DONNE E GUERRE. VISIBILITÀ/INVISIBILITÀ DELLE DONNE NELLE GUERRE

Di Adriana Perrotta Rabissi.

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina[1]. Christa Wolf

Gli uomini hanno paura che le donne raccontino tutta un’altra guerra… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi… E le donne piangevano… Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile [2]. Svetlana Aleksievič


[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.

[2] Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, Milano, Bompiani, 2015, p. 20.

Svetalana Aleksievič

Premessa

Le donne non spariscono nelle guerre, come a volte si è portate/i a pensare, ma nella narrazione che ne è fatta. Anche quando sono le donne a raccontare spesso il modello di ricostruzione è quello unico, secondo un paradigma maschile, apparentemente neutrale, fatto di ideali, eroismi, sacrifici. Quando si parla di donne nelle guerre queste ultime sono rappresentate o come vittime di stupri e aggressioni, oppure affannate a districarsi nelle mille difficoltà per portare avanti la vita propria, e quelle delle persone che dipendono da loro. Nel caso poi ci si riferisca a donne combattenti, una minoranza comunque, ad esempio nella Resistenza, si esaltano le doti di coraggio, l’eroismo, lo spirito di sacrificio comuni agli uomini.

Le ragioni dell’uniformità di modelli narrativi affondano nella patriarcale divisione sessuale del lavoro e nelle attribuzioni di attitudini e abilità che ne derivano, secondo questo ordine agli uomini è assegnata la sfera delle relazioni pubbliche (politica, guerre, lavoro) e della presa di parola pubblica, alle donne quella delle relazioni private e dei sentimenti, vale a dire il mondo degli affetti, della cura alle persone e agli animali, della manutenzione e riparazione di ambienti e oggetti.

Dimensione che offre loro il massimo di potenza immaginaria e il massimo di impotenza reale.

Nel mito

Eco e Medusa, due figure che simboleggiano l’obbligo delle donne al silenzio pubblico e rappresentano un monito severo per quelle che abbandonano la sicurezza confortevole dei luoghi stabiliti dal patriarcato per avventurarsi nei territori infidi della produzione culturale, del sociale e del politico, trascurando così la funzione prioritaria del femminile, storicamente determinata, ma naturalizzata da millenni di pratica.

La loro vicenda segnala i rischi più comuni che si corrono: la ripetizione balbettante di cose già dette da altri o il silenzio.

Eco perde il corpo per un eccesso di passione, poco importa che ne sia l’oggetto – nel mito meno conosciuto è fatta a pezzi mentre sfugge a Pan – o il soggetto – si consuma fino a confondersi con la roccia della montagna nell’amore non corrisposto per Narciso – di lei resta solo la voce. Giunone le ha inflitto un terribile destino: non può prendere l’iniziativa di parlare per prima, deve limitarsi a ripetere frammenti disarticolati, le sillabe finali delle parole altrui.

Ha voce, ma non la dignità del dire, del parlare in prima persona.

Medusa perde anch’essa il proprio corpo, è una bellissima donna punita dalla dea Atena per averne la sfidata bellezza, è presente nel nostro immaginario come testa terrificante, la bocca spalancata in un urlo muto e disperato e lo sguardo che ha il potere di pietrificare chi la guarda. La sua testa mozzata andrà ad adornare lo scudo di Atena, la vergine saggia, fedele alleata di eroi, uscita dal capo di Giove, nascita che l’ha liberata dall’umiliazione di nascere da un corpo di donna. Medusa non ha voce, la sua cifra è il silenzio, solo lo guardo comunica, è di orrore e terrorizza, che cosa ha visto?  Che cosa sa? Non ha voce per dirlo, per avvertirci.

In entrambi i miti la punizione è inflitta per mano di altre due donne, peraltro dee, Giunone e Atena, che incarnano nella nostra cultura due modelli conformi al destino sociale delle donne, la prima è la madre, potente e fiera del suo potere, anche se comunque subordinata al marito Giove, orgogliosa e gelosa delle sue prerogative, protettrice dell’istituzione familiare. L’altra è la sorella, savia e forte, amica delle guerre e delle tecnologie produttive, vera donna emancipata, che ha assunto i modelli di parola e azione maschili.

Due ruoli pacificati e pacificanti, che mantengono l’ordine sociale costituito.

Nello stesso tempo Eco e Medusa segnalano l’insopprimibile passione a infrangere gli interdetti reali o immaginari, auto o etero imposti, anche a rischio di perdere un’interezza – il corpo.

Nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate; la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade.

Nulla più della guerra rimette a posto il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di genere, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante dinanzi ai veloci cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un’autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

 Le donne, in trepida attesa del ritorno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un’autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell’educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati.

Concorrono all’incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l’accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche donne.

L’effetto immediato, anche solo di previsione di guerra, è cancellare dai discorsi, dalle prime pagine dei giornali e dai servizi televisivi ogni notizia relativa alla vita quotidiana, che affonda in una dimensione di dettaglio e inessenzialità,  di riferire tutto a guerre possibili e incombenti, a vendette immaginate, a ritorsioni, tutte illustrate da competenti e esperti, rigorosamente uomini, perché ufficialmente è affare loro.
E se c’è qualche donna che ne parla si tratta di eccezioni che confermano la regola, sorelle degli uomini colti, cooptate da loro e fedeli alle strategie politiche degli uomini che le hanno promosse.

 Anche se le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa, con l’impiego di droni, guidati come in un videogioco, con il conseguente sterminio di civili, certe motivazioni di fondo, soprattutto riguardo alle relazioni tra donne e uomini di fronte alle guerre, non sono cambiate di tanto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

Gian Lorenzo Bernini, Testa di Medusa, 1640

Nella storia

Tre scrittrici contemporanee, testimoni delle guerre e degli orrori del Novecento, hanno affrontato il tema del rapporto tra donne e guerre, Svetlana Aleksievič, Christa Wolf e Marguerite Yourcenar.

Wolf e Yourcenar, in particolare indagano due figure principali del nostro immaginario, Cassandra e Clitennestra, sovvertendone le immagini trasmessaci dalla tradizione di una Cassandra profeta inascoltata da chi avrebbe dovuto crederle per evitare la rovina e di una Clitennestra, mostro sanguinario, fedifraga e assassina spietata.

Nella rappresentazione di Wolf Cassandra inizialmente vuole per sé il potere destinatole per nascita in quanto figlia amatissima di Priamo, sacerdotessa, e quindi con un ruolo di prestigio nella sua comunità, quando si accorge del disinganno, delle menzogne relative alla guerra, dell’ipocrisia che regna nel Palazzo e anche tra i suoi familiari, arriva a ipotizzare che Elena sia un pretesto, e non esista, si ammala, rinunciando a ruolo e vita a Palazzo.

Quando, portata da Agamennone schiava a Micene, incontra Clitennestra, ha un moto di pietà, intuisce che al di fuori della guerra degli uomini avrebbero potuto anche essere amiche:

Prima, quando la regina uscì dalla porta, lasciai che mi nascesse dentro un’ultima esilissima speranza, poterle strappare la vita dei bambini. Poi ho dovuto solo guardarla negli occhi: lei faceva quel che doveva. Non ha fatto lei le cose. Si adegua allo stato delle cose. O si sbarazza dell’uomo, quella testa vuota, completamente, oppure rinuncia a sé: alla vita, alla reggenza, all’amante, che del resto se interpreto bene la figura sullo sfondo, è ugualmente una testa vuota innamorata di sé, solo più giovane, più bello, di carne liscia. Con una scrollata di spalle mi fece capire che quel che accadeva non era rivolto direttamente contro di me. Niente in altri tempi avrebbe potuto impedire di chiamarci sorelle, questo lessi sul viso dell’avversaria, dove Agamennone, l’imbecille, avrebbe dovuto vedere amore devozione e gioia di rivederlo, questo vide. Perciò inciampò su per il rosso tappeto, come il bue che va al macello, lo pensammo entrambe, e agli angoli della bocca di Clitennestra apparve lo stesso sorriso che a quelli della mia. Non crudele. Doloroso. Perché il destino non ci ha posto dalla stessa parte[1].

Clitennestra, donna di maschio volere secondo l’espressione di Eschilo, nel racconto di Yourcenar acquista progressivamente negli anni consapevolezza del proprio valore e della propria forza, esercitando la funzione di capo durante l’assenza di Agamennone, così come molte donne durante le guerre suppliscono alle assenze degli uomini. Si sente più capace e meritevole del marito di esercitare quel ruolo a cui non vuole rinunciare, si ritiene più abile di altri uomini dai quali è circondata, quale ad esempio il pauroso Egisto, ma soprattutto si rende conto della falsità di una vita, programmata fin dalla nascita dai genitori, aspettata con ansia nell’adolescenza, destinata ad amare, servire, onorare un uomo senza particolari qualità, tutto preso dalle vicende della guerra e dai piaceri sessuali con le donne incontrate in guerra.

L’amore folle tradito e il disincanto la portano a organizzarne l’uccisione.

La Clitennestra di Yourcenar non può provare empatia per la schiava di suo marito, anzi la dipinge con parole di disgusto, la chiama la sua gialla schiava turca abituata a giocare con le ossa dei morti:

Ero in attesa sotto la Porta dei Leoni; un parasole rosa imbellettava il mio pallore. Le ruote della vettura scricchiolavano sull’irta salita; la gente del villaggio si attaccò alle stanghe per alleviare la fatica ai cavalli. Alla svolta della strada potei finalmente intravedere la carrozza un po’ più alta della cima delle siepaglie, e mi accorsi che il mio uomo non era solo. Gli stava accanto quella specie di maga turca che si era scelta come parte del bottino, benché fosse un pochino guasta, forse, dai giochi dei soldati. Era quasi una bambina; aveva dei begli occhi cupi in un viso giallo tatuato di ferite; lui le accarezzava il braccio per impedirle di piangere. L’aiutò e scendere dalla carrozza; mi abbracciò freddamente, mi disse che contava sulla mia generosità per far buona accoglienza a quella ragazza orfana di padre e di madre[2].

Due forme opposte, quella di Cassandra e quella di Clitennestra, e reali di relazioni tra donne vittime della stessa violenza maschile, la violenza strutturale della società patriarcale, della quale la guerra è l’esempio più significativo.

Uno degli effetti più deleteri delle guerre è la divisione tra donne che la guerra degli uomini comporta, anche quando sarebbe necessaria la solidarietà.

Osserva Wolf:

Europa [era] la figlia del re fenicio, che il dio Zeus, in sembianze di toro, rapì dalla fenicia portandola a Creta, dove lei partorì, tra gli altri figli, il futuro re Minosse. Un atto di violenza contro una donna fonda, nel mito greco, la storia dell’Europa[3].

Riporta poi l’osservazione di un giovane uomo che ascolta una sua conferenza:

…bisognava smetterla di piangere sulla sorte della donna in passato. Che lei si assoggettasse all’ uomo, che lo curasse, che lo servisse – esattamente questa era stata la condizione perché l’uomo potesse concentrarsi sulla scienza, o anche sull’arte, e dare risultati di altissimo livello in entrambi i settori. Il progresso era stato e era impossibile in altro modo[4] .

Svetlana Aleksievič fa un’operazione singolare, scrive un libro di narrazione femminile di guerra.

La ricerca è durata sette anni, il libro è stato pubblicato quasi vent’anni dopo la sua stesura al tempo della perestrojka di Gorbaciov, perché prima era censurato con il pretesto che la guerra che lei raccontava era troppo spaventosa, troppi orrori e troppi dettagli naturalistici, in una parola non era la guerra giusta, da tramandare, bisognava invece parlare dei gesti eroici, non infangare tutto rimestando nel sudiciume e nella biancheria intima, in questo modo si sminuivano le donne, riducendole  a donne comuni, a femmine.

Avverte Aleksievič:

Scrivo un libro sulla guerra… Io che non ho mai amato leggere i libri di guerre benché per tutta la mia infanzia e adolescenza fossero le letture preferite di tutti… E non c’era niente di strano: non eravamo forse i figli della Vittoria? I figli dei vincitori? … c’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini… Tutto quello che sapevamo sulla guerra c’era trasmesso da voci “maschili”. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione “maschile” della guerra. … nelle narrazioni delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire… i racconti femminili parlano d’altro. La guerra “femminile” ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue.… E a soffrir non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi[5] .

Le intervistate sono donne che hanno prestato la loro opera nell’esercito sovietico in tutti i settori, sia sul fronte che nelle retrovie, ci sono voluti molta pazienza e molti incontri ripetuti perché le donne si liberassero del controllo maschile nelle loro interviste, controllo sia interiorizzato che esplicito da parte di mariti e compagni, che raccomandavano Racconta come ti ho insegnato. Senza lacrime e stupidaggini.

Così si va dalla autista di mezzi militari che ebbe tre corvè di punizione perché al ritorno da un’esercitazione aveva abbellito il suo fucile con un mazzo di violette, alla donna che ricorda di avere impiegato tre anni per riadattarsi alle scarpe e alle gonne, dopo aver passato tanto tempo con stivali e abbigliamento militare. 

Riporto come esempio qualche brano di interviste:    

 È notte… Sono lì per svegliarmi e mi sembra di sentire qualcuno che piange accanto a me nell’oscurità…Sono io alla guerra… Stavamo ripiegando su tutto il fronte…. Superata Smolensk una donna mi regala un suo vestito, riesco a cambiarmi. Cammino sola… tra gli uomini. All’improvviso, le mie “cose”… Sono arrivate in anticipo, senz’altro a causa dell’agitazione, del tormento dell’umiliazione. Dove trovare ciò che mi serviva? Una vergogna! Come mi vergognavo! … Mi hanno preso prigioniera. Ma prima, proprio l’ultimo giorno, ho avuto per giunta le gambe fratturate, non potevo alzarmi dal mio giaciglio e mi sporcavo sotto[6] .

Ancora

…All’improvviso si è incendiata la parte di prora… Il fuoco è corso veloce per la tolda. È esploso il deposito delle munizioni… così i soldati si sono gettati in acqua per raggiungerla a nuoto [la riva] … e dalla riva hanno cominciato a crepitare le mitragliatrici nemiche. Io sapevo nuotare bene e volevo salvare almeno un ferito… Sento che qualcuno accanto a me si dibatte, ora emerge dall’acqua, ora affonda di nuovo. Sono riuscita ad afferrarlo… Era freddo, scivoloso… Ho pensato fosse un ferito investito dallo spostamento d’aria dell’esplosione… Io stessa ero quasi svestita… avevo indosso la sola biancheria… Un buio impenetrabile…. E attorno solo gemiti e imprecazioni. In qualche modo ho raggiunto con lui la riva. … E proprio in quel momento un razzo illuminante è esploso in cielo e ho potuto rendermi conto che avevo abbracciato e portato a riva un grosso pesce ferito. Un grosso pesce della statura di un uomo. Uno storione beluga… Stava morendo. Mi sono accasciata accanto a lui maledicendo piangendo… Per gli inutili sforzi… Ma anche per quella sofferenza che accomuna tutti viventi[7]

Un’altra testimonianza

Sono arrivata fino a Berlino con le truppe…Sono rientrata al mio villaggio con due ordini della Gloria e altre medaglie. Ci ho trascorso tre giorni e il quarto, di buon’ora, mamma mi ha fatto alzare intanto che tutti dormivano. “Figliola, ti ho preparato un fagottino. Va… va. Hai due sorelle minori che stanno crescendo. Chi le vorrà sposare? Tutti sanno che sei stata al fronte per quattro anni, in mezzo agli uomini” …Ma mi risparmi tutto questo, non mi tocchi l’anima. Scriva piuttosto, come tutti gli altri delle mie onorificenze[8].

Infine

Ero un’addetta alle mitragliatrici. Ne ho ammazzati talmente tanti… Dopo la guerra per molto tempo l’idea di avere dei bambini mi spaventava. Ne ho potuto avere solo quando mi sono un po’ calmata: dopo sette anni… Ma neanche adesso ho perdonato. E non ho intenzione di perdonare niente… Mi rallegravo per come erano conciati, da far pena solo a vederli: i piedi avvolti in stracci, e la testa pure… Li facevano sfilare attraverso il villaggio e imploravano: “Madre, dammi da manciare”… e mi stupivo al vedere le contadine che uscivano delle loro casupole per tender loro chi un pezzo di pane, chi una patata… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi…E le donne piangevano…

Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile[9].

Per concludere

Sono un’insegnante di storia. Per quanto mi ricordo, il sussidiario di storia è stato riscritto tre volte. Io ho insegnato la storia ai bambini attenendomi al primo, al secondo e al terzo …Chieda a noi, finché siamo vivi. Non trascriva poi senza di noi. Continui a far domande. Sapesse com’è difficile uccidere una persona…Io lavoravo nella resistenza clandestina. Dopo sei mesi mi hanno affidato una missione: farmi assumere dai tedeschi come cameriera alla mensa ufficiali… Ero giovane, bella… Mi hanno presa. Avrei dovuto mettere del veleno nella pentola della zuppa e il giorno stesso raggiungere i partigiani. Ma mi ero ormai abituata a loro, e anche se erano nostri nemici quando li vedi ogni giorno e ti dicono Danke Shon… Danke Shon… diventa tutto più complicato… Uccidere può fare più paura che morire. Ho insegnato storia per tutta la vita …E non ho mai saputo come raccontare tutto questo. Con quali parole [10].

Léon Bakst, Eco, 1911

[1] Christa Wolf, Cassandra, Roma, e/o edizioni, 1984, p. 57.

[2] Marguerite Yourcenar, Clitennestra o del crimine, http://www.i-libri.com/opere/clitennestra-o-   del-crimine-di-m-yourcenar/

[3] Christa Wolf, Premesse, p.98.

[4] ibidem, pp.147-148.

[5] Svetlana Aleksievich, La Guerra, pp. 7-10.

[6] ibidem, pp.  28-29.

[7] ibidem, pp. 29-30.

[8] ibidem, p. 38

[9] ibidem, p. 39

[10] ibidem, p. 4