UN PO’ DI STORIA CON SOTTOFONDO DI CANZONI

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola a causa di una nefrite e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazional popolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino agli anni ‘60. Quando ci fu la cesura? Se m’identifico con il bambino di allora, fu senz’altro Nel blu dipinto di blu (1958) anche perché, oltre che al mito che ne seguì, quella canzone è per me uno scampolo assai particolare del mio vissuto. A cantarla a Sanremo, insieme a Modugno c’era Johnny Dorelli, nome d’arte e figlio di Giovanni Guidi, in arte Nino D’Aurelio, tenore nato e vivente a Meda, provincia di Milano, dove ero nato e vivevo pure io. Nino D’Aurelio, emigrato negli Usa e poi tornato al paese, era uno dei fiori all’occhiello di Meda. Lo si vedeva normalmente in giro in paese e nei bar; ora il figlio balzava alla notorietà e lo superava. Il tragico si mise di mezzo perché Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica (me lo dissero mia madre e mio padre che l’avevano ascoltata, io già allora mi tenevo a una certa distanza di sicurezza dalle cerimonie religiose sebbene fossi molto giovane, per cui andavo alla messa delle undici che durava poco e non era cantata). La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a una persona discretamente bigotta come mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco e nonostante il mio anticlericalismo, non saprei davvero dire se fu un bene o un male.

Tuttavia l’identificazione con il ragazzino di allora porta ad alcune incongruenze. Come prima di Toni Dallara è del ‘57 e fu anch’esso un testo di rottura assai importante, forse il primo e del ’58 è pure Eri piccola così di Buscaglione, il più anomalo di tutti, ma che certamente rompeva con il gusto precedente. Tua di Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la rai tv non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60.

Questi ricordi e la constatazione di alcune imprecisioni mi hanno sospinto verso altre curiosità e così ho deciso di ascoltare anche una compilation di canzoni degli anni ’50 e ’60. Il quadro si è ulteriormente modificato in due direzioni, una della quali mi ha sorpreso. Insieme alle ragioni di continuità fra le due Italie, s’è fatta strada una seconda convinzione e cioè che le canzoni del ventennio le ricordavo molto di più perché erano più belle, banalmente per questo. Della compilation degli anni ’50 e primi anni ’60 ricordavo altrettanto bene solo quelle già citate, o altre, che avevano segnato una rottura nel gusto e nell’orchestrazione, mentre molte altre erano di una tale svagata pochezza che me n’ero dimenticato, pur avendole certamente ascoltate anch’esse alla radio di mio padre. Alcune, poche, continuavano senza rotture il cliché del ventennio, ma in modo sempre più impoverito oppure con effetti sempre più stranianti, per esempio nell’impostazione della voce da parte dei cantanti.

Le canzoni non sono affatto un genere sociologicamente minore di altri; anzi, alimentando l’immaginario collettivo e quotidiano, sono ed erano allora – insieme ai fumetti e agli incipienti fotoromanzi – la cultura popolare per eccellenza. I fumetti, però, ci portavano fuori dal nostro mondo a differenza di quelli precedenti (almeno ricordando quello che mi dicevano mia madre e mio padre), e precisamente verso la lontana America; per il fotoromanzo ero troppo giovane e poi era solo per donne, impensabile che a un maschio in quegli anni venisse in mente di andarlo a scoprire. Rimanevano le canzoni e quel mondo stava in bilico fra il ventennio precedente e un rovesciamento che si concluse proprio con Buscaglione, i cantautori genovesi, Gaber e Jannacci, a metà degli anni ’60. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia. https://digilander.libero.it/AcomeChiSaiTu/saggi_borgna.html