Black Monday in Polonia
Premessa
Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un dibattito che è il sintomo di una società profondamente malata. Lo sapevamo già, ma ci sono momenti in cui avvengono dei salti di qualità e credo che in questo abbia influito anche la recente diffusione e ancor più il successo di massa del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani.
Il dibattito.
Il profluvio di analisi psicologiche e di autoflagellazioni maschili da cui siamo invasi trascura quasi sempre le ragioni strutturali e patriarcali della violenza maschile sulle donne, la cui estensione per età a maschi sempre più giovani chiama in causa tutto il processo educativo.
Mi sembra siano tre le mistificazioni più importanti, di cui una nuova particolarmente pericolosa, perché fatta propria anche da intellettuali non reazionari. La riassumo in poche parole così:
Il patriarcato ha delle regole, mentre quello cui stiamo assistendo è un ritorno all’orda primitiva maschile pre patriarcale. La sintesi: meglio il patriarcato che è pur sempre – specialmente in Europa aggiunge qualcuno – un mondo di regole in cui vi è spazio anche per i diritti delle donne.
Questa sintesi contiene un falso e molte mistificazioni. Scambiare per realtà la fiction antropologica di Freud sull’orda primitiva trasporta in un passato arcaico e originario un processo contemporaneo che ha tutt’altre motivazioni. Quanto alla fiction in sé, le acquisizioni recenti della paleo antropologia dovrebbero consigliare almeno la prudenza quando si fanno certe ipotesi. Mi sembra importante, a questo proposito, la lettura di un libro come L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow. I processi di imbestiamento (anche linguistico, come si evince leggendo certi articoli della destra più feroce) di una parte del mondo maschile sono un fenomeno modernissimo e rappresentano l’aspetto più appariscente di una reazione ben più vasta, che ha declinazioni diverse in contesti diversi ma una causa comune: reagire con violenza ai processi di liberazione delle donne. Faccio alcuni esempi che sembrano in apparenza lontani da noi. A vedere certe fotografie afgane degli anni ’50 e ’60 c’è da rimanere allibiti: donne che frequentavano l’università, abiti per nulla velati ecc. Com’è possibile? Sono sempre esistite delle minoranze emancipate anche in contesti di regole patriarcali severe, ma a un patto e cioè che si trattava di privilegi concessi a minoranze. Le cose sono cominciate a cambiare quando la massa delle donne ha rivendicato i propri diritti. Le repressioni di parte islamica più forti sono avvenute laddove le donne erano state protagoniste: le algerine, per esempio, che avevano partecipato in massa alla lotta di liberazione contro la Francia. In sostanza, se non ci si ribella, c’è sempre una minoranza emancipata che può farcela. Mutatis mutandis è quanto avviene oggi in Italia seppure in forme meno efferate ma altrettanto violente. Chi afferma che il patriarcato è un mondo di regole, dice in realtà un’altra cosa: state al vostro posto e qualcosa vi verrà concesso. Oppure ancor meglio – come accade nel film di Paola Cortellesi: devi stare zitta, ripete ossessivamente il personaggio più odioso del film, il nonno.
La seconda mistificazione mescola insieme elementi psicologici arrivando in qualche caso a definire Filippo Turetta – alternativamente – un malato o un bravo ragazzo. La sintesi è la condanna del delitto ma la negazione del femminicidio. Si punisce al massimo il crimine individuale, ma si negano le ragioni strutturali. Come ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, Turetta non è un malato ma un figlio sano del patriarcato. La fragilità maschile esiste eccome, ma invocarla in circostanze come queste non significa voler fare i conti con essa, ma cercare delle giustificazioni. In ogni caso, a chi volesse davvero uscire dal modello virilista e confrontarsi seriamente con la propria fragilità, consiglio per l’ennesima volta di leggere il libro di Edoardo Albinati: La scuola cattolica.
La terza mistificazione, di cui sono responsabili prima di tutto le forze di destra, sono i discorsi generici sull’educazione al rispetto, il piano presentato oggi dal Ministro, un guazzabuglio di false buone intenzioni. La versione leghista delle medesime false buone intenzioni consiste nell’affidare tutto alla famiglia. Sappiamo da tempo dalle statistiche che è nelle famiglie che si consumano le violenze di genere più diffuse. La famiglia non è mai stata un luogo idillico, ma non lo è neppure nella versione hollyvoodiana che viene veicolata da fiction statunitensi come Modern family, riverniciate di modernità e di ammiccamenti al mondo LGBTQ. Il familismo italiano, inoltre, ha un bagaglio assai pesante sulle proprie spalle, che non è patrimonio soltanto della cultura di destra, ma deriva anche dalla cesura che negli anni ’70 si produsse fra la sinistra vecchia e nuova e il femminismo. Andare avanti su una strada minimamente consapevole è togliere queste problematiche dall’ambito privato e familista e riportarle nello spazio pubblico, con lotte mirate e determinate per aumentare e sostenere i centri antiviolenza autogestiti, promuovere e consultori presidi territoriali, far funzionare reti di supporto che favoriscano le denunce.
Il film.
La pellicola di Paola Cortellesi merita un discorso critico importante perché si tratta di un film molto significativo e non solo di un’opera che ha saputo parlare a una platea molto vasta e mi piace pensare che l’ondata di sdegno seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche certi discorsi che si smarcano dai dibattiti più penosi, siano anche il segno che questo film ha seminato una consapevolezza importante in un pubblico vasto, trasversale e non soltanto femminile. Tre mi sembrano i motivi forti della sua narrazione e del montaggio: la capacità di giocare con tutti i cliché che il tema poteva suggerire riuscendo, con alcune mosse spiazzanti, a evitarli tutti ma sempre all’ultimo momento. Dall’uso del bianco e nero, al neorealismo, dalla finzione di far credere a chi vede il film che forse la fuga di Delia sarà con il vecchio carrozziere verso il nord mentre invece quando corre per recarsi al voto e passa davanti alla sua autofficina non si volta neppure verso di essa perché ha da fare qualcosa di molto più importante. Il secondo aspetto è il modo in cui le scene di violenza, solo accennate, si coniugano a un linguaggio musicale che scimmiotta quanto di più ipocrita si nasconde dietro il sogno d’amore. Infine, ma senza rivelare cosa accade per non togliere il gusto di vederlo a chi il film non lo ancora visto, il modo geniale in cui Delia manda all’aria il matrimonio della figlia sfruttando la violenza che il mondo maschile esercita su di loro e rivolgendogliela contro. Quanto all’ambientazione del ’46 e dunque nell’Italia della scelta fra monarchia e repubblica, non condivido quelle critiche che ne fanno una scelta poco comprensibile. Non le condivido perché Cortellesi non parla affatto del 1946 e ancora una volta gioca con il cliché per poi smarcarsi dal medesimo. Il film metabolizza il femminismo ma lo fa in modo traslato: una scena come quella in cui Delia affossa il matrimonio della figlia sarebbe impensabile senza gli anni ’70. Il 1946 è il dito che mostra la luna, il suo film non è il sogno di una cosa del passato (il voto alle donne), ma evoca un domani che ancora non c’è.
Qualche proposta.
La prima
Niente minuti di silenzio ma molto rumore, continuo e possibilmente sempre più forte. Questa mi sembra la prima cosa da dire e fare anche per essere vicini a Elena Cecchettin, che si è esposta con dichiarazioni molto forti.
La seconda
La mobilitazione degli uomini e le sue forme. In passato ho espresso perplessità su manifestazioni di massa di uomini che si sono tradotte in poche iniziative con molte contraddizioni. Tuttavia, l’intervista di Ciccone a Radiopopolare di qualche giorno fa mi sembra importante e quindi se arrivano proposte ben vengano: meglio se sono diffuse sul territorio. Continuo però a pensare che la rottura di complicità indirette con il gruppo maschile sia il modo per far venir meno la solidarietà fra maschi: le cene di soli uomini dove il pecoreccio è dietro l’angolo sono da evitare sempre.
La terza
Utilizzare il libro di Albinati La scuola cattolica per letture pubbliche non stop che continuino per ore, alternandosi al microfono con commenti e altro. Si può fare in teatri, in situazioni di massa o anche più modeste quantitativamente ma diffuse nel territorio.
La quarta
Boicottare in modo sistematico quei prodotti che veicolano messaggi sessisti – sia in forma diretta sia indiretta – nella loro pubblicità. Rispondo all’obiezione sulla impossibilità di farlo, vista il largo uso di pubblicità sessiste, che alcune esperienze fatte altrove invece smentiscono tale impossibilità. Non si tratta di boicottare tutto, ma di scegliere di volta in volta uno o due prodotti e bandirli per un periodo sufficientemente lungo per fare danni. Non bisogna dimenticare che quello da cui siamo oppressi è pur sempre una combinazione di patriarcato e capitalismo e che ciò che spaventa i maschi al governo di tutte le colorazioni politiche è la possibilità di interrompere il flusso delle merci. Altrimenti, anche la denuncia del sessismo nella pubblicità rimane confinato nell’ambito delle opzioni morali senza alcuna conseguenza politica.