Cronaca del delitto del Circeo
In alcune interviste, Albinati ha corretto leggermente il tiro rispetto allo spunto iniziale del suo libro, dichiarando che in realtà a spingerlo a intraprendere quest’avventura narrativa, era stato il secondo delitto compiuto da Angelo Izzo, molti anni dopo il primo. Le ragioni le spiega lui stesso. Avendo avuto per compagni di scuola gli autori del delitto del Circeo e altri più o meno legati allo stesso ambiente, Albinati afferma che un sentimento legittimo di rimozione aveva lasciato nel fondo della sua memoria la vicenda, ma che al riproporsi anni dopo di un secondo delitto altrettanto efferato, tacere (prima di tutto a se stesso), non era più possibile: l’etica e la necessità di una scrittura si capiscono anche da questo e allora vorrei dire subito che il romanzo di Albinati è profondamente etico e anti moralista. Nella quarta di copertina, infatti, sta scritta una frase lapidaria e cioè che il problema riguardante la verità è se dirla o non dirla e la verità secolarmente negata che è al centro di questo romanzo, è proprio la trasversalità della violenza maschile sulle donne, la sua impermeabilità ai cambiamenti, persino a quelli della lunga durata per dirla con Braudel. Qui sta una delle novità del romanzo che, ricostruendo l’educazione al maschile, va a mettere in discussione un luogo comune e cioè che, sebbene non tutti stuprino, l’infezione del linguaggio e degli stereotipi maschili è comune anche a chi non arriva alla violenza pura e semplice. Sulla necessità di questa presa di coscienza etica ritorneremo in sede conclusiva.
Per ritornare al delitto in senso stretto Albinati sceglie la via maestra del romanzo saggio: cita i documenti ufficiali, persino la cronaca giornalistica. Il capitolo in questione è il decimo. Consiglio di leggerlo attentamente quel capitolo perché io stesso pensavo di ricordarmi tutto e invece la nuda narrazione oggettiva di Albinati svela, a distanza di anni, uno degli aspetti più sorprendenti del delitto: la casualità delle azioni dei protagonisti, l’interscambiabilità fra l’uno e l’altro di loro e dei ruoli, la mancanza di una vera premeditazione e al contempo l’automatismo dei gesti, scissi da una narrazione immaginaria, folle e lucida al tempo stesso, da parte di Angelo Izzo. Ci sono almeno altre due donne che avrebbero potuto essere vittime dei tre e che hanno schivato quella fine solo per puro caso, così come ci sono almeno altri due o tre uomini che potevano essere al posto di altri due o sommarsi a essi; il solo protagonista non intercambiabile è Angelo Izzo.
Il mix di serialità, casualità, automatismo, che rimanda a un film come Arancia Meccanica, fanno di quel delitto qualcosa di nuovo.
Apro una parentesi personale. Ho avuto per anni una frequentazione di Roma non occasionale, tanto da poter dire che in essa ci ho vissuto, ho amicizie durature e importanti come quelle che ho a Milano. C’è un’espressione che ho sentito usare più volte da amici e amiche romane a proposito del delitto del Circeo e che mi è ritornata in mente proprio leggendo il romanzo di Albinati: fu la perdita della nostra innocenza. La medesima espressione molti milanesi della mia generazione la usarono per definire il sentimento di sgomento dopo la strage di Piazza Fontana. Cosa può giustificare l’uso di un’espressione così forte per due crimini apparentemente così diversi? Perché hanno in realtà molti tratti in comune, non tanto per una superficiale appartenenza politica dei soggetti in questione, fra l’altro assai labile,10 ma per ragioni assai più profonde e che soltanto pochi anni prima sarebbero state invisibili per la coscienza collettiva.
Sebbene la rottura fra il nascente femminismo e i movimenti nati nel 1968, ha una possibile data ufficiale nel 6 dicembre del 1975 11 ed è quindi successiva al delitto del Circeo, ciò che il femminismo aveva iniziato a significare era visibile ben da prima, la pregnanza di uno slogan come il personale è politico non poteva essere elusa (se mai rimosso allora come oggi dalla coscienza di molti uomini) e dunque il delitto del Circeo non poteva essere derubricato, come sarebbe accaduto soltanto una decina d’anni prima e forse meno, come un delitto qualunque, un episodio estremo come ce ne sono stati tanti prima e dopo di esso.
Dirò di più: forse, solo dieci anni prima un delitto di tale efferatezza nelle sue modalità non sarebbe stato neppure possibile per le menti stesse dei suoi autori. In esso, infatti, si concentra una vendetta che è al tempo stesso di classe e di genere, (Donatella Colasanti e Rosaria Lopez erano due giovani donne proletarie) tanto efferata da far pensare a una punizione e a una reazione, non semplicemente a un atto di stupro come da millenni ne esistono. Riflettendo allora sul Törless di Musil, che peraltro Albinati cita espressamente in un capitolo del suo romanzo, ho pensato che non è tanto quel romanzo a lambire come riferimento letterario quello di Albinati, ma che – al contrario – è quest’ultimo romanzo a permetterci di allargare il campo delle interpretazioni possibili e delle valenze del romanzo di Musil medesimo. L’iniziazione al maschile, nel Törless, era dettata da regole che sconfinavano nella violenza pura e nel sadismo; ma per molta critica l’opera era lo squarcio di una società che manifestava gli scricchiolii sinistri e che anticipavano, come certe pitture di Egon Schiele o di Otto Dix, l’avvento del nazismo. Ho sempre diffidato di queste interpretazioni fondate sul senno di poi, ma rileggere oggi il romanzo di Musil, alla luce di quello di Albinati, suggerisce che anche quell’opera rivela aspetti che la critica non ha affatto colto, o solo in parte, e cioè nel senso di vedere solo nella cultura nazista incipiente i germi di una violenza che sarebbe esplosa come un fattore puramente irrazionale nel cuore della civile Europa del ‘900, ma da cui la gran parte della cultura europea era infondo estranea.
Gli atti di sadismo compiuti nei confronti di Basini, hanno invec una radice esplicita nel suo essere effeminato, cioè un non maschio. La sua omosessualità è quindi una colpa che va punita, aldilà dell’occasione che provoca gli atti di sadismo, culminati nello stupro ripetuto, di cui Basini diventa oggetto. Il furto che egli ha commesso e che i suoi compagni d’arme conoscono, è l’occasione che fa scattare un ricatto cui Basini è predestinato più di altri proprio a causa della su omosessualità. La mancata denuncia alle autorità superiori del furto medesimo, che sarebbe costata l’espulsione del ragazzo, è parte integrante dell’educazione militare e forse non lo era di meno anche nei collegi religiosi, dove il rispetto della regola formale entra sempre in contraddizione con una regola maggiore che sovrasta l’istituzione e cioè che la titolarità dei cosiddetti valori che l’ispirano è di ogni singolo e non solo dell’autorità; tanto che molti dei cosiddetti abusi vengono incentivati dall’autorità stessa. Chi ha fatto il militare sa bene che una buona dose di bullismo è sollecitata dagli ufficiali e basta ricordare Full metal jacket di Stanley Kubrik. Proprio la vicenda di Basini e il suo stupro ripetuto in quanto ritenuto non maschio dai suoi aguzzini, ci fa capire qual è l’oggetto primario sul quale si esercita la sopraffazione: le donne.
Gli anni ’70.
Affermavo, all’inizio, che il romanzo di Albinati è anche sugli anni ’70, prima di tutto a Roma, anche se le sue osservazioni allargano la visuale e offrono spunti di riflessione che riguardano un contesto più vasto. Nel farlo, lo scrittore torna a porre una questione: che cosa è il fascismo in rapporto alla cultura borghese che lui conosce? Egli smonta prima di tutto la facile narrazione che gli autori del delitto del Circeo fossero dei pariolini: se mai erano dei pariolini acquisiti, ma appartenenti a un milieu più anonimo, più consono all’origine sociale di molti di loro – Angelo Izzo per tutti – e con l’eccezione di Andrea Ghira, il solo appartenente a una famiglia alto borghese. La precisazione è importante perché gli autori del delitto del Circeo appartengono piuttosto alla dissoluzione di un ceto e di una cultura borghesi, piuttosto che rappresentarne una versione alta o almeno saldamente egemone. In realtà, il milieu reale è una sotto cultura piccolo borghese, che disprezza prima di tutto la complessità dei problemi e il cui odio represso s’intreccia con il rancore di classe e di genere della parte più retriva di un ceto e di una popolazione maschile intaccate entrambe, sia dall’insubordinazione operaia al nord, sia dalla ventata libertaria e anti autoritaria dei movimenti nati alla fine degli anni ’60. Una crisi dentro la quale i ceti colpiti, ma anche gli individui, coltiveranno la propria rivincita in varie forme: dalle violenze fasciste con le complicità statali e internazionali della stagione stragista, a un più lento processo di coagulo che oggi – per esempio – si esprime nel leghismo e nella reazione del cattolicesimo più retrivo che vede in Bergoglio addirittura un nemico da abbattere.
Quale immagine degli anni ’70 ci restituisce il romanzo? Per chi ha vissuto quegli anni prevalentemente a Milano e nel Nord, la prima sensazione che l’affresco di Albinati suggerisce è l’assenza della classe operaia nel contesto romano: le due sole proletarie presenti nel suo libro sono le vittime del Circeo. Tale constatazione mi rimanda a una serata del festival dell’Unità di Milano del 1975, anno quanto mai fatidico, dove Pasolini tenne un memorabile intervento: memorabile nel duplice senso dei contenuti di quel discorso e perché fu forse l’ultimo grande suo intervento pubblico prima della tragica morte. Lo scrittore disse molte cose durante quella serata, fra queste ricordò – come aveva già fatto altre volte – la sua difficoltà nel comprendere la cultura operaia e cosa essa rappresentasse. In realtà, se si pensa all’intensa rubrica di corrispondenza che tenne per oltre un anno sulla rivista Vie nuove, dialogando in particolare con i minatori toscani, non si deve credergli del tutto, ma aveva ragione su un punto capitale e cioè che la presenza operaia, troppo esigua nella realtà romana, faceva sì che fra certe istanze politiche rivoluzionarie – fasulle – di quegli anni e il potere inteso come istituzioni e apparati, non ci fosse niente in mezzo. A Milano e nel nord, invece, il monolite operaio costituiva immediatamente un termometro per capire se una certa azione, un’idea di sciopero, una manifestazione, una certa forma di lotta che usciva dai termini della legalità, passava o non passava. Non mi riferisco al plauso o al consenso di partiti e sindacati, perché le lotte di quegli anni travalicavano assai i confini che il Pci e la Cgil intendevano costruire loro intorno; parlo proprio della presenza operaia, del suo peso specifico in ogni momento e su ogni questione della vita sociale, a cominciare dai funerali dei morti per mano fascista del 12 dicembre. Lo stesso si può dire dei momenti più significativi e tragici sia della stagione stragista sia di quella successiva (mai dimenticarlo che venne dopo), in cui una parte del movimento scelse sciaguratamente la lotta armata. La seconda immagine – strettamente legata alla prima – che il romanzo mi rimanda, è la paradossale lontananza del potere, la sua indeterminatezza. In quelli che definirei due capitoli metafora, Albinati riesce a rappresentare tutto questo in modo assai efficace. Nel primo si descrive un episodio che sembra piuttosto il mimo di un’azione reale, sebbene ricalchi – purtroppo – fatti accaduti. Due attentatori su una motocicletta presidiano il quartiere: solo che i due sono armati di una pistola ad acqua, in uno scenario che oscilla fra l’onirico e lo sberleffo, che ricorda molto di più la stilizzazione dei balletti di West side story piuttosto che la lotta politica. Gli attori di quelle azioni sembrano muoversi dentro un vuoto penumatico in cui esistono solo loro, su un territorio che si contendono con altri di un colore diverso. La scena dei due con pistola ad acqua finisce in modo tragicomico, mentre lontano dal quartiere di Roma dove il tutto si svolge e cioè dentro i Palazzi del potere costituito – che non vediamo – si muovevano le fila che tiravano entrambe le schiere come burattini, da un polo all’altro dentro la dinamica della narrazione tossica degli opposti estremismi. In primo piano rimane solo quel milieu ambientale appartenente alla medesima classe sociale e cultura in decomposizione, perché infondo entrambe le schiere che si affrontano – almeno nel contesto romano – sembrano provenire dallo stesso tessuto sociale. A lettura ultimata ci si domanda: era solo una questione romana? Lo sguardo decentrato e grottesco di Albinati è certamente estremo, sarebbe facile obiettare che anche a Roma c’era dell’altro, che le forze democratiche e sindacali che alimentavano una dialettica diversa e che riequilibravano le punte più estreme di quello scontro esistevano anche lì; ma stiamo parlando di un romanzo e non di una riflessione saggistica e sono proprio gli sguardi estremi – a volte – a mettere in luce aspetti che altrimenti non si vedrebbero. La scelta felice, da un punto di vista narrativo, di armare i suoi due improvvisati terroristi di una pistola ad acqua e le reazioni che tuttavia la loro azione suscita nelle due improvvisate vittime, diventa così la metafora di una lotta armata che fu al tempo stesso tragica e insulsa, del tutto fuori dalla storia, condannata prima di tutto alla sua tragica irrilevanza e dalle conseguenze devastanti sul piano sociale e politico.
10 Certamente il milieu dei tre assassini del Circeo è di tipo fascista, ma essi non erano dei militanti in specifiche organizzazioni o gruppi. Anni dopo, Angelo Izzo sarà interrogato in merito alla strage di Bologna e altri eventi, ma solo perché aveva ricevuto (o millantato di avere ricevuto), confidenze da altri detenuti durante la carcerazione.
11 Mi riferisco all’assemblea in cui ci fu una vera e propria rissa fra uomini del servizio d’ordine di Lotta Continua e donne della stessa organizzazione.