonatore), cioè andare oltre il proprio io ed entrare in un diverso stato di coscienza. Nella sezione ventiduesima, il poeta torna alla poesia con un testo che si può considerare una prima e compiuta dichiarazione di poetica in versi, cui ne seguiranno altre:

Poetry is the subject of the poem,/From this the issue and//To this returns. Between the two,/Between issue and return, there is //An absence in reality,/Things as they are. Or so we say//But are these separate? Is it/An absence for the poems, which acquires//Its true appearances there, sun’s green/Cloud’s red earth feeling, sky that thinks//From these it takes. Perhaps it gives, /In the universal intercorse./

(La poesia è il tema del poema./Da ciò il poema ha origine ed a ciò//Fa ritorno. Fra questi due estremi,/fra origine e ritorno,//C’è un’assenza in realtà,/Le cose come sono .O così pare.//Ma sono i due distinti? Ed è l’assenza/Che al poema dà le vere parvenze//Verde il sole, porpora di nuvola,/Terra che sente, cielo che riflette.//Da questi prende. E forse anche ne rende/In universa reciprocità//27

Come affermavo più sopra i due leoni sono una prima incarnazione in figure che si trasformeranno in altre con un andamento metamorfico incessante. Stevens le mette in scena ritornando sempre alle sue tematiche, ma introducendo di volta in volta un elemento in più: non è la coazione a ripetere che lo spinge a ritornare sugli stessi luoghi topici, ma un processo incessante di chiarificazione e anche di rarefazione e di decreazione come abbiamo già visto. Inseguire tutte le figure è quasi impossibile e non è di certo il mio intento; solo soffermarmi su alcune di esse e arrivare all’ultima, quella dell’Angelo Necessario della terra che chiude le Aurore d’autunno.

Nella sezione trentaduesima del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra, ritroviamo di nuovo assonanze che ci riportano a Blake, per introdurre un nuovo elemento che sarà ulteriormente elaborato nelle opere successive:

Throw away the lights, the  definitions,/And say of what you see in the dark//That it is this or that it is that,/But do not use the rotten names.//How should you walk in that space and know/Nothing of the madness of space,//Nothing of its jocular procreations?/Throw the lights away. Nothing must stand///Between you and the shapes you take//When the crust of shape Has been destroyed.//You as you are? You are yourself. /The blue guitar surprises you.//28

(Getta via le formule, le lampade,/E dì ciò che tu scorgi nelle tenebre//Dì che è questo o che è quello,/Senza usare i vocaboli corrotti./Come potrai avanzare in quello spazio,/Se dello spazio ignori la follia,//Se ignori le allegre procreazioni?/Getta via le tue lampade. E che nulla//stia tra te e le parvenze che tu assumi Quando alle cose si rompe la crosta.//Tu come sei? Tu sei te stesso./Ma ti sorprende la chitarra azzurra.//

Le parole corrotte sono quelle di una realtà fine a se stessa e misura di tutto, non colorata dall’immaginazione, ma sono anche il peso della storia. In Blake tale perorazione che abbiamo visto nell’Introduzione alle Canzoni, assume un tono spiccatamente religioso con la metafora dell’Agnello, ma l’invito a usare parole semplici, alla penna rurale rimane in Stevens in un’altra forma e cioè nella necessità da parte del linguaggio poetico di stare il più possibile vicino alle cose come sono nella loro semplicità.

Il giardino incantato

14 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, con testo a fronte e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino 1988, prima pagina.   

15 Op.cit. pp.12-13. In questa parte del testo si ritrova l’eco di una delle più celebri poesie di Wordsworth, The solitary reaper (la mietitrice solitaria).

16 Su questo termine e il suo uso è necessario qualche chiarimento. In un saggio che fu pubblicato insieme ad altri nel 1951, Stevens usa questo termine citando Simone Weil, ma equivocando il senso del termine da lei usato. Nel contesto di cui sopra, il termine da me usato indica semplicemente un modo di procedere della poesia di Stevens. In ogni caso anch’egli ci ha dato la sua definizione di ‘decreazione’ nel saggio dal titolo I rapporti tra la poesia e la pittura: “Decreare significa passare da ciò che è creato a ciò che non lo è mentre distruggere è passare da ciò che è creato al nulla. In Wallace Stevens, l’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore Milano 1988, pag.247.

17 Op. cit. pp18-19.

18 Op.cit. pp-16-17

19 Il sole ritornerà spesso nella poesia di Stevens. Il critico che si è maggiormente occupato di questo aspetto è Harold Bloom nell’opera The poems of our climate.

20 Wallace Stevens L’uomo e la chitarra azzurra, in Mattino domenicale  e altre poesie, a cura di Renato Poggioli e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino, 1988 pp.50-1. Parlando di questo poemetto il curatore indica nella pittura di Picasso uno dei motivi ispiratori e ricorda come la prima edizione dell’opera portasse in copertina proprio una chitarra azzurra, che ricorda il periodo blu dell’opera picassiana; del resto, il rapporto con la pittura è costante nell’opera di Stevens, sebbene nel caso specifico il poeta si mostri prudente nell’indicare un quadro preciso del grande pittore spagnolo come fonte della sua ispirazione.

21 William Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, Introduzione. Il testo si trova facilmente in rete, La traduzione è mia.

22 Op. cit. pag. 37

23 Op. cit. pp.50. Questo capitolo è la riproduzione quasi integrale di un saggio dal titolo L’angelo della terra, pubblicato sulla rivista Fare anima, diretta da Gabriella Galzio, nel 2001.

24 Fra l’altro il colore azzurro è associato all’infinito.

25 Op. cit. pp. 60-1

26 Gaston Bacheard: La terra e le forze. Le immagini della volontà, Red edizioni, collana a cura di Cludio Risè, traduzione di Anna Chiara Peduzzi e Mariella Citterio. La relazione fra le intuizioni di Bachelard, la sua filosofia e la poesia di Stevens è stata considerata sia da Bloom sia da altri critici ed è una problematica essenziale per l’interpretazione filosofica che si può dare della poesia del poeta di Hartford.

27 Op.cit. pp. 70-1

28 Op. cit. pp.90-1.

WALLACE STEVENS: UNA GIARA NEL TENNESSEE

Al confine nord del Tennessee

In questa seconda parte del saggio viene preso in considerazione un testo degli esordi, spesso trascurato.  

Perché Stevens è così decentrato rispetto alla temperie del suo tempo? È bene ritornare a un testo pubblicato nel 1919 dalla rivista Poetry e intitolato Anecdote of the jar.

I placed a jar in Tennessee

And round it was upon a hill

It made the slovenly wilderness

Sorround the hill.

The wilderness rose up to it,

And sprawled around no longer wild.

The jar was round upon the ground

And tall and of port in air.

It took dominion everywhere

The jar was grey and bare.

It did not give of bird and bush,

Like nothing else in Tennessee.

———–

Posai una giara nel Tennessee,

Ed era tonda sopra un colle.

Obbligò la sciatta selva

A circondare il colle.

La selva sorse alla sua altezza,

attorno adagiata non più selvaggia,.

La giara era tonda sulla terra

E alta e ben portante in aria.

Prese a dominare tutto.

La giara era grigia e spoglia.

Non sapeva di cespo o uccello,

come nient’altro nel Tennessee.4

Il tema di questo componimento verte su uno dei tanti contrasti latenti intorno ai quali ruota e medita la poesia di Stevens: ordine e caos, oppure natura selvaggia ed elemento umano. Non è difficile trovare i termini che si contrappongono nel testo: jar e wilderness. Tuttavia, se di guarda meglio la varietà di significati possibili di queste parole, cominciano a delinearsi alcune sorprese.

Se si sta al dizionario, il termine natura sfiora ma non tocca direttamente la parola wilderness: è l’aggettivo sostantivato wild che ha una precisa curvatura naturalistica, mentre wilderness è un vocabolo più concreto che definisce il territorio selvaggio, disabitato, non coltivato. Il vocabolo è assai meno evocativo e più comune, intermedio, quasi prosaico e adatto a formare una coppia asimmetrica con jar: una giara, infatti, non è l’opposto simmetrico dello spazio incolto. La curvatura che assume la parola wilderness si precisa ancor meglio se si guarda all’aggettivo con cui essa è accoppiata nella seconda strofa: slovenly. Apparentemente si tratta di un’inutile ripetizione dal momento che la parola significa sciatto, trasandato e solo in terza istanza disordinato. Slovenly, invece, serve a Stevens per avvicinare sempre più la parola wilderness al suo terzo significato, quello di landa desolata. Priva dell’elemento umano? L’umano aleggia eccome in questa poesia ma vedremo in che modo. Stevens sembra sì alludere a ordine e caos, ma lo fa in modo così obliquo da far pensare che ci sia altro sotto traccia. Infatti, se si torna alla parola jar scopriamo che non ha solo il significato che sembra ovvio, tanto che quasi tutte le traduzioni insistono nel tradurre il termine con la parola italiana barattolo a volte aggiungendo per maggiore precisione di vetro. La parola inglese jar infatti è anche un termine onomatopeico che significa suono stridente e disarmonico, dissonante, come quello fatto da un oggetto che viene sfregato contro qualcosa. Stevens, sfruttando a fondo la molteplicità di significati dei sostantivi inglesi, mette qui in scena una complessità di senso molto elevata. L’elemento umano rappresentato dalla giara non sembra portare ordine, bensì una disarmonia, un suono stridente, mirabilmente coerente, peraltro, con le scelte lessicali compiute dal poeta e che m’inducono anche a preferire di gran lunga la traduzione del termine jar con giara, il solo che in italiano possa dare l’idea di un suono stridente. Prendiamo infatti il primo verso: I placed a jar in Tennessee seguito nel secondo verso dalla parola wilderness: il ruolo delle sibilanti evoca certamente il frusciare di alberi, il vento, o anche il silenzio della natura incontaminata, mentre la parola jar spezza l’armonia con un suono, appunto, dissonante e stridente.

Ritorniamo ora all’inizio di questa lirica. L’uso del simple past (passato remoto) e del soggetto I, danno un tono solenne ma anche misterioso alla poesia. Il simple past è il tempo della narrazione mitica: e chi è poi questo misterioso Io che ha posto la giara nel Tennessee? Se la scelta verbale ci proietta nel tempo astorico della favola, del racconto orale, questo andamento solenne contrasta con il titolo ed anche con l’oggetto concreto della visione. Anecdote è una parola prosaica la cui traduzione è scontata, mentre dal canto suo giara non è un oggetto qualunque e astorico, non è un prodotto metafisico della civiltà o del lavoro umano astratto: si tratta di un manufatto. La tensione fra il tempo verbale e l’oggetto concreto della visione è massima. L’oggetto della visione, è sopra una collina circondato dalla landa desolata; ciò che mette in fuga wilderness è proprio jar, l’elemento umano. Nel ritrarsi della wilderness c’è qualcosa di sinistro, sembra una fuga disordinata ed infatti l’inizio dell’ultima quartina lo testimonia: It took dominion everywhere. La giara prese il potere ovunque! Qui Stevens usa un’espressione che ricalca il linguaggio politico, ma che incarna anche l’idea di un’azione di forza. Facciamo un passo indietro. La conclusione della seconda quartina suona così: The jar was round upon the ground/ And tall and of a port in air. La ripetizione con rima interna è un richiamo martellante, evoca una presenza sinistra, prepara l’ultima quartina preannunciando il dominio della giara, ben saldo sulla terra ma anche in alto. Si trova lì perché la collina è alta o per qualche altra ragione? All’inizio non vi è dubbio che  si trovi sulla cima di una collina, ma ora esso è in alto anche perché domina. E come se non bastasse port e portly sono un segnale di arroganza: port è la persona che si gonfia il petto ma anche la sentinella militare che guarda il territorio. Le giare si sono moltiplicate: è una collina di giare ciò che Stevens vede!

Continuiamo: The jar was grey and bare (la giara era grigia e spoglia) scrive il poeta. L’aggettivo bare può sembrare a prima vista una scelta gratuita associata ad una giara, dal momento che esso è usato per costruire fruste metafore autunnali. Se però lo poniamo in connessione con l’aggettivo slovenly precedentemente accoppiato a wilderness ci rendiamo conto che Stevens ha costruito una similitudine interna al testo: la landa è desolata rispetto alla natura tanto quanto la giara lo è nei confronti dell’umano.

Jar non porta ordine, ma una desolazione di tipo diverso, creata dall’essere umano. L’ordine è solo una maschera perché jar did not give of bird and bush (la giara non ha nulla a che vedere con il cespuglio e con l’uccello. Essa non domina solo sulla landa desolata ma anche sulla natura che si ordina da sé. Siamo all’epilogo. Così come il viaggio testuale era iniziato con un ritorno indietro imprecisato nel tempo mitico della narrazione e in quello storico della nascita del manufatto, Stevens lo chiude con un bruciante ritorno al qui e ora cioè al presente del Tennessee e vi torna con un finale enigmatico che rilancia tutta la questione. Egli infatti non vede solo il presente e cioè che nulla più della giara è oggi più estraneo al Tennessee, ma anche il futuro, allorché più nulla avrà a che fare con bird e bush, cioè con la natura incontaminata. La sua poesia vive nel mezzo, corre da un punto all’altro del tempo che lega insieme mito e aneddoto, storia e cronaca, presente, passato e futuro. La poesia non si ferma su alcuno di questi punti ma li ripercorre tutti e li fa risuonare ma in modo dissonante. È la disarmonia e non l’ordine il tema di questa lirica, una disarmonia intervenuta nel rapporto fra l’umano ed il suo ambiente, oppure se si vuole fra natura e cultura; oppure ancora fra prima e seconda natura. L’io che campeggia in questo testo non è dunque lirico; in realtà è un noi, l’indicazione apparentemente impersonale di un soggetto collettivo che ha introdotto una disarmonia. Se questo è l’aneddoto che il poeta ci racconta qual è la scena maggiore? La disarmonia, la rottura di un equilibrio. La giara, è un manufatto, è un prodotto industriale.5

La parabola poetica di Stevens comincia da qui e lo porterà molto lontano. Alcuni critici hanno parlato dell’influenza di Keats su questa poesia, ma essa mi sembra superficiale, basata solo su qualche assonanza che potrebbe apparire come una citazione ironica dell’Ode sull’urna greca, sostituita appunto da una comunissima giara o da un ancor più comune barattolo. Inoltre è stato pure notato che l’anno di pubblicazione della poesia di Stevens (1919), viene proprio a cento anni dalla stesura delle grandi odi del poeta inglese.6  In Keats, tuttavia, il ritorno alla classicità è una fuga nel mondo passato, mentre – nel caso di Stevens – è alla prima generazione dei romantici che a mio avviso occorre guardare, a Wordsworth e a Coleridge (al primo dei due in particolare)  per i quali è viva, presente e operante (lo era stato in precedenza anche per Blake), la visione di uno shock provocato dalle trasformazioni nella società inglese del tempo e quindi una fervida attenzione al presente.7

La Prefazione alle Ballate liriche indica con chiarezza proprio questo proposito:

The subject is indeed important! For the human mind is capable of excitement without the application of gross and violent stimulants; and he must have a very faint perception of its beauty and dignity who does not know this, and who does not further know that one being is elevated above another in proportion as he possesses this capability… enlarge this capability is one of the best services in which, at any period, a Writer can be engaged; but this service, excellent at all times, is especially so at the present day.

Il soggetto, è davvero importante! Dal momento che la mente umana è capace di eccitarsi senza che siano necessari chissà quali e violenti stimolanti; e deve avere davvero una debole percezione della sua bellezza e dignità colui che non sa questo, e chi non si propone inoltre di sapere che un essere umano si eleva sopra un altro in proporzione a quanto possieda o meno tale capacità… allargare tale capacità è uno dei migliori servizi in cui un scrittore, in qualsiasi epoca, si debba sentire coinvolto: ma tale servizio, eccellente sempre, lo è specialmente nel tempo presente…

La ragione per cui Wordsworth e Coleridge pensano che tale compito sia quanto mai importante nell’Inghilterra del suo tempo, viene resa esplicita subito dopo:

For a multitude of causes unknown to former times are now acting with a combined force to blunt the discriminating powers of the mind,… to reduce it to a state of almost savage torpor. The most effective of these causes are the great national events which are daily taking place, and the encreasing accumulation of men in cities, where the uniformity of their occupations produces a craving for extraordinary incident which the rapid communication of intelligence hourly gratifies. To this tendency of life and manners the literature and theatrical exhibitions of the country have conformed themselves…

Per una serie di ragioni, sconosciute nelle epoche precedenti, agiscono sul presente forze che combinate insieme ottundono la capacità del discernimento della mente, … per ridurla a uno stato di torpore selvaggio. La parte più consistente di queste cause è costituita dagli eventi che avvengono a livello nazionale, la sempre crescente concentrazione di uomini nelle grandi città, dove l’uniformità del loro lavoro produce miseria … A tale tendenza tutte le rappresentazioni teatrali e letterarie si stanno uniformando.  8

La polemica diventa chiarissima in questo passaggio: la vita urbana e specialmente la vita industriale, la concentrazione nelle fabbriche e nei quartieri è vista come una minaccia e un corrompimento dei costumi. A tutto questo si oppone la semplicità della vita rurale come esempio, la natura in quanto suscitatrice di emozioni e non la natura matematizzata e geometrizzata della rivoluzione scientifica e della ratio illuminista. Tuttavia il poeta inglese e il suo sodale non hanno in mente un disegno di tipo aristocratico ma il contrario:  

La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”9

Siamo così lontani dagli esiti ultimi della poesia di Stevens, quando il poeta invoca la necessità di scrivere (cito a memoria) i poemi della terra e non del cielo inteso come paradiso, e di avvicinarsi alle cose come sono, nella loro semplicità? In una lettera a Henry Church, si esprimerà con una chiarezza ancora maggiore:

Caro Church … per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta e la poesia non è che la ricerca difficile di questo.10

La seconda generazione dei romantici inglesi (Keats, Shelley, Byron) aveva già indirizzato la propria poetica per altre e diverse strade, ma ugualmente cospiranti nel rompere la difficile unità d’intenti che Wordsworth e Coleridge cercarono di proporre nelle Lyrical Ballads: riforma del linguaggio poetico in senso popolare, critica della società industriale sul piano simbolico (L’ode all’antico marinaio), rifiuto della modernità. Tuttavia, già in Coleridge sono evidenti le scelte sempre più visionarie e rivolte all’interiorità, mentre Wordsworth espresse anche personalmente il suo rifiuto, barricandosi nella sua casa di campagna nel Lake Distritct, lontano da tutto e da tutti. L’eredità che la seconda generazione romantica raccolse andava ormai in tre direzioni diverse: il culto del passato classico come rifugio (Keats), la natura come fonte di meditazione intima e personale e dunque la rinuncia a vederne una sorta di contraltare al mondo industriale, nei confronti del quale opporre invece la critica sociale (Shelley), la riscoperta delle radici dei popoli europei e la passione politica e risorgimentale (Byron). In fondo, quella espressa dalla prima generazione dei romantici inglesi, fu l’ultima, estrema e vana resistenza alla modernità, ma Wordsworth e Coleridge ebbero l’enorme merito di rivoluzionare il linguaggio della poesia inglese e questo in definitiva fu il loro grande contributo:

“Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”11

Nella seconda generazione dei poeti romantici, la scissione fra individuo, natura e società è già compiuta e le diverse scelte dei tre esponenti maggiori lo dimostrano.12

Di lì a poco sarebbe esplosa in tutta Europa la stagione del realismo, ma i protagonisti sarebbero stati narratori, romanzieri, pittori, caricaturisti e musicisti. La poesia inglese si sarebbe sempre più ritirata nella meditazione solitaria e nell’intimismo, che conosce le sue vette più alte con Tennyson; nell’Europa intera saranno Leopardi e Baudelaire ad aprire nuove strade alla poesia.

Stevens, in Anecdote of the jar, si trova più vicino alla prima generazione, ma più di cento anni dopo e in un contesto diverso. Come per Wordsworth e Coleridge, anche per lui nulla sarebbe stato come prima: gli Usa dei grandi spazi e dei grandi fiumi, della natura incontaminata e selvaggia, oppure dell’intimità domestica nel ranch e nelle praterie, erano già stati rappresentati da Whitman, da Dickinson, da Twain. La lezione del bardo americano per eccellenza è ben presente e operante in Stevens, così come nei testi più brevi è presente la eco di Emily Dickinson; ma la New York di Whitman non poteva più essere la sua. Se mai vi fu davvero un tempo dell’innocenza statunitense (c’è molto da dubitarne e lo si dovrebbe comunque domandare ai popoli nativi di quelle terre e ai neri statunitensi), esso era finito. Per questa ragione, Stevens sente le ragioni di  Wordsworth come una eco profonda, nel senso che vede analoghe trasformazioni in atto nella società statunitense. Ecco come affronterà questa problematica molti anni dopo in una conferenza. In essa, Stevens si confronta, come farà per tutta la sua vita di autore sulla relazione fra realtà e immaginazione. Parlando della prima e della vita statunitense, ecco cosa scrive:

… La realtà è data dalle cose così come sono … Dapprima abbiamo una realtà che viene data per scontata, latente e tutto sommato ignorata. È l’agiata vita americana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e del primo decennio dell’attuale. C’è poi una realtà che ha cessato di essere irrilevante, e questo si è avuto quando, una volta accantonati i vittoriani, le minoranze intellettuali e sociali hanno cominciato ad occupare il loro posto, trasformando la nostra vita in qualcosa di potenzialmente instabile. Di fronte a questa realtà, molto più vitale, quella precedente appare simile a un libro di litografie stampate da Rudolf Ackermann o a uno dei libri di schizzi svizzeri di Töpffer…

Il manufatto porta il marchio del lavoro industriale ma anche della modernità statunitense, rispetto al secolo precedente e ai primi dieci anni, ancora sognanti e immersi in quella che il poeta definisce come agiata vita americana. Nella collina delle giare del Tennessee s’intravede la potenza dell’industria che avanza, la modernità, le ciminiere delle fabbriche.

Nel modo di tornare a quel momento storico e alla moderna caduta, si palesa tuttavia da subito la differenza e la distanza che lo separano da Wordsworth. Se la natura rappresentata dal romantico inglese era un mondo splendente, lussureggiante, dai colori forti – come è pure nelle rappresentazioni di Whitman – una sorta di paradiso terrestre da contrapporre come un Titano al grigio e orrido mondo della produzione industriale – la natura di Stevens può essere anche una wilderness, oppure il giardino elegante, ma immobile e incantato, di Sunday Morning.

Il poeta statunitense non ha bisogno d’immaginarsi il paradiso terrestre. La disarmonia può introdursi anche laddove il paesaggio è desolato pur essendo naturale: la disarmonia riguarda il rapporto fra l’umano e l’ambiente naturale e la società vittoriana precedente, ma la natura non deve essere per forza di straordinaria bellezza, può essere plain e cioè normale o addirittura piatta, un aggettivo che Stevens userà sempre più spesso. Ribadirà un concetto analogo anche in un altro dei saggio de L’Angelo necessario, dal titolo L’immaginazione come valore:

La generazione precedente alla nostra avrebbe detto che l’immaginazione era un aspetto del conflitto fra uomo e natura; oggi siamo più inclini a dire che si tratta di un aspetto del conflitto fra l’uomo e l’organizzazione sociale. 13

L’America agiata, forse un po’ sognata, era quella di una presunta innocenza, mentre quella attuale sta dentro i conflitti sociali della modernità. Stevens lo capisce molto di più di certi suoi critici, anche se non si può pretendere da lui che ne tragga tutte le conseguenze. L’organizzazione sociale e anche la guerra, oppure la storia, come vedremo meglio più avanti, sono per Stevens la pressione massima che la realtà esercita sugli individui e quindi l’ostacolo maggiore che l’immaginazione incontra per esercitare il suo diritto a stare nel mondo.


4 Wallace Stevens, Anectode of the Jar. In Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, con testo a fronte, Einaudi Torino, 1994, pp. 98-9. Ho scelto questa edizione e la traduzione di Bacigalupo poiché ritengo, come viene spiegato nel testo, che la traduzione di jar con giara sia la più felice possibile.

5 Mi si potrebbe obiettare, a questo punto, che la parola barattolo, sarebbe stata più adatta come traduzione perché la giara infondo è più legata a un mondo ancora artigianale e preindustriale e a noi italiani, oltretutto, ricorda proprio un memorabile racconto di Pirandello, fortemente legato a quel mondo. Tuttavia, ritengo che il traduttore abbia privilegiato l’aspetto onomatopeico e abbia fatto bene, anche perché l’onomatopea non è un’eccezione nella poesia di Stevens. Nelle traduzioni, lo sappiamo, si perde sempre qualcosa, in particolare da una lingua che vede nell’estensione dei significati lessicali, più che non nelle strutture della frase – come è per esempio per la lingua tedesca – una delle sue caratteristiche più rilevanti.

6 Gert Buelens e Bart Eeckhout ne scrivono in un interessante saggio pubblicato sul numero 1 volume 34 di The Wallace Stevens Journal, primavera 2010. Nel saggio, che mette fra l’altro in evidenza l’influenza di William James sulle opere di Stevens, si sostiene che la giara del poeta di Hartford sarebbe un ironico contrappunto all’urna greca di Keats. Se anche così fosse, tuttavia, significherebbe che Stevens è del tutto alieno da quella fuga nel passato come rifugio che un poeta come Keats, di fronte ai diversi orrori o delusioni del suo tempo, ha cercato. Keats non era il solo e anche il suo viaggio a Roma e la sua morte nella città eterna lo dimostrano. Fu un’intera generazione di poeti che, per ragioni diverse, prese la via del Grand Tour e dell’Oriente. Si pensi a Goethe dopo il 1815 e il suo Divano Occidentale orientale.

7 I canti dell’innocenza e dell’esperienza furono la prima opera in cui, nella società inglese, si percepiva una frattura che sarebbe diventata sempre più acuta fra natura, cultura e società. L’idea stevensiana di caduta è più vicina alla sensibilità della prima generazione dei romantici inglesi, anche se ritengo eccessivo definire Stevens come l’ultimo dei romantici. Se mai, lo accomuna a Wordsworth l’appartenenza, almeno come punto di partenza, ai poeti della tradizione protestante. Ne scrive Massimo Bacigalupo nell’introduzione a L’angelo necessario Coliaeum editore, Milano 1988, pag.10.

8 La prefazione alle Ballate Liriche si trova on line in diversi siti britannici. Mi sono servito  della versione inglese di Wikimedia, ma ne esistono altre. Nelle citazioni che seguono riporterò solo la traduzione italiana, vista la facilità con cui si può attingere agli originali in inglese. A volte la traduzione è mia come in questo caso, altre volte tratta da siti italiani.

9 Questa parte della prefazione è tratta dal sito italiano La soffitta incantata, il mio mondo fra parole e sogni.

10Egli (il poeta ndr) ha perduto il mondo soprattutto perché i grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra … Questa citazione, ripetuta anche in altre forme, ricorre più volte in Stevens; nel caso specifico si trova in L’angelo necessario a cura di Massimo Bacigalupo traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Milano 1988, pag. 216. La seconda citazione è tratta dalla lettera 521, indirizzata appunto a Henry Church.

11 Anche questa citazione dalla Prefazione alle Ballate liriche è tratta dal sito italiano La soffitta incantata.

12 Sebbene il loro apporto non si discosti dai canoni indicati in precedenza, è utile riscoprire la poesia delle poete romantiche, molto seguite e del tutto integrate nei consessi letterari del tempo, ma poi dimenticate. Va dato merito all’editore italiano Carocci, di averle riscoperte alcuni anni fa e pubblicate con testo a fronte. Le loro opere cambiano qualcosa nelle gerarchie del valore, rispetto alla canonizzazione tradizionale?  Una risposta esaustiva è impossibile darla per la scarsità di studi anche da parte della critica letteraria nata in ambito femminista. Tuttavia, almeno una di loro e cioè Mary Blachford Thige (18772-1810), va posta nel Pantheon delle voci più originali di entrambe le generazioni. In: Antologia delle poetesse romantiche inglesi, a cura di Lilla Maria Crisafulli, in due volumi, Carocci editore, Roma 2003. 

13 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum, Milano 1988, pag. 101. La prima citazione è tratta dal saggio Il nobile cavaliere e il suono della parole. Esso fu letto all’università di Princeton durante un convegno dal titolo Il linguaggio della poesia, organizzato da Barbara Church.   Successivamente fu pubblicata nel 1942 per Princeton University Press.  La seconda si trova nello stesso libro ma in un saggio dal titolo L’immaginazione come valore, alla pag. 224.