UN GIORNO DEVI ANDARE di Giorgio Diritti

Rio delle Amazzoni

Introduzione

Il film va iscritto nel novero delle opere mistiche del nostro tempo, almeno per quello che sembrano le intenzioni del regista. Mi rifaccio all’etimologia della parola: essa comprende in sé i concetti di mistero, del chiudere e del tacere, che sfociano nella contemplazione. Lévy-Bruhl parlava, a questo proposito, di partecipazione mistica per quanto attiene le religioni primitive, cioè quel sentimento che riscontra il sacro ovunque, in qualsiasi fenomeno naturale di una certa rilevanza. Naturalmente, quanto più ci si distacca da quel sentimento effusivo e di fusione con la natura organica, processo che avviene sia con le religioni cosiddette positive sia con la cultura laica e il materialismo moderno, tanto più l’esperienza mistica deve essere anche ricercata, in qualche modo perseguita, con la meditazione, il silenzio, l’ascolto di sé, ricorrendo anche a tecniche appropriate. Tali percorsi sono squisitamente individuali, ma nel concetto di mistico nel senso cui si riferiva Lévy-Bruhl, l’aspetto sociale non poteva essere scisso da quello personale e individuale. Mi avvicino così al film di Giorgio Diritti, considerandolo da quello che mi sembra il punto di vista scelto dal regista, il suo filtro per guardare al mondo e al sociale, presente in quest’opera come nelle precedenti, fin dall’indimenticabile Il vento fa il suo giro. A me sembra che Diritti, con la sua cinematografia, cerchi da un lato di scandagliare alcune esperienze eretiche appartenenti a sensibilità religiose diverse, dall’altro si pone l’interrogativo se l’esperienza mistica sia compatibile con la modernità.

Quattro donne e due comunità

A una prima approssimazione, il film ha una protagonista principale, Augusta, una giovane donna italiana. È la prima che lo spettatore vede sullo schermo e sarà l’ultima a essere inquadrata: o meglio la sua barca. Tuttavia, essa non ha la forza di un’eroina che da sola occupa la scena. Inoltre, pur essendo la prima figura umana che il pubblico vede, di notte, mentre piange sul ponte del battello, la sua inquadratura è preceduta da una lunga sequenza in cui la luna è schermata dalle nubi. L’immagine si trasforma in un quadro dai contorni prima imprecisi, poi sempre più chiari: è un feto nel ventre di una madre. Da quella inquadratura si passa lentamente al volto di Augusta: dunque, è lei che, scorgendo la luna, piange o sogna un figlio.

Augusta è una ragazza molto normale, persino un po’ antipatica, che s’allontana da una storia personale molto dolorosa. Del resto, crisi esistenziale e fuga sono, dagli anni ’60 in poi, un clichè abbastanza praticato dalla gioventù europea. Se mai la curiosità sta nella scelta del luogo dove fuggire: non la Turchia, l’India o il Nepal, ma il profondo sud ovest brasiliano. I silenzi di Augusta, per una lunga parte del film, non sono di meditazione, ma di fastidio, sgomento e fatica a entrare in quel mondo. Per dirla con Chatwin, sembra sempre sul punto di domandarsi: ma che ci faccio qui?

La seconda donna a entrare in scena è Franca, una suora laica cattolica, che percorre il fiume con un battello che serve a tante cose: presidio medico, solidarietà con le comunità indigene più disperse, cui porta cibo, santini e un’evangelizzazione piuttosto ingenua e alla buona, che i bambini sembrano accogliere in modo non troppo convinto.

A queste due prime protagoniste fanno da contrappunto altre due donne e un secondo gruppo, sempre femminile: Anna, madre di Augusta e Antonia la nonna della ragazza.

Vivono in una cittadina del trentino e si dedicano a opere di solidarietà: fanno parte di un gruppo di suore laiche, qualcosa di più e diverso dalle famose dame si san Vincenzo, prima di tutto per la differente estrazione sociale. Il nesso fra le due comunità è molto chiaro: alla staticità della comunità trentina, sostanzialmente dedita alla preghiera, alla raccolta di vestiti, il disegno delle icone e poco altro, si contrappone il dinamismo della comunità cattolica brasiliana, impegnata nella costruzione di pollai e centri residenziali che, al di là di ogni possibile sforzo di fantasia, assomigliano sempre a dei villaggi turistici; naturalmente, il capitale investito viene dall’Italia o da donazioni provenienti dal ricco mondo occidentale. Il missionario barbuto che gestisce capitali e progetti sembra un nonno dei fiori sessantottino che mostra carte, mappe e grafici all’indio che gli sta davanti. Immediato il riferimento al primo film di Diritti, Il vento fa il suo giro: il solerte amministratore locale progressista della comunità occitana, che fa da guida ai giornalisti per promuovere il suo programma di rilancio della valle, ricorda assai il missionario.

Due universi

Il motore del film sta nel rapporto dialettico fra questi due universi, ma è sempre più Augusta a divenire una sorta di catalizzatore telepatico, è lei a mettere in moto il montaggio del film, che passa con sequenze rapidissime da una comunità all’altra, non in base a qualcosa di oggettivo, ma rispetto alle sensazioni, le intuizioni (più spesso quelle di Augusta, ma talvolta provenienti anche dal lontano Trentino innevato). In Brasile domina la difficoltà di comprensione fra indigeni che resistono a ogni forma di cambiamento e una tipologia di missionario che pretende sempre di proporre le migliori soluzioni. Anche la versione più positiva di tale atteggiamento, rappresentato da Franca, la suora laica anziana, si scontra con una realtà che lei comprende fino a un certo punto, e rispetto alla quale non si pone grandi domande: cerca di fare bene il suo lavoro e si accontenta di ciò. Augusta reagisce con insofferenza giovanile, è polemica – a volte gratuitamente – finché non si arriva a una svolta del film, che ne chiude la prima parte: la ragazza decide di lasciare Franca, vuole proseguire da sola il suo viaggio e sceglie di vivere nella favela di Manaus, dove può contare sull’appoggio di una struttura comunitaria anch’essa religiosa. Dalla natura immensa e abbacinante lungo il fiume, si ritrova nell’inferno urbano. Vive presso una famiglia, i cui figli provengono da padri diversi: conosce così Arizete, Janina e Paulo Joao, l’unico con cui pare esservi un dialogo fatto di delicata seduzione. Nella favela di Manaus esplodono tutte le contraddizioni della comunità brasiliana, nella quale Augusta comincia a muoversi con autorevolezza e buon senso. Cerca di aiutare in modo discreto e rispettoso, diverso dai modi delle religiose, tranne in un caso che la spingerà a cambiare di nuovo. Quando il governo il primo governo Lula  propone il trasferimento della comunità in un nuovo quartiere di brutte villette con una sola strada nel mezzo, lei difende l’idea di rimanere nella favela e quando gli uomini lavorano per il nuovo progetto li affronta bruscamente. La risposta piccata di uno di essi la riporta alla realtà, seppure dopo un momento di rabbia. Augusta è pur sempre una gringa, una occidentale, non è la sua comunità quella. Per un istante, anche lei cede al vezzo tutto nostro di sapere sempre quali sono le soluzioni migliori, ma è solo un momento. Quando nella comunità si consuma la tragedia del bambino venduto, ma ritenuto morto annegato, Augusta tira le sue conclusioni: non il ritorno in Italia e neppure la vita nella favela, ma il proseguimento del viaggio in una solitudine estrema. Prima di quest’ultimo passaggio il film ritorna dall’altra parte del mondo. Augusta ha aiutato Jainina a trasferirsi in Trentino per diventare la badante della nonna di Augusta, che muore però dopo poco tempo. Con la preghiera funebre intensissima e anche molto pagana di Jainina il film si congeda dalla comunità trentina.

Favela brasiliana

Quanto ad Augusta,  la natura ritorna prepotentemente a chiamarla a sé e lei vive tutta una serie di esperienze al limite della propria tenuta fisica, ma finalmente entra in contatto con essa. Ce ne accorgiamo perché Diritti si avvale di una finezza della colonna sonora, per molti altri aspetti la sola parte debole del film: Augusta ode per la prima volta in modo vistoso (e anche noi spettatori lo condividiamo con lei), i rumori e i suoni della selva, un linguaggio sconosciuto che fino a quel momento era rimasto ai margini della sua sensibilità uditiva. Sente per la prima volta il luogo, la sua forza, il suo genius, i versi dei piccoli animali, con una intensità che prima le era sconosciuta. La sua casa è un’amaca sotto un grande intreccio di alberi su cui è appesa anche una icona con il volto di Cristo, che lei guarda interrogativamente e intensamente, ma con un fondo di scetticismo.

Con l’immersione piena nella natura inizia e si conclude la brevissima terza parte del film. Augusta vive ormai di quello che trova, come un’arcaica raccoglitrice, oppure di quello che le lascia il pescatore indigeno, senza avere bisogno di alcuna parola, dal momento in cui l’uomo comprende la radicalità della sua scelta di vita. Un giorno arriva alla sua amaca un bambino con cui lei gioca tutto il pomeriggio, felice di ritrovare un contatto umano, ma anche di ritrovare in qualche modo il figlio che, ora sappiamo, lei ha perduto. L’incontro, tuttavia, non è il prodromo a una soluzione di buoni sentimenti: il bambino ritorna a casa sua con i genitori a fine giornata, Augusta ha fatto quello che doveva fare, ma quel figlio non è suo e quando l’ultima scena del film inquadra la punta della sua barca che fende lentamente le alghe, capiamo che Augusta non tornerà, ma che ha imparato a lasciare.

Maschile seriale, donne plurali

I protagonisti maschili del film impressionano tutti per la loro disperante miseria morale e inettitudine (tranne Paulo Joao) e questo è uno dei motivi che corrono sotto traccia rispetto alla trama di superficie e che si rivela alla fine un controcanto importantissimo proprio perché Diritti non voleva fare un film sulle differenze di genere, né ammiccare al femminismo. Perciò l’apparire di queste maschere risulta alla fine potente e miserando al tempo stesso. Del missionario nonno dei fiori ho già scritto, ma anche l’indigeno con la sua staticità, refrattario a qualsiasi cambiamento, per non parlare di quelli che considerano impure le due donne europee. Le espressioni più tragicomiche di questo maschile seriale sono il telepredicatore e il sacerdote (laico o meno non si capisce), che con una radio improvvisata si rivolge dalla poltrona, dalla quale non si distacca quasi mai, all’intera comunità della favela di Manaus. La sua casa con balcone è prospiciente un fatiscente campetto nel quale avvengono tutte le cerimonie pubbliche e gli svaghi di massa della comunità: il ballo, il gioco dei bambini, le partite di calcio. Per fare la radiocronaca degli incontri,  che da quella posizione vede solo in parte, piuttosto che usare un altro stratagemma – per esempio allungare il filo del microfono – scosta la tendina e segue la partita stando sempre seduto. Questa specie di Oblomov della favela non può convincere nessuno e infatti i suoi proclami e le sue prediche vengono seguite nella generale indifferenza. Anche quando difende la comunità e il suo diritto a rimanere nella favela, temendo che il trasferimento ne provochi la disgregazione, non è credibile perché sembra difendere più che altro la sua postazione sul divano di casa. Lo vediamo finalmente in piedi e addirittura a camminare solo una volta, quando segue nelle ultime fila il funerale del bimbo venduto, ma che lui crede come tutti (ma non dovrebbe forse dubitarne visto che sa come vanno le cose?) annegato.

Le case dove si traferiranno sono certamente brutte, il luogo anonimo, ma una comunità non è fatta di persone? Forse c’era anche una qualche ragione nel difendere quel luogo, ma una volta persa la partita non si può ricreare la comunità, seppure in situazioni diverse? Invece reitera le sue stanche critiche al governo, senza fare niente altro. Infatti, anche le donne, che pure hanno qualche dubbio sul trasferimento, non lo ascoltano neppure loro, ma accettano di rapportarsi alla novità!

Il tragico panorama maschile finisce con le due figure più orrende: il padre che vende il figlio al mercante per un po’di denaro e poi lo fa credere annegato e il marito di Augusta, che l’aveva abbandonata dopo che lei aveva perso il figlio.   

Le donne protagoniste del film non sono eccezionali. Tuttavia, hanno quasi tutte una caratteristica che manca in misura maggiore o minore agli uomini: la flessibilità necessaria per aderire al cambiamento anche senza approvarlo del tutto (anche loro hanno dubbi sulla validità del trasferimento della comunità in un nuovo quartiere), ma con una capacità di immergersi nella realtà diversa che si trovano a dover affrontare, di accettarla seppure criticamente. La sola eccezione è Franca, la missionaria che sembra peraltro non del tutto convinta lei stessa di quello che fa: trasmette una sfiducia di fondo che è  un po’ il contraltare dell’ottimismo acefalo del missionario. Quando rimprovera Augusta, specialmente all’inizio del film,  ha spesso ragione, ma è una ragione povera in definitiva, perché non sa rispondere ad alcuna delle domande decisive e ragionevoli che la giovane donna le pone.

Di Anna e Antonia, la madre e la nonna di Augusta non vi è molto da dire. Il solidarismo cattolico è il loro orizzonte, lo praticano come una tradizione che si perde nel tempo e che non viene più interrogata nelle sue ragioni e negli effetti che produce.

Fra le donne della comunità brasiliana è Janina la più interessante. Accoglie la possibilità di un lavoro che aiuterà la famiglia come un’occasione da cogliere subito, si trasferisce in Trentino e nel suo sguardo appare talvolta anche un certo sgomento nel ritrovarsi in un mondo così diverso dal suo; ma fa bene il suo lavoro è attenta e sollecita, ma è di fronte alla morte di Antonia che dà il meglio di sé. È lei che si trova, da sola, ad accompagnare l’anziana donna. Non si scompone, accetta ciò che si compie ai suoi occhi. Alla fine si avvicina al corpo, lo tocca dolcemente in più parti e per ognuna di esse trova le parole giuste per valorizzare ciò che Antonia ha compiuto di buono nella sua vita: nel silenzio e nella solitudine del momento, la sua voce flebile ma chiara e dolce, intona un canto funebre di rara potenza.  

Infine, ancora Augusta che lascio però alle conclusioni.     

Sacro e gratuito nella crisi della modernità     

Questo film contiene in sé la domanda se l’esperienza del mistico possa essere salvaguardata come valore nelle nostre società. La risposta è almeno apparentemente negativa. Il film ironizza – con leggerezza – sulle figure religiose istituzionali. Nel film Il vento fa il suo giro, peraltro, aveva messo in mora la visione illuminista, rappresentata dall’amministratore locale. La forza del cinema di Diritti, tuttavia, sta nelle domande che pone e nella capacità di evitare le risposte semplicistiche. Al centro di questo film a me sembra ce ne siano due.

Vi è prima di tutto una domanda sociale, che si può formulare così: può una comunità fare a meno della gratuità assoluta, del dono senza ricompensa? A tale interrogativo il film non dà alcuna riposta ma invita a guardare comunque a quelle che la politica può fornire: le famose villette brutte erano pur sempre un modo di togliere dalla povertà estrema una comunità di persone. D’altro canto, tutta l’imponente ricerca femminista a partire dagli ’70 ha prodotto dovizia di materiali dai quali si deduce che le nostre società vivono largamente sul lavoro non pagato delle donne. Il fatto che tale problema non sia nell’orizzonte tematico del film di Diritti, non per questo può essere dimenticato e lo riprenderò nelle conclusioni.

La seconda domanda riguarda l’individuo, maschio o femmina che sia. Il finale del film, più drammatico di quanto appaia superficialmente, mi ha ricordato una celebre storia sufi di cui esistono molte versioni: la riassumo.

Un maestro sufi si attarda nel deserto e non s’accorge che la notte sta per arrivare. Quando se ne avvede ne ha paura, ma poi scorge in lontananza una luce che sembra indicare un accampamento. Accelera e infatti scorge tre uomini che stanno discutendo animatamente e piangendo: sono tre fratelli. Non appena lo vedono e riconoscono in lui un sufi, lo accolgono con reverenza e lui chiede quale sia la causa di tale angustia. Il maggiore spiega che è per via del loro padre che li ha lasciati orfani ma ha aggiunto a questo dolore il peso di un’eredità che non possono dividere fra loro: essa è costituita da nove cammelli che l’uomo mostra al maestro. Questi chiede il motivo di ciò e l’uomo spiega che il padre ha lasciato scritto di dividerli in questo modo: due terzi al maggiore dei figli la metà di quelli che rimangono al secondogenito e la metà successiva al terzo: una divisione impossibile per porterebbe a dividere in due uno dei cammelli. Il sufi, allora, si chiude in raccoglimento e traccia dei segni sulla sabbia: alla fine si rivolge ai fratelli e regala loro il proprio cammello.  Con dieci cammelli il calcolo viene perfettamente ma rimane come resto un cammello con il quale il sufi si allontana dall’accampamento mentre i fratelli si abbracciano felici.

Augusta s’allontana da sola con la sua barca, corre verso l’ignoto come il maestro che, lasciato l’accampamento dei fratelli, va verso la notte nel deserto e senza alcuna protezione: può essere un andare verso la morte. Anche la scelta estrema di Augusta, ci consegna un messaggio da decifrare. Mentre vediamo la barca che fende le acque senza che lei venga più inquadrata, in sovraimpressione appare il titolo del film: Un giorno devi andare. La frase si apre a una molteplicità di significati assai ampia. Credo che Diritti volesse sottolineare con essa il senso profondo e il valore della metamorfosi, che non ha un punto d’arrivo e infatti il film si chiude bruscamente su quella immagine. Il destino di Augusta rimane fuori dalla scena così come il maestro sufi, con l’atto finale, esce dal racconto: ciò che entrambi hanno fatto è accettare un cambiamento che per diverse ragioni non potevano rifiutare. Per entrambi è la capacità di lasciare, di non trattenere per sé, di rinunciare al potere che i loro stessi gesti hanno messo alla loro portata. Sembrerebbe dunque di vedere, nell’esperienza di Augusta, la possibilità di far vivere nella nostra contemporaneità, la saggezza che traspare dal racconto sufi, ma in realtà si tratta di un’illusione ottica. Quella del maestro aveva una valenza sociale riconosciuta, quella di Augusta può essere solo una scelta personale, peraltro fondata su due presupposti dai piedi d’argilla: il primo è la possibilità di ripristinare un rapporto armonico con la prima natura, anche quella più estrema. In realtà, le acque che Augusta fende nel finale del film sono quelle della foresta Amazzonica. Da quando la pellicola di Diritti è stata girata a oggi, quella foresta è stata violata e saccheggiata al ritmo della superficie di un campo di calcio ogni 24 ore. Se Augusta non andrà verso la morte, come è probabile sia avvenuto per il maestro sufi, è perché s’imbatterà nelle ruspe di una multinazionale  che  costruisce autostrade nella foresta. Il secondo presupposto sarebbe la possibilità di ristabilire quel rapporto di partecipazione mistica che apparteneva alle religioni animistiche o arcaiche. Augusta forse lo ha pensato quando rivela tutto il suo scetticismo osservando l’icona di Cristo, ma è illusorio pensare di sfuggire alla modernità seguendo quella strada. Questo non toglie valore a lei e alla sua scelta: Augusta, insieme a Janina, è di gran lunga il personaggio più positivo del film, ma del tutto scisso da una dimensione sociale.

Per concludere  

La domanda però rimane: può una società fare del tutto a meno del dono e della gratuità? Il discorso è complesso e travalica il tema di questo scritto, che è pur sempre la riflessione su un film. Essa non può essere continuata qui se non indicando alcuni orizzonti possibili. Il primo riguarda quanto prodotto dal femminismo dagli anni ’70 in poi di termini di lavoro occulto femminile. Il secondo è tutto il discorso sulla cura e i beni comuni. Il terzo riguarda il ritorno in auge del mutualismo e del concetto di mutuo soccorso che peraltro è tanta parte degli albori del movimento operaio. Infine alcune riflessioni che si trovano in due pensatori anomali come Walter Benjamin e Furio Jesi. Mi riferisco in particolare a concetti quali l’illuminazione  profana e il valore del binomio festa/rivolta. Molti di questi temi sono già presenti nel blog in altre rubriche e verranno ripresi in quel contesto. Molte altre riflessioni specialmente su cura e femminismo si trovano anche nella rivista online Overleft.     

Foresta amazzonica oggi

Una prima versione di questo saggio fu pubblicato sulla rivista online Overleft nella rubrica Spigolature

IL LIBRO CONTRO LA MORTE

Premessa

Il saggio qui di seguito è stato pubblicato la prima volta sulla rivista online Overleft nel 2021, nella Rubrica Dopo il diluvio: www.overleft.it.

L’ultimo libro di Elias Canetti pubblicato in Italia ha un titolo ovvio se si pensa a gran parte della sua opera: un incessante lavorio attraverso miti, aforismi, sentenze fulminanti, narrazioni, tutti rivolti a una non accettazione della morte. Questo tema è presente anche nei momenti più apparentemente leggeri dell’Autobiografia. Ciò non toglie che di fronte a tale perentorietà non si rimanga ugualmente sconcertati e la critica, forse per imbarazzo, ha trovato diversi modi per aggirare il problema o tenerlo sullo sfondo senza renderlo troppo minaccioso. Il merito dell’edizione italiana, curata da Ada Vigliani, è invece proprio quello di prendere il toro per le corna. Il saggio di Pater von Matt, postfazione al testo, colma una lacuna e apre nuove prospettive alla critica canettiana. Il suo merito sta nel prendere l’autore sul serio e alla lettera, accettando il confronto con questo apparente assurdo che è il proposito di non cedere alla morte, di non accettarla, anzi di avanzare l’utopia di un’umanità che prima o poi riuscirà a liberarsene. Matt evita di parlare di metafora, parola che ormai serve spesso come passpartout quando si vuole scansare un argomento spinoso. Canetti, peraltro, è impregnato di cultura ebraica, pur essendo critico di molti suoi aspetti; in quella cultura il ruolo della metafora non ha la preminenza che ha in altre. La predilezione di Canetti per l’aforisma, la sentenza breve che ha alle volte anche forti connotati narrativi, pesca a piene mani proprio in quella tradizione: dalla storiella più o meno comica, alla parabola. Se mai a volte compare la similitudine.

L’idea di un libro dedicato interamente a questa tematica, peraltro, accompagnò Canetti per l’intera vita. Peter von Matt scrive di taccuini pieni di appunti e centinaia di matite consumate, tanto che l’inedito di Canetti sembra assumere le dimensioni del famoso baule di Pessoa dal quale continuano a uscire scritti, come peraltro conferma la figlia Johanna in una recente intervista dove parla del rapporto del padre con la religione:

«Elias Canetti non era credente, ma dedicò alla religione molte delle sue riflessioni, circa 1.500 pagine. Nel 2019 verrà pubblicato un libro con le più importanti». Ma a quante pagine ammontano in totale gli appunti canettiani mai pubblicati? «Tra le dodici e le quindicimila»

In realtà, poi, Canetti lo ha lasciato incompiuto il suo libro sulla morte, probabilmente volutamente e anche in questo paradosso occorre andare a leggere.

Il saggio di von Matt cerca di collocare l’opera e l’intento di Canetti accennando ad altre imprese letterarie altrettanto ardue, ma a un certo punto della sua disamina, consiglia il lettore di non seguire oltre un certo limite lo scrittore nel suo proposito e di dedicarsi piuttosto alla ricchezza del testo. Si tratta di un consiglio ragionevole, ma solo in ultima istanza perché la curiosità rimane per quello che sembra un vero e proprio enigma. Una domanda ovvia si pone: perché un progetto così radicale e apparentemente irricevibile nella sua concretezza fattuale? Siamo di fronte alla reincarnazione di un Orfeo impazzito che vuole sbarrare le porte dell’Ade e farli ritornare tutti in vita? Oppure Canetti pensa forse alla scienza (non dimentichiamoci che fu pur sempre un chimico mancato), oppure bisogna cambiare radicalmente il tipo di domanda se si vuole tentare di capire? Von Matt stesso dice che forse occorre allontanarsi dal perché ed è quello che ho tentato di fare, abbandonando io stesso la domanda che mi sono posto per prima.

Una grande scrittura contiene sempre in sé anche la scelta felice di un punto di vista particolare sul mondo o su di sé o su qualsivoglia cosa, cioè un luogo da cui lo scrittore parla e scrive  e che in qualche caso è stato addirittura il primo a scoprire.

Mi è venuto in mente, allora, un gioco molto semplice: proviamo a pensare a qualche grande autore, per esempio i primi che sono venuti in mente a me, ma ognuno può metterci quelli che crede. Da dove parla e scrive Baudelaire? Facile dirlo: dalle viscere di Parigi, da una città notturna o raramente albeggiante, dalle sue strade più malfamate o dal camerino dove scrive al lume di una lampada a petrolio, più o meno in compagnia dell’oppio. Insomma se abbiamo bisogno di dialogare con lui, perderemmo un po’ di tempo ma sapremmo dove trovarlo ed è stato il primo a scoprire la poeticità della grande città tentacolare. Quanto a Jane Austen non può che essere nel salotto di casa o in quello di un’amica con cui si intrattiene bevendo il te. Per non parlare di Hegel: anche quando dorme non può che essere alla sua scrivania, oppure in strada, lungo le poche centinaia di metri che lo separano dall’aula universitaria.

Da dove parla e scrive Canetti?

Qui il pensiero si blocca e anche le risposte più semplici che si affacciano (i caffè di Vienna, quelli di Berlino, il mitico tram delle scorribande serali verso il Grinzig), svaniscono subito ricordando come Canetti, presente ovunque, sembra non venga mai notato da qualcuno. È lui a dirci che frequenta quei luoghi, ma era proprio vero? E che dire della sera in cui ritornando a casa dal Grinzig s’imbatte in un delinquente comune, un ladro e riesce a intrattenerlo, con la sua conversazione; anzi a irretirlo, tanto che alla fine potremmo persino pensare che gli abbia rubato lui il portafoglio piuttosto che il contrario? Su Brecht ne dice di tutti i colori ma in Brecht non vi è alcun cenno ai loro incontri. E nel caffè di Vienna dove si scaglia una volta in modo veemente contro la pulsione di morte freudiana è proprio lui a parlare, oppure quella strana figura silenziosa e cupa  – una sorta di Sarastro piombato in mezzo a noi – che se ne sta solitario, seduto a un tavolo di fronte a quello dove avviene la conversazione? Se non avessimo le fotografie che lo ritraggono un po’ ingessato mentre ritira il Nobel all’Accademia di Svezia si sarebbe tentati di dire che Canetti è un’invenzione della letteratura europea novecentesca, una specie di parto spontaneo della medesima, piuttosto che un autore in carne ed ossa. Alla reiterazione della domanda – da dove parla e scrive Canetti? – si sarebbe allora tentati di rispondere che la sua presenza nel mondo letterario e nel mondo tout court sembra governata dal principio di indeterminazione di Heisenberg e da tutto quella che la fisica einsteiniana e post einsteiniana e quantistica ha scoperto. Lo stesso può dirsi della sua morte, che sembra essere un’ovvia conseguenza del suo grande progetto di lotta contro la medesima. Canetti morì nel sonno e dunque in un certo senso ha vinto la sua battaglia perché la morte stessa ha dovuto sorprenderlo per poterlo afferrare e si potrebbe persino arrivare a dire che se si fosse accorto della sua presenza avrebbe trovato il modo di sgattaiolare via. Allora, forse il suo incredibile progetto va visto non tanto alla luce del perché ma del da dove. Solo ponendosi in un luogo introvabile se non dalla morte medesima, Canetti poteva cogliere l’orizzontalità della sua scandalosa presenza e rivolgersi orizzontalmente a tutti e a ciascuno con il suo dono: perché pensare di sconfiggere la morte è un grande atto d’amore nei confronti dell’umanità e degli animali, che Canetti abbraccia nel suo sguardo riservando loro alcuni fra i suoi più memorabili aforismi:

Nel riguardo degli animali ciascuno di noi  è un nazista. (pag. 47.)

L’umanità di Canetti, però, non è intesa come un aggregato generico (un morto e un altro un morto non fanno due morti egli scrive) ma un tutti e un ciascuno. La matematica non ha per lui alcun valore e la conta dei morti, da cui comincia il libro, è uno dei suoi atti d’accusa più severi. Non si contano i morti e già il farlo è un tradimento e un cedimento, perché trasforma il defunto in una statistica. ed è questo il senso della frase apparentemente incomprensibile che chiude il primo brano del libro, dove i numeri sono scelti a caso per dire che se si cominciano a contare i morti, non c’è più limite fino  alle centinaia di migliaia e ai milioni; la mancanza del limite porta all’indifferenza. 

La guerra come pretesto e la natura

Gli appunti che compongono il libro partono dal 1942 e c’è da domandarsi quale ruolo abbia giocato la guerra nel proposito di scriverlo. Certamente tanto, ma meno di quanto si possa credere. L’inizio di Massa e potere, cioè il libro che può essere accostato a questo per molti aspetti, Canetti cominciò a scriverlo nel 1920 e lo pubblicò con scarso successo nel 1960. Lo scrittore era rimasto affascinato dalla trasformazioni che avvengono negli individui quando fanno parte di una massa: siamo nella Vienna degli anni ’20, uno dei centri europei del movimento operaio, anche se quella storia è meno conosciuta di quella tedesca o della repubblica dei Consigli di Bela Kun in Ungheria. L’atteggiamento di Canetti, non ostile alle lotte operaie, è tuttavia catturato da altro, ma anche dalla necessità di rispondere al convitato di pietra che sta alle spalle di Massa e potere: Sigmund Freud. La sua irriducibile non accettazione della pulsione di morte è uno dei motori del libro ma si sbaglierebbe leggendo in tale atteggiamento una sorta di formazione reattiva nei confronti del concittadino, un atteggiamento peraltro comune a molti nella Vienna del tempo. Lo scenario che Canetti apre con la sua ricerca antropologica, infatti, travalica del tutto l’intento polemico iniziale, così come toglie di mezzo la guerra come spunto superficiale e ispiratore del Libro contro la morte. Il sentimento bellico occupa una parte rilevante del libro, ma lo occupa altrettanto in tutti gli altri libri di Canetti, risultando così del tutto sganciato dalla contingenza storica per affondare le sue radici nelle costanti antropologiche e nella loro lunga durata. Basta una citazione come quella che segue a certificarlo:

Le guerre si fanno per amore della guerra. Finché non si ammetterà questo non si riuscirà mai a combattere veramente contro le guerre.

Se mai è un altro l’aspetto sconvolgente di questo libro: in nessuna parte viene attestato che la morte sia un evento naturale. Non che Canetti lo neghi, ma neppure lo sottoscrive, piuttosto ne tace. Se pensiamo invece ai momenti di vera e propria invettiva, a volte veemente, non è la natura a essere chiamata in causa, ma altro. Prima di tutto chi uccide, in primis in guerra, in secondo luogo dio stesso e le religioni:

La promessa d’immortalità basta a mettere in piedi una religione. Il puro e semplice ordine di uccidere basta a sterminare tre quarti dell’umanità. Che vogliono gli uomini’ vivere o morire’? Vogliono vivere e uccidere  e finché lo vorranno dovranno accontentarsi delle varie promesse di immortalità.

Tutti i morenti sono martiri di una futura religione universale.

Infine a pag. 46:

Dio, il paranoico che annienta gli uomini perché dagli uomini si sente perseguitato. D’improvviso i risorti in tutte le lingue accusano dio, il vero giudizio universale.

Oppure è direttamente la morte cui si rivolge come se fosse un personaggio e seppure parlando in terza persona. La natura in quanto tale rimane un altro enigma al centro di quest’opera. Cosa pensa davvero Canetti?

Ritenere che la morte faccia parte del ciclo organico di ricambio della vita (come viene mirabilmente espresso in una poesia dell’Antologia di Spoon River intitolata Paul Nitze) di certo egli non lo può accettare, ma non parlandone direttamente, ci lascia in una zona sospesa: la morte è o non è un evento naturale? Una risposta definitiva su questo nel libro non c’è, sebbene in un passaggio, ma del tutto incidentalmente, Canetti affermi cautamente la non naturalità della morte. Forse la risposta sta in questo. Egli tace su questo tema perché in realtà le morti naturali sono pochissime rispetto alle altre morti. Come si può parlare di morte naturale per un bambino che dalla nascita ha conosciuto solo bombe e guerre? Come si può parlare di morte naturale quando i tassi di inquinamento da polveri sottili ammazzano centinaia di migliaia di persone ogni anno?

A quest’ultimo proposito viene in mente ancora una volta Canetti con la sua prolusione del 1935 sull’opera di Broch, dove immagina che nel mondo futuro sarà sempre più difficile respirare. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Per tutte queste ragioni forse noi non sappiamo più bene che cosa sia una morte naturale e potremo saperlo solo alla fine di quel percorso in cui tutte le altre cause di saranno eliminate a cominciare dalle guerre. Solo allora potremo metterci di fronte alla natura ponendole il quesito, ma fino a quel momento non abbiamo più il diritto di farlo.