L’epica al salotto Galzio: Il video

Care amiche e cari amici,

qui di seguito vi invio il link (video in azzurro) per accedere alla registrazione su YouTube della serata dell’8 ottobre. Nella descrizione troverete indicati i nomi degli autori partecipanti. A chi fosse interessato potrete inoltrare il link per la visione (tutti i video di “Incontri tra Autori” sono pubblici e visionabili sul canale YouTube di Gabriella Galzio, di salotto Galzio e di Incontri tra Autori).

Ringraziandovi ancora tutti della viva partecipazione, vi auguro un buon fine settimana, un caro abbraccio Gabriella

video

DI EPICA NUOVA AL SALOTTO GALZIO

Vi confermo l’appuntamento di martedì 8 ottobre, ore 17.00, per una serata di letture e scambi all’insegna di “Poesia e ricerca nel mare che ci spetta”. Questo, il titolo scelto dai due curatori, Paolo Rabissi e Franco Romanò, dell’antologia di epica nuova appena uscita, cui sarà affidata anche la conduzione della serata, al fine di presentare al meglio l’antologia e gli autori antologizzati presenti.

Personalmente, ritengo che questa antologia, che porta come sottotitolo “laboratorio di poesia critica”, abbia il pregio di invitare a confrontarsi sull’epica a un livello più alto, quello della teoria letteraria e della sua messa in discussione.

DUBBIO E VERITÀ

Premessa

Anni fa fui invitato al festival della letteratura di Alessandria. Partecipai con qualche perplessità dal momento che il tema era di carattere filosofico. Alla fine decisi di farlo. Quella che segue è la trascrizione scritta del mio intervento. Non ho cambiato nulla, anche se oggi il finale meriterebbe ulteriori riflessioni alla luce di quanto sta succedendo a Gaza.

Filosofia e poesia

Il tema che avete proposto è filosofico e la filosofia è stata per migliaia di anni la scienza della verità secondo una nota definizione aristotelica. Sempre Aristotele diceva che: verità è dire le cose come stanno. La frase, o meglio la sentenza, non lascia margini al dubbio: è apodittica, come è nel suo stile dogmatico. Non vi è alcuno spazio, in essa, per il dubbio nel senso moderno, cartesiano e post illuministico che noi diamo a questa parola: qualora esso fosse espresso, lo sarebbe in modo tale da essere un altro darsi della verità.

Per la nostra civiltà occidentale la filosofia è stata per oltre due millenni la lingua in cui la verità poteva essere detta. Tanto è vero che la religione cristiana ha dovuto inventare la teologia, cioè la filosofia applicata alla divinità, per parlare della propria verità; il che è una limitazione in sé e un’involontaria ammissione che il solo modo di parlarne nel contesto occidentale fosse proprio quello, nato peraltro in un contesto pagano.

Perché, allora, mi sono chiesto, una domanda filosofica rivolta a poeti, scrittori e critici, per di più in un tempo in cui la filosofia non è più la scienza della verità?

Pensando ai rapporti fra filosofia e poesia un nome che mi è subito balzato alla mente è ovviamente quello di Giacomo Leopardi. Se apriamo lo Zibaldone, anche a caso, non passeranno molte pagine prima di trovare spunti filosofici, frasi fulminanti e aforismi. La modernità secondo Leopardi porta con sé come effetto inevitabile un processo di razionalizzazione del mondo che tende a cancellarne il mistero: anche la filosofia ne è travolta, diventa frammentaria. Dalla rivoluzione scientifica del 1600 e con le matematiche sempre più sofisticate, poi con Marx e con la fine del 1800 e gli inizi del secolo scorso, con l’opera di Nietzsche, e specialmente con l’irruzione della psicanalisi, i pretendenti a dire la verità sono diventati molti in Occidente, ma specialmente è venuta meno la possibilità di definire la filosofia come scienza della verità. Allora mi sono interrogato, volendo tenere fede il meglio possibile al vostro cortese invito a partecipare a questo convegno, su che tipo di percorso scegliere.

Naturalmente la morte della filosofia come scienza della verità, sancita da Nietzsche che in fondo della filosofia sistematica fu il curatore fallimentare, non significa di per sé né la morte della verità né il venir meno della necessità di cercarla; ma il punto è proprio questo. Dubbio e verità appartengono entrambi a un contesto culturale: come parlarne al di fuori di quel contesto? Da persona che ha a che fare da sempre con la scrittura poetica, narrativa, letteraria in genere, cosa posso dire su un tema come questo? Ma forse c’è una domanda ancora prima di questa, che occorre porsi anche se si dovesse ritenere positiva la riposta: non è una forma di presunzione tornare a parlare di verità?

Tutto il percorso compiuto dalla cultura occidentale durante il secolo scorso si potrebbe leggere come un cammino dall’andamento schizofrenico, che passa bruscamente dalle certezze assolute all’impossibilità del darsi di una qualunque verità. Se immaginiamo una specie di bilancio del ‘900 scritto secondo i dettami di un bilancio aziendale potremmo mettere sulla colonna delle certezze assolute i totalitarismi politici e nell’ultima parte del secolo, che sconfina nell’oggi, quelli religiosi, scaturiti tutti dall’alveo delle religioni monoteiste e che si definiscono, con un termine per me sempre più ambiguo e inquietante, positive. Sempre dal lato delle certezze assolute possiamo annoverare la tecnologia, ma anche un certo modo di concepire l’economia.

D’altro canto, se mettiamo dall’altra parte della colonna tutti i momenti di incrinatura di queste certezze, avremo un elenco altrettanto ricco. È curioso, per esempio, che il secolo dell’onnipotenza tecnologica e scientifica sia stato inaugurato dal principio di indeterminazione di Heisemberg e, nel 1931 dal teorema di Gödel. La filosofia, caduti i totalitarismi, sembra diffidare di qualsiasi pensiero forte. Il pensiero comune d’altro canto, ha spesso esteso, talvolta equivocandole, alle teorie scientifiche – trasformandole in pure metafore – lo statuto veritativo perso dalla filosofia. Così, per esempio, la Teoria della Relatività (cui peraltro Einstein aveva dato il nome molto meno evocativo di Teoria delle Invarianti), è diventata uno dei secchi per portare l’acqua al mulino del relativismo. Tuttavia, anche il relativismo assoluto è una forma di totalitarismo. Il pensiero debole non ci risparmia dal dominio: solo che invece di essere dominati dalle idee forti siamo dominati dalle sciocchezze, dal mercato, dalle opinioni.

La poesia è stata un altro modo di dire la verità nel senso che veniva delegata ad essa una funzione equilibratrice, di cui i poeti erano il tramite. Alla poesia e anche agli sciamani e poi ai sacerdoti competeva di rappresentare le sentinelle delle paure o delle gioie collettive, oppure di vigilare sulla soglia che separa l’umano dal sacro e anche dal divino. In tempi molto lontani dai nostri, la poesia ha rappresentato la voce più profonda della comunità. La poesia nasce rituale e orale, ma nella modernità essa diviene una specializzazione fra le tante; si è verificata in sostanza la previsione di Leopardi. Oggi, almeno in Occidente, la poesia, ma potremmo parlare dell’arte in generale, è diventata una disciplina, oppure un business nelle mani dei galleristi, dei critici, dei poteri editoriali, dell’industria culturale, di lobbies di varia natura.

Di tutto questo io cerco di darmi una ipotesi di spiegazione che ha poco a che vedere con la poesia o l’arte in senso stretto. Penso che questo fenomeno sia un deja vu e che appartenga per necessità a tutte le civiltà in decadenza. Mi sembra di assistere a un film che ho visto a scuola quando mi parlavano della caduta dell’Impero Romano: tutte le grandi civiltà passano da alcune certezze incrollabili (non molto diverse dai postulati della matematica o della geometria), sulle quali costruiscono il loro edificio storico, e finiscono in un’equivalente di quello che la seconda legge della termodinamica definisce con il termine di entropia. Se così fosse, quale strade si aprono davanti a chi, pur intuendo l’ineluttabilità di questo processo (così come lo intuiva Leopardi), non vuole tuttavia arrendersi al nichilismo o a una rassegnata e passiva accettazione della fine?

Alcuni grandi poeti che appartengono alla nostra cultura, credo si siano cimentatati più di altri con questo nodo gordiano e pur dando risposte fra loro diverse, non hanno cessato di rappresentare un’alterità, minoritaria finché si vuole, ma omeopaticamente resistente nel tempo. Petronio e Rutilio Namaziano sono stati, nella tarda romanità, i maestri di questa resistenza passiva, sebbene al secondo mancasse la consapevolezza che sono sempre i barbari a rifondare le civiltà. Nei nostri tempi moderni Leopardi ha rappresentato e rappresenta ancora un esempio di resistenza di lunga durata. Ripercorrere i suoi grandi idilli e specialmente alcuni di essi (il Canto del pastore errante, per esempio), significa essere di nuovo posti di fronte al limite dell’umano e all’irriducibilità del mistero.

Nel secolo appena trascorso alcuni grandi poeti hanno saputo attraversare la modernità, aprendo orizzonti di superamento: l’Eliot più mistico, non quello minimalista che va di moda in Italia, Wallace Stevens, Wislawa Symborska. Ce ne sono altri, ne cito solo alcuni che conosco meglio per lunga frequentazione e anche per la possibilità (per i primi due), di frequentarli nella loro lingua originale. Ciò che questi grandi della poesia contemporanea hanno in comune è una visione che cerca di andare oltre l’occidente. La fine di una civiltà, o la sua decadenza, non è mai la fine di tutto, ma il compiersi di un ciclo.

I barbari, dicevo, sono sempre stati i rifondatori delle civiltà. Credo che sia vero anche oggi, sebbene sembri che di barbari in senso storico non ne esistano più. Storicamente il barbaro veniva da un altrove sconosciuto. Oggi i luoghi sconosciuti non esistono più e quando l’occidente è invaso da flussi migratori imponenti come accade oggi, chi arriva ha già largamente assorbito valori occidentali, è già occidentale; oppure, come una parte del mondo islamico, reagisce violentemente ma in modo subalterno a un modello culturale verso il quale prova un’inestricabile ambivalenza. Chi sono allora i barbari contemporanei? Mi verrebbe da dire che sono prima di tutto i disertori dalle certezze dell’occidente e gli eterodossi passati attraverso il maglio delle ortodossie. Ciò che mi stupisce di una poeta come la Symborska ogni volta che la leggo, è proprio il suo avere raggiunto una cifra gnostica e sapienziale dopo essere passata attraverso niente meno che l’estetica del realismo socialista. Proprio per avere attraversato questo momento dell’arte europea la sua testimonianza diventa decisiva. E allora uno dei modi per tornare a ragionare sulla verità ci potrebbe riportare, dopo avere percorso strade tortuose, proprio a quella definizione aristotelica così perentoria e autoritaria: la verità è dire le cose come stanno; con una differenza cruciale, tuttavia. Per il filosofo greco equivaleva a dirla in modo filosofico. Per noi potrebbe voler dire testimoniare, raccontare le cose come stanno, riportando il pensiero dentro la testimonianza e non facendone un’entità separata deputata a dire verità assolute inesistenti. È il coro delle testimonianze a dire la verità di un’epoca e forse allora anche la poesia, se la intendiamo in questo modo, può essere di nuovo un modo di testimoniare dove, in un’epoca come la nostra, si colloca il limite che è bene non superare, l’assenza che genera il vuoto che deriva dalla mancanza di senso. Il coro delle testimonianze, tuttavia, implica anche che un percorso di verità, visto come un andare verso, debba a mio avviso liberarsi della gabbia del pensiero unico, che non è superficialmente quello che noi intendiamo oggi, ma che viene da lontano, da una visione della verità che poteva essere detta in un solo modo. E non è un caso che Aristotele fosse scelto come filosofo d’elezione dal cristianesimo: è la reductio ad unum delle religioni monoteiste il primo pensiero unico che va messo in questione. E allora vorrei concludere citando un grande poeta che questa volta, tuttavia, vi proporrò come pensatore. Non è un poeta occidentale, anche se la sua cultura vasta lo porta spesso verso il confronto con la nostra cultura. Parlo del poeta siro libanese Adonis. Quello che egli dice in questo brano si riferisce al Mediterraneo, ma può essere, a mio giudizio, esteso all’intera Europa che cerca oggi in modo alquanto disorientato la propria identità. Dice Adonis:

… la visione monoteista è una dismisura della divinazione. Così il monoteismo si pone agli antipodi della presenza mediterranea: sole, amore, amicizia, vino, carne, piacere, tavola, ospitalità ed è agli antipodi della vita come festa perpetua. Separando dio dalla natura e dall’umano la vicenda monoteista ha separato l’uomo dalla sua natura, dalla natura. Questa separazione esprime il disprezzo della materia per meglio glorificare l’astrazione … Accade oggi che questa visione è essa stessa sulla via di distruggere lo spirito mediterraneo e l’unità fra le due rive. Noi ci ricordiamo bene che l’Europa ha preso il suo nome dalla dea fenicia Europa e che questo nome dipende da un fatto puramente culturale. Cadmo, il fratello d’Europa, andando alla sua ricerca nel paese di Zeus che l’aveva rapita, non era accompagnato dai soldati o da una qualunque armata. Aveva l’alfabeto come solo compagno … La cultura delle due rive del Mediterraneo è oggi antimediterranea, e io non prenderei che un solo esempio per illustrare la mia tesi: Gerusalemme, la città più sacra del monoteismo istituzionalizzato, è ormai una sorta di vai e vieni tra una preghiera quasi cieca e una spada totalmente cieca …

Di epica nuova

Di epica nuova, laboratorio di poesia critica nasce dal blog diepicanuova, creato nel 2013. Nel 2022 abbiamo deciso di farne testo cartaceo. Il percorso compiuto negli anni aveva un punto di partenza: documentare la presenza di un filone epico nella poesia contemporanea, assai fiorente in altre letterature, ma presente sotto traccia anche nella poesia contemporanea italiana. Nel farlo ci siamo resi conto che c’era con noi un convitato di pietra: l’Espressionismo. Proprio da questo siamo partiti con un ampio primo capitolo, che ne considera i diversi aspetti, sia in pittura sia in poesia.

Nel secondo capitolo, intitolato Metaloghi sulla poesia, la riflessione entra nel vivo ponendo in termini problematici e interrogativi  questioni di estetica e critica letteraria più focalizzate sulla poesia italiana di primo e secondo novecento.

Nel terzo capitolo sono raccolti gli autori che nel blog avevamo indicato con il titolo di testi manifesti e che costituiscono un punto di riferimento.

Nel quarto capitolo, dal titolo il Multiverso il dibattito fra molti e molte, la riflessione continua sugli stessi temi, ospitando le riflessioni critiche di poet* contemporanei.

Infine, nel quinto capitolo dal titolo Laboratorio, la parola è ai testi poetici contemporanei.

Il libro è disponibile in Amazon, Mondadori store e può essere ordinato su richiesta anche le maggiori librerie.

RILKE – BRODSKJ – ORFEO

Bassorilievo napoletano: Orfeo, Euridice, Eermete

Premessa

Orfeo non era fra i miei miti più frequentati fino a che non ho letto un saggio di Brodskj, dedicato a una poesia di Rilke, un altro autore rispetto al quale mi ero sempre tenuto un po’ a distanza finché non l’ho incontrato in quella straordinaria avventura epistolare a tre – Settimo sogno –  su cui ho già scritto in questo blog un saggio a cui rimando.1 La diffidenza rispetto a Rilke come a Orfeo riguardava più che altro la riproposizione dell’orfismo nel pieno della modernità. Era stato Apollinaire ad annunciare la nascita del cubismo orfico nel 1912. Dell’impresa facevano parte Delaunay, il gruppo di pittori del Blaue Reiter, Duchamp e addirittura i futuristi italiani e Léger! Secondo Apollinaire il carattere orfico del gruppo sarebbe consistito nel fare riferimento alla parte irrazionale dello spirito, con sconfinamenti nel magico. I testi in auge durante quegli anni erano, in poesia, Coup de dés di Mallarmé e per quanto riguarda la teoria o la filosofia, un libro scritto a sei mani da Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sebastien Voirol La poesia dell’oralità, dove si parla fra le altre cose del simultaneismo orfico. Con tutto ciò, a dire il vero, Rilke non ha nulla a che fare, anche se il nome di Orfeo è presente dall’inizio alla fine della sua opera. Peraltro, a un secolo di distanza, è pure arduo capire cosa potessero avere in comune Leger e i futuristi italiani (e anche quelli russi), se non una generica e comune attenzione alla civiltà industriale. Tuttavia, mentre Leger e i russi esaltavano l’operaio e lo mettevano al centro della fabbrica, i futuristi italiani vedevano solo nel macchinismo, nella velocità e nella tecnologia il cuore del processo. Allo stesso modo, l’associazione fra orfismo e poesia sonora stabilita dal simultaneismo è assai risibile: scambiare il ta ta ta ta ta futurista per una formula magico rituale orfica indica soltanto una grande confusione e superficialità, trattandosi semplicemente dell’imitazione del suono di una sequenza di spari. Tornando a Rilke, il suo orfismo andava cercato altrove e cioè negli aspetti esoterici della sua ricerca e il suo legame con i miti, come avevano messo in luce tutti gli studiosi che si erano occupati di lui, sia nella prima parte del ‘900 sia nella seconda: Furio Jesi fu lo studioso che più se ne occupò in Italia proprio in quegli anni. Tuttavia, Rilke rimane anche oggi una presenza sfuggente e infatti il suo curioso destino è sempre stato quello di essere molto osannato e al tempo stesso preso con le molle, tenuto un po’ a distanza, considerato oscuro; oppure oggetto di aneddoti che costituivano un alone di mistero intorno a lui. Questo saggio per la sua lunghezza sarà diviso in due parti. Nella prima mi occuperò prima di tutto del saggio di Brodskj, nella seconda del mito di Orfeo.

Parte prima: Il saggio di Brodskj

Il titolo del saggio di Brodskj, Novant’anni dopo, è tanto impegnativo da diventare rivelatore dell’importanza che il suo autore attribuisce al poemetto di Rilke, la cui stranezza si evidenzia a partire dal titolo: Orfeo, Euridice. Ermes

La virgola separa i due primi nomi, poi il segno di interpunzione: nulla dopo il terzo nome.1 L’interpretazione che Brodskj ne dà è semplice e convincente: Orfeo ed Euridice, in quanto appartenenti al mondo degli umani, sono esseri finiti, mentre Ermete essendo un dio è aperto all’infinità. Con questo titolo, tuttavia, Rilke sembra volerci dire anche qualcosa d’altro e cioè che non ha alcuna intenzione di attualizzare il mito, ma di tornarvi in senso letterale, senza porsi particolari interrogativi, per cui fin dall’inizio vuole farci intendere che non dobbiamo attenderci alcuna sorpresa: lui, come noi, sa già come andrà a finire. Questo poemetto è del 1904 ed è stata scritto quando Rilke non era ancora diventato tale. Spesso ci dimentichiamo che un poeta o uno scrittore non sono gli stessi prima e dopo certe opere: vale per Dante con la Commedia, per Leopardi con L’infinito; vale in misura minore anche per Rilke. In quell’anno egli è un giovane poeta come tanti altri, ramingo per l’Europa: un flaneur un po’ fuori tempo massimo che prende per la coda uno dei vezzi più comuni agli artisti e intellettuali centro e nordeuropei del ‘700 e dell’800: il Grand Tour. Il motivo ispiratore occasionale del testo sembra essere stato un bassorilievo visto in un museo di Napoli, in cui sono scolpite tre figure ripiegate su se stesse: Orfeo, Euridice ed Ermete. Non è chiaro in quale occasione o passaggio delle lettere o altro, Rilke abbia accennato a tale bassorilievo. Forse Brodskj ne parla come di un proprio ricordo, perché pure lui non indica la fonte e a leggere il testo pare persino che abbia dato credito a qualcosa che gli è stato raccontato. Tutto questo, a ben vedere, è molto rilkiano perché il poeta boemo era noto per cancellare o lasciare nel vago le fonti delle sue ispirazioni e persino le sue letture. Le lettere spedite a Lou Salomé dall’Italia proprio in quel periodo non aiutano, così come non aiutano in altri casi. Peraltro, Brodskj nega che esista un rapporto di qualche importanza fra il bassorilievo e la poesia e inizia la sua analisi con una lunga premessa con la quale vuole escludere qualsiasi riferimento personale alla base di questo testo. Tuttavia nel parlare di una fuga dalla biografia, egli usa un’espressione assai ambigua e in molte altre parti della sua acutissima analisi del testo rilkiano, gli accenni a possibili elementi biografici non mancheranno; il che fa supporre, se mai, una ritrosia a parlarne, ma anche l’impossibilità di negarli. Del resto, se sono così labili le tracce di questo bassorilievo, perché mai dedicarvi tanto spazio per poi negarne l’importanza? Bisogna considerare che Brodskj, anche in altri saggi, insiste sulla necessità di non ricercare elementi biografici o altro in un testo poetico, dichiarando più volte (cito a memoria) che quando la metafora è riuscita non occorre altro. Vero, ma fino a un certo punto: la sua insistenza eccessiva sembra fatta apposta per suggerire il contrario e l’espressione fuga dalla biografia può essere letta come il segno evidente di un motivo ispiratore molto forte e assai personale, tanto personale che si potrebbe addirittura pensare alla faccenda del bassorilievo come a una voluta opera di depistaggio messa in atto da Rilke medesimo.

Il poemetto inizia quando Orfeo, già disceso nell’Ade, sta risalendo insieme a Euridice e a Ermes che li accompagna:

Era la prodigiosa miniera delle anime./Come vene d’argento silenziose/scorrevano il suo buio. Tra radici/ sgorgava il sangue che affluisce agli uomini/e greve come porfido appariva nel buio./Di rosso altro non c’era.//Rupi c’erano, selve incorporee e ponti sul vuoto/e quell’enorme, grigio, cieco stagno,/sospeso sopra il suo lontano fondo/come cielo piovoso su un paesaggio./E in mezzo a prati miti di pazienza,/pallida striscia, un unico sentiero era visibile/come una lunga tela distesa ad imbiancare.//E per quest’unico sentiero essi venivano.2

Siamo dunque in medias res, ma il mito non inizia da quel momento, se non altro per la banale considerazione che Euridice prima di essere morta è stata viva e nell’Ade non c’è andata di sua volontà. L’affermarsi di un’interpretazione, oppure il riferirsi solo a parti di un mito ha certamente le sue ragioni; ciononostante, non va dimenticato che si tratta pur sempre di visioni parziali che, se non vengono più sottoposte da lungo tempo a un vaglio critico, rischiano di diventare altrettanti stereotipi. Inoltre, il mito è stato più e più volte rivisitato, riattualizzato, setacciato, interpretato da altri scrittori, musicisti, pittori. Per rimanere solo al ‘900 italiano basterà ricordare Pavese nei Dialoghi con Leucò. La ricchezza e la complessità di questo mito, mettono chiunque ne voglia parlare e scrivere di fronte a un compito assai arduo. Inoltre, sebbene il momento in cui Orfeo si volta sia uno dei passaggi chiave, rimane pur vero che ce ne sono altri, per esempio l’inizio della storia e ciò che provoca la morte di Euridice; ma ancor più stupisce che Rilke, a differenza di quasi tutti coloro che nella storia se ne sono occupati, non sembra dare particolare rilevanza neppure a quel momento. Lo abbiamo visto a cominciare dal titolo, ma sarà ancora più evidente in alcuni versi su cui anche Brodskj si sofferma a lungo:

Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,/i due. Se per un attimo/gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare/non fosse la rovina dell’intera sua opera/prima del compimento)/li vedrebbe i silenziosi due che lo seguivano:…

L’accenno alla necessità di non voltarsi è messa fra parentesi, come se fosse scontato per l’uditorio che legge il suo testo; lo è, tutti sappiamo – lo ripeto – come va a finire la storia, ma si mette fra parentesi anche ciò che non è rilevante, come nota anche Brodskj, seppure dando un’interpretazione della mossa compiuta da Rilke diversa. Invece, credo che chiunque abbia udito questa narrazione la prima volta (nel mio caso fu in un’aula scolastica), arrivato alla fine si sia chiesto perché mai Orfeo si fosse voltato, visto che era la sola cosa che non doveva fare! Tuttavia, sembra che a Rilke tale domanda non interessi e in fondo anche il bassorilievo di Napoli non se ne cura: esso infatti riproduce le tre figure nel momento in cui si avviano per il sentiero di risalita. Di questo bassorilievo, peraltro, esistono diverse copie e anche altri miti vengono raffigurati in queste tavolette che sono anche l’imitazione di pezzi antichi e autentici ritrovati a Pompei: uno famosissimo è quello che riproduce l’immagine di una fanciulla che diventerà la Gradiva, un altro personaggio che all’inizio del ‘900 ha occupato le fantasie di Jensen e specialmente di Freud. L’immagine di Euridice ricorda assai quella della Gradiva e tutto questo rimanda a un immaginario popolare e al tempo stesso ingenuamente classicista. Brodskj vede nel segno grafico della parentesi entro la quale il poeta boemo accenna al divieto di voltarsi imposto a Orfeo dagli dei, un segno di attenzione nei confronti del lettore e forse di ironia: un ricordargli la storia, in sostanza. Anch’egli afferma subito dopo che ciò che si mette fra parentesi è anche qualcosa cui non si dà importanza ma nell’economia della sua critica Brodskj privilegia la versione di un avvertimento fornito al lettore. Credo invece che la ragione forte sia la prima: Rilke mette fra parentesi l’accenno al divieto perché per lui non è quello il motivo che lo ha spinto a scrivere il suo testo. Inoltre: è davvero realistico pensare che un lettore di Rilke nel 1904 e negli anni successivi, avesse bisogno di ricordare il divieto? La parentesi serve a Rilke per ribadire che non è quello per lui il momento topico del mito. Per giungere al passaggio che gli sta a cuore, il poeta ha ancora bisogno di tempo, deve girare un po’ al largo, caratterizzare tutti i personaggi, ma specialmente deve ritardare il momento in cui il testo lo porterà ad attraversare un passaggio particolarmente difficile; i versi che precedono servono anche a tenere quel momento, finché si può, lontano da sé. La parte centrale del poemetto ha questo scopo e Brodskj l’analizza puntualmente mettendo in evidenza la bellezza e le immagini davvero uniche di questa poesia, specialmente quando descrive Euridice, come si muove, le sue espressioni, il suo corpo. Il momento topico arriva con questi versi che seguono e che introducono un elemento di differenziazione che è proprio l’apporto che Rilke dà alla rilettura del mito. Insieme a essi riporto anche quelli immediatamente precedenti, che completano la descrizione di Euridice:

…/Era già sciolta come lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra/e divisa come un retaggio in cento/E quando all’improvviso/il dio la fermò e con dolore/pronunciò le parole Si è voltato! – lei non comprese e disse piano: Chi?/

Il monosillabo sussurrato da Euridice a Ermete risuona a lungo nelle orecchie di un lettore, anche di quello silenzioso; sebbene sussurrato sembra aprirsi in chi legge in un urlo senza fine. Anche Brodskj sottolinea l’importanza di questo passaggio che fa balzare sulla sedia, ma l’interpretazione che ne dà non mi convince e suona come un indoramento della pillola. Riconosce che in esso emerge qualcosa di personale e profondo che Rilke tradurrebbe nell’esperienza dell’estraniamento romantico, di cui, il chi sussurrato da Euridice sarebbe la metafora riuscita. Per spiegarlo meglio Brodskj ricorre a un aneddoto: immagina che un uomo (e uso il termine in senso parziale perché a mio avviso Brodskj aveva in mente un soggetto maschile forse perché penso che una donna non si comporterebbe così), passando per caso davanti alla casa di una ex che sia stata importante nella sua vita, venga preso dalla tentazione di suonare il citofono e di presentarsi con il proprio nome e di udire dall’altra parte la persona che fu la nostra compagna risponderci – dopo un momento di smarrimento – con un laconico: Chi? Brodskj afferma che se ci capitasse un’esperienza del genere capiremmo di essere stati sostituiti. Non concordo. Rilke in questo passaggio mette in scena ben altro e non ha in mente un accadimento in fondo così minore, anche se non abbiamo indizi ma solo supposizioni su quale sia il retroterra personale sullo sfondo del poemetto. Se ci capitasse un’esperienza come quella descritta da Brodskj, se mai, verremmo colpiti nel nostro narcisismo secondario e basta; ma se quel chi fosse l’eco di qualcosa di più profondo e fosse risuonato nelle orecchie di Rilke perché legato a un’ossessione che lo ha costantemente accompagnato per tutta vita – la ricerca spasmodica delle sue origini – quel chi avrebbe un altro significato: non capiremmo semplicemente di essere stati sostituiti, ma di essere morti per l’altro o l’altra che abbiamo interpellato, di non esserci più, addirittura di non esserci – forse – mai stati. Rilke mette veramente in scena qualcosa di nuovo e di diverso, che afferra allo stomaco e al cuore, nonostante che la scelta, felicissima sul piano poetico, abbia tuttavia anche degli aspetti paradossali, se ci fermassimo al teatrino. Perché Rilke sa che Euridice è già morta, lo ha descritto con accenti di straordinario struggimento e bellezza in versi precedenti questi e sui quali Brodskj ha scritto pagine mirabili cui nulla vi è da aggiungere. Perché allora fare parlare una defunta che per di più si rivolge a un dio, cosa che è vietata dal pantheon classico? La spiegazione che Rilke può farlo perché è un moderno e addirittura forse già un post moderno non convince per nulla. Non vi è in questo testo niente di postmoderno, la sua grandezza è dovuta in buona parte proprio a tale assenza. Rilke può farlo perché non rilegge il mito secondo il canone letterale e tradizionale delle sue interpretazioni correnti, ma vi introduce un elemento del tutto nuovo: il dolore che mette in scena non è quello di chi ha subito una perdita, o è stato sostituito, ma quello inspiegabile e definitivo di chi è stato perduto o non riconosciuto e nemmeno accolto nel mondo. La poesia però non finisce qui e non poneva finire qui: sarebbe stato concluderla con un colpo di teatro, con una battuta geniale ma – questa sì – postmoderna; ma ciò presupporrebbe un’intenzionalità diversa, parodiare il mito, che non era l’intento di Rilke. Perciò la poesia necessita di uno scioglimento che avviene con questi versi:

/Ma lassù scuro all’uscita chiara,/stava qualcuno, irriconoscibile./Stava e guardava un tratto del sentiero/in mezzo ai prati dove il dio del messaggio/si voltava in silenzio, mesto in viso,/e si avviava a seguire la figura/che già ripercorreva quel sentiero,/con il passo frenato dalle bende,/incerta mite e senza impazienza./

Il tono è dolente, il tutto finisce in una lunga scia che si attenua e ricorda certi struggenti finali wagneriani. Appare però un nuovo personaggio, che Rilke nei suoi versi decide di non nominare direttamente, ma solo tramite l’aggettivo irriconoscibile. In realtà è riconoscibilissimo e lo sa anche il poeta. Brodskj si chiede se avesse potuto nominarlo direttamente: in teoria sì, ma c’erano almeno tre buone ragioni per non farlo. Prima di tutto una citazione diretta sarebbe suonata troppo didascalica; in secondo luogo perché il lettore può capire da solo di chi si tratta. Per la terza ragione bisogna passare attraverso una domanda che la precede e cioè chiedersi se Rilke non avrebbe fatto meglio a non nominarlo del tutto. La risposta sta nel primo verso della parte finale, ma lassù all’uscita chiara. Rilke si è già congedato dalla scena e considera il finale come il compiersi oggettivo e impassibile del fato, da un lato; dall’altro, egli vede le cose dal punto di vista di Orfeo, ma non nel senso di un’immedesimazione diretta, diciamo psicologica nel personaggio, ma semplicemente oggettiva e realistica. Tornando alla luce dall’Ade, Orfeo ne è abbagliato e non può vedere il qualcuno scuro che sta in alto – Crono – il dio che sintonizza gli orologi che scandiscono un tempo diverso per i vivi e i morti. Orfeo ed Euridice andavano fin dall’inizio in due direzioni opposte, era solo un’illusione di Orfeo che tutti e due stessero davvero andando verso la luce e la vita e quando Crono ha fatto scattare il meccanismo del tempo, si sono trovati l’uno di fronte all’altra; oppure – come ipotizza Brodskj, Crono li ha fatti voltare tutti due contemporaneamente. A conclusione di questa parte ricordo di nuovo l’inizio del saggio di Brodskj e il suo titolo impegnativo: Novant’anni dopo. La spiegazione di tale scelta è il poeta russo medesimo a darcela e a leggerla essa suona un’ovvia conseguenza del titolo stesso:

Era il 1904 quando Rainer Maria Rilke scrisse Orfeo. Euridice. Ermes, e qualcuno può domandarsi se la più grande opera di questo secolo non fu creata novant’anni fa.” (ndr: il saggio di Brodskj fu scritto nel 1994)

L’iperbole usata da Brodskj è accettabile, anche perché il poeta non ignora di certo quanto sia difficile stabilire delle graduatorie in questo campo, ma essa può essere accolta senz’altro non solo come iperbole ma anche nella sua parziale verità. Tuttavia, nell’affermazione di cui sopra vi è una seconda parte nascosta, che Brodskj non credo avrebbe sottoscritto una volta resa esplicita e la cui responsabilità dunque è tutta mia. Il titolo del saggio, che il poeta russo lo volesse o meno, contiene un po’ di veleno nella coda e avendo a che fare con un mito in cui una parte rilevante ce l’ha anche il morso di una serpe, forse la cosa vale la pena di notarla. Dire che questa è la più grande poesia del ‘900, significa anche affermare che quanto Rilke ha scritto dopo e cioè le Elegie duinesi e il Sonetti a Orfeo, sono opere inferiori rispetto a questa. Faccio mia senza riserve tale ipotesi. Orfeo, Euridice. Ermes chiude a mio giudizio la stagione del Rilke poeta e ne apre un’altra: quella del letterato erudito e grande illusionista. Tuttavia, poiché un poeta può rimanere ed essere decisivo anche per avere scritto una sola poesia, Rilke, grazie a questo testo, merita anche l’iperbole di Brodskj, forse con una leggera aggiunta: è la più grande poesia del ‘900 secondo i canoni di una poetica. Del resto il poeta boemo, in uno dei non frequenti momenti in cui ha lasciato delle vere tracce di sé e non dei depistaggi, ha ammonito il lettore e il critico della sua poesia con queste parole che cito a memoria: Guardate che io sono l’ultimo di una lunga schiera. La schiera cui allude è quella dei poeti orfici, ma nel dirlo Rilke dimostra anche di avere avuto quanto meno la consapevolezza che essere l’ultimo potrebbe anche voler dire, oltre che esserlo in ordine di tempo, che la miniera è stata scavata a lungo, che l’oro rimasto è poco, che non si può pensare che l’orfismo possa rinascere nella sua pienezza, che le poetiche sono necessarie come punto di partenza, ma che in definitiva un poeta è tale se poi è capace o meno di apportarvi del nuovo; altrimenti si cade nella ripetizione. È quanto avviene dopo, specialmente nei Sonetti a Orfeo, che sono, rispetto al poemetto del 1904, pura letteratura erudita, o addirittura come scrisse Giovanni Papini in un articolo del Corriere della Sera del 1954: “trappolerie più pretenziose che preziose.”


1 Il saggio s’intitola Rilke – Cvetaeva – Pasternak e si trova nella rubrica Amori letterari del blog.

1 Josip Brodskj. Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1995, pp. 207-67.

2 Il testo in questione si trova nel libro di Brodskj, in coda al suo saggio, ma è reperibile facilmente anche in rete.

ONDA SONORA, UN PROGETTO INTERMEDIALE

Festa per Vocale.

Premessa

Su invito della curatrice Elisa Longo ho partecipato a una puntata di Vocale, andata in onda su Fango Radio il primo aprile scorso e ora disponibile in podcast: un’esperienza per me nuova, assai intrigante che mi ha spinto a una riflessione che vuole essere però anche un dialogo. Ho proposto allora alla curatrice un’intervista che viene pubblicata qui di seguito insieme a tutti riferimenti riguardanti anche tutte le puntate precedenti di Onda sonora di Vocale e il progetto trasmesso da Fango Radio.

Franco Romanò: Parto dalla mia esperienza di ascoltatore che ha cercato di dimenticare la sua partecipazione in quanto autore: ho ascoltato tutto due volte, seguendo le istruzioni che lei aveva dato e cioè di ascoltare in cuffia. Il tempo è passato rapidamente e giunto alla fine a me era arrivato l’effetto di flusso, peraltro evocato anche nell’espressione onda sonora: probabilmente per cogliere anche le sfumature due ascolti non bastano, oppure è una questione di abitudine e di certo andrò ad ascoltare anche le puntate precedenti. Questa è la mia prima riflessione e questione che le pongo, basata unicamente sulla mia esperienza.

Elisa Longo: In primo luogo sono contenta del dialogo, per le sue riflessioni e la curiosità verso questo progetto.

Vocale rappresenta un flusso, un’onda, un viaggio attraverso il vasto campo della Poesia. Il suo fondamento si ritrova nel concetto di stream of consciousness introdotto da Joyce. Quando mi immergo nella lettura e nell’ascolto della poesia, la mia mente si popola di pensieri, suggestioni, e altro ancora, che talvolta sembrano estranei alla stessa poesia. Ho l’abitudine di registrare le poesie che mi colpiscono di più e di riascoltarle durante le mie attività quotidiane. Mentre le ascolto, si mescolano suoni, melodie, parole e dialoghi provenienti dal mondo circostante. Questo fenomeno a volte può risultare fastidioso, ma altre volte arricchisce l’esperienza d’ascolto, spingendomi a essere più attenta. La presenza di scenari reali in cui la poesia si inserisce mi fa percepire la poesia stessa come parte integrante della vita quotidiana. Vocale riporta la poesia alla sua dimensione vitale, integrandola nel flusso della vita di tutti i giorni.

Quante volte ci capita di essere interrotti durante la lettura da suoni estranei, come un messaggio o una canzone? Vocale si muove a destrutturare lo spazio tradizionalmente adibito alla poesia, che sia una pagina, un contesto o un ambiente. La poesia è concepita come un’entità permeabile e penetrante, che convive con l’ambiente circostante senza perdere la sua integrità.

A volte, è necessario fare più di un ascolto per cogliere appieno l’essenza di un’opera. In certi momenti, possiamo guardare qualcosa distrattamente, trascurando alcuni dettagli, ma se ripercorriamo l’esperienza con attenzione, ci accorgiamo che sono proprio quei dettagli a determinare l’intero quadro. Vocale è pensato sia per coloro che desiderano godere della poesia e dei suoni con un semplice ascolto e farsi travolgere dall’onda, sia per coloro che vogliono prendersi il tempo di rallentare, ripercorrere e approfondire. È per questo che ogni episodio del podcast è accompagnato da una tracklist completa degli autori, delle autrici, dei brani e delle suggestioni utilizzate. Io nutro sempre la speranza che ci sia un desiderio di approfondimento, e lo suggerisco senza imporlo.

FR: Vengo ora a un secondo aspetto più teorico: l’esperienza di Vocale è da un lato una evoluzione della poesia sonora, dall’altro però l’uso di diversi mezzi ne fa qualcosa di completamente diverso. Nelle performance che ricordo e mi riferisco in particolare a Milanopoesia, il festival organizzato da Gianni Sassi del 1983 nel ’91, c’era pur sempre un autore che andava su un palco anche se poi ci sono documentazioni video di quelle serate. Ecco, qual è stato lo spunto iniziale che ha dato vita a questo progetto e che relazione c’è – se c’è – con la poesia sonora?

EL: Per me, il processo di decontestualizzazione artistica è di fondamentale importanza. Agire in un ambiente predisposto all’ascolto o che suscita emozioni, è un territorio ben noto e relativamente semplice. Ciò che mi interessa veramente è esplorare la potenza e la resistenza della parola quando viene messa in contatto con ambienti insoliti, anche quelli che contrastano con il suo significato. Ricordo chiaramente un’esperienza in cui ho trovato un vecchio furgone russo in mezzo al nulla, in un prato in alta montagna, o quando ho visto un gregge di pecore attraversare una superstrada. In entrambi i casi, gli elementi principali mi erano noti, ma il contesto a loro estraneo rendeva l’esperienza molto più intensa. Il ricordo di quei momenti mi porta ancora a interrogarmi su come quei soggetti siano arrivati lì e sulle potenzialità del circostante, non come luogo accessorio, ma come luogo del re incontro con ciò che si è appreso, al quale si attribuisce un pensiero marmoreo e statico: una risignificazione dell’oggetto stesso e della parola che ne viene associata. Se penso a un gregge di pecore, in automatico il mio cervello associa a questa immagine un contesto appreso – un campo, un prato – a questo concetto e a questo ambiente a noi noto associamo una serie di vocaboli, emozioni, odori, sensazioni. Se invece le dico: “pensi a un gregge che attraversa una superstrada”, immediatamente a questa suggestione aggiunge una serie di emozioni, sensazioni e odori diversi, ma mette anche in gioco tutta un’area semantica di parole che nell’immagine usuale del gregge non avremmo mai pensato. Mi interessa lo scarto che si crea tra le prime parole, quelle note, e le nuove che il cervello associa all’oggetto stesso in un contesto inusuale. Trovo affascinante il ragionamento deduttivo e il contrasto. Penso che tutto quello che posso fare in questo momento, come amante e autrice di Poesia, sia cercare di portare energia e stimoli, di creare delle suggestioni per altri, che come me, lavorano in modo creativo. Quello che la Poesia rincorre è il linguaggio. A me interessa stimolare la mente di chi ascolta, fare in modo che si creino nuovi scenari e con essi nuove pensieri che risignifichino la parola stessa, non erudire.

La tradizione della Poesia sonora è senza dubbio fondamentale, ma in Vocale tutto viene ampliato, spostato e liberato dai confini. La poesia sonora si fonde con gli esperimenti dei rumoristi e si mescola a suoni diversi, alla musica e alle voci dei poeti, sia con scritture più tradizionali che sperimentali. L’obiettivo è rendere la poesia viva e dinamica in un ambiente non preconfezionato, ma piuttosto in un terreno di scambio, anche se spesso è un terreno denso di rumori e scarti che tentano di sconvolgere il significato della parola. Mi interessa particolarmente osservare e studiare quali parti del linguaggio riescono a sopravvivere a questa miscela o a questa lotta. Questo è ciò che mi appassiona e ciò su cui desidero concentrarmi con Vocale.

FR: Nella presentazione del progetto lei cita Jankins, Baruchello, Cage e Kandinskij. Sono nomi noti e importanti per diverse ragioni, ma la combinazione mi riporta una seconda volta al termine multimediale, ma anche intermediale. Vorrei che su questo punto dicesse qualcosa di più, anche perché mi sembra un aspetto centrale del progetto.

EL: Mi sforzo di sfruttare ogni elemento della realtà e tutti quegli strumenti, sia mediatici che non, che ci vengono messi a disposizione. In Vocale trovano spazio le voci dei lettori di Google, le frasi emesse dai distributori automatici e dalle casse automatiche, così come i suoni delle fontane, delle campane e dei sistemi in disuso come le audiocassette. Inoltre, ci sono riferimenti all’arte contemporanea, al cinema. Tutto ciò fa parte della nostra cultura. Nessuna forma d’arte può sopravvivere da sola. La poesia si inserisce nell’intero panorama culturale, senza confini, le voci dei poeti e delle poete dialogano tra loro e con il circostante.

Inoltre, Vocale opera anche con la dimensione dello spazio-tempo, riportando in auge conoscenze e interrogativi ancora attuali, già esplorati dai grandi maestri della poesia del passato. Mi impegno a recuperare tali domande attraverso l’utilizzo di filmati d’epoca e a reinserirle nel contesto contemporaneo, riattualizzandole. Nell’era attuale, la durata di vita di un libro è sempre più breve, e mi appassiona coinvolgere autori con opere meno recenti affinché leggano estratti dei loro scritti, così da riportare in circolo quel linguaggio e quei concetti.

Spesso, quando si pensa a una lettura poetica o a un programma radiofonico dedicato alla poesia, si crea un ambiente sterile, con una sorta di separazione silenziosa tra le parole, chi le ascolta e l’ambiente circostante. Tuttavia, le parole del poeta traggono origine da suggestioni spesso estranee al silenzio.

FR: Quello che lei dice mi fa venire in mente due nomi e un episodio legato a uno dei due: Benjamin e Brecht. Il primo perché i suoi saggi sul rapporto fra parola, arte in  generale e le trasformazioni tecniche avvenute dall’avvento della fotografia e del cinema in poi, sono una pietra miliare della critica novecentesca. Il secondo perché alla domanda se avesse bisogno del silenzio per scrivere, lui rispose – cito a memoria ma il concetto è quello – che preferiva le finestre aperte e il rumore dei clacson.

EL: I suoni ci rimettono al mondo. Lo dico in ognuno dei sensi che possono essere attribuiti a questa mia frase e in questo sono in totale accordo con ciò che diceva Brecht. I suoni che arrivano da una finestra aperta ci possono risvegliare da un torpore, ci ricordano che esiste altro oltre noi, tengono il nostro ego a bada, ci aiutano a posizionarci nel lavoro artistico che stiamo affrontando.

Posso cercare il silenzio durante la scrittura, ma non mi separo, poiché in ogni cosa esiste un dialogo costante. Vocale incarna la molteplicità di voci, suggestioni e riferimenti che prendono vita nella mente di chi scrive, ma è anche la stessa molteplicità che si anima nella mente di chi ascolta.

Ciò che Walter Benjamin vedeva nel suo saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica era: la cultura di massa da una parte e l’avanguardia artistica dall’altra, che secondo Benjamin, sono accomunate dalla perdita dell’aura. L’aura per Benjamin era il concetto di sacro che l’arte aveva custodito nei secoli precedenti e che era stata distrutta dalla rapida riproducibilità tecnica che portò alla cultura di massa da una parte, ma anche dalla dissacrazione dell’arte usata in modo provocatorio dalle avanguardie.

L’arte perdeva la sua aura, la sua sacralità e con questa il concetto di autentico e Benjamin vedeva questa spoliazione come funzionale al progredire dell’arte, della sua trasmissione, riproduzione e accessibilità.

Il problema dell’accessibilità, nei nostri giorni pone di nuovo alla ribalta il tema dell’autentico, sia per l’arte massificata, nell’accezione dell’attribuzione di opera di genio ( si veda il caso degli NFT in arte), sia per le aree dell’arte che si occupano di ricerca, nell’accezione di forma.

Vocale usa audio “sporchi”, non perfetti. In questo modo l’opera, seppur riproducibile si autentica sfuggendo alla massificazione, in un’epoca dove la riproducibilità di massa è perfezione (del suono, dell’immagine, etc). Per questo in Vocale tengo gli errori di registrazione, ci sono vasi che si rompono in diretta perché sono caduti mentre registravo, papere, errori di pronuncia. Tutto viene lasciato come marchio di produzione creativa umana fallace.

L’intermedialità mi aiuta invece a livello formale sfidando ciò che definisco la struttura del pensiero borghese, costruito e orientato secondo il binomio bene-male. Vocale adotta una struttura che definirei schizofrenica: un pensiero che non segue le logiche del bene o del male, ma quelle della sopravvivenza. Tale non-struttura mi consente di creare scenari atipici che favoriscono la formazione del pensiero e lo stimolano, inoltre pone il progetto in un continuum che sfugge alla sua definizione.

FR: Nel rivolgervi a poeti a artisti come vi siete orientati? Avete trovare solo consenso oppure anche scetticismo?

EL: Ho selezionato le voci dei poeti e delle poete che avrei voluto ascoltare di nuovo, come facevo con la mia vecchia cassettina da adolescente. Scelgo autori che ammiro, altri che desidero esplorare, alcuni che mi incuriosiscono per un lavoro particolare, mentre altri li scelgo per vedere come il loro testo reagisce a un ambiente diverso.

Devo dire che la stragrande maggioranza degli autori e delle autrici contattati ha risposto con entusiasmo. Alcuni lo prendono come un semplice reading, ma sono pochi; altri provengono da esperienze sonore e sono abituati a questa forma di espressione, mentre altri si cimentano per la prima volta e si divertono. Mi impegno per offrire ai miei ascoltatori il meglio degli autori e delle autrici a cui riesco a accedere, e a volte può essere difficile mantenere un alto livello. Il concetto che è difficile da spiegare ai poeti è quello del pensiero unico che viene decontestualizzato, spezzato, ma integrato. 

FR: Fango Radio è stato il veicolo di Vocale, ma è anche un emittente; oppure è nata solo per il progetto? E perché la scelta di questo nome?

EL: A questa domanda le riporto la risposta del collettivo fondatore di Fango Radio. “FANGO è un nome scelto di pancia. FANGO RADIO è una piattaforma di sperimentazione, una porta aperta alle belle elucubrazioni. FANGO RADIO scava nei suoni. Trasmette dal lunedì al venerdì: qualche volta succede qualche trasmissione speciale il sabato o la domenica. Per ascoltarci puoi usare il nostro player o collegarti direttamente a questo link.  

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FANGO RADIO compie 5 anni quest’anno e ha ancora tanto da imparare:

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FR: Il venti aprile si terrà una vostra performance pubblica a Busto Arsizio al circolo Gagarin: ce la vuole presentare?

EL: Vocale è stato invitato come ospite all’Aperitivo Letterario per festeggiare il quinto anniversario di Fango Radio e ha preparato uno spettacolo unico dal titolo “Non è un reading”.

Si tratta di una performance che unisce poeti, poete e sound artist che leggeranno le proprie opere accompagnate dall’energia di suoni e musica preparati in perfetto stile Vocale. Durante lo spettacolo, non ci si siederà semplicemente ad ascoltare, ma ci si lascerà trasportare dall’intensità delle parole degli autori e delle autrici che saliranno sul palco.

Il vero risultato della performance verrà catturato dalla radio, che oltre alle voci dei performer, registrerà anche i suoni e le voci del pubblico presente.

Alla guida di questa prestigiosa banda ci sarò io, Elisa Longo, accompagnata da Giorgia La Placa, Ilaria Boffa, Laura Recanati, Emanuele Bottazzi Grifoni, Silvia Atzori, Benedetta Manzi e con le interferenze sonore di Mariagiorgia Ulbar, Michelangelo Coviello e Danilo Paris.

L’evento si terrà sabato 20 aprile dalle 19:00 alle 20:00 sul palco Vocale live – Non è un reading presso il Circolo Gagarin di Busto Arsizio (VA), nell’ambito della celebrazione Fango Radio 5Years, dove artisti sonori internazionali, musicisti e poeti si esibiranno fino a tarda notte. Potrete anche ascoltarci in streaming su Fango Radio.

La ringrazio per questo straordinario scambio e invito tutti a seguirci sulla pagina Instagram di Vocale, che trovate con il nome Vocale.poesia. Per chi volesse riascoltare le puntate, potrà farlo visitando il seguente indirizzo: https://www.fangoradio.com/shows/301

GRADIVA, RIVISTA INTERNAZIONALE DI POESIA ITALIANA

Nello scorso mese di novembre è uscito il numero 64 di Gradiva, rivista internazionale di poesia italiana, diretta da Alessandro Carrera edita da Lo S. Olschki. L’edizione si apre con l’editoriale del direttore dal titolo Il poeta  e la sua ombra. Il numero è diviso in due parti. La prima è dedicata a Gianpiero Neri. La rassegna critica a lui riservata inizia da un’ampia intervista al poeta curata da Claudia Crocco. Le domande, sempre puntuali, nonché le generose risposte di Neri restituiscono a chi legge un ritratto del poeta davvero prezioso. Seguono nella stessa sezione i saggi di Silvio Aman, Pietro Berra, Roberto Caracci, Gabriela Fantato e Daniela Marcheschi.

A questa prima parte seguono le ricerche tradizionali della rivista: la sezione dedicata alla poesia. Si comincia con Italian poetry contemporanea con testi di Rita Argentiero, Maria Rita Bozzetti e Gabriela Fantato, seguita da Intermezzo con testi di Claudia Blanco, Lazzaro Doiepp, Grazia Frisina, Lorenzo Pataro.

A seguire l’ampia e ricca sezione critica, divisa a sua volta in rubriche diverse, Articles Essay and notes e Translations dedicata alla traduzione di poesie italiane da parte di studiosi statunitensi.

Impossibile rendere conto in poche parole della ricchezza delle tematiche e dei contributi. Mi soffermerò allora soltanto su alcuni di essi. Il primo si trova nella rubrica gli strumenti della poesia a cura di Mario Buonofiglio: si tratta di uno studio sulla Chimera nell’opera di Campana, con rimandi ad altri autori che si sono occupati del mostro mitologico.  Il secondo è il saggio che Luigi Fontanella dedicata ad Alessandro Ricci, da lui definito il più nascosto poeta del ‘900: una felice scoperta anche per me.

Infine la rubrica su Musica e poesia e l’ampia rassegna critica riviste curata da Plinio Perilli.

PICCOLI DILEMMI QUOTIDIANI

Introduzione

I testi che seguono furono pubblicati sul numero 23-24 della rivista Poiesis nel 1993. Uno di essi, il primo, fu tradotto da Jean Portante e pubblicato su una rivista francese che non ritrovo. Una soltanto di queste poesie – La piccionaia – è poi confluita nel libro L’epoca e i giorni pubblicato nel 2008 per le edizioni Viennepierre di Milano. Le ragioni per cui un testo entra o non entra in una raccolta sono diverse, il montaggio ha una parte importante nella composizione di un libro, anche se nel pensarci a distanza di anni, non ricordo le motivazioni per cui alcune furono escluse. Le ripropongo nel blog con il titolo originale – Piccoli dilemmi quotidiani –  con il quale furono pubblicate su Poeisis.  

In ogni carne affondano il coltello

versano il vino con la stessa mano

come distilla terra il fungo amico

e veste da sicario il suo gemello.

Sotto la prima crosta la radice

una semplice patata cresce sotto

e sotto la seconda superficie

l’acqua ci nutre mescolando umori.

L’aria che respiriamo è in alto,

l’orizzonte un po’ più in là …

la nube e la luna di cui tutti

guardano ancora l’incedere grandioso

sono entrambe un po’ più sopra.

Così gli animali transitano

e hanno nel letargo quel profondo

che scava il rifugio e il pudore

oppure dall’alto di una rupe

spalancano una porta all’infinito.

Soltanto noi siamo qui

né in alto né sotto né più in là

ombre che abitano la zona grigia

dove si specchia la luna

in un catino d’acqua sporca.

La piccionaia

Amo di Genova il suo disordine ordinato

L’età sovrapposte come le casse impilate

Di piazza Caricamento, i ristoranti

dai tavoli trasandati, dove da sempre

è seduta una signora che sogna

di un americano che la porterà

a New York in transatlantico.

Ed io che vivo nella pianura nebbiosa

un poco la capisco la signora

e ho scelto di abitare un eremo di vento

trafitto dal sole che ci resta

un piccolo scrigno dove danzano insieme

cornici paterne e maschere africane

un coltello da pirata che mio figlio

mi portò da Mali…e dell’India

conservo un’intera madia, intrisa

di odori speziati e nel suo specchio a notte

danzano tigri luminose e quando piove

il vetro scroscia una foresta pluviale.

Forse non è una vera casa

(è persino imbarazzante portarci una donna)

ma uno di quei luoghi da cui sempre si parte

e il ritorno è festa improvvisata

dove trovano rifugio poeti e marinai del tempo

felici d’esser soli in mezzo al brulichio

di ogni vita, come bambini che ascoltano gli adulti

parlare nella stanza accanto

e si addormentano beati

gravidi di ogni idioma del mondo.

Il migratore

È tornato quest’oggi il migratore,

ha cantato alla ringhiera

ferito dolcemente la mia mano.

Non cercava solo cibo, aveva un suono

un suono tutto suo l’esile grido

inconfondibile e raro … diceva

il verso non sia soltanto umano,

è più vasta la culla del tuo sogno.

Cercatore di funghi

Nella matrice signora originaria

cercare fra gli arbusti e i rami secchi

sentire i piedi, il morbido gonfiore

scostare foglie attento a non far male.

Per ore camminare occhio radente

fino alla visione solitaria …

Simile al suo cercare chi si danna

nel bianco deserto rettangolare

distillando dalla mano la sua acqua …

e a sera chinati insieme a misurare

se nel canestro il mosaico di forme

sia la città del rame o il suo miraggio.

T.S. ELIOT: IL TEMPO E LA STORIA

Apocalypse

La questione del tempo e del luogo, come abbiamo già visto abbondantemente, è cruciale fin dall’esergo eracliteo del Quartetti qui di seguito e nei primi cinque versi della prima sezione citati in precedenza:

Benché la parola sia comune a tutti, la maggioranza degli uomini vive come se ciascuno di essi avesse una saggezza particolare … La via che sale e la via che discende sono una medesima cosa.18 

All’inizio della prima sezione dell’ultimo Quartetto – Little Gidding –  Eliot riprende un tema molto celebrato di Waste land:

Midwinter spring is its own season/Sempiternal though sodden towards, sundown,/

(Primavera cresciuta  a mezzo inverno/è la sola stagione sempiterna/)19

Dall’aprile mese più crudele il poeta trova un approdo in questa immagine, in cui forse si può intravedere anche l’estate di San Martino.

La stagione sempiterna non può essere l’estate, perché la pienezza non appartiene agli umani, è solo un inganno. Nel caso di Eliot si può di certo parlare di una poesia del tempo di povertà molto più che per altri. Una volta indicato il tempo atmosferico e i colori di questo quartetto, autunnale seppure temperato, altrettanto importante è il luogo. Little Gidding, è il nome di un villaggio che fu sede di una delle più importanti comunità religiose inglesi, fondata nel 1600. Durante tutto il secolo, il villaggio fu visitato da personalità illustri del cristianesimo britannico; tuttavia non fu solo questo, ma anche il luogo dove il fuggiasco Re Carlo cercò rifugio prima di essere di essere arrestato e poi decapitato dalle truppe puritane e repubblicane di Cromwell. La storia entra quindi nel testo possiamo vedere nella scelta anche un modo da parte di Eliot per marcare la sua lontananza dalla rivoluzione repubblicana e puritana. Sempre nella prima sezione si chiarisce meglio in che modo: 

If you came this way,/taking the route you would be likely to take/From the place you would be likely to come from,/In you came this way in may time you would find the hedges/White again in May, with voluptuary sweetness./It would be the same and the end of the journey…

(Se tu in questi luoghi fossi giunto,/per una via qualunque, partendo da un luogo qualunque/in qualsiasi stagione e in ogni tempo,/sarebbe stato uguale …)

La comunità di Little Gidding, vista in modo retrospettivo, è per Eliot il luogo che ha riscattato il 1600 dai suoi orrori. Nella conclusione del primo movimento, il paese sede della comunità diventa l’Inghilterra intera, ma potrebbe essere qualunque luogo.

Simboli e riferimenti s’inseguono nel testo: da un famoso motto di Maria Stuarda, si passa a una figura storica del misticismo britannico, Giuliana di Norwick. La storia ha una duplice valenza nella partitura dei Quartetti: mentre la contemporaneità viene vista da Eliot nella sua concretezza e mai elusa, il passato viene rivisitato solo attraverso il filtro della comunità cristiana.20 Credo che in questa asimmetria vada riconosciuto prima di tutto la natura del suo misticismo, che il poeta traduce in una suggestiva raffigurazione rovesciata dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin: quest’ultimo corre in avanti e ha gli occhi rivolti all’indietro, così da vedere l’immane distruzione che il suo procedere si lascia alle spalle. L’angelo di Eliot, corre all’indietro, ma i suoi occhi sono puntati sia sul passato alla ricerca di una prefigurazione di salvezza, sia davanti, così da vedere le distruzioni e le immani tragedie del momento: un angelo Giano quello di Eliot. Il rapporto con l’escatologia cristiana assume una declinazione molto particolare. Le origini statunitensi di Eliot mostrano la grana che sta sotto l’apparenza: la sua educazione avvenne pur sempre in un ambiente prevalentemente protestante. Che Dio è allora quello del poeta? Più che Gesù di Nazareth o quello dei Vangeli, è piuttosto il Dio dell’Apocalisse di Giovanni. Se il tempo storico non può essere redento, è tutta la vicenda umana a non poterlo essere. Eliot è però convinto che si possano rintracciare i segni, seppure intermittenti, di una prefigurazione futura della città di Dio e questo può avvenire solo all’interno della comunità cristiana: l’immagine della Tenda di Dio piantata nel mondo che si trova nelle visioni apocalittiche di Giovanni, può aiutare a comprendere la presenza di queste comunità che sono la prefigurazione di quanto accadrà alla fine dei tempi: Little Gidding è una di esse. Il mondo per Eliot è sempre uguale, la contemporaneità comprende in sé ed è sintesi – come ripete più volte nei suoi versi – di presente, passato e futuro. I tre momenti sono mescolati in un intreccio inesplicabile, che soltanto guardando all’indietro rivela qualcosa. Perciò i segni di questa prefigurazione non possono essere visti nel presente. Il Dio di Eliot è apocalittico sia nel senso proprio del termine e cioè di rivelazione, sia nell’altro senso – come nozione corrente – e cioè di catastrofe apocalittica che riguarda l’intera storia mondana. Eliot scelse l’Europa, non solo l’Inghilterra, perché scelse prima di tutto la tradizione cristiana europea, inscindibile dalla sua poetica, dal momento che ne costituisce il nerbo, intorno al quale ruotano come intorno a un sole: il neohegelismo di Bradley, l’antropologia di Frazer, il folklore britannico, qualche maldestra incursione nel salotto di Madame Blavatskj. È la cultura di un conservatore europeo cristiano, con punte reazionarie, qualche traccia di antisemitismo e di manie esoteriche, che ripete in termini moderni il ciclo dantesco. Dall’immersione nell’inferno metropolitano (Prufrock e i primi poemi) al purgatorio di Waste Land, fino all’ascesa e il tentativo di una nuova sintesi nei Quartetti. Ripercorrendo oggi l’intera sua opera, essa appare datata in tutte le sue parti. Essa s’inscrive in una narrazione del ‘900 che è diventata nel tempo un’icona ma anche un guardarsi allo specchio, per quanto infranto esso sia, tanto da assumere anche un aspetto di manierismo narcisista, che si coglie nelle sue citazioni, che sono citazioni e niente altro. La contemplazione della decadenza, alla fine, è diventata un meta discorso, al quale Eliot cerca di sottrarsi nei Quartetti, esorcizzando però il fatto che in definitiva, il cristianesimo europeo, in tutte le sue componenti, non è stato una risposta alla crisi di civiltà ma un aspetto della medesima: non bastano due guerre mondiali, dove i popoli cristiani si sono scannati come belve a sancirlo?22 Eliot cercherà di fare un passo indietro (o avanti) rispetto alla visione apocalittica che ispira l’ultimo Quartetto – Little Gidding – affermando, al contrario, che era ancora possibile ricreare la comunità cristiana anche nel presente storico. Il tentativo si risolse in una modesta proposta nel momento in cui il poeta pretese addirittura di trasportarla dal piano poetico a quello sociale. L’illusione di ristabilire una neo medioevalista comunità cristiana non poteva che cadere nel nulla.

Little Gidding

18 Ivi.

19 Op. cit. pag.63.

20 È facile notare che, qualora si fosse interrogati su che cosa ricordiamo del ‘600 inglese e quali siano i nomi e le vicende che per primi ci vengono alla mente pensando a quel secolo, pochi storici e forse neppure molti credenti indicherebbero ai primi posti Little Gidding e Giuliana di Norwick. Si ricorderebbero la morte d’Elisabetta, di Giacomo I e quella di Shakespeare, la cui celebrità costruita nel secolo precedente è ormai affermata; si ricorderebbero  di John Donne e di John Milton, di Cromwell e della decapitazione di Carlo. Molti si ricorderebbero Locke e Hobbes e anche di Newton, che muove i suoi primi passi nel secolo. Se proprio si dovessero nominare dei gruppi religiosi probabilmente si citerebbero i Diggers e i Levellers. Tutto questo non viene considerato nell’orizzonte eliotiano e non ritengo ragionevole né esaustiva l’obiezione che alla poesia non si debba chiedere la fedeltà alla storia: prima di tutto perché per Eliot medesimo non è così e tutta la sua riflessione sul correlativo oggettivo lo dimostra.  

22 Credo sia utile ricordare il dibattito che ci fu in merito alla necessità di inserire  un richiamo alle radici cristiane dell’Europa nello statuto che fonda l’Unione Europea. La proposta fu giudicata irricevibile, direi del tutto opportunamente, dal momento che le radici europee, assai meticce e frutto di contaminazioni disparate, o vengono nominate tutte (cosa assai difficile), oppure lasciate alla sensibilità di ciascuna cultura senza ulteriori precisazioni.