Premessa
Il saggio qui di seguito è stato pubblicato la prima volta sulla rivista online Overleft nel 2021, nella Rubrica Dopo il diluvio: www.overleft.it.
L’ultimo libro di Elias Canetti pubblicato in Italia ha un titolo ovvio se si pensa a gran parte della sua opera: un incessante lavorio attraverso miti, aforismi, sentenze fulminanti, narrazioni, tutti rivolti a una non accettazione della morte. Questo tema è presente anche nei momenti più apparentemente leggeri dell’Autobiografia. Ciò non toglie che di fronte a tale perentorietà non si rimanga ugualmente sconcertati e la critica, forse per imbarazzo, ha trovato diversi modi per aggirare il problema o tenerlo sullo sfondo senza renderlo troppo minaccioso. Il merito dell’edizione italiana, curata da Ada Vigliani, è invece proprio quello di prendere il toro per le corna. Il saggio di Pater von Matt, postfazione al testo, colma una lacuna e apre nuove prospettive alla critica canettiana. Il suo merito sta nel prendere l’autore sul serio e alla lettera, accettando il confronto con questo apparente assurdo che è il proposito di non cedere alla morte, di non accettarla, anzi di avanzare l’utopia di un’umanità che prima o poi riuscirà a liberarsene. Matt evita di parlare di metafora, parola che ormai serve spesso come passpartout quando si vuole scansare un argomento spinoso. Canetti, peraltro, è impregnato di cultura ebraica, pur essendo critico di molti suoi aspetti; in quella cultura il ruolo della metafora non ha la preminenza che ha in altre. La predilezione di Canetti per l’aforisma, la sentenza breve che ha alle volte anche forti connotati narrativi, pesca a piene mani proprio in quella tradizione: dalla storiella più o meno comica, alla parabola. Se mai a volte compare la similitudine.
L’idea di un libro dedicato interamente a questa tematica, peraltro, accompagnò Canetti per l’intera vita. Peter von Matt scrive di taccuini pieni di appunti e centinaia di matite consumate, tanto che l’inedito di Canetti sembra assumere le dimensioni del famoso baule di Pessoa dal quale continuano a uscire scritti, come peraltro conferma la figlia Johanna in una recente intervista dove parla del rapporto del padre con la religione:
«Elias Canetti non era credente, ma dedicò alla religione molte delle sue riflessioni, circa 1.500 pagine. Nel 2019 verrà pubblicato un libro con le più importanti». Ma a quante pagine ammontano in totale gli appunti canettiani mai pubblicati? «Tra le dodici e le quindicimila»
In realtà, poi, Canetti lo ha lasciato incompiuto il suo libro sulla morte, probabilmente volutamente e anche in questo paradosso occorre andare a leggere.
Il saggio di von Matt cerca di collocare l’opera e l’intento di Canetti accennando ad altre imprese letterarie altrettanto ardue, ma a un certo punto della sua disamina, consiglia il lettore di non seguire oltre un certo limite lo scrittore nel suo proposito e di dedicarsi piuttosto alla ricchezza del testo. Si tratta di un consiglio ragionevole, ma solo in ultima istanza perché la curiosità rimane per quello che sembra un vero e proprio enigma. Una domanda ovvia si pone: perché un progetto così radicale e apparentemente irricevibile nella sua concretezza fattuale? Siamo di fronte alla reincarnazione di un Orfeo impazzito che vuole sbarrare le porte dell’Ade e farli ritornare tutti in vita? Oppure Canetti pensa forse alla scienza (non dimentichiamoci che fu pur sempre un chimico mancato), oppure bisogna cambiare radicalmente il tipo di domanda se si vuole tentare di capire? Von Matt stesso dice che forse occorre allontanarsi dal perché ed è quello che ho tentato di fare, abbandonando io stesso la domanda che mi sono posto per prima.
Una grande scrittura contiene sempre in sé anche la scelta felice di un punto di vista particolare sul mondo o su di sé o su qualsivoglia cosa, cioè un luogo da cui lo scrittore parla e scrive e che in qualche caso è stato addirittura il primo a scoprire.
Mi è venuto in mente, allora, un gioco molto semplice: proviamo a pensare a qualche grande autore, per esempio i primi che sono venuti in mente a me, ma ognuno può metterci quelli che crede. Da dove parla e scrive Baudelaire? Facile dirlo: dalle viscere di Parigi, da una città notturna o raramente albeggiante, dalle sue strade più malfamate o dal camerino dove scrive al lume di una lampada a petrolio, più o meno in compagnia dell’oppio. Insomma se abbiamo bisogno di dialogare con lui, perderemmo un po’ di tempo ma sapremmo dove trovarlo ed è stato il primo a scoprire la poeticità della grande città tentacolare. Quanto a Jane Austen non può che essere nel salotto di casa o in quello di un’amica con cui si intrattiene bevendo il te. Per non parlare di Hegel: anche quando dorme non può che essere alla sua scrivania, oppure in strada, lungo le poche centinaia di metri che lo separano dall’aula universitaria.
Da dove parla e scrive Canetti?
Qui il pensiero si blocca e anche le risposte più semplici che si affacciano (i caffè di Vienna, quelli di Berlino, il mitico tram delle scorribande serali verso il Grinzig), svaniscono subito ricordando come Canetti, presente ovunque, sembra non venga mai notato da qualcuno. È lui a dirci che frequenta quei luoghi, ma era proprio vero? E che dire della sera in cui ritornando a casa dal Grinzig s’imbatte in un delinquente comune, un ladro e riesce a intrattenerlo, con la sua conversazione; anzi a irretirlo, tanto che alla fine potremmo persino pensare che gli abbia rubato lui il portafoglio piuttosto che il contrario? Su Brecht ne dice di tutti i colori ma in Brecht non vi è alcun cenno ai loro incontri. E nel caffè di Vienna dove si scaglia una volta in modo veemente contro la pulsione di morte freudiana è proprio lui a parlare, oppure quella strana figura silenziosa e cupa – una sorta di Sarastro piombato in mezzo a noi – che se ne sta solitario, seduto a un tavolo di fronte a quello dove avviene la conversazione? Se non avessimo le fotografie che lo ritraggono un po’ ingessato mentre ritira il Nobel all’Accademia di Svezia si sarebbe tentati di dire che Canetti è un’invenzione della letteratura europea novecentesca, una specie di parto spontaneo della medesima, piuttosto che un autore in carne ed ossa. Alla reiterazione della domanda – da dove parla e scrive Canetti? – si sarebbe allora tentati di rispondere che la sua presenza nel mondo letterario e nel mondo tout court sembra governata dal principio di indeterminazione di Heisenberg e da tutto quella che la fisica einsteiniana e post einsteiniana e quantistica ha scoperto. Lo stesso può dirsi della sua morte, che sembra essere un’ovvia conseguenza del suo grande progetto di lotta contro la medesima. Canetti morì nel sonno e dunque in un certo senso ha vinto la sua battaglia perché la morte stessa ha dovuto sorprenderlo per poterlo afferrare e si potrebbe persino arrivare a dire che se si fosse accorto della sua presenza avrebbe trovato il modo di sgattaiolare via. Allora, forse il suo incredibile progetto va visto non tanto alla luce del perché ma del da dove. Solo ponendosi in un luogo introvabile se non dalla morte medesima, Canetti poteva cogliere l’orizzontalità della sua scandalosa presenza e rivolgersi orizzontalmente a tutti e a ciascuno con il suo dono: perché pensare di sconfiggere la morte è un grande atto d’amore nei confronti dell’umanità e degli animali, che Canetti abbraccia nel suo sguardo riservando loro alcuni fra i suoi più memorabili aforismi:
Nel riguardo degli animali ciascuno di noi è un nazista. (pag. 47.)
L’umanità di Canetti, però, non è intesa come un aggregato generico (un morto e un altro un morto non fanno due morti egli scrive) ma un tutti e un ciascuno. La matematica non ha per lui alcun valore e la conta dei morti, da cui comincia il libro, è uno dei suoi atti d’accusa più severi. Non si contano i morti e già il farlo è un tradimento e un cedimento, perché trasforma il defunto in una statistica. ed è questo il senso della frase apparentemente incomprensibile che chiude il primo brano del libro, dove i numeri sono scelti a caso per dire che se si cominciano a contare i morti, non c’è più limite fino alle centinaia di migliaia e ai milioni; la mancanza del limite porta all’indifferenza.
La guerra come pretesto e la natura
Gli appunti che compongono il libro partono dal 1942 e c’è da domandarsi quale ruolo abbia giocato la guerra nel proposito di scriverlo. Certamente tanto, ma meno di quanto si possa credere. L’inizio di Massa e potere, cioè il libro che può essere accostato a questo per molti aspetti, Canetti cominciò a scriverlo nel 1920 e lo pubblicò con scarso successo nel 1960. Lo scrittore era rimasto affascinato dalla trasformazioni che avvengono negli individui quando fanno parte di una massa: siamo nella Vienna degli anni ’20, uno dei centri europei del movimento operaio, anche se quella storia è meno conosciuta di quella tedesca o della repubblica dei Consigli di Bela Kun in Ungheria. L’atteggiamento di Canetti, non ostile alle lotte operaie, è tuttavia catturato da altro, ma anche dalla necessità di rispondere al convitato di pietra che sta alle spalle di Massa e potere: Sigmund Freud. La sua irriducibile non accettazione della pulsione di morte è uno dei motori del libro ma si sbaglierebbe leggendo in tale atteggiamento una sorta di formazione reattiva nei confronti del concittadino, un atteggiamento peraltro comune a molti nella Vienna del tempo. Lo scenario che Canetti apre con la sua ricerca antropologica, infatti, travalica del tutto l’intento polemico iniziale, così come toglie di mezzo la guerra come spunto superficiale e ispiratore del Libro contro la morte. Il sentimento bellico occupa una parte rilevante del libro, ma lo occupa altrettanto in tutti gli altri libri di Canetti, risultando così del tutto sganciato dalla contingenza storica per affondare le sue radici nelle costanti antropologiche e nella loro lunga durata. Basta una citazione come quella che segue a certificarlo:
Le guerre si fanno per amore della guerra. Finché non si ammetterà questo non si riuscirà mai a combattere veramente contro le guerre.
Se mai è un altro l’aspetto sconvolgente di questo libro: in nessuna parte viene attestato che la morte sia un evento naturale. Non che Canetti lo neghi, ma neppure lo sottoscrive, piuttosto ne tace. Se pensiamo invece ai momenti di vera e propria invettiva, a volte veemente, non è la natura a essere chiamata in causa, ma altro. Prima di tutto chi uccide, in primis in guerra, in secondo luogo dio stesso e le religioni:
La promessa d’immortalità basta a mettere in piedi una religione. Il puro e semplice ordine di uccidere basta a sterminare tre quarti dell’umanità. Che vogliono gli uomini’ vivere o morire’? Vogliono vivere e uccidere e finché lo vorranno dovranno accontentarsi delle varie promesse di immortalità.
Tutti i morenti sono martiri di una futura religione universale.
Infine a pag. 46:
Dio, il paranoico che annienta gli uomini perché dagli uomini si sente perseguitato. D’improvviso i risorti in tutte le lingue accusano dio, il vero giudizio universale.
Oppure è direttamente la morte cui si rivolge come se fosse un personaggio e seppure parlando in terza persona. La natura in quanto tale rimane un altro enigma al centro di quest’opera. Cosa pensa davvero Canetti?
Ritenere che la morte faccia parte del ciclo organico di ricambio della vita (come viene mirabilmente espresso in una poesia dell’Antologia di Spoon River intitolata Paul Nitze) di certo egli non lo può accettare, ma non parlandone direttamente, ci lascia in una zona sospesa: la morte è o non è un evento naturale? Una risposta definitiva su questo nel libro non c’è, sebbene in un passaggio, ma del tutto incidentalmente, Canetti affermi cautamente la non naturalità della morte. Forse la risposta sta in questo. Egli tace su questo tema perché in realtà le morti naturali sono pochissime rispetto alle altre morti. Come si può parlare di morte naturale per un bambino che dalla nascita ha conosciuto solo bombe e guerre? Come si può parlare di morte naturale quando i tassi di inquinamento da polveri sottili ammazzano centinaia di migliaia di persone ogni anno?
A quest’ultimo proposito viene in mente ancora una volta Canetti con la sua prolusione del 1935 sull’opera di Broch, dove immagina che nel mondo futuro sarà sempre più difficile respirare. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
Per tutte queste ragioni forse noi non sappiamo più bene che cosa sia una morte naturale e potremo saperlo solo alla fine di quel percorso in cui tutte le altre cause di saranno eliminate a cominciare dalle guerre. Solo allora potremo metterci di fronte alla natura ponendole il quesito, ma fino a quel momento non abbiamo più il diritto di farlo.