WALLACE STEVENS: IL MONDO COME MEDITAZIONE

Jorge Santayana

In quest’ultima parte del saggio sulla poesia di Stevens vengono esplorati alcuni territori meno frequentati ma niente affatto minori e specialmente ci si avvia verso le sue lezioni di poetica. Il mondo come meditazione non è soltanto un insieme di testi poetici, ma anche un modo di essere che permette di aprire due altri capitoli nel viaggio affascinante a fianco del poeta di Hartford. Il primo riguarda la cultura orientale.

La storia di questo rapporto viene da lontano, addirittura dagli esordi, quando il giovane Stevens, travestito da dandy, si aggirava per il Greenwich Village. Fu allora che incontrò per la prima volta il teatro giapponese. La fascinazione fu così forte che si cimentò anche con la scrittura teatrale: ben tre opere di cui non mi occuperò sia perché non sono disponibili in italiano e poco ritrovabili anche in lingua originale e in secondo luogo perché, come sostiene più di un critico, Stevens scrisse quelle pièce solo per farci capire che non era un drammaturgo. La fascinazione e lo studio della cultura orientale, invece, non vennero meno, ma si rivolsero a quella che era la sua arte, la poesia, anche se un occhio particolare lo si dovrà riservare anche al secondo dei suoi grandi amori e cioè la pittura. Utamaro e le sue belle sono presenti nella poesia degli esordi. Tale fascinazione per l’oriente in senso lato e per il Giappone in particolare lo si può cogliere, sotto traccia, nella sua poesia e in modo costante nel tempo, tanto da costituire un altro dei percorsi che rompono la sequenza diacronica del suo poetare. Vedremo nelle conclusioni come molto altro del pensiero orientale è presente in lui in modo più implicito e nascosto. Inizio l’esplorazione da un testo intitolato Tredici modi di guardare a un merlo . La sua composizione è assai originale, anche alla sola vista. Si tratta di brevissimi flash numerati. Ne riproduco alcuni:

1.

Fra venti monti innevati/la sola cosa in movimento/era l’occhio del merlo.

2.

Ero di tre opinioni,/come un albero/in cui stanno tre merli./

3.

Il merlo vorticava nei venti d’autunno./Era una parte piccola della pantomima.

In questi primi c’è un elemento dominante ed è la qualità pittorica, che ricorda certe stampe giapponesi e cinesi. Il bianco e il nero sono i colori dominanti. Nel primo e nel terzo prevale la notazione oggettiva e descrittiva: in quello di mezzo l’osservatore entra nel testo, creando una similitudine implicita. L’asimmetria fra le opinioni dell’osservatore e i tre merli introduce la meditazione nel testo, crea un chiasmo. Altri due qui di seguito ci portano in uno scenario ancora diverso:

5.

Non so cosa preferire,/la bellezza delle inflessioni/o la bellezza delle implicazioni,/il merlo che fischia/o subito dopo.

6. Ghiaccioli riempivano la lunga finestra/con vetro barbarico./L’ombra del merlo/l’attraversava, avanti e indietro./Lo stato d’animo/rintracciava nell’ombra/una causa indecifrabile./

L’osservazione oggettiva rimane nel campo della stampa giapponese, ma la soggettività dell’osservatore registra un dilemma che ha attraversato la poesia di Stevens dall’inizio alla fine e di cui abbiamo già visto esempi molto belli e significativi nelle opere della maturità: il contrasto fra ciò che ci appartiene come umani e ciò che ci è estraneo, o almeno che non è nostro nel mondo che abitiamo: la presenza animale, per esempio. L’ombra del merlo diviene così indecifrabile. Questo motivo ritorna nell’undicesimo flash, l’inquietudine diviene paura e il Connecticut non è lontano, come atmosfere e paesaggi, dal Tennessee.

XI

Attraversò il Connecticut/in una carrozza di vetro./Una volta, una paura lo trafisse,/in quanto scambiò/l’ombra del suo equipaggio/per tre merli.

Nell’ultimo flash il ritorno alla semplice contemplazione si apre già a quel sentimento di accettazione che diventerà più maturo e consapevole nelle opere finali.   

Era sera  tutto il pomeriggio,/Nevicava/E doveva nevicare/Il merlo sedeva nei rami di cedro./67

Un secondo testo, assai importante è Studio di due pere del 1938. Anche questa poesia è fatta di piccoli flash, di cui ne riporto soltanto uno.

Studio di due pere.

Opusculum paedagogum./Le pere non sono violoncelli,/nudi o bottiglie,/Non somigliano a niente altro./68

Le valenze di questo testo sono molteplici e vanno ben oltre il riferimento alla cultura orientale. Giocando sulla misura simile a quella dell’Aiku giapponese, Stevens pronuncia una sentenza che riempirà di contenuti nelle sue lezioni di poetica e negli aforismi.

Il secondo capitolo della meditazione di Stevens in versi e nelle riflessioni, ci porta a un tema lasciato in sospeso: la relazione fra il poeta di Hartford e il sentimento religioso

In The Rock, una delle ultime opere, c’è un lungo testo, un’elegia, che Stevens dedica al suo mentore: George Santayana. La poesia s’intitola To an old philosopher in Rome. Santayana trascorse gli ultimi anni della sua vita fino alla morte, avvenuta nel 1952, tre anni prima di quella di Stevens proprio a Roma.69 Stevens considerò sempre il suo vecchio docente come un maestro. Santayana insegnava ad Harvard quando il giovane Wallace s’iscrisse alla prestigiosa università. Di origine ispanica, era nato a Boston e aveva scelto gli Usa come luogo di esilio ed elezione. Di formazione cattolica, politicamente e culturalmente fu sempre su posizioni aristocratiche e quindi avverso sia agli aspetti modernisti dell’americanismo, sia al romanticismo idealistico dei filosofi come Emerson o Thoreau; infine avverso al pragmatismo tipicamente americano, nel quale vedeva un corruzione del senso. Uno strano europeo, dunque, che scelse gli Usa solo per rifiutare ogni aspetto dell’American way of life. L’evoluzione del suo pensiero avrà molti tratti in comune con quella del suo allievo. Santayana fu un uomo molto influente nella formazione dei giovani universitari del primo ‘900, ma la sua opera è stata dimenticata nonostante fosse nota fino agli anni ’30. Il suo antiamericanismo aristocratico, in una terra in cui l’aristocrazia poteva esistere solo come frammento europeo sempre più rarefatto, fanno di lui un alieno in quella cultura e questo spiega probabilmente il suo oblio nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la cultura statunitense diventerà egemone e dominante. Ci sono caratteristiche del pensiero e dello stile di Stevens, tuttavia, che lo rendono altrettanto alieno rispetto agli Usa. Peraltro, anche il loro rapporto con la religione è altrettanto controverso.

Garth Greenwell, in un saggio dal titolo A Home against One’s Self: Religious Tradition and Stevens’Architecture of thought (Una casa contro il proprio sé: Tradizione religiosa e architettura del pensiero in Stevens, sottolinea come si possono trovare nel poeta di Hartford citazioni che autorizzano qualsiasi interpretazione, riguardo al suo atteggiamento rispetto alla religione.70 Pur concordando in prima istanza, penso che sia possibile – seguendo il percorso di Stevens in parallelo a quello di Santayana – arrivare a una diversa approssimazione.

Il mondo irreligioso in cui Stevens ci aveva portati alla fine del suo poemetto più simbolista – Mattino domenicale – viene in qualche modo smentito o confermato alla fine della sua quest? To an old philosopher in Rome è solo un omaggio al maestro o qualcosa di più, una riconciliazione finale con il pensiero religioso in senso lato cristiano?  

Una celeberrima affermazione del poeta di Hartford suona così:

i grandi poemi dell’Inferno e del Paradiso sono stati scritti, ora dobbiamo scrivere i poemi della terra.”71

Accanto ad essa un’altra affermazione altrettanto perentoria  suona invece:

No one believes in the church as an institution more than I do.”

“Nessuno crede nella chiesa come istituzione più di quanto non faccia io.” 72

A quale di queste due frasi credere e sono poi così contraddittorie? Credo che, rifacendomi al testo poetico, si possano tenere separate senza preoccuparsi per il momento della loro reale o apparente contraddittorietà. To an old philosopher in Rome e un altro testo ricordato anch’esso da Greenwall (St. Armourer Church from the Oustside), vengono solitamente citati per avanzare l’ipotesi di un tardo ritorno alla cristianità.

Nei testi citati e anche in altri dello stesso periodo emerge la profonda nostalgia di Stevens per la possibilità di credere, almeno nel solco della scommessa pascaliana. Del resto, perché stupirsene? Tutta la sua opera è una quest dentro il pensiero occidentale e di ciò il cristianesimo costituisce gran parte; se consideriamo poi l’attitudine tipica di Stevens a ritornare continuamente agli stessi tropi e snodi, non stupisce che alla fine della sua vita sia tornato a queste domande fondamentali. Tuttavia, pensando all’omaggio rivolto a Santayana, il testo a lui dedicato potrebbe essere semplicemente un tenero accompagnamento del suo maestro, giunto alla soglia della fine e anche lui nostalgicamente legato, come vedremo, alla stessa possibilità. Cosa vede però il poeta in tale fine? Gli oggetti comuni che hanno accompagnato la sua vita e che Santayana medesimo ricordava spesso:

…/The bed, the books, the chair,, the moving nuns,/The candle as it evades the sight, these are/The source of happiness, in the shape of Rome,/A shape within the ancient circles of shapes,/And these beneath the shadow of a shape./

(/Il letto, I libri, la sedia, le monache che passano,/la candela mentre si sottrae alla vista, queste sono/fonti di felicità nella forma di Roma,/una forma entro gli antichi cerchi delle forme,/e questo sotto l’ombra di una forma/)73

Siamo in un convento ma anche questo non deve trarci in inganno e già il testo lo dice alludendo all’ombra di una forma. La poesia, inoltre, è un accompagnamento da lontano, come spesso avviene per Stevens, che mai si mosse dagli Stati Uniti; anzi che visse la gran parte della sua vita in uno spazio inferiore ai 100 chilometri quadrati (a parte la settimana che ogni anno lo vedeva ospite di amici, insieme alla moglie, in Florida), come se ci fosse in questo una presa di distanza dal nomadismo intellettuale così tipicamente statunitense. Dopo altre descrizioni come quella che ho citato, ecco che il poeta si rivolge a lui, al maestro:

…/ speak to your pillow if it was yourself./Be orator but with an accurate tongue/And without eloquence, o half-asleep/Of the pity that is the memorial of this room,/….

(/Parla al tuo guanciale come fosse te stesso,/sii oratore ma con lingua accurata,/senza eloquenza, oh semi addormentato,/della pietà che è monumento di questa stanza,/)

E più avanti:

/The sounds drift in. The buildings are remembered./The life of the city never lets go, nor do you/Ever want to. It is a part of the life in your room./Its domes are the architecture of your bed,/The bells keep on repeating solemn names./

(/I suoni arrivano fiochi. Gli edifici sono ricordi./la vita della città non smette mai, né tu mai/lo vorresti. È parte della vita nella stanza./Le cupole sono le architetture del tuo letto./ le campane vanno ripetendo nomi solenni./) …

Infine la conclusione:

…/It is a kind of total grandeur at the end,/With every visible thing enlarged and yet/No more than a bed, a char and mobbing nuns,/The immensest theatre, the pillar of the porch,/The book and candle in your ambered room//Total grandeur of a total edifice,/Chosen by an inquisitor of structures/For himself. He stops upon the threshold,/As if the design of all his words takes  form/And frame from  thinking and is realized./

(/E’ una sorta di grandezza totale alla fine:/tutto il visibile accresciuto e insieme/non più di un letto, una sedia, monache che passano,/il teatro più immenso, il portico con pilastri,/il libro e la candela nella sua stanza ambrata,//grandezza totale di un edificio totale/prescelto da un inquisitore di strutture/per sé. Si ferma sulla soglia,/quasi l’intento di ogni sua parola assume forma/e fattezza del pensiero si realizza./)74

Santayana giunse, alla fine della sua vita, a voler morire in un convento, ma da non credente! Lo rileva anche Greeenwall e ricorda che, secondo Harold Bloom, Stevens lesse questa scelta del filosofo come un tropismo del pathos75 e non appunto una scelta di fede. Penso si possa avanzare l’ipotesi che Stevens abbia visto in Santayana, suo alter ego morale e spirituale, qualcosa che poteva illuminare anche lui stesso e se si seguono i due pensieri in parallelo, tale scelta diventa assai plausibile. Entrambi hanno percorso l’intero arco della civiltà occidentale (Stevens di più perché il richiamo agli dei precedenti e al mondo greco e romano sono sempre presenti sotto traccia), entrambi hanno valutato il valore della fede, ma alla fine del loro percorso, riconoscono la grandezza del mito cristiano, ma lo intendono entrambi come mito fra i miti. L’omaggio che Santayana rivolge a Roma e a uno degli edifici più simbolici della civiltà cristiana (il convento nel suo caso, insieme all’eremo e alla chiesa), sono l’omaggio a una civiltà e non alla lettera della fede: quel convento, infatti, come abbiamo visto nei versi di Stevens e ancora più nel finale della poesia, non è pieno di dei e neppure delle loro tracce, per citare il famoso slogan di Heidegger, ma di libri, di monache che vanno e vengono, di tranquilla e serena attesa della fine. Sembra logico pensare che nei versi dedicati al suo vecchio maestro, Stevens ci ha lasciato un segno che riguarda lui medesimo, che a quella soglia arriverà pochi anni dopo.  

Quanto alla sua seconda frase in cui richiama il proprio attaccamento alla chiesa come istituzione, essa potrebbe avere un altro significato. In tale affermazione Stevens parla da uomo appartenente a quell’ambiente statunitense di high middle class che poteva trovare nel vecchio aristocratico Santayana quel residuo di una cultura d’antan: l’America agiata del primo decennio del secolo. Forse fu questa appartenenza la ragione di quella particolare intesa che si avverte anche nell’epistolario che Stevens intrattenne con Marianne Moore, con la quale s’incontrò una sola volta a un convegno, ma che poteva capire benissimo, anche nelle sue diverse eccentricità. In sostanza, la high middle class non ha mai dimenticato che la Chiesa come istituzione è pur sempre il coagulo concreto e istituzionale della filosofia del popolo e un popolo che alla religione si affida, è meno incline ad assumere comportamenti ribelli o rivoluzionari. L’appartenenza di Stevens a questo modo di essere e a questo stile, prima ancora che a una classe in senso prettamente economico, è quello tipico di conservatori che lo sono per un dna che portano in sé, liberi anche di prendere posizioni suggestivamente lontane da quel cliché senza per questo fuoriuscirne: è il caso di certi interventi di Stevens.76 È un atteggiamento che ha a che fare con abitudini di vita, letture, bon ton e buen vivir. Tutto questo appartiene loro con una punta di maggiore sobrietà nel caso di Moore, per via della rigida educazione presbiteriana. Tale appartenenza alle istituzioni tipiche di quel mondo, ha un rapporto con la fede che può essere assai elastico.

Frederick Jameson, nel suo monumentale libro sul postmodernismo pubblicato nel 1991, così si esprime nel primo paragrafo, a proposito delle arti del ‘900: 

… Thus abstract expressionism in painting, existentialism in philosophy, the final forms of representation in the novel, the films,…  or the modernist school of poetry (as institutionalized and canonized in the works of Wallace Stevens) all are now seen as the final, extraordinary flowering of a high-modernist impulse which is spent and exhausted with them.

Perciò l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo in filosofia, le forme finali di rappresentazione nel romanzo, i films … o la scuola modernista in poesia (così come è stata istituzionalizzata e canonizzata da Wallace Stevens), sono ora tutte viste come la finale straordinaria fioritura di un impulso modernista alto, che si è spento ed esaurito con loro.77

Quando Jameson parla di Stevens in questo modo non lo intende forse come l’ultimo dei classici, cioè appartenente alla grande cultura borghese, dissolta in Europa da due guerre mondali prima che dalle avanguardie artistiche, come troppo spesso si dice invertendo l’ordine di grandezza dei fattori, mentre negli Usa essa aveva ancora una vitalità che si sarebbe esaurita con quella generazione? Anche se è sempre possibile che ci sia un ultimo classico che viene dopo l’ultimo classico precedente, di certo non possiamo trovarlo in Andy Warhol, nella Beat Generation, negli urli di Ginzberg, nonostante la loro drammatica forza espressiva, nelle sbronze letterarie di Kerouac e Gregory Corso, oppure nel solitario Ferlinghetti che di quella generazione fu l’editore, ma che personalmente si tenne sempre alla larga dai loro eccessi. Forse possiamo ritrovarla in alcuni narratori, ma rimane profonda l’intuizione di Jameson: quella generazione di poeti e scrittori statunitensi, cui si possono aggiungere i nativi come William Carlos Williams, Robert Frost, Cormac McCarthy, Don De Lillo, oppure l’Arthur Miller di Morte di un commesso viaggiatore, furono gli ultimi rappresentanti della cultura borghese nelle sue vette più eccellenti. Chi venne dopo e si ribellò a certi suoi stilemi, o chi uscì come dissidente dalle società del socialismo reale, dimostra fra l’altro che il tentativo di superare la grande cultura borghese è assai arduo, fallito in alcuni tentativi quale per esempio il realismo socialista. Quanto agli uomini o alle donne come Stevens e Moore, non si può pretendere che superassero i limiti dell’ideologia personale e della loro classe. Facile rimproverare loro che proprio l’affluente sistema capitalistico statunitense avrebbe dissolto ogni vincolo sociale e cultura, aprendo le porte al postmodernismo, cui il ribellismo impotente e anche un po’ sciocco della Beat Generation offrì una sponda – appunto ribelle – ma niente affatto rivoluzionaria. Quanto accadde dagli anni ’80 in poi è lì a dimostrarlo e le conseguenze le vediamo tutte oggi con estrema chiarezza. Se mai si potrebbe aprire un altro filone di ricerca e cioè se la cultura musicale nera, Pete Seeger, Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springteen, Patty Smith, poeti e scrittori come Audre Lord, James Baldwin e Toni Morrison, possano rappresentare il germe di un percorso capace di conciliare cultura popolare di massa e alta cultura; ma questa ricerca esula dai limiti di questo studio.

Stevens morì nel 1955 quando ancora, uno come lui, che non ha mai accarezzato l’idea di una trasformazione radicale della società statunitense, poteva coltivare il sogno di un’alta cultura in una società di buone regole e bon ton. Marianne Moore, morendo nel 1972, si rese conto che ciò era sempre meno possibile: smise allora di scrivere, ritirandosi nella propria solitudine, ma senza sbattere porte. Del resto, lei che era stata editrice della rivista Dial e quindi in qualche modo militante, se n’era resa conto ben prima quando, pur pubblicandolo, aveva severamente rimproverato Ginzberg  per i suoi eccessi linguistici e non.

Stevens, infine, come tutti gli statunitensi dell’epoca, aveva un reale timore del possibile scoppio di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Tuttavia, in lui non vi fu mai alcun cedimento al millenarismo apocalittico statunitense. Anzi, proprio perché aveva una paura reale e non nascosta della possibilità di una guerra atomica, il suo esempio è ancora più significativo. Le aberrazioni del millenarismo politico, l’invocazione addirittura dell’Armageddon da parte di consiglieri di stato deliranti, che continuano a essere anche oggi una parte rilevante dell’americanismo reale non trovarono in lui e in Marianne Moore una sponda. Espressioni come la missione degli Usa nel mondo e i toni mistici che tale espressione si porta dietro sono estranee al suo linguaggio e questo non è poco. 78


67 Wallace Stevens Harmonium, a cura di Massimo, Einaudi Torino 1994, pp. 116-21

68 Op. cit. pag. 271.

69 Stevens morì nel 1955 a causa di un tumore.

70 Garth Greenwell, The Wallace Stevens Journal, volume 33 numero e Autunno 2009, pag. 147.

71 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo.

72 La seconda citazione è tratta dalla lettera 348. Io l’ho ripresa dal saggio di Grath Greenwell intitolato A Home against one’s  self. Religious tradition and Stevens. Architecture of thought. Il saggio è pubblicato sul numero due  Volume 33 del Wallace Stevens Journal, pubblicato dalla Wallace Stevens Society, Usa 2009, alla pagina 148.

73 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi Torino 19994, pp. 558-9

74 Op. cit. pp. 562-3

75 Op. cit. pag. 153 alla fine. Il saggio di Greenwall, in ogni caso è nella sua interezza assai importante. 

76 Mi riferisco a interviste varie, al dialogo che ebbe con critici che appartenevano all’ambito della sinistra e persino a un singolare omaggio a Stalin durante una conferenza dal titolo Il nobile Cavaliere e il suono della parole, che si trova nella raccolta di saggi più volte citata, dal titolo generale L’angelo necessario.

77 Frederick Jameson: Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism Verso, 1991, paragrafi iniziali.

78 Sull’uso del linguaggio apocalittico da parte di politici e consiglieri di stato statunitensi è utile leggere il libro di David Noble intitolato La Religione della tecnologia, Edizioni di Comunità, Torino 2000.

Umberto Eco e Ida Magli

Premessa.

Questo testo è stato pubblicato sul sito della società di psicoanalisi critica, a ridosso della loro morte.  Lo ripropongo a pochi giorni dalle commemorazioni del primo, con pochi ritocchi.

Il destino, talvolta illuminante, ha posto queste due morti l’una accanto all’altra, ma ancora ad anni di distanza dall’evento, di Ida Magli non si è ricordato Non esito a dire che per me Magli è stata una maestra e lo è ancora; questo non mi impedisce di criticare le sue prese di posizioni sull’Islam, l’Europa, ma anche di riconoscere, nella sua esasperazione, la radice di alcune verità negate. Su questi aspetti del suo pensiero, tuttavia, credo sia meglio dedicare in futuro una riflessione specifica.

I DUE ECO.

Umberto Eco, in quanto semiologo, linguista e strutturalista, è stato un eminente studioso e accademico che ha portato nell’università italiana la tradizione europea che a partire da De Saussure e Wittgenstein, passando poi da  Levi Strauss, Jakobson e Barthes, ha fatto della scienza dei segni, della filosofia del linguaggio e dello strutturalismo un’importante segmento della cultura europea del ‘900, sebbene la sua personale propensione verso l’analisi strutturale risalisse alla Scolastica (dunque anche ad Aristotele) e alla tesi di laurea su Tommaso D’Aquino. Dalle testimonianze provenienti dall’ambito universitario, si comprende che era stimato da colleghi e studenti e che è stato dunque un bravo professore, di grande erudizione. 

Tuttavia, egli non è stato solo questo, ma, come hanno ripetuto fino alla nausea i servizi televisivi e giornalistici a ridosso della morte “Molto, ma molto di più”. È proprio su questo che è lecito avere dubbi, o quanto meno porre interrogativi e sollevare problemi: tanto più perché è questo secondo l’Umberto Eco che ha tenuto le scene, mentre i suoi lavori accademici o il suo ruolo di fondatore della facoltà di scienza della comunicazione sono scivolati da tempo in seconda linea, almeno per il grande pubblico. Anche nelle celebrazioni che nei giorni scorsi si sono tenute in altri paesi, per esempio alla tv tedesca che gli ha dedicato una serata sul canale Arte, di lui si è parlato solo in quanto autore di romanzi  gialli a sfondo storico. 

Eco, in quanto intellettuale di massa, che è cosa diversa dall’essere studioso della società e della cultura di massa, nasce con la pubblicazione de Il nome della rosa: siamo nel 1980. Cinque anni prima, nel 1975, si era chiusa la sua stagione più militante che lo aveva visto, sull’abbrivio dei movimenti intorno al ’68, collaboratore de Il Manifesto, – con lo pseudonimo di Dedalus – dopo un articolo assai duro su quello di Pasolini contro l’aborto, pubblicato sul Corriere della sera. Da quel momento in poi Eco, in perfetta consonanza con i tempi, approdò sia al pubblico televisivo, sia alla divulgazione. Nacquero così I diari minimi, le interviste impossibili, le Bustine di Minerva, le collaborazioni con riviste letterarie come Il cavallo di Troia, che riprendevano temi e modi che erano stati anche delle avanguardie del primo ‘900 e già ripresi dal Gruppo ’63, nel quale Eco aveva militato: la parodia, lo sberleffo, il pastiche, il gioco linguistico, la preminenza del significante sul significato. A tutto questo egli apportava in più la sua virtuosa abilità nel manipolare i segni e la scienza dei segni.

Negli anni precedenti il 1980, da intellettuale critico e di opposizione, si servì virtuosamente degli strumenti semiotici per smontare e anche demistificare le strutture della narrazione e togliere un po’ di ruggine all’accademia italiana ancora legata alla critica crociana. Tuttavia, con Il nome della Rosa, egli compì una vera e propria invasione di campo: usare gli stessi strumenti con cui aveva demistificato molta cultura sia alta sia bassa, per costruire un tipico prodotto di genere, cui solo l’autorevolezza ormai consolidata del suo nome poteva conferire un quid in più che non c’era. Il modello, in realtà, era molto antico – Conan Doyle e altri giallisti presenti nella sua personale biblioteca, su cui si è soffermato durante l’intervista alla tv tedesca; ma trasportando tutta la materia in un favoloso Medio Evo, la narrazione acquisiva una veste apparentemente nuova. L’esperimento riuscì talmente bene che diede il via ad altri analoghi, fino al Codice da Vinci di Dan Brown.

Gli anni ’80 e ’90 furono anche quelli del maggior trionfo dello strutturalismo applicato alla letteratura e in particolare alla narrativa. Erano gli anni in cui la lettura testuale si affermava anche nelle scuole come lo strumento principe per comprendere un testo, ma isolandolo dal suo contesto per coglierlo nella sua nuda essenza di materiale linguistico. Per ragioni biografiche mi trovavo negli stessi anni alle prese con due figli in età scolare che leggevano libri game, componevano in classe narrazioni di cui ciascuno scriveva un capitolo e un altro doveva continuare ecc. Persino in un gruppo di scrittura di cui facevo parte ci divertimmo per qualche tempo a farlo anche noi. Devo ammettere che ne fui affascinato, era stupefacente osservare come ragazzini e ragazzine di quell’età fossero capaci, sotto la guida di bravi insegnanti, di inventare trame e intrecci, personaggi e loro caratterizzazione. Insomma, lo strutturalismo era una macchina che funzionava davvero bene se utilizzando i suoi modelli, studenti delle medie potevano arrivare a tanto; a molto di più poteva arrivare un professore che la scienza dei segni e delle strutture la conosceva a fondo.

Fu proprio in quegli anni e precisamente nel 1985 che, anticipato dagli studi Cesare Segre, approdò in Italia l’analisi strutturalista che Roman Jakobson e Claude Levi-Strauss proposero del sonetto di Baudelaire Les Chats, disaggregandolo con l’abilità con cui un perito settòre seziona un cadavere sul tavolo anatomico.

Nei fui colpito sinistramente; poi mi allarmai di più quando vidi che la tecnica del libro game o altre molto simili entravano nelle scuole di scrittura e poi che cominciavano ad apparire romanzi che assomigliavano molto a esercizi scolastici. Eco ha anticipato tutto questo nel 1980; con lui il postmodernismo entrò a vele spiegate in Italia e lo strutturalismo, da strumento insieme ad altri per avvicinare un testo letterario divenne una macchinetta multiuso.

L’ANTROPOLOGIA AL CENTRO.

Ida Magli non ha goduto della medesima attenzione mediatica. Le ragioni sono tante e sarà sufficiente ricordare che oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: l’essere politicamente molto scorretta, tanto da avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra e l’essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano.

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco), andando alle radici più recenti e dominanti di questa cultura e cioè al cristianesimo e alla sua visione della donna, cui sono strettamente legati i modi di concepire la sessualità. Nel compiere questo passo, Magli non ha dimenticato in ogni momento che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che l’immagine femminile occidentale è una costruzione dello sguardo maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è.

Il centro di irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le rare incursioni che si allontanavano un po’ da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee, legate a fatti di attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, che era poi una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici.

I suoi grandi libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le opere cui ci si deve in prima istanza rivolgere per comprendere il suo percorso e anche i suoi crucci più estremi. Ne scelgo tre, sebbene anche in altri compaia sempre prima o poi un riferimento a questo archetipo (l’uso di questo termine è mio) della cultura occidentale: Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose. Sono tre libri strettamente legati, dove l’antropologa si smarca dalle antinomie classiche con cui si è guardato alla figura di Cristo e di Maria di Nazareth (i primi due libri) e cioè tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue, per leggere i testi evangelici e i pochi altri documenti dell’epoca, mettendo al centro usi costumi, mentalità e quindi contesto sociale, cultura profonda, quelle che Braudel chiamerebbe lunga durata, espressione che Magli stessa cita nella introduzione a La Madonna; sempre però a partire dal linguaggio concreto dei testi, in primis naturalmente, la Bibbia e i Vangeli. In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte quelle figure storiche fossero veri uomini o donne e li situa nel loro contesto. L’analisi del testo evangelico da un punto di vista antropologico, apre le porte a un campo di ricerca vastissimo. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stesso strumento la costruzione dell’immagine femminile a partire però dalle storie reali, dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio.    

STORIA E MEMORIA.

Nelle ultime interviste rilasciate e riproposte nei giorni successivi la morte, Eco tornava sempre a un tema a lui caro, la memoria e ne sembrava un po’ più ossessionato del solito, forse perché nel suo ultimo romanzo, Numero zero, si occupa della recente storia d’Italia. 

Di memoria e strutture si è occupata anche Ida Magli, nessun antropologo ne può prescindere; ma è proprio la diversa e critica considerazione dello strutturalismo che le ha permesso di non essere imprigionata nelle gabbie di un angusto riduzionismo. La sua critica a Levi Strauss è a questo proposito molto importante.

E siamo con questo tornati a quello strumento così potente, il cui metodo permette di saltare sopra il tempo; anzi, di non tenerne conto per nulla. Così, per esempio, tale metodo si può applicare con la stessa efficacia all’analisi di un filastrocca come Ambarabà ciccì coccò tre civette sul comò, oppure alla Vispa Teresa e poi a un canto della Divina commedia. Lo strutturalismo però, in quanto metodo che tratta indifferentemente le strutture, non conosce la dimensione del tempo. Ma se l’oggetto analizzato è il testo letterario, oppure un reperto antropologico, la storia di un popolo o di una cultura, l’eliminazione del tempo rende tutto orizzontale, schiacciato su una sola dimensione e quindi senza tempo e per conseguenza senza memoria possibile. Le strutture diventano allora forme vuote di contenuto, pericolosamente buone per tutti gli usi. Non sarà proprio anche per questo che lo strutturalismo è stato uno degli agenti più o meno consapevoli delle eternizzazione del presente, tanto cara a chi pensa che la storia sia finita? Sarà un caso che nell’epoca in cui esiste un giorno della memoria praticamente per qualsiasi cosa, persino per le ferrovie dimenticate e abbandonate (cercare in rete se qualcuno non ci crede), abbiamo a che fare con una dilagante incapacità di massa, anche da parte di persone che dovrebbero essere colte, di collocare gli eventi storici nel tempo e nello spazio? Naturalmente le responsabilità di questa tragica deriva sono anche altre, ma questa non è trascurabile dal momento che molti formatori si sono formati proprio in quei due decenni in cui lo strutturalismo era sugli scudi.  

La dimensione del tempo e dello spazio occupato da una cultura, inoltre, è forse la sola in grado di indicare a una qualsiasi teoria o scienza, qual è il suo limite.

Nei libri di Ida Magli, l’analisi delle strutture non prescinde mai dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e le loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente e dunque la storia. Questo permette a Magli delle incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. È sua per esempio l’intuizione e poi la ricerca approfondita sulla dipendenza di tutto il linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa, così come sue sono le rapide ma profondissime analisi del soggetto pittorico più frequentato dalla pittura occidentale, la madonna con bambino; oppure sulla musica, come scrive nell’ultima parte del settimo capitolo de La Madonna, intitolato Il tempo interrogativo della musica.

Tuttavia, nel fare questo Magli non ha mai superato il limite. Faccio un solo esempio, ma che vale per tutti. Alla fine dell’analisi antropologica di Gesù di Nazareth, l’antropologa deve affrontare il momento topico della testimonianza sulla sua resurrezione. A quel punto lei registra ciò che viene detto e avviene senza alcun commento: su ciò l’antropologia non ha nulla da dire. Questa coscienza del limite rende ancor più grande quel libro e la sua autrice.