ELIOT E L’ITALIA: OVVERO PRAZ, ELIOT, MONTALE

Questa parte del saggio fu pubblicata sull’annuario di Poesia Crocetti del 2002.

Eliot si è imposto lentamente in Italia. Non vi è alcuna sua influenza sull’avanguardia dei primi decenni del secolo, giudicata con sufficienza dai poeti più autorevoli del mondo anglo statunitense. Pound definiva il futurismo italiano un:

impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione. 22

Quanto a Eliot, egli fu affascinato dalle affermazioni pirotecniche contenute nel Manifesto Futurista pubblicato da Le figaro nel 1909, ma non le prese mai alla lettera, anche se le userà con ironia e disincanto. La sua reazione anti romantica è più rivolta al tardo romanticismo inglese di poeti come Swimburne e Pater e ostile al sentimentalismo e all’autobiografismo nel linguaggio poetico; ma niente affatto demolitore della tradizione. Inoltre Eliot parte da Laforgue e dietro quest’ultimo ci sta Baudelaire; ma la sua visione della poesia attinge a un vasto patrimonio che si rifà all’antropologia e alle scienze e non soltanto alla tradizione letteraria. Infine il richiamo a Dante è quanto di più lontano si possa immaginare dai futuristi italiani.

Il nome del poeta comincia a circolare dopo il 1920, ma la fonte non è diretta: sono alcune riviste francesi a veicolarlo in Italia. La testimonianza di Montale è preziosa al riguardo. In un articolo del 1947 per la rivista L’immagine dal titolo Eliot e noi il poeta afferma:

Prima di allora [è il 1928 come dirà più avanti nello stesso articolo] non avevo letto di Eliot che una o due delle sue liriche giovanili, del periodo che fu chiamato laforguiano: Portrait of a lady e Prufrock.23

La rivista La Ronda lo ignora. È un nuovo periodico milanese nato nel 1925 (La Fiera letteraria) a occuparsi di lui. Si tratta di un foglio più eclettico e curioso, ma anche per i suoi redattori Eliot rimane un poeta difficile da digerire: Linati lo definisce:

poeta oscuro e critico perfetto.24

La svolta va ascritta all’opera di Mario Praz, il primo che dimostra di possedere gli strumenti culturali per cogliere l’importanza della poesia del poeta di Saint Luis. È il sostrato della poesia eliotiana ad affascinare lo studioso, uomo dai vasti orizzonti. È lui a tradurre Eliot per gli italiani; ma fa anche di più perché, da critico acuto qual è e da stratega delle lettere italiane di quegli anni in rapporto alla cultura europea, Praz diventerà il fabbro di una costruzione che avrà vita lunga e occuperà la scena nazionale, attraversando il primo novecento per approdare al secondo, quando Eliot s’imporrà definitivamente nel nostro paese.

È Mario Praz a proporre al poeta anglo statunitense la pubblicazione in Inghilterra di Arsenio. La poesia uscirà sulla rivista Criterion nel 1928. Il traduttore è lo stesso Praz e non si può non notare la stranezza, perché la prassi più consueta vuole che chi traduce un testo poetico sia un parlante la lingua di ricezione. Se fosse solo una stravaganza la cosa potrebbe non avere alcuna importanza; se non che, la versione inglese sembra fatta per forzare il testo montaliano fino a renderlo il più possibile affine, per atmosfera e stilemi, a una poesia di Eliot. Sebbene non sia il solo ad avere notato la cosa, cercherò di portare qualche prova per suffragare affermato, esaminando alcuni passaggi del testo e della traduzione a cominciare dall’inizio. 25

/I turbini sollevano la polvere/sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi/deserti, ove i cavalli incappucciati/annusano la terra, fermi innanzi/ai vetri luccicanti degli alberghi./Sul corso, in faccia al mare, tu discendi/in questo giorno/or piovorno ora acceso, in cui par scatti/a sconvolgerne l’ore/uguali, strette in trama, un ritornello/di castagnette./

Praz traduce in questo modo:

/Dust, dust is blown about the roof, in eddies/It eddies on the roofs and on the places/Deserted, where are seen the hooded horses/Sniffing the ground, motionless/In front of the glistening lattices of the hotels./Along the promenade, facing the sea you slide,/Upon this afternoon of sun and rain,/Whose even close knit hours/Are shattered, so it seems, now and again/by a snappy refrain/of castanets./

Le peculiarità saltano subito all’occhio. L’attacco dà un’impronta molto decisa al testo grazie alle parole dust, eddies e roof, la cui iterazione è invece inesistente in Montale. È vero che il mulinello implica la polvere e anche il vorticare degli oggetti, ma la scelta operata da Praz di ripetere la stessa parola conferisce alla poesia quella particolare solennità che è tipica di molti attacchi eliotiani.

In The love song of J. Alfred Prufrock, ecco un esempio:

… /The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,/The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes,/

(La nebbia gialla che si gratta la schiena alle finestre,/il fumo giallo che si gratta il muso ai vetri delle finestre,/…) 26

Le citazioni potrebbero continuare a lungo perché l’iterazione è una caratteristica costante dello stile eliotiano.

Il procedimento di Montale va in senso addirittura opposto. Giocando sulla differenziazione dei significanti il poeta italiano sfrutta tutte le possibilità musicali della nostra lingua: mulinelli è parola che gli serve per un’allitterazione con cavalli nel verso successivo e non semplicemente per caricare di ulteriore senso l’uso precedente di turbini. Il testo di Montale è evocativo, mentre la traduzione di Praz è orientata nel senso della precisione e dell’esattezza. A parte l’arbitrarietà di ripetere ben tre vocaboli, anche l’uso del singolare roof, la prima volta, va nel senso della precisione; Montale usa il plurale tetti perché il suo paesaggio, per usare una metafora cinematografica, è visto in piano medio, non in primo piano come avviene in Eliot. Per il poeta anglo statunitense l’immagine o l’oggetto sono individuati e messi a fuoco. Ancora due versi di questa prima strofa:

/in questo giorno/ or piovorno ora acceso …/.

Praz traduce con:

 /Upon this afternoon of sun and rain/.27

A parte la bizzarria di questo giorno che diventa del tutto arbitrariamente un pomeriggio, la versione inglese elimina gli elementi aulici (piovorno), che Montale, un po’ artificiosamente, si porta appresso per poter costruire la rima con giorno, spezzando però il verso, così da renderne più martellante e ritmica la dizione. Anche ammettendo che un equivalente inglese di piovorno si possa trovare solo in un dizionario storico, Praz prende un po’ troppo la palla al balzo, eliminando anche la melodia dei versi. L’or ora montaliano, infatti, serve a dare un ritmo plastico all’alternanza dei diversi tempi atmosferici; insomma, mentre Montale gioca su ritmo, melodia e contrappunto, seguendo il suo istinto musicale che deriva anche dai suoi studi da baritono e dunque nutrito dal gusto melodrammatico così tipicamente italiano. Praz, invece, prosciuga il testo dai suoi tratti retro, rendendolo così più moderno. Nel prosieguo il traduttore ricorre più volte ancora alle iterazioni indebite, come quando usa per due volte le parole waves e moments nella seconda strofa. In questa parte tuttavia, un altro particolare balza all’occhio ed è la traduzione di nembo, che Praz traduce con wirlwind. La parola inglese indica il mulinello, il vortice, uno stato di turbolenza. È vero che tutta la poesia è percorsa dal movimento turbinoso degli elementi naturali che fanno da contrappunto all’immobilità di Arsenio, ma la parola ha pur sempre, in poesia, il suo primato e in questo caso Montale usa nembo.

Il poeta italiano ricorre spesso a parole auliche: abbiamo visto piovorno, ora nembo, figge nell’ultima parte. Anche il ricorso a parole tronche (fremer invece di fremere), si richiama a una tradizione classica, che fa da contrappunto all’introduzione di parole moderne e dal suono stridente: le castagnette della prima strofa e l’acetilene nella penultima. Già nei primi poemetti, i procedimenti iterativi conferiscono drammaticità e caricano di senso il dettato eliotiano e vorrei citare a questo proposito i versi che nel Prufrock si richiamano all’Ecclesiaste:

/And indeed there will be time/For the yellow smoke that slides along the street/Rubbing its back uopon the window-panes;/There will be time, there will be time,//To prepare the face to meet the faces that you meet;/There will be time to murder and create,/…

(E in effetti ci sarà tempo/per il fumo giallo che scivola lungo la strada/grattandosi il dorso ai vetri delle finestre;/ci sarà tempo, ci sarà tempo per preparare/una faccia per incontrare le facce da incontrare;/ci sarà tempo per uccidere e creare/…)28

In Montale, invece, il contrappunto fra parole della tradizione poetica e altre consapevolmente moderne risponde essenzialmente a esigenze linguistico musicali, con rimandi a luoghi ed episodi biografici. Viste da vicino le differenze sono più evidenti delle somiglianze, a meno di non ridurre tutto al comune uso, in entrambi, delle dramatis personae; sebbene, anche in questo caso, le diversità nel modo di farlo siano profonde perché diversi, sono i personaggi e perché l’uso che Eliot fa delle maschere non rimane lo stesso. Confrontiamo, per esempio, l’Arsenio di Montale con Prufrock e con  la Lady del Portrait.

Il personaggio montaliano discende un viale che porta sul lungomare, mentre il cielo è percorso dalla turbolenza tipica delle cittadine mediterranee in primavera. Il paesaggio è luminoso nonostante il vento e l’atmosfera tempestosa. Arsenio è un osservatore solitario, spiritualmente immobile, ma anche i suoi movimenti fisici sono impacciati. La vita gli scorre a fianco, rappresentata da elementi talvolta improbabili e curiosi (l’orchestrina di violini zigani); oppure dall’immagine tipicamente marina dei gozzi in rada. Arsenio continua la sua passeggiata fino a che la pioggia non scroscia improvvisa; anch’essa simbolo di una vitalità che non sembra scuoterlo. Il poeta, infatti, si rivolge a lui, nel finale con questi versi:

…/e se un gesto ti sfiora, una parola/ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,/nell’ora che si scioglie, il cenno d’una/vita strozzata per te sorta, e il vento/la porta con la cenere degli astri./29

Consideriamo ora l’inizio di Prufrock e l’attacco della seconda parte di Portrait of a lady.

/Let us go then, you and I,/ When the evening is spread out against the sky/ Like a patient etherised upon a table;/ Let us go, through half deserted streets,/ The muttering retreats/ Of restless nights in one-night cheap hotels/ And sawdust restaurants with oyster-shells:/ Streets that follow like a tedious argument/ Of insidious intent/ To lead you to an overwhelming question…/ Oh, do not ask, “What is it?”/ Let us go and make our visit.// In the room the women come and go/Talking of Michelangelo.

( Andiamo dunque, tu ed io,/quando la sera è stesa contro il cielo/come un paziente anestetizzato sul tavolo;/andiamo, per certe strade semi deserte, /rifugi borbottanti/di notti inquiete in locande da una notte/e ristoranti con segatura e gusci d’ostrica:/ strade che seguono come una discussione noiosa/ dall’intenzione insidiosa/ per condurti a una domanda ineluttabile …/No, non chiedermi qual è./ Andiamo piuttosto, facciamo la nostra visita.// Le donne vanno e vengono nei salotti/parlando di Michelangelo Buonarroti./) 30

Sebbene il tedio, la proustiana paresse, ma anche lo spleen baudleriano, accomuni queste figure ad Arsenio, molto altro le differenzia. Il monologo di Prufrock ha un interlocutore diretto, il tu che si accompagna al protagonista. La drammatizzazione muove entrambi i personaggi e il poeta diviene un regista di scena, mentre nell’Arsenio di Montale è un io diretto a rivolgersi a lui nel finale. Diverso è poi lo scenario. I personaggi di Eliot si muovono nella città che Baudelaire ha intuito per primo come impasto di sordido e di sublime, di esperienza routinière e di possibilità d’incontri fuori dal comune. Eliot assume questa lezione e ridisegna la materia del poeta francese trasformandola in un inferno trasportato nell’al di qua. Lo vediamo dagli hotels che, nonostante le apparenti affinità sono invece affatto diversi. Alberghi a ore per incontri fugaci quelli del poeta inglese; più consueti quelli di Montale, dove i cavalli incappucciati danno alla scena tratti ottocenteschi, ma di un ottocento diverso da quello industriale e fuligginoso dei bassifondi parigini o londinesi.

Le due maschere eliotiane devono compiere una visita in un salotto borghese, dove impera il vaniloquio. È già presente in Eliot quel sentore di una società di massa intrisa di consumismo culturale e narcisismo salottiero, dove il protagonista è un demi monde che orecchia e ripete; del tutto assente in Montale.

In Portrait of a lady la protagonista è un equivalente femminile di Prufrock; cambia invece il modo della rappresentazione:

/ Now that lilacs are in bloom/She has a bowl of lilacs in the room/And twists one in her fingers while she talks./ “Ah my friend, you do noto know, you do not know/What life is, you who holds it in your hands;”/(Slowly twisting the lilacs stalks)/ “You let it flow from you, you let it flow,/And youth is cruel, and has no more remorse/And smiles at situations which it cannot see.”/ I smile, of course,/ and go on drinking tea.

(/Ora che i lillà sono in fiore/essa ha un vaso di lillà nella stanza/e ne attorciglia uno fra le dita mentre parla./”Ah, amico mio voi non sapete, non sapete/ cos’è la vita, dovreste tenerla in mano;”/ (Attorcigliando lentamente gli steli dei lillà.)/ “Voi lasciate che scorra, la lasciate scorrere,/ e la gioventù è crudele, non ha rimorsi/ e sorride delle situazioni che non vede.”/Io sorrido, naturalmente,/ e continuo a bere./) 31

Introducendo il virgolettato, Eliot non compie semplicemente un’operazione di tipo stilistico. Il monologo di Browning diventa dialogo drammatizzato, in un’alternanza di versificazione, dove gli intercalari fra i dialoghi sembrano quasi delle note di regia. Nel finale il poeta ride dei suoi personaggi e della pantomima messa in scena da questa lady, depositaria di pseudo verità; ma la presa di distanza è già avvenuta. Con Gerontion, Eliot, in un certo senso, uccide il personaggio di Prufrock per poterlo resuscitare spogliato dai tratti di compiaciuta identificazione che restano evidenti nelle prime produzioni. Quest’ultimo poemetto, infatti, annuncia il poema maggiore. La sintesi di questo percorso sarà proprio La terra desolata, dove gli elementi precedenti vengono fusi di nuovo e tenuti insieme da un sentimento tragico della crisi che si è, nel tempo, approfondito. L’ironia e lo scherzo sono presenti nel poema eliotiano, ma non sono più l’elemento dominante. Rimane il mondo infernale, ma si può convenire con Luigi Berti quando, riprendendo un’osservazione di Stephen Spender sulle affinità e differenze fra i due poeti, afferma a proposito della città che:

nella luce di questa poesia è evidente che come Baudelaire vi scorgeva tutto ciò che poteva essere condannato, Eliot, forse più modestamente, vi cerca tutto ciò che può essere salvato.32

Nel 1950, riflettendo proprio su questo percorso, in un saggio dal significativo titolo What Dante means to me (Ciò che Dante significa per me) e ristampato nel 65 nella raccolta di saggi To criticize the critic and other writings Eliot scriverà:

Credo che da Baudelaire imparai per la prima volta un precedente per le possibilità poetiche, mai sviluppate da un poeta nella mia lingua … della possibilità di fondere ciò che è realisticamente sordido e il fantasmagorico, la possibilità di giustapporre i fatti e il fantastico. Da lui come da Laforgue […] capii che il tipo di esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana poteva essere materiale di poesia, e che la fonte di nuova poesia poteva trovarsi in ciò che era stato fin qui considerato intrattabile, sterile, impoetico33

Diverso il procedimento di Montale. Arsenio, pur avendo dei tratti che ricordano le dramatis personae eliotiane, rimane un episodio isolato, quasi estraneo alle atmosfere di Ossi di seppia. Tuttavia, si potrà obiettare che sono Le occasioni, e non l’opera d’esordio, quella che dalla critica è stata più avvicinata alla poesia di Eliot; anche se, come abbiamo visto, la pubblicazione di Arsenio in Gran Bretagna è un passaggio rilevantissimo nel rapporto fra Montale ed Eliot, sempre mediato da Mario Praz.

Vi accenna Mengaldo, ma anche altri hanno sottolineato tale contiguità. Barberi Squarotti si mantiene invece in una posizione più guardinga, limitandosi a osservare il superamento del soggetto. Secondo altri fra cui Eugenio Scarpati, il debito di Montale nei confronti di Eliot:

è culturale prima che poetico. 34

Il poeta stesso, dirà, riferendosi alle Occasioni, di una maggiore oggettività e pulizia, rispetto agli elementi spuri e soggettivi ancora presenti nell’opera precedente. Anche in questo caso, tuttavia, i dubbi rimangono forti. Una prima considerazione che s’impone è di carattere strutturale. Manca in Montale l’intento poematico, presente in Eliot, seppure nella forma aperta e cinematografica della costruzione a sketches. Visto nella sua prospettiva storica il poema eliotiano appare oltretutto più unitario di quanto non vedessero i suoi primi critici, colpiti dalla novità della partitura. Non solo la figura di Tiresia, ma anche la sequenza delle scene e il fitto intreccio di rimandi interni, costituiscono un insieme semantico molto strutturato. Infine, l’uso quasi esclusivo del tempo verbale al presente indicativo e il ricorso frequente alla drammatizzazione servono a cogliere tutto in presa diretta. La stratificazione dei significati non è data dalla memoria soggettiva dell’autore ma dalla compresenza oggettiva di elementi diversi e talvolta disparati; come quando, nel visitare una città gravida di storia, possiamo vedere nella stessa piazza una rovina arcaica, una chiesa del ‘500 e un palazzo in vetro e acciaio.    

Vediamo Le occasioni. Così inizia il primo testo, intitolato Vecchi versi.

/Ricordo la farfalla ch’era entrata/dai vetri schiusi nella sera fumida/su la costa raccolta, dilavata/dal trascorrere iroso delle spume./

La parola chiave di questo attacco è ricordo. Il tempo presente del verbo non è qui in presa diretta, ma introduce il punto di vista della memoria soggettiva; la scena successiva è evocativa, l’oggetto farfalla diventa subito simbolico. Nel prosieguo la memoria affolla la scena di altri personaggi: la madre del poeta, il tavolo ingombro dalle carte da gioco, i bambini che dormono. Siamo dunque in un interno, cui fanno da contrappunto: il faro pulsante dell’isola del Tino, il rombo sordo del mare delle Cinque Terre. La farfalla diviene l’elemento che porta la natura dentro questo tranquillo interno di una casa borghese. La sua presenza si fa minacciosa:

/Era un insetto orribile dal becco/aguzzo, gli occhi avvolti come d’una/ rossastra fotosfera, al dosso il teschio/umano; e attorno dava se una mano/tentava di ghermirlo un acre sibilo/ che agghiacciava./

Questo segno perturbante, che ricorda assai l’Acherontia Atropos di Gozzano,  sconvolge appena lievemente la scena, creando un forte momento epifanico; ma lo fa nel senso soggettivo proustiano non in quello oggettivo eliotiano. La farfalla di Montale assomiglia più alla madeleine. Il finale celebra un tema che appartiene alla poesia di tutti i tempi. La farfalla muore al contatto della luce e precipita su tavolo:

…/e fu per sempre/con le cose che chiudono in un giro/sicuro come il giorno,…/. 35

Il tema è quello della inesorabilità del destino che accomuna cose, animali, esseri umani. La caducità, colta nell’essere minaccioso e fragile di questa farfalla, viene estesa in questo bellissimo aprirsi finale del testo a ogni cosa, vivente o inanimata che sia; ma chi compie questo prodigio è ancora una volta, la memoria, parola chiave di questa parte. È la memoria a ingigantire il volo effimero di questa farfalla che viene associata al ricordo di una giovane morta precocemente – Annetta – che sarà anche la protagonista de La casa dei doganieri:

 /la memoria/in sé le cresce, sole vive d’una/vita che disparì sotterra: insieme/coi volti famigliari che oggi sperde/non più il sonno ma un’altra noia; accanto/ai muri antichi, ai lidi, alla tartana/ che imbarcava/ tronchi di pino a riva ad ogni mese,/al segno del torrente che discende/ancora al mare e la sua via si scava./ 36

L’elemento nuovo che Montale introduce è quello della noia che spegne queste vite, si direbbe, prima che abbiano compiuto il loro corso; questa novità si può collegare al tedio e all’immobilità di Arsenio e delle maschere eliotiane, ma è troppo poco per spingere le somiglianze oltre un certo limite. Non è qui in gioco, naturalmente, il valore di questa poesia e le suggestioni che essa sa riproporre su un tema così alto, ma l’affinità o meno con i procedimenti eliotiani. Piuttosto, è il Gozzano di Farfalle che viene alla mente.

Infine, due poesie intitolate Dora Markus e a un celebre Mottetto.

/Fu dove il ponte di legno/mette a Porto Corsini sul mare alto/e rari uomini, quasi immoti, affondano/o salpano le reti. Con un segno/della mano additavi all’altra sponda/invisibile la tua patria vera./Poi seguimmo il canale fino alla darsena/della città, lucida di fuliggine,/nella bassura dove s’affondava/una primavera inerte, senza memoria./ 38

Non mancano temi eliotiani in questo inizio: la primavera inerte, la lucida fuliggine, i rari uomini quasi immoti. Tuttavia è ancora una volta la memoria a tenere insieme tutto questo, il ricordo di un incontro con questa donna, di cui vi è una labile traccia in una lettera di Roberto Bazlen.

Dora, dal canto suo, ricorda il personaggio della signora nel boudoir di The game of chess (Una partita a scacchi), ne La terra desolata, ma ancora una volta le differenze sono più vistose. Così il testo di Montale:

…/Non so come stremata tu resisti/in questo lago/d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra,/al piumino, alla lima: un topo bianco,/d’avorio; e così esisti!/.

Così quello di Eliot:

…/The glitter of her jewels rose to meet it,/From satin cases poured in rich profusion./ In vials of ivory and coloured glass/ Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,/Unguent, powdered, or liquid – troubled, confused/…

(/lo scintillio le si levava incontro/ da astucci di raso versato a profusione;/ in fiale d’avorio e vetro colorato/dischiuse i suoi profumi stavano in agguato/ sintetici e strani/ unguenti ciprie e liquidi – turbavano e confondevano/…). 39

Sono gli oggetti a essere molto simili, ma è diverso il loro senso. Dora esiste attraverso di essi, come dice il poeta, mentre la signora del boudoir ne è pesantemente gravata. Nel prosieguo il sovraccarico di oggetti preziosi fra i quali la signora si muove descrivono in realtà una prigione dorata. Ed è allora che scatta una delle più commoventi e tragiche correlazioni dell’intero poema. Fra gli oggetti del boudoir vi è un quadro, il cui tema è il mito di Filomela, violentata da un re barbaro e trasformata in usignolo, condannato a cantare in gabbia. La relazione fra la rappresentazione nel quadro e la condizione di prigioniera introduce una drammatica messa in scena in forma di dialogo della nevrosi di cui soffre la donna.

Torniamo alla Dora Markus di Montale:

…/La tua irrequietudine mi fa pensare/agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose:/ è una tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/ e i suoi riposi sono anche più rari./ 40

Anche l’irrequietudine di Dora ha tratti nevrotici, ma essa rimane quello che è: una donna probabilmente mai incontrata, vista attraverso lo sguardo di un poeta che è anche un uomo. Nella seconda poesia a lei dedicata viene evocata la sua terra, la Carinzia, un luogo quasi esotico e lontano, irraggiungibile come forse la stessa Dora Markus. In definitiva il tema di Montale è l’incontro mancato con quella donna, ma non la condizione epocale di incomunicabilità fra uomini e donne in una relazione d’amore.

E veniamo al Mottetto

/La canna che dispiuma/ mollemente il suo rosso/ flabello a primavera;/ la rèdola nel fosso, su la nera/ correntìa sorvolata di libellule;/e il cane trafelato che rincasa/ col suo fardello in bocca,// oggi qui non mi tocca riconoscere;/ ma là dove il riverbero più cuoce/ e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue/ pupille ormai remote, solo due/ fasci di luce in croce./ E il tempo passa./ 41

Il mottetto è nettamente diviso in due parti, sottolineate anche dalla più ampia spaziatura esistente fra la prima e la seconda. La prima scena ci presenta una serie di elementi vitali e primaverili: il susseguirsi delle stagioni e il ridestarsi della natura dopo l’inverno da un lato, l’attività dell’animale domestico ma ancora libero dall’altro. In questo contesto non privo di un sentore di arcadia campestre, s’insinua improvviso un elemento di morte suscitato dal nuvolo che si abbassa. Ancora una volta è il ricordo di due pupille ormai remote a sospendere sia il movimento, sia la primavera. La trasfigurazione finale che muta gli occhi di questa donna in due fasci di luce in croce non allude, nonostante le apparenze, ad alcuna redenzione perché non vi è rientro nella natura secondo il ciclo vita morte rinascita, ma neppure una scelta decisa verso la soluzione cristiana del resto guardata da Montale con scettico agnosticismo se non proprio con rifiuto. La chiusa, un dantesco colpo di maglio, allude alla condizione di transito di ogni cosa, ma s’impone per la sua forte connotazione ritmica e musicale, senza ulteriori apporti di senso. In realtà, considerando il Mottetto nel suo insieme, il poeta gioca sul contrasto piuttosto che sulla correlazione. La morte che si insinua, mediata dalla memoria, non è in dialettica con la vitale descrizione della prima parte, ma semplicemente vi si giustappone. Ciò che rende suggestiva questa poesia è la concentrazione di epifanie in uno spazio testuale così breve; sono momenti che hanno un forte valore intrinseco, secondo i canoni migliori della poesia simbolista, dalla quale non si distaccano. I singoli fotogrammi di questa scena, il lampo finale che dissolve tutto in una luce accecante e il richiamo al tempo lineare che trascorre ci portano in due direzioni precise: da un punto di vista filosofico verso l’esaltazione del tempo come istante epifanico piuttosto che come lunga durata alla Bergson e poeticamente verso il Mallarmè più rarefatto. Senza dimenticare mai, tuttavia, che il verso oggi qui non mi tocca riconoscere, con cui si apre la seconda parte del Mottetto, introduce un punto di vista squisitamente soggettivo.

Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920 riferendosi al processo che porta alla poesia, Eliot lo definisce in questo modo:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.

È veramente curioso, a questo punto, rilevare come un poeta così legato alla biografia e ad alcuni luoghi privilegiati, venga associato a Eliot che critica apertamente l’irruzione di elementi biografici nel linguaggio poetico!

Negli studi di un italianista come Frederik Jones, forse perché più distaccato e capace di vedere le cose da una prospettiva più decentrata, ho trovato una ricostruzione convincente del percorso montaliano. Per lo studioso inglese il punto di partenza del poeta ligure è proprio Gozzano, da cui lo differenzia però

la fede continua e sostenuta nella validità dell’atto decisivo, capace di rievocare associativamente attraverso la memoria, le esperienze passate.

Continua ancora Jones: “… I suoi ricordi esteticamente sono spesso simili a certe evocazioni delle vecchie stampe gozzaniane, ma Montale ha su Gozzano il vantaggio di credere che la rappresentazione del patrimonio esistenziale del poeta possa avvenire in due modi: mediante immagini sia statiche sia dinamiche.

Nel merito più diretto della sua poesia essa:

Deve essere vista come una dialettica della memoria fondata su una religione nettamente immanente di sopravvivenza oltre la morte … Per lui una persona morta può essere immaginata solo come un insieme di atti incapsulati nel ricordo dei vivi … Tale conclusione è molto vicina alla teoria mallarmeana dell’essere ideale, ma in sostanza la sua forte carica emotiva l’avvicina piuttosto alle teorie proustiane della rievocazione memoriale ….

In tutto questo in nome di Eliot non compare mai. 42

Dal 1928 comincia una relazione intensa fra Montale ed Eliot, che culminerà anche in un paio di incontri e di cui Praz sarà l’assiduo tessitore. L’ambiente fiorentino è condizionato da questo sodalizio: l’esordio di poeti come Luzi, Bigongiari e Betocchi avviene in quest’atmosfera. Fino al ‘37 Praz e Montale saranno i soli traduttori di Eliot in Italia e i testi eliotiani suggestionano fortemente il poeta italiano. Negli interventi critici del poeta ligure sul suo interlocutore, Montale insiste sulla musicalità dei versi di Eliot, ma lascia in secondo piano i riferimenti culturali. Senza nulla togliere alla qualità musicale del poeta di oltre Manica, non è tuttavia per questo che si ricordano i suoi versi e comunque il suo rapporto con la musica è differente; le variazioni di Eliot sono jazzistiche, la sua cultura musicale, se vogliamo mantenere questo paragone, è eclettica e risente anche delle sue origini statunitensi. La musica di Montale è quella melodica e talvolta patetica del melodramma italiano e persino dell’operetta e in certe sonorità si possono riscontrare anche echi di poeti come Metastasio. Montale sembra assumere il calco eliotiano, ma non entra nel merito di problemi di poetica e quando lo fa le differenze sono evidenti. Due passaggi mi sembrano alquanto rivelatori. Dice Eliot:

L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel  trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione …

Dice Montale:

Non si dà poesia senza artificio; il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma altresì lavorare la sua materia verbale fino a un certo momento e dare alla propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo oggettivo.”43

Eliot parla d’emozione in senso universale e non biografico, si riferisce a un vasto universo di riferimenti, non parla di effusione del sentimento, ma specialmente non usa la parola artificio. Per lui il correlativo oggettivo è necessario per dare il massimo di universalità possibile e d’impersonalità all’esito artistico, dove la parola va intesa nel senso del rigore della rappresentazione e non come è stato detto troppe volte nel senso della freddezza emotiva. Quando Eliot pensa al duro lavoro sul verso, ha in mente il fabbro e cioè il modo di operare dell’artigiano che se mai è un virtuoso, ma non un artificioso. In questo contesto, l’omaggio che Montale rivolge alla formula eliotiana, appare strumentale e infatti troverà modo di liberarsene anni dopo. Nella Intervista immaginaria. Sulla poesia del 1946 il poeta dirà fra l’altro, a proposito de Le occasioni, che esse erano l’espressione di:

… Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui fui mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del correlativo oggettivo non credo esistesse ancora nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato sul Criterion)…

Questa dichiarazione contiene una mistificazione e una palese inesattezza. Il poeta dice di essere stato mosso dall’istinto nell’andare in una certa direzione: si può credergli, visto che aveva parlato in altro contesto della poesia come artificio? Istinto e artificio mal si conciliano. Quanto all’inesattezza non è vero che nel ’28 la teoria del correlativo oggettivo non esistesse, in quanto essa fu formulata in un saggio del 1919; ma non è neppure vero che Montale la ignorasse! È lui stesso a lasciarlo intendere nella recensione scritta per un libro di Corrado Pavolini del 1929, quando riferendosi proprio al correlativo oggettivo lo presenta come quella:

famosa definizione che tende a fare di ogni lirica moderna un oggetto di poesia (il correlativo oggettivo) secondo la nota teoria di Eliot. 44

A parte l’interpretazione discutibile del dettato eliotiano, se la formula gli era così ampiamente nota nel ’29, è difficile pensare che la ignorasse completamente nel ’28! E comunque Montale se ne scorda nel ’46, mentre se ne ricordava benissimo nel ’31: perché? Forse perché per tutti gli anni ’30 le ali del grande anglo statunitense potevano essere un ottimo usbergo per il giovane (e poco noto in Europa) poeta italiano, mentre nel ’46 le stesse ali, divenute ancora più estese, potevano risultare ingombranti. In questo contesto l’intervista immaginaria che il poeta rivolge a se stesso va vista come un tentativo di dare organicità al proprio percorso, costruendo una propria originalità anche di poetica.

Concluderei questa parte ricordando un intervento di Oreste Macrì, letto in occasione del convegno internazionale sulla poesia di Montale tenutosi nel 1982. Soffermandosi proprio sui rapporti con Eliot lo studioso afferma:

È un momento cruciale questo dell’incontro con la poesia più che con la poetica di Eliot, sul quale Montale proietterà tutte le sue complesse e contraddittorie istanze, alla ricerca di una nuova sintesi superiore abbracciante i dati del lirismo e della prosa, del generico e del particolare del continuo e del salto,… della storia e dell’universale. I primi termini sono considerati dei dati …. L’universale ha gli stessi diritti del particolare; un mito, un simbolo, un rito antichissimi si possono sincronizzare e amalgamare in un contesto contemporaneo … Fu questa la riforma eliotiana, rielaborata da Montale alla buona, a punti di spillo, casualmente, con l’empiria e il buon senso dell’uomo della strada.” 45

La vera fortuna di Eliot in Italia inizia nel secondo dopoguerra, quando aumentano, fino a diventare numerosissimi, gli studi su di lui; specialmente dopo l’attribuzione del Nobel, avvenuta nel 1948. Da un semplice esame della bibliografia si evince subito come sia la sua opera di drammaturgo a tenere ancora banco. Il poeta è in seconda linea e della sua produzione poetica molti studi sono dedicati alle opere giovanili e alla Waste Land mentre quelli dedicati ai Quartetti sono in netta minoranza. Saranno le traduzioni successive di Sanesi, Tonelli e altri a renderli più noti, ma siamo negli anni’80 e ’90.

Un altro filone della critica si occupa di Eliot in quanto esponente di prestigio della cultura cristiana: si pensi ai lavori di Margherita Guidacci, Angelo Romanò e specialmente a quelli di Luigi Berti che insistono su opere meno considerate da altri, quali, per esempio Ash-Wednesday o pièce teatrali molto rappresentate in quegli anni come Assassinio nella cattedrale o Cocktail party.

Le ragioni per cui continua a piacere sono dovute a uno strano melange che riguarda certamente la sua poesia e la sua poetica, ma anche il personaggio che egli sembra incarnare: quello dimesso e scettico, tipicamente moderno, del poeta agli antipodi del vate romantico o d’annunziano.

Filtrata dalla vicenda montaliana, il modo in cui il poeta viene accolto risente ancora di più di quella predisposizione simbolista, tardo ermetica, oppure crepuscolare che continuava e per certi aspetti continua a gravare sulla poesia italiana. La sua diventa da un lato una poetica dell’aridità che fa tutt’uno con la figura dimessa del poeta uomo comune, prototipo di quell’uomo senza qualità che è una figura tipica dell’anti eroe novecentesco. Dall’altro lato una poetica dell’oggetto, che è cosa diversa dal correlativo oggettivo.

La citazione di un brano del saggio di Silvio Ramat sulla poesia di Bartolo Cattafi mi sembra a questo proposito emblematica, non tanto per quanto egli dice sul poeta siciliano ma per il modo di intendere Eliot:

Il mutamento operatosi nel rapporto soggetto-oggetto va posto in relazione a un processo tipico della letteratura novecentesca. È un processo che aveva conosciuto in Eliot e, contemporaneamente in Montale, la sua stagione decisiva, dando luogo in termini di riepilogo critico alla formula eliotiana del correlativo oggettivo.46

Oltre che a dare per scontato il parallelismo fra i due autori Ramat mette l’accento sullo spostamento fra soggetto e oggetto, a favore di quest’ultimo, intendendo con questo il superamento dell’io lirico o il suo decentramento. Non è questo però che interessa al poeta anglo-statunitense; tale dibattito sarà molto presente nella scena italiana. Per Eliot il correlativo oggettivo è un vero e proprio flusso che si manifesta in concrezioni semantiche ricche di rimandi interni, estrema forza sintetica e profondità antropologica, mentre la poetica dell’oggetto è, nelle sue espressioni migliori come è per esempio nei Mottetti montaliani, una sequenza di epifanie isolate le une dalle altre, quasi sempre legate alla soggettività di chi scrive e un’esperienza biografica sempre più o meno presente direttamente nel testo.

Sono questi in definitiva i modi in cui la poesia italiana assumerà la lezione eliotiana. Nei poeti italiani del secondo Novecento, dove sono riscontrabili tracce della sua poetica, è la selezione circoscritta di temi e oggetti corrispondenti ad operare, declinati in senso intimistico e minimalista; oppure assurti a emblemi di romanzi famigliari.

In Giudici, come in altri (perché il problema riguarda un ambito più vasto), si assiste addirittura al trionfo, non della poetica eliotiana, ma delle sue prime maschere, con le quali il poeta sembra identificarsi in toto, forzandone i tratti patetici. Accade così che il poeta proletario, che secondo la definizione di Giancarlo Ferretti sarebbe il protagonista della poesia di Giudici, è in realtà un hollow man piccolo borghese, erede decaduto e sempre più patetico dei protagonisti delle poesie dei maggiori poeti crepuscolari (Gozzano in Piemonte, Corazzini a Roma); oppure del travet che conobbe il punto massimo di celebrazione del suo decoro nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi. 47

Siamo lontani dal crollo di una civiltà: crollano piccoli mondi personali e tutto si sminuzza fino alla polvere. Non siamo più allo specchio infranto, i cui pezzi, però, rimangono lì dove sono come evidenza visibile di una catastrofe: ogni piccolo pezzo diviene una totalità separata dagli altri.

Mario Praz

22 Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la Review of the great English verse conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.

23 Le riviste in questione sono Commerce e Le navire d’Argent. La citazione di Montale si trova alla pagina 27 del testo  T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

24 È il titolo di un articolo scritto da Linati per Il Corriere della sera del 13-1-1926.

25 Così si esprime per esempio Laura Caretti nel saggio dal titolo Eliot in Italia: “Si potrà così notare che Praz abbia in un certo qual modo interpretato in chiave eliotiana il testo di Montale e che sia anche ricorso in più punti alla accentuazione di alcuni tipici mezzi stilistici del poeta inglese.” Pag. 59.

26 Il testo di Arsenio è riportato da Eugenio Montale. L’opera in versi a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, collana I Millenni, Giulio Einaudi editore pag. 81. La traduzione di Praz si trova nel testo già citato di Laura Caretti: T.S Eliot in Italia,  Pag. 58 e 59.

27 Ivi.

28 Da ‘T.S. Eliot. Poesie 1905/1920 per la cura e la traduzione di massimo Bacigalupo. Grandi Tascabili economici Newton Poesia. Newton Compton Editore. Pag. 30-31.

29 Tutte le citazioni tratte da poesie di Montale, oppure le note collegate ai testi sono ricavate Da I Millenni: Eugenio Montale. L’opera in versi. Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Einaudi Editore 1980.

30 I brani citati dalle due opere eliotiane si trovano in T. S. Eliot. Poesie 1905-1920, a cura e traduzione di Massimo Bacigalupo. Newton Compton editore 1995, pag. 30 e 41.

31 Op. cit. Pp. 30-41.

32 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

33 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

34 Da Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale,  Librex editore. Anno 1982. I brani citati sono alle pagine 171 e seguenti per Barberi Squarotti, che intitola il suo intervento Montale o il superamento del soggetto. La citazione di Scarpati è alla pag. 255. Il citato saggio di Pier Vincenzo Mengaldo su Montale si trova in Poeti italiani del 900, Grandi classici Mondadori, 2001, pag. 517 e seguenti.

35 Eugenio Montale, Opera in versi I Millenni, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, 1980, pp-112-13.

36 Ivi.

38 Op.cit. pag.125.

39 T:S: Eliot, Waste Land La terra desolata.

40 Eugenio Montale, op. cit. pag.125.

41 Op. cit. pag.151.

42 Tutte le citazioni sono tratte da La poesia italiana contemporanea da Gozzano a Quasimodo di Frederic Jones. D’Anna editrice, pagine 326-331-332-333. La citazione di Eliot da Il bosco sacro, rimanda a una nota  precedente, la numero 10 dell’introduzione che si trova nel blog..

43 La formulazione così chiara e sintetica della teoria del correlativo oggettivo, si trova nel saggio del 1919 Hamlet and his problem, dedicato alla tragedia shakespeariana. La traduzione qui riportata è di Luciano Anceschi ed è riportata nel testo di Laura Caretti T.S. Eliot in Italia alla pagina 75. Eugenio Motale in La Gazzetta del popolo del 4-11-1931.

La citazione si trova in Intenzioni. Intervista immaginaria . In questo caso l’ho ricavata dal testo di Giorgio Zampa intitolato Eugenio Montale. Sulla poesia, dove l’intervista si trova alla pagina 564.

44 Ivi.

45 Dal saggio di Oreste Macrì in Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale’ Anno 1982, pag.421-22. Mi riferisco all’introduzione, scritta da poeta stesso, al testo T.S. Eliot tradotto da Montale. Collana All’insegna del pesce d’oro. Editore Vanni Scheiwiller, 195

46 Ivi.

47 Giancarlo Ferretti: La letteratura del rifiuto. A cura di Giorgio Barberi Squarotti, Giovanni Getto e Edoardo Sanguineti. Mursia editore. Il saggio in questione si sofferma più volte sulla figura del poeta proletario e va dunque considerato nel suo insieme.