WALLACE STEVENS: IL MONDO COME MEDITAZIONE

Jorge Santayana

In quest’ultima parte del saggio sulla poesia di Stevens vengono esplorati alcuni territori meno frequentati ma niente affatto minori e specialmente ci si avvia verso le sue lezioni di poetica. Il mondo come meditazione non è soltanto un insieme di testi poetici, ma anche un modo di essere che permette di aprire due altri capitoli nel viaggio affascinante a fianco del poeta di Hartford. Il primo riguarda la cultura orientale.

La storia di questo rapporto viene da lontano, addirittura dagli esordi, quando il giovane Stevens, travestito da dandy, si aggirava per il Greenwich Village. Fu allora che incontrò per la prima volta il teatro giapponese. La fascinazione fu così forte che si cimentò anche con la scrittura teatrale: ben tre opere di cui non mi occuperò sia perché non sono disponibili in italiano e poco ritrovabili anche in lingua originale e in secondo luogo perché, come sostiene più di un critico, Stevens scrisse quelle pièce solo per farci capire che non era un drammaturgo. La fascinazione e lo studio della cultura orientale, invece, non vennero meno, ma si rivolsero a quella che era la sua arte, la poesia, anche se un occhio particolare lo si dovrà riservare anche al secondo dei suoi grandi amori e cioè la pittura. Utamaro e le sue belle sono presenti nella poesia degli esordi. Tale fascinazione per l’oriente in senso lato e per il Giappone in particolare lo si può cogliere, sotto traccia, nella sua poesia e in modo costante nel tempo, tanto da costituire un altro dei percorsi che rompono la sequenza diacronica del suo poetare. Vedremo nelle conclusioni come molto altro del pensiero orientale è presente in lui in modo più implicito e nascosto. Inizio l’esplorazione da un testo intitolato Tredici modi di guardare a un merlo . La sua composizione è assai originale, anche alla sola vista. Si tratta di brevissimi flash numerati. Ne riproduco alcuni:

1.

Fra venti monti innevati/la sola cosa in movimento/era l’occhio del merlo.

2.

Ero di tre opinioni,/come un albero/in cui stanno tre merli./

3.

Il merlo vorticava nei venti d’autunno./Era una parte piccola della pantomima.

In questi primi c’è un elemento dominante ed è la qualità pittorica, che ricorda certe stampe giapponesi e cinesi. Il bianco e il nero sono i colori dominanti. Nel primo e nel terzo prevale la notazione oggettiva e descrittiva: in quello di mezzo l’osservatore entra nel testo, creando una similitudine implicita. L’asimmetria fra le opinioni dell’osservatore e i tre merli introduce la meditazione nel testo, crea un chiasmo. Altri due qui di seguito ci portano in uno scenario ancora diverso:

5.

Non so cosa preferire,/la bellezza delle inflessioni/o la bellezza delle implicazioni,/il merlo che fischia/o subito dopo.

6. Ghiaccioli riempivano la lunga finestra/con vetro barbarico./L’ombra del merlo/l’attraversava, avanti e indietro./Lo stato d’animo/rintracciava nell’ombra/una causa indecifrabile./

L’osservazione oggettiva rimane nel campo della stampa giapponese, ma la soggettività dell’osservatore registra un dilemma che ha attraversato la poesia di Stevens dall’inizio alla fine e di cui abbiamo già visto esempi molto belli e significativi nelle opere della maturità: il contrasto fra ciò che ci appartiene come umani e ciò che ci è estraneo, o almeno che non è nostro nel mondo che abitiamo: la presenza animale, per esempio. L’ombra del merlo diviene così indecifrabile. Questo motivo ritorna nell’undicesimo flash, l’inquietudine diviene paura e il Connecticut non è lontano, come atmosfere e paesaggi, dal Tennessee.

XI

Attraversò il Connecticut/in una carrozza di vetro./Una volta, una paura lo trafisse,/in quanto scambiò/l’ombra del suo equipaggio/per tre merli.

Nell’ultimo flash il ritorno alla semplice contemplazione si apre già a quel sentimento di accettazione che diventerà più maturo e consapevole nelle opere finali.   

Era sera  tutto il pomeriggio,/Nevicava/E doveva nevicare/Il merlo sedeva nei rami di cedro./67

Un secondo testo, assai importante è Studio di due pere del 1938. Anche questa poesia è fatta di piccoli flash, di cui ne riporto soltanto uno.

Studio di due pere.

Opusculum paedagogum./Le pere non sono violoncelli,/nudi o bottiglie,/Non somigliano a niente altro./68

Le valenze di questo testo sono molteplici e vanno ben oltre il riferimento alla cultura orientale. Giocando sulla misura simile a quella dell’Aiku giapponese, Stevens pronuncia una sentenza che riempirà di contenuti nelle sue lezioni di poetica e negli aforismi.

Il secondo capitolo della meditazione di Stevens in versi e nelle riflessioni, ci porta a un tema lasciato in sospeso: la relazione fra il poeta di Hartford e il sentimento religioso

In The Rock, una delle ultime opere, c’è un lungo testo, un’elegia, che Stevens dedica al suo mentore: George Santayana. La poesia s’intitola To an old philosopher in Rome. Santayana trascorse gli ultimi anni della sua vita fino alla morte, avvenuta nel 1952, tre anni prima di quella di Stevens proprio a Roma.69 Stevens considerò sempre il suo vecchio docente come un maestro. Santayana insegnava ad Harvard quando il giovane Wallace s’iscrisse alla prestigiosa università. Di origine ispanica, era nato a Boston e aveva scelto gli Usa come luogo di esilio ed elezione. Di formazione cattolica, politicamente e culturalmente fu sempre su posizioni aristocratiche e quindi avverso sia agli aspetti modernisti dell’americanismo, sia al romanticismo idealistico dei filosofi come Emerson o Thoreau; infine avverso al pragmatismo tipicamente americano, nel quale vedeva un corruzione del senso. Uno strano europeo, dunque, che scelse gli Usa solo per rifiutare ogni aspetto dell’American way of life. L’evoluzione del suo pensiero avrà molti tratti in comune con quella del suo allievo. Santayana fu un uomo molto influente nella formazione dei giovani universitari del primo ‘900, ma la sua opera è stata dimenticata nonostante fosse nota fino agli anni ’30. Il suo antiamericanismo aristocratico, in una terra in cui l’aristocrazia poteva esistere solo come frammento europeo sempre più rarefatto, fanno di lui un alieno in quella cultura e questo spiega probabilmente il suo oblio nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la cultura statunitense diventerà egemone e dominante. Ci sono caratteristiche del pensiero e dello stile di Stevens, tuttavia, che lo rendono altrettanto alieno rispetto agli Usa. Peraltro, anche il loro rapporto con la religione è altrettanto controverso.

Garth Greenwell, in un saggio dal titolo A Home against One’s Self: Religious Tradition and Stevens’Architecture of thought (Una casa contro il proprio sé: Tradizione religiosa e architettura del pensiero in Stevens, sottolinea come si possono trovare nel poeta di Hartford citazioni che autorizzano qualsiasi interpretazione, riguardo al suo atteggiamento rispetto alla religione.70 Pur concordando in prima istanza, penso che sia possibile – seguendo il percorso di Stevens in parallelo a quello di Santayana – arrivare a una diversa approssimazione.

Il mondo irreligioso in cui Stevens ci aveva portati alla fine del suo poemetto più simbolista – Mattino domenicale – viene in qualche modo smentito o confermato alla fine della sua quest? To an old philosopher in Rome è solo un omaggio al maestro o qualcosa di più, una riconciliazione finale con il pensiero religioso in senso lato cristiano?  

Una celeberrima affermazione del poeta di Hartford suona così:

i grandi poemi dell’Inferno e del Paradiso sono stati scritti, ora dobbiamo scrivere i poemi della terra.”71

Accanto ad essa un’altra affermazione altrettanto perentoria  suona invece:

No one believes in the church as an institution more than I do.”

“Nessuno crede nella chiesa come istituzione più di quanto non faccia io.” 72

A quale di queste due frasi credere e sono poi così contraddittorie? Credo che, rifacendomi al testo poetico, si possano tenere separate senza preoccuparsi per il momento della loro reale o apparente contraddittorietà. To an old philosopher in Rome e un altro testo ricordato anch’esso da Greenwall (St. Armourer Church from the Oustside), vengono solitamente citati per avanzare l’ipotesi di un tardo ritorno alla cristianità.

Nei testi citati e anche in altri dello stesso periodo emerge la profonda nostalgia di Stevens per la possibilità di credere, almeno nel solco della scommessa pascaliana. Del resto, perché stupirsene? Tutta la sua opera è una quest dentro il pensiero occidentale e di ciò il cristianesimo costituisce gran parte; se consideriamo poi l’attitudine tipica di Stevens a ritornare continuamente agli stessi tropi e snodi, non stupisce che alla fine della sua vita sia tornato a queste domande fondamentali. Tuttavia, pensando all’omaggio rivolto a Santayana, il testo a lui dedicato potrebbe essere semplicemente un tenero accompagnamento del suo maestro, giunto alla soglia della fine e anche lui nostalgicamente legato, come vedremo, alla stessa possibilità. Cosa vede però il poeta in tale fine? Gli oggetti comuni che hanno accompagnato la sua vita e che Santayana medesimo ricordava spesso:

…/The bed, the books, the chair,, the moving nuns,/The candle as it evades the sight, these are/The source of happiness, in the shape of Rome,/A shape within the ancient circles of shapes,/And these beneath the shadow of a shape./

(/Il letto, I libri, la sedia, le monache che passano,/la candela mentre si sottrae alla vista, queste sono/fonti di felicità nella forma di Roma,/una forma entro gli antichi cerchi delle forme,/e questo sotto l’ombra di una forma/)73

Siamo in un convento ma anche questo non deve trarci in inganno e già il testo lo dice alludendo all’ombra di una forma. La poesia, inoltre, è un accompagnamento da lontano, come spesso avviene per Stevens, che mai si mosse dagli Stati Uniti; anzi che visse la gran parte della sua vita in uno spazio inferiore ai 100 chilometri quadrati (a parte la settimana che ogni anno lo vedeva ospite di amici, insieme alla moglie, in Florida), come se ci fosse in questo una presa di distanza dal nomadismo intellettuale così tipicamente statunitense. Dopo altre descrizioni come quella che ho citato, ecco che il poeta si rivolge a lui, al maestro:

…/ speak to your pillow if it was yourself./Be orator but with an accurate tongue/And without eloquence, o half-asleep/Of the pity that is the memorial of this room,/….

(/Parla al tuo guanciale come fosse te stesso,/sii oratore ma con lingua accurata,/senza eloquenza, oh semi addormentato,/della pietà che è monumento di questa stanza,/)

E più avanti:

/The sounds drift in. The buildings are remembered./The life of the city never lets go, nor do you/Ever want to. It is a part of the life in your room./Its domes are the architecture of your bed,/The bells keep on repeating solemn names./

(/I suoni arrivano fiochi. Gli edifici sono ricordi./la vita della città non smette mai, né tu mai/lo vorresti. È parte della vita nella stanza./Le cupole sono le architetture del tuo letto./ le campane vanno ripetendo nomi solenni./) …

Infine la conclusione:

…/It is a kind of total grandeur at the end,/With every visible thing enlarged and yet/No more than a bed, a char and mobbing nuns,/The immensest theatre, the pillar of the porch,/The book and candle in your ambered room//Total grandeur of a total edifice,/Chosen by an inquisitor of structures/For himself. He stops upon the threshold,/As if the design of all his words takes  form/And frame from  thinking and is realized./

(/E’ una sorta di grandezza totale alla fine:/tutto il visibile accresciuto e insieme/non più di un letto, una sedia, monache che passano,/il teatro più immenso, il portico con pilastri,/il libro e la candela nella sua stanza ambrata,//grandezza totale di un edificio totale/prescelto da un inquisitore di strutture/per sé. Si ferma sulla soglia,/quasi l’intento di ogni sua parola assume forma/e fattezza del pensiero si realizza./)74

Santayana giunse, alla fine della sua vita, a voler morire in un convento, ma da non credente! Lo rileva anche Greeenwall e ricorda che, secondo Harold Bloom, Stevens lesse questa scelta del filosofo come un tropismo del pathos75 e non appunto una scelta di fede. Penso si possa avanzare l’ipotesi che Stevens abbia visto in Santayana, suo alter ego morale e spirituale, qualcosa che poteva illuminare anche lui stesso e se si seguono i due pensieri in parallelo, tale scelta diventa assai plausibile. Entrambi hanno percorso l’intero arco della civiltà occidentale (Stevens di più perché il richiamo agli dei precedenti e al mondo greco e romano sono sempre presenti sotto traccia), entrambi hanno valutato il valore della fede, ma alla fine del loro percorso, riconoscono la grandezza del mito cristiano, ma lo intendono entrambi come mito fra i miti. L’omaggio che Santayana rivolge a Roma e a uno degli edifici più simbolici della civiltà cristiana (il convento nel suo caso, insieme all’eremo e alla chiesa), sono l’omaggio a una civiltà e non alla lettera della fede: quel convento, infatti, come abbiamo visto nei versi di Stevens e ancora più nel finale della poesia, non è pieno di dei e neppure delle loro tracce, per citare il famoso slogan di Heidegger, ma di libri, di monache che vanno e vengono, di tranquilla e serena attesa della fine. Sembra logico pensare che nei versi dedicati al suo vecchio maestro, Stevens ci ha lasciato un segno che riguarda lui medesimo, che a quella soglia arriverà pochi anni dopo.  

Quanto alla sua seconda frase in cui richiama il proprio attaccamento alla chiesa come istituzione, essa potrebbe avere un altro significato. In tale affermazione Stevens parla da uomo appartenente a quell’ambiente statunitense di high middle class che poteva trovare nel vecchio aristocratico Santayana quel residuo di una cultura d’antan: l’America agiata del primo decennio del secolo. Forse fu questa appartenenza la ragione di quella particolare intesa che si avverte anche nell’epistolario che Stevens intrattenne con Marianne Moore, con la quale s’incontrò una sola volta a un convegno, ma che poteva capire benissimo, anche nelle sue diverse eccentricità. In sostanza, la high middle class non ha mai dimenticato che la Chiesa come istituzione è pur sempre il coagulo concreto e istituzionale della filosofia del popolo e un popolo che alla religione si affida, è meno incline ad assumere comportamenti ribelli o rivoluzionari. L’appartenenza di Stevens a questo modo di essere e a questo stile, prima ancora che a una classe in senso prettamente economico, è quello tipico di conservatori che lo sono per un dna che portano in sé, liberi anche di prendere posizioni suggestivamente lontane da quel cliché senza per questo fuoriuscirne: è il caso di certi interventi di Stevens.76 È un atteggiamento che ha a che fare con abitudini di vita, letture, bon ton e buen vivir. Tutto questo appartiene loro con una punta di maggiore sobrietà nel caso di Moore, per via della rigida educazione presbiteriana. Tale appartenenza alle istituzioni tipiche di quel mondo, ha un rapporto con la fede che può essere assai elastico.

Frederick Jameson, nel suo monumentale libro sul postmodernismo pubblicato nel 1991, così si esprime nel primo paragrafo, a proposito delle arti del ‘900: 

… Thus abstract expressionism in painting, existentialism in philosophy, the final forms of representation in the novel, the films,…  or the modernist school of poetry (as institutionalized and canonized in the works of Wallace Stevens) all are now seen as the final, extraordinary flowering of a high-modernist impulse which is spent and exhausted with them.

Perciò l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo in filosofia, le forme finali di rappresentazione nel romanzo, i films … o la scuola modernista in poesia (così come è stata istituzionalizzata e canonizzata da Wallace Stevens), sono ora tutte viste come la finale straordinaria fioritura di un impulso modernista alto, che si è spento ed esaurito con loro.77

Quando Jameson parla di Stevens in questo modo non lo intende forse come l’ultimo dei classici, cioè appartenente alla grande cultura borghese, dissolta in Europa da due guerre mondali prima che dalle avanguardie artistiche, come troppo spesso si dice invertendo l’ordine di grandezza dei fattori, mentre negli Usa essa aveva ancora una vitalità che si sarebbe esaurita con quella generazione? Anche se è sempre possibile che ci sia un ultimo classico che viene dopo l’ultimo classico precedente, di certo non possiamo trovarlo in Andy Warhol, nella Beat Generation, negli urli di Ginzberg, nonostante la loro drammatica forza espressiva, nelle sbronze letterarie di Kerouac e Gregory Corso, oppure nel solitario Ferlinghetti che di quella generazione fu l’editore, ma che personalmente si tenne sempre alla larga dai loro eccessi. Forse possiamo ritrovarla in alcuni narratori, ma rimane profonda l’intuizione di Jameson: quella generazione di poeti e scrittori statunitensi, cui si possono aggiungere i nativi come William Carlos Williams, Robert Frost, Cormac McCarthy, Don De Lillo, oppure l’Arthur Miller di Morte di un commesso viaggiatore, furono gli ultimi rappresentanti della cultura borghese nelle sue vette più eccellenti. Chi venne dopo e si ribellò a certi suoi stilemi, o chi uscì come dissidente dalle società del socialismo reale, dimostra fra l’altro che il tentativo di superare la grande cultura borghese è assai arduo, fallito in alcuni tentativi quale per esempio il realismo socialista. Quanto agli uomini o alle donne come Stevens e Moore, non si può pretendere che superassero i limiti dell’ideologia personale e della loro classe. Facile rimproverare loro che proprio l’affluente sistema capitalistico statunitense avrebbe dissolto ogni vincolo sociale e cultura, aprendo le porte al postmodernismo, cui il ribellismo impotente e anche un po’ sciocco della Beat Generation offrì una sponda – appunto ribelle – ma niente affatto rivoluzionaria. Quanto accadde dagli anni ’80 in poi è lì a dimostrarlo e le conseguenze le vediamo tutte oggi con estrema chiarezza. Se mai si potrebbe aprire un altro filone di ricerca e cioè se la cultura musicale nera, Pete Seeger, Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springteen, Patty Smith, poeti e scrittori come Audre Lord, James Baldwin e Toni Morrison, possano rappresentare il germe di un percorso capace di conciliare cultura popolare di massa e alta cultura; ma questa ricerca esula dai limiti di questo studio.

Stevens morì nel 1955 quando ancora, uno come lui, che non ha mai accarezzato l’idea di una trasformazione radicale della società statunitense, poteva coltivare il sogno di un’alta cultura in una società di buone regole e bon ton. Marianne Moore, morendo nel 1972, si rese conto che ciò era sempre meno possibile: smise allora di scrivere, ritirandosi nella propria solitudine, ma senza sbattere porte. Del resto, lei che era stata editrice della rivista Dial e quindi in qualche modo militante, se n’era resa conto ben prima quando, pur pubblicandolo, aveva severamente rimproverato Ginzberg  per i suoi eccessi linguistici e non.

Stevens, infine, come tutti gli statunitensi dell’epoca, aveva un reale timore del possibile scoppio di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Tuttavia, in lui non vi fu mai alcun cedimento al millenarismo apocalittico statunitense. Anzi, proprio perché aveva una paura reale e non nascosta della possibilità di una guerra atomica, il suo esempio è ancora più significativo. Le aberrazioni del millenarismo politico, l’invocazione addirittura dell’Armageddon da parte di consiglieri di stato deliranti, che continuano a essere anche oggi una parte rilevante dell’americanismo reale non trovarono in lui e in Marianne Moore una sponda. Espressioni come la missione degli Usa nel mondo e i toni mistici che tale espressione si porta dietro sono estranee al suo linguaggio e questo non è poco. 78


67 Wallace Stevens Harmonium, a cura di Massimo, Einaudi Torino 1994, pp. 116-21

68 Op. cit. pag. 271.

69 Stevens morì nel 1955 a causa di un tumore.

70 Garth Greenwell, The Wallace Stevens Journal, volume 33 numero e Autunno 2009, pag. 147.

71 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo.

72 La seconda citazione è tratta dalla lettera 348. Io l’ho ripresa dal saggio di Grath Greenwell intitolato A Home against one’s  self. Religious tradition and Stevens. Architecture of thought. Il saggio è pubblicato sul numero due  Volume 33 del Wallace Stevens Journal, pubblicato dalla Wallace Stevens Society, Usa 2009, alla pagina 148.

73 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi Torino 19994, pp. 558-9

74 Op. cit. pp. 562-3

75 Op. cit. pag. 153 alla fine. Il saggio di Greenwall, in ogni caso è nella sua interezza assai importante. 

76 Mi riferisco a interviste varie, al dialogo che ebbe con critici che appartenevano all’ambito della sinistra e persino a un singolare omaggio a Stalin durante una conferenza dal titolo Il nobile Cavaliere e il suono della parole, che si trova nella raccolta di saggi più volte citata, dal titolo generale L’angelo necessario.

77 Frederick Jameson: Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism Verso, 1991, paragrafi iniziali.

78 Sull’uso del linguaggio apocalittico da parte di politici e consiglieri di stato statunitensi è utile leggere il libro di David Noble intitolato La Religione della tecnologia, Edizioni di Comunità, Torino 2000.