Premessa
L’intervento che segue, scritto i giorni scorsi dall’amico Francesco Idotta, ha suscitato in me – oltre che un’immediata adesione per le sue doti di chiarezza, sintesi e intelligenza del cuore – altri interrogativi e sollecitazioni. Lo riporto per intero:
Indosso da anni questo orologio russo, ne possiedo anche un altro, perché mi ricorda che l’esercito sovietico ha aperto il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz; amo il popolo russo che ha dato i natali ai miei scrittori e musicisti preferiti. Oggi l’esercito russo di Putin si comporta come gli alpini italiani che durante la seconda guerra mondiale, per colpa di Mussolini, Vittorio Emanuele III e Hitler, hanno tentato di invadere l’URSS (e menomale che non ci sono riusciti) e che il Parlamento italiano cerca di commemorare come atto eroico. La storia va studiata … e non a senso unico. Se riusciremo a comprendere le ragioni della Russia di oggi, senza giustificare la violenza di Putin, allora riusciremo a non odiarci e a non scatenare una terza guerra mondiale. W gli artisti russi e il loro popolo e abbasso i carnefici, anche quelli ucraini.
La retorica sui cinquant’anni di pace garantiti dall’Unione Europea, che sfociò addirittura nell’attribuzione del premio Nobel nel 2012, era già da allora basata sul falso, sulla rimozione e su una forma sottile di razzismo, meno appariscente di altre. I 50 anni di pace dal 1945, scadevano nel ’95, ma il 31 marzo 1991 iniziò la guerra nella ex Jugoslavia, che durò dieci anni. A quella rimozione ne seguì un’altra: il documento dal parlamento europeo in cui venivano equiparati il nazismo e l’Unione Sovietica, che con i suoi milioni di morti aveva contribuito alla liberazione del continente. Evidentemente i Balcani, i popoli slavi e i russi non sono considerati appartenenti all’Europa e la ragione è del tutto evidente: la Prima Guerra Mondiale è ancora un nervo scoperto e poiché nei momenti di crisi la storia si riavvolge sempre fino alle origini dimenticate o rimosse, ecco, che tutto ritorna, compreso l’ostracismo nei confronti della cultura e altre aberrazioni. Nel 1914 accadde la stessa cosa: Shakespeare messo al bando in Germania e Mozart in Gran Bretagna e via di seguito. Non sembra vero di poter scaricare, oggi, solo sulla Russia tutto il veleno che soltanto poco più di100 anni fa l’Europa Carolingia e solo occidentale riservava a se stessa; veleno che ci vorrebbe poco a far di nuovo circolare ovunque; basterebbe, infondo, solo la vittoria di qualche partito sovranista e nazionalista in uno degli stati fondatori per affossare tutto e far riemergere da sotto l’esile crosta della retorica tutta la polvere nascosta. Infine, la riflessione di Idotta mi ha riportato a un mio scritto del 2021, una lettura congiunta di due film: Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos e Film Fahlado di Manoel de Oliveira.
IL DESTINO DI EUROPA
Il cinema è stato una risorsa in questi tempi di quarantena, ma la scelta è andata più spesso su pellicole di un passato più o meno recente, in molti casi già viste. Credo che uno dei motivi sia la nostalgia per un tipo di cinematografia priva di effetti speciali. La seconda è che pochi film contemporanei mi sono apparsi attuali e all’altezza della tragedia mondiale che stiamo vivendo, a parte Parasites. Alla fine di questo percorso a ritroso ho scelto due film che penso siano stati visti da chi leggerà queste riflessioni, perché il primo è del 2003, il secondo del 1995: ne scriverò dunque dando per scontata la loro visione, che in ogni caso suggerisco. Sono due opere che hanno molte ramificazioni di senso, per entrambe l’Europa è un tema centrale e per tutti e due il filo conduttore che cuce la narrazione è il viaggio. Infine, li accomunano alcuni elementi che costituiscono la cifra stilistica di entrambi: la lentezza della ripresa, l’uso del piano sequenza, una recitazione debitrice nei confronti del teatro, tanto che la parola assume in entrambi una valenza importante. Scontate sono anche le differenze fra le due pellicole, ma dal momento che ho deciso d’intrecciarle nella mia riflessione, ho messo l’enfasi sulle affinità.
Del mito di Europa, come di tutti gli altri, esistono diverse versioni, a volte contraddittorie fra loro, ma su due fatti concordano: che dopo il rapimento furono i suoi fratelli a cercarla, percorrendo tutte le strade possibili, ma che Europa non fu ritrovata. Ognuno dei suoi fratelli fu un fondatore di città, possiamo pensare che idealmente esse costituiscano tutte insieme lo spazio geografico europeo, ma che non fecero altro che combattersi fra loro. Europa è dunque un’entità assai debole da un lato, rapita e mai più ritrovata; dall’altro un teatro d’infiniti conflitti.
Il viaggio che a mia volta ho compiuto dentro le due pellicole, a partire da quella più recente, va idealmente da ovest a est.
L’estremo occidente continentale
Le prime inquadrature di Il Film parlato riprendono il lento allontanarsi di una nave lungo il Tago, avvolto nella foschia. Siamo a Lisbona, vicinissimi alla punta di Estorìl, più protesa nell’Atlantico della lontana Irlanda: siamo dunque ai limiti dei confini occidentali del Continente europeo. Dopo poche inquadrature, lente e scandite dal dialogo fra una madre e una figlia – a bordo della nave – e dall’inquadratura della carena che fende le acque, lo spettatore comincia a interrogarsi sul significato del viaggio e saprà, dopo un tempo discretamente lungo, che le due protagoniste sono dirette a Bombay, dove si trova il marito della donna e padre della bimba.
Lo sconcerto è grande! La nave è un mezzo lentissimo per andare da un luogo all’altro, tanto più così lontano. Il marito della donna, inoltre, lavora nell’aviazione civile: perché non vanno in aereo? Saranno un pope ortodosso e il capitano della nave a rivolgere alla protagonista proprio questa domanda: perché in nave? La risposta sarà semplice: la signora è una professoressa di storia, vuole conoscere direttamente i luoghi che sono oggetto delle sue lezioni, ma desidera anche trasmettere questa conoscenza alla figlia.
Le radici greche
Lo sguardo di Ulisse, del regista greco Theo Anghelopoulos è diviso in tre parti, precedute da due brevi prologhi e seguito da un epilogo. Nel primo prologo vediamo scorrere una vecchia pellicola del 1905. Le donne riprese sono tessitrici di un villaggio greco, anziane e meno anziane. Gli strumenti usati sono antichi e l’attività scelta, la tessitura, c’immette in un universo simbolico molto forte, pregnante e ben noto. La voce narrante recita che stiamo vedendo le sequenze del primo film girato in Grecia e nei Balcani, anche se sapremo successivamente che le cose non stanno proprio così. È il primo sguardo, afferma la voce narrante fuori campo; questa scena e questa battuta verranno riprese più volte nel film, tanto da diventare un primo elemento della cifra stilistica della pellicola, insieme alla lentezza, portata all’estremo.
Il secondo prologo inizia quando il protagonista (un regista cinematografico che torna in Grecia dopo 35 anni di esilio), è ospite di una città dove viene proiettata una sua pellicola che ha suscitato scandalo per ragioni etnico religiose, tornate prepotentemente sulla scena europea con la guerra civile nella ex Jugoslavia. Tuttavia, egli non è tornato per presenziare alla prima del film: è venuto alla ricerca di tre rulli di pellicola girati e mai sviluppati dai fratelli Manakis, i pionieri del cinema greco. Era stato uno di loro a rivelare, in punto di morte, l’esistenza di questo materiale. Nessun ente è disposto a finanziare la ricerca e così il regista decide di fare da solo: parte per recarsi a Skopjie, dove sembra che la pellicola sia custodita. Finisce qui il secondo prologo, quando il regista parte in taxi verso la sua destinazione.
Il protagonista del film dei Anghelopoulos e suo alter ego viene così ad assumere i tratti di un Ulisse moderno, la cui Odissea si svolge nei Balcani. Come l’eroe omerico incontrerà alcuni personaggi femminili, seppure con una variazione rispetto al modello antico: le donne hanno tutte lo stesso volto perché sono interpretate dalla stessa attrice, Maia Morgenstern. Intorno alla ricerca dei tre rulli di pellicola che esistono nella forma inerte di una striscia di plastica, gira la metafora del primo sguardo, un’espressione cui il nostro protagonista ricorrerà più volte.
La prima donna che incontra (una precedente è una semplice apparizione), lavora presso gli istituti cinematografici: una volta conosciuto il motivo del viaggio decide di seguirlo fino a Skopjie. Lei non capisce bene le ragioni di questa ricerca e mostra nei confronti del regista una certa diffidenza, ma lo segue. Quando gli dice che a Skopjie il materiale che lui cerca non c’è, l’uomo ha un moto di stizza, ma le crede. Diminuisce la loro reciproca diffidenza e quando il nostro Ulisse decide di proseguire il viaggio per Bucarest lei lo segue di nuovo e anzi si abbandona a lui appassionatamente.
Durante il viaggio verso la capitale rumena, Anghelopoulos mette in scena la storia recente dei luoghi che i due attraversano e non è un caso, però, che tutto questo il protagonista del film lo sogni mentre sta dormendo accanto alla donna che viaggia con lui sul treno. Talvolta il sogno diventa un incubo, quando viene portato davanti al plotone d’esecuzione e scambiato per Manakis stesso, il regista di cui cerca le pellicole, perché accusato di avere complottato contro la monarchia bulgara, in uno dei tanti micro episodi di cui è fatta la vicenda balcanica. In un’altra scena, lunga e assai efficace, viene rappresentata una festa di capodanno, tanto estesa da coprire più anni, fino al ’48. A ogni anno che passa, i cambi di regime provocano l’imprigionamento dell’uno o dell’altro dei presenti alla festa, fino all’epilogo, una fotografia di gruppo che inquadra tutti i presenti e che sancisce la fine sia della festa sia della monarchia bulgara: inizia il regime socialista.
Quando il regista si sveglia dal sogno, i due sono in una località bulgara, dove la loro storia d’amore s’interrompe. Il protagonista ritorna nei panni di un Ulisse tradizionale, Penelope non può seguirlo in questa sua ricerca dello sguardo originario e lui potrà tornare a lei solo quando il suo compito sarà portato a termine. Qui finisce la prima parte del film.
Il regista viene a sapere che i rulli potrebbero trovarsi a Belgrado; decide di andare, sfidando i pericoli della guerra in corso nella ex Jugoslavia, anche se la capitale non ne è coinvolta più di tanto in quel momento. S’imbarca clandestinamente su una chiatta che sta trasportando in Germania un’enorme statua di Lenin rimossa dalla piazza della cittadina bulgara. È l’inizio di una lunga sequenza, in cui la statua del fondatore dell’Unione Sovietica, smontata a pezzi, viene depositata quasi fosse un corpo morto sulla barca. Sulle rive del Danubio una folla anonima guarda la scena. La chiatta si muove lentissima, attraversa tutti i confini degli stati ex socialisti che sono tornati a essere quelli antichi della questione balcanica.
Il nostro regista arriva così a Belgrado, ma anche lì le pellicole non ci sono. La seconda parte del film si chiude dopo una lunga conversazione con un amico jugoslavo che vive nella capitale, insieme al quale aveva condiviso il periodo parigino. È un amarcord struggente, un breve intermezzo necessario prima del balzo finale.
Inizia da Belgrado la terza parte, che precipita il film verso l’epilogo. Il viaggio del nostro Ulisse lo ha portato sempre più vicino al cuore della moderna tragedia balcanica ed europea e le pellicole non potevano che trovarsi nella città che più di ogni altra è stata il simbolo, di tale tragedia: Serajievo. Per arrivarci dovrà viaggiare ancora sui fiumi, clandestinamente.
È all’inizio di quest’ultima parte che Ulisse incontra una Penelope slava. Sarà lei a guidarlo alla barca che lo porterà fino alla capitale bosniaca. La donna vive sola in riva al fiume, la sua casa è stata bombardata ed è mezza distrutta, il marito è morto in guerra e lei lo piange disperatamente; in lontananza si sentono colpi di mortaio. Cerca di prendersi cura della vita di ogni giorno: prepara da mangiare, lava i panni, anche quelli dell’Ulisse che le capita in casa, mantiene viva quel poco di vita che resta. Fra i due nasce una fugace storia d’amore, finché lui non riparte.
La parola e l’immagine
Nel tornare a Film parlato, è inevitabile domandarsi perché mai un titolo e ossimoro così evidente. Il cinema è prima di tutto fotografia in movimento, per dirla con i fratelli Lumière; per lungo tempo fu muto e anche successivamente il contributo della parola, pur importante, rimase un supporto dell’immagine. Non ci si aspetta neppure oggi, da un dialogo cinematografico, che sia un’opera letteraria autonoma dal film, anche in famosi casi di collaborazione fra regista e scrittore; come è in film come Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, i cui dialoghi furono scritti da Peter Handke, oppure in alcuni film di Pasolini. Il titolo di De Oliveira però è calzante perché la parola è qui essenziale: sono le immagini che fungono da contrappunto. Essa è protagonista in quattro diverse forme: come interrogazione da parte della figlia alla madre, come risposta da parte della madre alla figlia, successivamente come descrizione dei luoghi da parte di guide turistiche, infine come conversazione conviviale durante le cene al tavolo del comandante. A ognuno di questi modi corrisponde un diverso livello di complessità.
La figlia interroga la madre come può farlo una bambina di otto anni e le risposte della professoressa sono semplici e scolastiche, non eludono i punti spinosi ma tendono a dare una visione rassicurante della storia.
Quanto alle inquadrature, esse svolgono una funzione di contrappunto e piuttosto che immagini in movimento, De Oliveira sceglie la pittura e la fotografia, fermando in istantanee quasi immobili ciò che intende mostrare, quasi fossero delle cartoline d’arte filmate. In questa galleria sapientemente costruita rinveniamo: la torre di Bèlem avvolta nella nebbia mentre la nave percorre il Tago, Gibilterra vista dal mare, un anonimo scorcio del porto di Marsiglia dove una targa ricorda lo sbarco dei greci, Castel dell’Ovo a Napoli, l’Acropoli di Atene, una veduta dal mare di Istambul, il profilo della nave stessa, ripresa sempre nello stesso modo, mentre fende lentissima le acque del Mediterraneo; infine il Cairo e le Piramidi, prima che la nave imbocchi il canale di Suez per arrivare ad Aden sul Mar Rosso.
Quelle che si susseguono sono immagini da cartolina che abbiamo visto mille volte, ma sta proprio in questo la semplice grandezza del film. L’immagine gioca un ruolo fondamentale perché noi consideriamo ovvia l’esistenza di tutto questo: quando pensiamo ai porti che la nave tocca la maggioranza delle persone comuni li vede nello stesso modo in cui De Oliveira li filma. Tuttavia, non siamo più abituati a riconoscere la bellezza di un luogo, il suo genius loci, perché vittima delle abitudini e anche del consumismo turistico. Spogliando le sue immagini da ogni orpello intellettualistico e rinunciando a ogni possibile effetto speciale, De Oliveira mostra le cose come le vede l’occhio comune. É un’idea di bellezza attualmente spodestata da un’altra che gode dei favori mondani: l’intervento manipolatorio che elimina l’irregolarità.[1]
Secondo la definizione romantica di bellezza invece, ripresa da James Hilmann ne Il pensiero del cuore, essa è il mostrarsi delle cose nel loro habitat. É proprio questo l’effetto che De Oliveira insegue in questo film: mostrarci il paesaggio ovvio della nostra civiltà, come se si facesse vedere a un romano il Colosseo e a un milanese il Duomo.
Torniamo alla parola. Affermavo in precedenza che essa è protagonista in quattro modi diversi. Il primo, l’abbiamo visto, è quello dell’interrogazione da parte di una bambina a una madre professoressa; la seconda sono le sue risposte. La terza sono gli intermezzi insignificanti delle guide turistiche, con due eccezioni: l’incontro con il Pope sulla collina del Partenopee e quello con un attore portoghese al Cairo.
Il primo, il Pope, nel dialogo con la madre e la figlia, svolge prosaicamente il suo ruolo di guida turistica; finché la professoressa, spinta dalla bambina, non gli domanda come mai gli Ortodossi si facciano il segno della croce con le tre dita. È una domanda imbarazzante, cui il Pope risponde con una punta implicita di polemica: “Non ho mai capito, in effetti, perché i Cattolici facciano il segno della croce nel loro modo” e spiega alla bambina, con semplicità disarmante, che il segno con le tre dita corrisponde alla lettera della figura trinitaria della divinità … secondo i cristiani. Semplice sì, ma dalle conseguenze molto profonde: per gli Ortodossi la lettera del rito e il suo contenuto non possono essere scissi, per gli altri cristiani sì.
Il secondo incontro è quello con un attore portoghese, che si trova nella capitale egiziana per lavoro. La professoressa lo riconosce, lui ne è lusingato. La nostalgia, il bisogno di comunicare, la curiosità della bambina, spingono il terzetto in un sontuoso hotel dove sono riprodotte le stampe della festa d’inaugurazione del canale di Suez. L’Europa si apriva una via per le Indie diversa da quella che tre secoli prima aveva aperto il portoghese Vasco da Gama circumnavigando l’Africa. I tre protagonisti portoghesi del film osservano, ripresi di spalle, gli arazzi, testimonianza che l’egemonia sui mari era passata definitivamente in altre mani. Idealmente, questa scena del film di De Oliveira, svolge un ruolo analogo a quella del dialogo fra il regista e l’amico con cui aveva condiviso il periodo parigino in Lo sguardo di Ulisse. In entrambe le scene è la nostalgia a dominare, sebbene in due diverse forme dello stesso sentimento. Il regista e l’amico, in una Belgrado quasi in guerra, ricordano il Maggio Francese, un tempo pieno di sogni, mentre i tre portoghesi osservano il mutare della storia e della geopolitica di potenza. In entrambi i film, la sospensione del tempo che si crea durante i due intermezzi, li fa scivolare verso l’epilogo. Il protagonista di Anghelopulos lo troverà a Serajervo, i protagonisti del film di De Oliveira lo troveranno alla fine del Canale Suez, che non è solo una porta verso il mar Rosso e l’Oceano Indiano, ma il luogo emblematico che congiunge l’Europa ai confitti Medio Orientali e alle tragedie a noi contemporanee.
Serajievo
Il nostro Ulisse regista arriva a Serajievo e l’attraversa sotto le bombe, ma non sembra farci caso. È un vecchio a custodire i tre rulli di pellicola che sta cercando, insieme all’archivio cinematografico della città, che cerca di porre al riparo dalla guerra. L’uomo ha perso ogni speranza di riuscire a sviluppare quelle pellicole. Il nostro Ulisse lo rimprovera aspramente, dicendogli che lui sta cedendo alla storia, o meglio all’attualità e che facendosi sopraffare da quest’ultima, perde di vista ciò che conta: lo sguardo originario che quelle pellicole contengono.
Tu hai la febbre, risponde il vecchio a Ulisse e gli ingiunge di riposarsi.
È vero, il lungo viaggio lo ha provato, in effetti il regista sta delirando e la febbre ce l’ha sul serio, gli passerà solo dopo un lungo sonno; ma il vecchio ha capito. L’incontro con quest’uomo, che nonostante tutto l’orrore cerca ancora qualcosa di diverso da narrare, lo scuote profondamente e gli ridà l’energia necessaria per tentare. Si mette al lavoro e riesce finalmente a trovare la formula chimica giusta per sviluppare i tre rulli; i due uomini, felici, guardano la pellicola scorrere davanti a loro. Qui finisce la terza parte del film e inizia l’epilogo.
È un giorno di festa perché a Serajevo è calata la nebbia e i cecchini non possono sparare e allora in tutta la città, pur divisa, sorgono un po’ dappertutto teatri improvvisati all’aperto e concerti di musica. I due uomini escono insieme ad altri, fra cui l’ultima Penelope, la nipote del vecchio. Il nostro Ulisse regista balla maldestramente insieme a lei una musica vagamente rock e le dice che sta per tornare e che non la lascerà più. Altri si aggiungono alla comitiva. La storia che fino a quel momento, gli era apparsa solo in sogno, oppure nel segno di un’attualità transeunte, è in agguato: è la stessa di sempre, quella che conosciamo fin troppo bene e che ha segnato come una maledizione millenaria la vicenda balcanica, che diviene nel film una metafora della storia europea.
Nella nebbia il gruppo si perde, due bambini si smarriscono e nel cercarli la madre incappa in un posto di blocco. Vengono tutti uccisi, compreso il vecchio, la loro fine è avvolta in una fitta nebbia come nella tragedia antica, dove le uccisioni avvenivano fuori scena: il nostro Ulisse ascolta impotente la sequenza di colpi.
Nella desolazione finale, solo, disperato e piangente, prima piegato e urlante sui corpi in riva al fiume, poi nello studio del vecchio, Ulisse ripete nella scena finale le parole celeberrime di Omero, ma non sa più a chi sta parlando. Nessuna Penelope e nessun altro lo attenderà mai più. La sua è una voce che chiama nel deserto.
L’eleganza conviviale
Torniamo indietro nel film di De Oliveira, al momento in cui la nave abbandona le coste portoghesi. Intorno ai tempi lenti, scanditi dagli spostamenti dalle coste atlantiche al Mediterraneo e poi nel canale di Suez, il regista disegna un ricamo semplice e molto efficacie: a ogni scalo salgono nuovi passeggeri e fra loro tre personaggi importanti. Sono tre donne: un’imprenditrice francese (Catherine Deneuve), un’ex indossatrice italiana (Stefania Sandrelli), una cantante greca (Irene Papas). Sono protagoniste famose della cinematografia europea, ne costituiscono lo stile; De Oliveira filma così il suo omaggio al cinema, l’ultima delle arti, nata in Europa. Esse, tuttavia, si comportano come passeggieri qualunque, vengono avvicinate da chi chiede loro un autografo mentre stanno per salire e da lontano, la madre portoghese e la figlia le riconoscono, ma per un lungo tempo del viaggio saranno ai margini della scena. Con l’ingresso della nave nel Canale di Suez diventano protagoniste insieme al comandante, uno statunitense di origine polacca. Essendo tutte e tre personaggi famosi, sono invitate a cenare al suo tavolo, mentre madre e figlia osservano il loro dialogare da un tavolo poco lontano ma defilato.
Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas, oltre che essere attrici celeberrime sono anche una francese, un’italiana e una greca; e sono anche tre signore di un’età di mezzo, quella in cui si cominciano a fare bilanci. Tutte tre interpretano la loro parte assecondando il cliché che le vuole nell’ordine: elegante, raffinata e altezzosa la francese, chioccia, un po’ oca e belloccia l’italiana, orgogliosa e austera la greca. Con la semplice messa in scena di tre attrici di questo calibro e facendole recitare senza recitazione, cioè conversare amabilmente come se ci si trovasse su una nave da crociera e non su un set cinematografico, De Oliveira fa passare fra le maglie di un’apparente sequenza di ovvietà la grana densa di un affresco. Le tre donne protagoniste, insieme alla giovane storica portoghese e a sua figlia diventano l’Europa; sono l’Europa … Sono dunque tre donne a incarnarla, cui, alla tavola del capitano durante la cena prima dell’epilogo, se n’aggiungono una quarta – la giovane madre professoressa di storia – e una quinta: la figlia di quest’ultima, che dovrebbe raccogliere l’eredità del crogiolo nel quale si è formata la nostra civiltà e di cui la madre funge da mediatrice. Il capitano è gentile e affettato come lo deve essere un comandante, ma con una punta d’imbarazzo. La conversazione è quella che si può immaginare alla tavola del capitano di una nave con tre donne. Lui fa il galante e corteggia la francese, ma nel manifestare la propria voluta solitudine da ogni rapporto, emerge forse discretamente la sua omosessualità. La francese tiene banco con un’escalation di risposte taglienti che sconfinano a volte nel gratuito; comprende che l’altro sta recitando un copione, ma nelle sue risposte, come in un copione speculare, l’imprenditrice mescola istanze femministe e luoghi comuni. La greca è la vera protagonista della prima serata di conversazione. È lei che pone gli interrogativi radicali ed è sempre lei che cerca di darsi delle risposte perché gli altri e le altre sono muti. Alla tavola, ognuna di loro parla nella propria lingua, ma nonostante questo si capiscono: è la greca a notarlo e a dirlo a tutti. La metafora è chiara: c’è una civiltà che ci lega e che si manifesta nel gusto della conversazione elegante, della convivialità, del corteggiamento, del dialogo e della seduzione, di cui è intrisa la filosofia greca. É il trionfo della parola in tutte le sue forme.
Fra questa prima parte e la seconda che precede l’epilogo c’è un intermezzo durante il quale avvengono tre fatti importanti: in primis la conversazione fra la professoressa portoghese e il capitano. Lui l’invita al suo tavolo per la cena del giorno successivo e lei rifiuta decisamente e con un tono quasi infastidito che contrasta con la delicatezza dei suoi modi, ma che nasconde una certa timidezza: la professoressa di storia sa chi sono le tre donne al tavolo del capitano, se ne sente in qualche modo intimidita, ma anche lontana dal centro europeo: è pur sempre una portoghese, defilata come la sua terra.
Il capitano non insiste, ma non rinuncia; mentre la nave fa scalo nel porto di Aden si reca al suk locale e compera un regalo per la bambina. Anche madre e figlia si recano nello stesso suk dove acquistano un vestito arabo per Maria Juana.
A sera il capitano reitera l’invito e mostra il regalo per la bambina, così che la madre non può più rifiutare. La conversazione sembra proseguire come la sera precedente ma non è più la stessa, nonostante il copione non sia mutato. L’allargamento della tavola alle due portoghesi costringe tutti a parlare l’inglese e cioè la lingua di chi un’Europa veramente unita non la vorrà mai: è la greca a farlo notare, ricordando con rammarico che quando gli Stati Uniti ottennero la loro indipendenza il senato americano mise ai voti quale dovesse essere la lingua nazionale e per un solo voto vinse l’inglese sul greco.
Il regalo del capitano alla bimba è una bambola con il chador. La serata continua nel solito stile conviviale della sera precedente. L’ex indossatrice italiana è piena di ammirazione e di nostalgia nel vedere in Maria Juana la figlia che non ha potuto avere; poi, il comandante invita la cantante a regalare a tutti i viaggiatori una canzone. Lei cerca di rifiutare con gentilezza ma poi si adegua. Canta un motivo struggente, che gira intorno a un ritornello che si ripete malinconico come un annuncio di morte.
Un gruppo terrorista ha minato la nave durante l’ultimo scalo, non c’è il tempo di disinnescare l’ordigno, devono abbandonarla; di questi terroristi non sappiamo e non vediamo nulla, non hanno né parola né immagine. La madre portoghese cerca di mantenere la calma, troppa, perché è come in trance, infatti, commette un lapsus decisivo: dimentica la bambola in cabina e quando Maria Juana se n’accorge, la bambina torna indietro a riprenderla. La scena finale inchioda tutti i protagonisti ai loro atti mancati: il capitano invece di abbandonare per ultimo la nave (anzi di affondare con lei come recita la regola antica) si erge impettito e impotente sulla scialuppa di salvataggio, mentre sulla nave la madre e la figlia vedono allontanarsi la salvezza. La catena della trasmissione del sapere di una civiltà si è rotta in due punti diversi: sulla scialuppa, un comando senza più padri guarda una madre professoressa di storia incapace di vedere l’ombra della storia. L’ultima scena coglie in una fissità mortale gli occhi del capitano che vedono esplodere la nave con le due passeggere a bordo.
Europa e il suo mito
La storia europea è al centro del film di Anghelopoulos, ma il suo eroe cerca infondo di scansarla, sfugge dallo scontro che si prospetta alla fine del secondo prologo e che dovrebbe in realtà coinvolgerlo, visto che è stato un suo film a innescare il contrasto etnico: successivamente la storia ricompare come incubo o sogno, infine l’attraversa a Serajevo quasi senza accorgersene. Inconsciamente sa a cosa va incontro e cerca di ritardarlo il più possibile. La scelta registica dell’estrema lentezza, i piani sequenza interminabili, che ritroveremo anni dopo nel cinema di Sokurov, è parte di questa strategia compositiva. Anche nella sequenza onirica della festa di Capodanno, probabilmente assai criptica per un non europeo, ma ostica anche per noi che lo siamo, il gioco del rallentamento ha due funzioni: ritardare, ma anche suggerire che siamo dentro una storia immobile, che non passa, che si ripete estenuante.
Una sola volta l’Ulisse di Anghelopoulos usa un linguaggio superficiale: quando, sulle ali dell’entusiasmo per avere raggiunto il suo scopo e cioè lo sviluppo delle pellicole, annuncia alla nipote del vecchio, mentre passeggia con lei nella nebbia, il suo ritorno imminente. In realtà la nipote è la più sfocata delle donne e infatti, il dialogo amoroso fra i due suona falso e artificioso. Non vi può essere ritorno a buon mercato e Anghelopoulos, nel dialogo fra l’eroe e l’ultima delle Penelopi, mette in scena, prima dell’epilogo, il teatrino delle facili soluzioni, giocando anche sulla differenza d’età fra il maturo protagonista maschile e l’attrice abilmente ringiovanita dai truccatori.
La tragedia non suggerisce soluzioni, ma una piccola catarsi c’è nel film di Anghelopoulos, solo che il regista l’ha disseminata qui e là: è un messaggio diverso possibile, una specie di sequenza laterale come quelle oniriche, ma che gira intorno alle figure femminili.
Era inevitabile, in prima istanza, definirle delle Penelopi, così come è possibile intravedere nel vecchio che custodisce le pellicole un debole Omero sullo sfondo. Anghelopoulos gioca con il cliché e dunque se li cerchiamo ne ritroviamo altri di personaggi dell’Odissea, ma a conti fatti, lo scostamento dal modello è tale – nel caso delle donne – che la scelta appare alla fine del film come un rilievo che s’ispessisce strada facendo. Bisogna allora tornare all’inizio, a una prima importante apparizione femminile, che scompare subito.
La proiezione del film del regista ha fatto scandalo e divisa la comunità in due schieramenti che si fronteggiano in una scena di grande suggestione, che evoca quello che sta accadendo in tutta la Jugoslavia e cioè una guerra civile cruenta e tragica segnata da episodi di efferatezza estrema. Mentre il regista osserva una delle schiere che si stanno pericolosamente avvicinando, viene superato da una donna che prosegue il cammino nello spazio vuoto, una terra ancora di nessuno, ma per poco tempo ancora. Lui la vede e ha la tentazione di seguirla, ma è superato dalle prime fila dell’altra schiera e si ferma. Come lui, quella donna non partecipa agli eventi, non è schierata con l’una o l’altra delle fazioni, si trova nel mezzo e la sequenza successiva del film non ci dice quale sarà la sua fine, ma quella apparizione – seppur fuggevole – è una specie di tertium, che incarna per un breve istante, qualcosa di diverso. Essa avrebbe dovuto suggerire al nostro eroe moderno quello che poi non riesce a vedere nello sguardo delle altre donne che incontrerà: un volto identico nel quale avrebbe dovuto scorgere, come in uno specchio, proprio la reiterazione di una medesima tragedia.
In realtà, nessuna di loro è una vera Penelope, a cominciare da quella fugace apparizione iniziale. Non sono donne in attesa dell’eroe, nessuna di loro lo è, con modulazioni diverse fra l’una e l’altra. La prima, la donna dell’apparizione, va per la sua strada nonostante tutto, la direttrice albanese degli studi cinematografici, diffidente nei confronti del regista all’inizio, s’abbandona a lui perché affascinata dal suo racconto, mentre lei corre di fianco al treno. Il loro addio nella città bulgara è un addio e basta, lei torna alla sua vita di sempre, che non ha mai abbandonato: è lui che le dice che ritornerà, ma solo perché non riesce a uscire dal cliché. La seconda donna, slava, che vive in riva al fiume, non attende lui ma un altro, il marito in guerra già morto. Lo piange disperatamente perché la sua condizione è disperata e quando ha con il regista una breve storia amorosa è solo un intermezzo, un riprendere fiato, con quel tanto di libertà e spregiudicatezza che può concedersi in una situazione disperata come quella. Siamo del tutto fuori dal cliché, è lui che continua a non accorgersene. Infine l’ultima, la nipote del vecchio, una ragazza moderna, che indossa i jeans e porta lo zainetto sulle spalle. Potrebbe essere una frequentatrice di centri sociali, o una giovane qualunque di questa generazione. Anche a lei il nostro eroe ripete che sta per tornare, lei lo ascolta, si abbracciano ma il dialogo è stentato, surreale per certi aspetti. Fra tutte è la meno aderente al cliché e infatti fra i due non accade nulla.
Europa fuori dal mito
Il mito è stato il leit motiv dell’opera di Anghelopoulos e della sua vita. Con Lo sguardo di Ulisse il regista greco va fino in fondo, fino a fare a pezzi la materia della sua ispirazione. C’è un momento precedente l’epilogo in cui fa pronunciare questa verità all’anonimo taxista che lo sta trasportando in Albania. Fermi perché la strada è interrotta dalla neve i due uomini parlano e bevono, diventano amici. Il taxista scende dall’auto e urla che la Grecia è finita e si augura che la sua fine avvenga il più rapidamente possibile. Sembrava una scena gratuita; vista retrospettivamente dopo che abbiamo conosciuto la conclusione ne capiamo il senso anticipatorio. Il taxista svolge la funzione di un dio che appare all’eroe e gli annuncia una verità che lui non è ancora in grado di scorgere: la Grecia è finita, il suo mito patriarcale ha compiuto il suo ciclo. L’unica figura che nel film di Anghelopoulos non compare è quella di Telemaco, perché la genealogia patriarcale s’è interrotta e l’unico giovane presente nel film è un ragazzino che aiuta il vecchio a procurarsi l’acqua, ma che sembra totalmente abbandonato a se stesso. Non è però solo la Grecia, è sull’Europa in realtà che Anghelopulos punta il dito, quell’Europa che ha permesso il massacro jugoslavo. Perciò, dopo essere partito alla ricerca di uno sguardo che andasse oltre la stessa Odissea, l’Ulisse moderno di Anghelopulos ritrova l’Iliade, cioè la coazione a ripetere.
La saggezza del Senex
Anche il film di De Oliveira ha nella storia il suo centro, ma in un modo che solo un portoghese può sentire: ai margini ma non marginali, i portoghesi hanno un curioso destino sia da un punto di vista della loro secolare politica coloniale, sia rispetto all’Europa. I loro navigatori hanno toccato e sfiorato tutti i mondi, ma hanno sempre scelto di non penetrare troppo nei continenti che pure hanno saputo raggiungere, a volte prima di altri. Le loro colonie sono città piuttosto che imperi, Macao ne è l’esempio più limpido. Tenuto i margini dell’Europa occidentale, che ha tollerato l’esistenza di due regimi fascisti nella penisola iberica, anche dopo la seconda Guerra mondiale, per ragioni di Guerra Fredda, è rientrato nella comunità europea grazie a un evento storico quanto mai portoghese anche quello e cioè la Rivoluzione dei garofani, immortalata nel film Capitani d’aprile della regista Maria de Medeiros.
Il finale di Film parlato invita a tornare di nuovo sulla lentezza del linguaggio cinematografico di De Oliveira – Scarpette rosse per esempio – che mi ha ricordato le pagine che Italo Calvino, in Lezioni Americane, ha dedicato alla rapidità. Siamo abituati a pensare che lentezza e velocità siano la coppia di opposti: Calvino introduce la rapidità come spostamento dalla coppia ed è proprio intorno al binomio lentezza-rapidità che De Oliveira fa esplodere il suo film in una fulminea e tragica scena di morte. Film parlato, tuttavia, non è un’opera nichilista, ma quella di un vecchio saggio. Il regista portoghese ha girato questo film all’età di 96 anni! La sua non è una semplice vecchiaia, è una vita protratta quasi al limite ragionevole della statistica più benevola. È un uomo solo, un vegliardo biblico, l’ultimo testimone. In questi casi i vecchi diventano dei brontoloni che se la prendono con il mondo intero, oppure ritornano a essere dei pueri aeterni deliranti; ma se hanno costruito nel tempo quella che Hillman chiama la Forza del carattere, ecco che sanno trasformare l’orizzonte ravvicinato davanti a loro nella visione del senex, in un ultimo regalo di saggezza. De Oliveria vede la morte della civiltà che lo ha cullato, dalla distanza che un portoghese ha mantenuto per un secolo intero anche per le sue vicende interne, ma pur sempre cullato. Anzi, lo sguardo decentrato favorisce ancor più il saper vedere bene. De Oliveira, guarda all’Europa e ci lancia questo monito, mostrandocela nella sua semplice bellezza. La state perdendo, ci dice: state perdendo le vostre radici, avete poco tempo per salvarle. La rapidità con cui pone fine metaforicamente alla sua e nostra civiltà significa semplicemente che ciò che è stato costruito in alcuni millenni, può finire in un attimo, che la civiltà è precaria come le nostre vite. L’esplosione della metaforica Nave Europa indica un punto di non ritorno.
[1] Un’amica fotografa mi fece concretamente capire come la manipolazione avviene, mostrandomi un reportage fotografico di una nota rivista di promozione turistica. La fotografia in questione, a tutta pagina, mostrava uno scorcio di savana, dai colori sgargianti, perfetti; animali sullo sfondo, tutto quel che serve per creare un’immagine accattivante per il turista. In effetti più che una savana faceva venire in mente un giardino pubblico. Infatti non era quella l’immagine originaria. Armata di una lente, la fotografa mi fece vedere tutti gli interventi di rimozione che erano stati fatti, per pulire la savana in modo da addomesticarla il più possibile. Era stato fatto sparire persino il leone intento al pasto, perché troppo inadatto all’immagine di tranquillo paradiso terrestre che si voleva suggerire.