SUL DIBATTITO INTORNO AL PATRIARCATO

8 marzo

Le recenti riflessioni di Massimo Cacciari sul patriarcato stanno facendo discutere. Le argomentazioni del filosofo sono bizzarre e cervellotiche, ma comunque contengono spunti con i quali la discussione è possibile, a differenza di molti altri interventi maschili, perlopiù giornalistici, che oscillano fra ignoranza, dileggio e, passando per il sarcasmo, sfiorano nei casi più efferati un linguaggio che è istigazione a delinquere.

A Cacciari ha risposto Nicola Fanizza nel brano qui di seguito che getta uno sguardo su diversi altri problemi:

Quando Cacciari dice che il Patriarcato è finito con l’avvento del Rinascimento si sbaglia. Di fatto, nel XV secolo, cominciò ad affermarsi la famiglia mononucleare – composta dai soli genitori e figli – in luogo del Patriarcato o famiglia allargata. Lo sviluppo dello spazio sociale divenne il fuoco da cui si originò il Rinascimento, che va inteso come rinascita del soggetto, di un soggetto che dice il vero.

Così, a partire da quel periodo, il soggetto che dice il vero, però, non sarà più, a differenza di quando avveniva nel mondo ellenico, solo l’uomo bensì anche la donna. Non è un caso che quest’ultima, come Sibilla, venga rappresentata dai pittori del tempo non più come un viatico, come ciò che agevola il transito dell’uomo verso la verità, bensì come una donna che pensa, come una donna che dubita, come una donna che dice il vero. Insomma come un soggetto autonomo.

Fu, tuttavia, solo l’inizio. Il Rinascimento – e questo Cacciari non l’ ha capito, è stato e si configura ancora oggi come un’onda lunga, un onda che non si è ancora esaurita. Il Patriarcato, infatti, esiste tutt’ora, è onnipervasivo, pervade e avvelena ancora lo spazio sociale, impedendo alle donne di pervenire alla loro autonomia, alla loro libertà.

A questo intervento sono seguiti altri commenti che si trovano sulla mia pagina facebook: tutti contengono riflessioni importanti e a quelli rimando.

Adele Cambria, in un’intervista di alcuni anni fa e riproposta di recente a Radio Popolare sosteneva che se si parla solo di patriarcato senza aggiungere che esso è in crisi in tutto il mondo, si rischia di cogliere solo un aspetto della realtà attuale e neppure il più importante. Dall’Iran agli Stati uniti, dalle manifestazioni in Europa e anche in America latina, dove le associazioni femminili delle comunità indigene svolgono un ruolo di primo piano anche nel mettere in discussione la natura patriarcale di governi apparentemente progressisti come era quello di Evo Morales.

Il dominio maschile assume in tale contesto caratteristiche nuove: in Italia, una minoranza di uomini, di cui molti giovani, che si muovono come un’avanguardia acefala dentro un mare di complicità indirette, pretende di esercitare un dominio basato solo sulla violenza fisica e la forza; ma non si tratta del ritorno all’orda primitiva come sostiene una parte della cultura di destra, ma di una reazione violenta alla perdita di autorevolezza, potere e privilegi.

Si aprono qui due problemi a mio avviso: uno riguarda la cultura più reazionaria e di destra che sostiene che il patriarcato non esiste più e che trova svariati echi anche in atri settori dell’opinione pubblica. Il contrasto a questa deriva che è mondiale anch’essa nelle diverse forme che assume, rimane fondamentale, ma a patto che si ragioni sui limiti della cultura democratica e di sinistra. Il femminicidio di Giulia Cecchettin segna a mio avviso in Italia una svolta importante anche nella consapevolezza maschile e questo è testimoniato da livore con cui la parte più reazionaria sta reagendo; ma il problema principale rimane l’altro e cioè i limiti della risposta democratica e di sinistra.  

Alisa Del Re sul Manifesto del 2 dicembre scorso ha pubblicato un articolo che – a mio avviso – ha un inizio davvero singolare, Cari compagni. La prima cosa che ho pensato è stata: ma a chi si rivolge? Perché se si tratta di un modo di ritornare al conflitto degli anni ’70 che vide a un certo punto la sinistra extraparlamentare di allora entrare in rotta di collisione con i nascenti femminismi, il titolo ha un senso perché quelli compagni lo erano, nel senso che ragionavano almeno in termini anticapitalistici. Compagni oggi che cosa vuole dire? C’è qualcuno che ragiona in termini anticapitalistici? Ho pensato allora che fosse un modo di tendere la mano: finalmente avete capito gli errori di allora e si può tornare a ragionare insieme su qualcosa. La strada è certamente questa, ma il problema sta nel fatto che se si parla a quella generazione, che è anche la mia, si rischia di rimanere confinati nella nostra memoria, legittima, ma poco capace di intercettare le giovani generazioni. L’anticapitalismo, per le ragioni più diverse, sembra fuori dalle agende di tutti i movimenti che tutt’al più si limitano a criticarne gli aspetti più feroci. E laddove sembra esistere ancora, per esempio fra i gruppi iper leninisti, ma senza Lenin, esso si traduce in pratiche oscillanti fra il grottesco e il drammatico. Il problema però rimane: come coniugare nei termini oggi attuali un percorso che sia anticapitalistico ma con l’agenda femminista? Come coniugare diritti sociali e diritti civili? Alcune indicazione nel finale dell’intervento di Alisa Del Re ci sono e per quanto riguarda il ruolo che gli uomini possono avere è a mio avviso il solito, fatto di poche cose: rifiuto delle complicità indiretta, rifiuto del linguaggio sessista anche a costo di rompere relazioni, evitare le cene maschili basate sul pecoreccio, un po’ di fantasia e di immaginazione nell’inventare momenti collettivi di riflessione e testimonianza.

NIENTE SILENZIO, FARE RUMORE

Black Monday in Polonia

Premessa

Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un dibattito che è il sintomo di una società profondamente malata. Lo sapevamo già, ma ci sono momenti in cui avvengono dei salti di qualità e credo che in questo abbia influito anche la recente diffusione e ancor più il successo di massa del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani.

Il dibattito.  

Il profluvio di analisi psicologiche e di autoflagellazioni maschili da cui siamo invasi trascura quasi sempre le ragioni strutturali e patriarcali della violenza maschile sulle donne, la cui estensione per età a maschi sempre più giovani chiama in causa tutto il processo educativo.

Mi sembra siano tre le mistificazioni più importanti, di cui una nuova particolarmente pericolosa, perché fatta propria anche da intellettuali non reazionari. La riassumo in poche parole così:

Il patriarcato ha delle regole, mentre quello cui stiamo assistendo è un ritorno all’orda primitiva maschile pre patriarcale. La sintesi: meglio il patriarcato che è pur sempre – specialmente in Europa aggiunge qualcuno – un mondo di regole in cui vi è spazio anche per i diritti delle donne.

Questa sintesi contiene un falso e molte mistificazioni. Scambiare per realtà la fiction antropologica di Freud sull’orda primitiva trasporta in un passato arcaico e originario un processo contemporaneo che ha tutt’altre motivazioni. Quanto alla fiction in sé, le acquisizioni recenti della paleo antropologia dovrebbero consigliare almeno la prudenza quando si fanno certe ipotesi. Mi sembra importante, a questo proposito, la lettura di un libro come L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow. I processi di imbestiamento (anche linguistico, come si evince leggendo certi articoli della destra più feroce) di una parte del mondo maschile sono un fenomeno modernissimo e rappresentano l’aspetto più appariscente di una reazione ben più vasta, che ha declinazioni diverse in contesti diversi ma una causa comune: reagire con violenza ai processi di liberazione delle donne. Faccio alcuni esempi che sembrano in apparenza lontani da noi. A vedere certe fotografie afgane degli anni ’50 e ’60 c’è da rimanere allibiti: donne che frequentavano l’università, abiti per nulla velati ecc. Com’è possibile? Sono sempre esistite delle minoranze emancipate anche in contesti di regole patriarcali severe, ma a un  patto e cioè che si trattava di privilegi concessi a minoranze. Le cose sono cominciate a cambiare quando la massa delle donne ha rivendicato i propri diritti. Le repressioni di parte islamica più forti sono avvenute laddove le donne erano state protagoniste: le algerine, per esempio, che avevano partecipato in massa alla lotta di liberazione contro la Francia. In sostanza, se non ci si ribella, c’è sempre una minoranza emancipata che può farcela. Mutatis mutandis è quanto avviene oggi in Italia seppure in forme meno efferate ma altrettanto violente. Chi afferma che il patriarcato è un mondo di regole, dice in realtà un’altra cosa: state al vostro posto e qualcosa vi verrà concesso. Oppure ancor meglio – come accade nel film di Paola Cortellesi: devi stare zitta, ripete ossessivamente il personaggio più odioso del film, il nonno.    

La seconda mistificazione mescola insieme elementi psicologici arrivando in qualche caso a definire Filippo Turetta – alternativamente – un malato o un bravo ragazzo. La sintesi è la condanna del delitto ma la negazione del femminicidio. Si punisce al massimo il crimine individuale, ma si negano le ragioni strutturali. Come ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, Turetta non è un malato ma un figlio sano del patriarcato. La fragilità maschile esiste eccome, ma invocarla in circostanze come queste non significa voler fare i conti con essa, ma cercare delle giustificazioni. In ogni caso, a chi volesse davvero uscire dal modello virilista e confrontarsi seriamente con la propria fragilità, consiglio per l’ennesima volta di leggere il libro di Edoardo Albinati: La scuola cattolica.

La terza mistificazione, di cui sono responsabili prima di tutto le forze di destra, sono i discorsi generici sull’educazione al rispetto, il piano presentato oggi dal Ministro, un guazzabuglio di false buone intenzioni. La versione leghista delle medesime false buone intenzioni consiste nell’affidare tutto alla famiglia. Sappiamo da tempo dalle statistiche che è nelle famiglie che si consumano le violenze di genere più diffuse. La famiglia non è mai stata un luogo idillico, ma non lo è neppure nella versione hollyvoodiana che viene veicolata da fiction statunitensi come Modern family, riverniciate di modernità e di ammiccamenti al mondo LGBTQ. Il familismo italiano, inoltre, ha un bagaglio assai pesante sulle proprie spalle, che non è patrimonio soltanto della cultura di destra, ma deriva anche dalla cesura che negli anni ’70 si produsse fra la sinistra vecchia e nuova e il femminismo. Andare avanti su una strada minimamente consapevole è togliere queste problematiche dall’ambito privato e familista e riportarle nello spazio pubblico, con lotte mirate e determinate per aumentare e sostenere i centri antiviolenza autogestiti, promuovere e consultori presidi territoriali, far funzionare reti di supporto che favoriscano le denunce.

Il film.

La pellicola di Paola Cortellesi merita un discorso critico importante perché si tratta di un film molto significativo e non solo di un’opera che ha saputo parlare a una platea molto vasta e mi piace pensare che l’ondata di sdegno seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche certi discorsi che si smarcano dai dibattiti più penosi, siano anche il segno che questo film ha seminato una consapevolezza importante in un pubblico vasto, trasversale e non soltanto femminile. Tre mi sembrano i motivi forti della sua narrazione e del montaggio: la capacità di giocare con tutti i cliché che il tema poteva suggerire riuscendo, con alcune mosse spiazzanti, a evitarli tutti ma sempre all’ultimo momento. Dall’uso del bianco e nero, al neorealismo, dalla finzione di far credere a chi vede il film che forse la fuga di Delia sarà con il vecchio carrozziere verso il nord mentre invece quando corre per recarsi al voto e passa davanti alla sua autofficina non si volta neppure verso di essa perché ha da fare qualcosa di molto più importante. Il secondo aspetto è il modo in cui le scene di violenza, solo accennate, si coniugano a un linguaggio musicale che scimmiotta quanto di più ipocrita si nasconde dietro il sogno d’amore. Infine, ma senza rivelare cosa accade per non togliere il gusto di vederlo a chi il film non lo ancora visto, il modo geniale in cui Delia manda all’aria il matrimonio della figlia sfruttando la violenza che il mondo maschile esercita su di loro e rivolgendogliela contro. Quanto all’ambientazione del ’46 e dunque nell’Italia della scelta fra monarchia e repubblica, non condivido quelle critiche che ne fanno una scelta poco comprensibile. Non le condivido perché Cortellesi non parla affatto del 1946 e ancora una volta gioca con il cliché per poi smarcarsi dal medesimo. Il film metabolizza il femminismo ma lo fa in modo traslato: una scena come quella in cui Delia affossa il matrimonio della figlia sarebbe impensabile senza gli anni ’70. Il 1946 è il dito che mostra la luna, il suo film non è il sogno di una cosa del passato (il voto alle donne), ma evoca un domani che ancora non c’è.

Qualche proposta.

La prima

Niente minuti di silenzio ma molto rumore, continuo e possibilmente sempre più forte. Questa mi sembra la prima cosa da dire e fare anche per essere vicini a Elena Cecchettin, che si è esposta con dichiarazioni molto forti.

La seconda

La mobilitazione degli uomini e le sue forme. In passato ho espresso perplessità su manifestazioni di massa di uomini che si sono tradotte in poche iniziative con molte contraddizioni. Tuttavia, l’intervista di Ciccone a Radiopopolare di qualche giorno fa mi sembra importante e quindi se arrivano proposte ben vengano: meglio se sono diffuse sul territorio. Continuo però a pensare che la rottura di complicità indirette con il gruppo maschile sia il modo per far venir meno la solidarietà fra maschi: le cene di soli uomini dove il pecoreccio è dietro l’angolo sono da evitare sempre.

La terza

Utilizzare il libro di Albinati La scuola cattolica per letture pubbliche non stop che continuino per ore, alternandosi al microfono con commenti e altro. Si può fare in teatri, in situazioni di massa o anche più modeste quantitativamente ma diffuse nel territorio.

La quarta

Boicottare in modo sistematico quei prodotti che veicolano messaggi sessisti – sia in forma diretta sia indiretta – nella loro pubblicità. Rispondo all’obiezione sulla impossibilità di farlo, vista il largo uso di pubblicità sessiste, che alcune esperienze fatte altrove invece smentiscono tale impossibilità. Non si tratta di boicottare tutto, ma di scegliere di volta in volta uno o due prodotti e bandirli per un periodo sufficientemente lungo per fare danni. Non bisogna dimenticare che quello da cui siamo oppressi è pur sempre una combinazione di patriarcato e capitalismo e che ciò che spaventa i maschi al governo di tutte le colorazioni politiche è la possibilità di interrompere il flusso delle merci. Altrimenti, anche la denuncia del sessismo nella pubblicità rimane confinato nell’ambito delle opzioni morali senza alcuna conseguenza politica.

Maschio guerriero, maschio protettore: il paradosso mortale dentro il patriarcato

Paolo Rabissi

Odisseo e Tiresia

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

Per me uomo bianco, educato all’eterosessualità, non è poi così semplice e intuitivo l’uso della parola ‘femminicidio’. Perché il femminicidio non è il semplice omicidio di una donna, si presenta dentro una casistica articolatissima in cui a commettere violenza è ora il padre, ora il fratello, ora il conoscente anche se più frequentemente l’uccisione di una donna avviene per mano del partner abbandonato, per un altro/a ma anche no.

Non è nemmeno semplice l’uso della parola sessismo. Perché devo distinguere tra misoginia, antifemminismo e sciovinismo maschile, che, per quanto odiosi, sono componenti indiscutibili del sessismo ma meno gravi delle forme estreme di manifestazione come il femminicidio e anche la mercificazione del corpo e dell’immagine femminile che, per la sua carica razzista di fondo, del femminicidio è supporto.

Le cose cominciano ad essere più chiare quando risalendo al patriarcato, che è organizzato sulla subordinazione del femminile al maschile, ti rendi conto che il sessismo è l’insieme di idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi ecc., che perpetuano e legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, per usare le parole di Annamaria Rivera (La bella, la Bestia e l’Umano, Ediesse, 2010).


Ma infine s’impara anche che, acquisizione felice di più recenti studi antropologici, è diventato possibile storicizzare la nascita del patriarcato. Voglio dire che di fronte alla disperante nozione che affonda quella nascita nella notte dei millenni, oggi siamo in grado di datarla con una certa sicurezza a circa tre, quattro mila anni fa, che fanno in tutto solo trenta, quaranta secoli, che in fondo non è gran che: siamo in definitiva eredi di una quarantina di generazioni di Sapientes e non è più così difficile pensare che il patriarcato come è nato possa anche morire. Nel senso che intanto non solo sappiamo cosa non vogliamo ma anche quali radici abbiamo da estirpare, che poi facendo ciò si possa anche finire molto verosimilmente col togliere molta aggressività e subliminale capacità di condizionare le genti all’organizzazione capitalistica del mondo, neoliberismo incluso, non può che consolarci.


Si dice a ragione allora insistentemente: il femminicidio è soprattutto un problema di uomini e sono costoro a doversene fare carico pubblicamente. E viene aggiunto subito che riguarda tutti gli uomini, non solo alcuni uomini, che è l’aspetto più difficile da sbrogliare. Perché c’è da superare la tentazione diffusa di addebitare il femminicidio a colpi di follia esplosi in un uomo, magari apparentemente mite e innocuo: del quale solo dopo perlopiù si viene a sapere che esercitava violenze continue e di vario tipo che accumulatesi a un certo punto esplodono.


A monte dunque di questi casi, mitezza apparente ma violenza più o meno nascosta, sembrerebbe che ci sia un tipo di uomo che non ha comunque inibizioni a usare la violenza, né di educazione né di scelta volontaria. Anche se occorrerebbe aggiungere che evidentemente non gli provengono, oggi in particolare, sufficienti inibizioni nemmeno dalla scuola, dalle istituzioni, dalla politica che, nei periodi di crisi come quello che viviamo, dovrebbero far argine nella testa dei ‘violenti’.

Coloro che invece fanno argine per scelta volontaria e che non hanno mai “toccato una donna con un dito” e che dichiarano con fermezza che mai lo farebbero, sembra debbano essere automaticamente esclusi dalla categoria sospetta, il che appare a prima vista anche legittimo.

Tuttavia in questo modo da una parte la violenza viene anch’essa naturalizzata (come avviene dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna), assunta quasi a codice genetico che solo il lungo lavoro della civiltà dei costumi può modificare sottraendo l’umano alla sua ferina barbarie, mentre sappiamo che violenti si può diventare per mille ragioni. Dall’altra la mancata storicizzazione dei comportamenti cui la violenza induce, impedisce di ragionare sulle forme di violenza diverse da quelle fisiche, quelle per intenderci che all’interno della relazione impongono di fatto alla donna il rispetto dei ruoli tradizionali (la cura della casa, del cibo, dei figli, ecc.), dei suoi ‘doveri’ di madre, moglie ecc., sottraendole libertà e parità nelle scelte (in una infinita serie di varianti dovuta a condizione sociale e cultura).

Questo è forse il territorio meno esplorato perché è il più complesso, dato che oggetto dell’analisi non può essere più soltanto il maschio che si sente depositario naturale di una serie di privilegi ma la relazione stessa, soprattutto quella familiare, nella quale anche la donna, pur partendo sempre da una condizione di inferiorità, è costretta ad accettare una serie di compromessi appena compatibili con la sua soggettività nonostante ne avverta il fondo di limitazione e compressione. Si tratta di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello. (Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà – Bollati Boringhieri 2011).

Che si tratti di violenza omicida o di quella silenziosa nel quotidiano, il nostro presente è segnato irrimediabilmente dal venir meno dei secolari privilegi dell’uomo, il che fa terribilmente comodo al neocapitalismo, soprattutto nostrano, che sollecita romanticamente il maschio in crisi al recupero di posizioni mettendo a produzione le sue passioni (basta dare un’occhiata agli spot pubblicitari). In ogni caso la violenza snuda il marchio del dominio dell’uomo sulla donna, che di individuo in individuo si caratterizza in una scala infinita di forme che la relegano nell’inferiorità fisica intellettiva e morale, che aprono la strada a umiliazione, schiavitù, de-umanizzazione, fino alla reificazione nell’oggetto sessuale di cui il maschio, che se ne sente proprietario, può decidere quando vuole la vita o la morte.

Quis fuit horrendos primus qui protulit enses ? Chi afferrò per primo le armi per la guerra? Quando al liceo negli anni cinquanta traducevamo Tibullo e Virgilio, (due specialisti nell’ipostatizzare un paradiso agreste e pastorale senza guerra del quale dopo un secolo di guerre civili non potevano che sentire la mancanza) non potevamo immaginare che cinquant’anni dopo accanto a quella domanda avremmo dovuto farne altre.

Quale frase d’amore fra due teneri amanti risuonò mai per prima dentro gli orrori della guerra: Ti proteggerò io oppure Proteggimi?

In ogni caso in quel momento la divisione dei ruoli era già cosa fatta. E non è che per se stessa non fosse cosa buona. Anche se ormai del bisogno della donna di essere protetta e accudita durante la gravidanza e il parto abbiamo conoscenza che è una costruzione culturale (non sappiamo forse che certe contadine partorivano sulla terra nuda mentre la lavoravano?), tuttavia sappiamo che ogni divisione del lavoro ha vantaggi per ogni membro di una comunità. Il problema è che poi su quella divisione di ruoli tra uomo e donna si venne incistando un sistema gerarchico di poteri che vogliono dominio da una parte e sottomissione dall’altra e che quei ruoli si sono fissati dentro una rete sempre più fitta di doveri e obblighi ‘definitivamente’, al punto che essi hanno finito con l’essere percepiti come ‘naturali’.

Quando è nato il mio primogenito agli inizi degli anni settanta, mio padre, lui che aveva scelto di fare l’artista rompendo con la famiglia patriarcale, e che la famiglia disastrata che fu costretto da quelle stesse regole patriarcali a mettere su, l’aveva appunto subita, si ricordò improvvisamente dei ‘naturali’ ruoli nei quali era stato educato e suggerì a mia moglie (già femminista) di lasciare la scuola per dedicarsi al figlio e alla casa (e a me suppongo).

Quante/i della mia generazione, che hanno steso tenere relazioni d’amore nell’epoca della contestazione antiautoritaria, sono sfuggite/i a questa codificazione di ruoli? La disponibilità a proteggere e ad essere protette, la disponibilità ad una divisione aggiornata tra l’uno e l’altra dei compiti di cura, almeno nelle coppie che hanno resistito, ha finito spesso (ma non sempre, e non così raramente come sostengono certe femministe che parlano di ‘perle rare’ dimenticando tra l’altro che in Italia sono spesso stati uomini a introdurre certi temi del femminismo), a causa dell’organizzazione sociale del lavoro che richiede tempi sempre più cogenti per la produzione e la riproduzione a discapito della relazione che ne viene soffocata, col costringere ad accettare quanto di più collaudato e comodo arrivava dalla tradizione di quei ruoli. Intendo la contrattazione tra tempi dei doveri comuni e tempi del piacere per sé. Nella quale la donna, spinta all’analisi dall’insorgenza femminista, si trovò a scoprire di godere di pochissima libertà rispetto all’uomo, di essere cioè imbrigliata in una dinamica di dominio tutta a favore dell’uomo: verso la quale non si sentiva più disponibile né tanto né poco, dimodoché anche l’uomo ha dovuto rimettere in discussione la propria identità e rileggerla storicamente. La follia da sola non spiega perché la violenza omicida si accanisca sulla donna, ma scardinare la mentalità da guerrieri dominanti che si è radicata dentro di noi in un percorso millenario non è né sarà compito facile.

Il potere che derivò un tempo al signore della guerra per essere tornato vincitore si riflette sin dentro la propria casa come estensione di dominio, nel senso che essa storicamente diventa la ‘patria’ da difendere sempre e che per la sua sicurezza deve funzionare secondo le regole che il signore ha esperito vincenti in battaglia: gerarchizzazione, obbedienza, disciplina e fedeltà. La donna ora riceve dalle mani del neo patriarca l’investitura di esecutrice fedele e disponibile di compiti ‘privati (sesso compreso)’, importanti quanto i ‘pubblici’ di sua competenza e di fatto interamente dipendenti dalle sue decisioni.