RIFLESSIONI INTORNO AL ROMANZO DI EDOARDO ALBINATI LA SCUOLA CATTOLICA. PRIMA PARTE

Premessa

Una prima versione di questo intervento è stata letta al seminario organizzato dalla Società di Psicoanalisi Critica sul tema della menzogna nella clinica analitica. Alla relazione seguì un dibattito con Edoardo Albinati, poi le domande del pubblico. Il video dell’incontro si trova nel sito della SPC. La versione pubblicata una prima volta sulla A.Verare, è molto più ampia della relazione poiché le valenze del romanzo di Albinati sono molteplici e rileggendolo in alcune parti mi sono reso conto che vi erano aspetti del libro che erano rimasti in ombra.  Data la lunghezza della riflessione ho pensato di riproporla per parti.  

Il romanzo nel contesto della tradizione italiana.

La scuola cattolica è un caso unico nella storia recente della narrativa contemporanea italiana, sia per l’ampiezza inusuale del romanzo, sia per il modo in cui lo scrittore padroneggia, all’interno dello stesso testo, i vettori del romanzo storico, la tradizione del romanzo saggio, con punte – specialmente nel finale – da romanzo filosofico. Sono elementi che appartengono a tradizioni illustri, italiane ed europee, ma che raramente si trovano plasmati in una singola opera.

     Anche le voci narranti sono diverse e s’integrano dando vita a una polifonia cui partecipano i personaggi stessi, che entrano, escono e ritornano in scena con l’esattezza dei tempi teatrali, dando vita a un sottotesto di narrazioni laterali, mai marginali.

     Definirlo un affresco mi è parso naturale e come in tutti gli affreschi, i fili delle diverse vicende s’intrecciano in nodi assai complessi. Ci sono gli anni ’70 in Italia e prima di tutto a Roma, c’è la vita da collegio in un prestigioso istituto cattolico che sta a Roma come il Gonzaga sta a Milano, c’è un repertorio di film e di suggestioni a cavallo di più generazioni, ci sono le caratteristiche di un’educazione borghese e tante altre cose ancora. Tuttavia, il filo che conferisce unità e unicità a tale affresco e che giustifica l’uso della parola medesima, è che a narrare il nucleo centrale dell’opera e cioè l’iniziazione di un giovane maschio italiano al linguaggio, alla cultura e alla vita, è un uomo che la racconta dall’interno, partendo cioè dalla propria esperienza con impietosa severità e drammaticità, ma che in alcuni casi scivolano in situazioni grottesche e persino comiche; sulle compresenza di questi elementi in apparenza dissonanti, si gioca un altro degli aspetti qualitativi di quest’opera originale.

     Il profilo educativo scelto dall’autore non è neutro: Albinati parte da sé e dalla sua esperienza, tuttavia essa sconfina fino ad abbracciare un sostrato antropologico che appartiene al gruppo maschile qualunque sia la sua appartenenza sociale o identità culturale. L’iniziazione di cui ci parla lo scrittore travalica dunque la storicità e ci mette a contatto con il problema atavico e patriarcale della violenza maschile sulle donne, trasversale a società diverse, a diverse dominazioni classiste, a modi sociali di produzione e culture diverse.

     Albinati lo fa alternando riflessione a narrazione di esperienze, ma prima di tutto repertando, come un annalista cinese, tutti i passaggi linguistici che portano allo stereotipo sessista e discriminatorio: sono espressioni a volte volgari a volte semplicemente idiote, che s’impongono nella loro serialità ossessiva, uguale a se stessa nel tempo e nello spazio, fino alla noia. Albinati le dissemina tutte in ogni parte del romanzo, centellinandole in modo disturbante e imbarazzante, perché mette di fronte il lettore maschile all’uso comune di espressioni che tutti conoscono (anche perché sono talmente stereotipate che sono le stesse di quando andavo a scuola io in un ambiente completamente diverso da quello descritto da Albinati), che tutti bene o male hanno usato con minore o maggiore propensione misogina, ma che segnano un’identità linguistica maschile, una koiné che diventa parte costitutiva di un atteggiamento discriminatorio che finisce per diventare tanto acritico da essere accolto come naturale. Questo repertorio linguistico, che scorre come un dissonante refrain per l’intero romanzo, diviene il vocabolario che contiene un lessico che sottintende una cultura e un’antropologia inconsce. Albinati non critica le espressioni repertate, ma semplicemente le mostra e le riporta alla superficie visibile e consapevole, mettendole così a disposizione di chi legge. Delineati a grandi linee alcune caratteristiche stilistiche del romanzo, che verranno riprese anche successivamente, veniamo al contesto sociale e ambientale dell’opera.

Il san Leone Magno

La scuola cattolica di cui scrive Albinati è un prestigioso istituto religioso privato: un fiore all’occhiello che doveva formare i giovani provenienti da famiglie borghesi benestanti di tradizione cattolica, abitanti in un elegante quartiere residenziale a nord di Roma. Più che la futura classe dirigente, Albinati ci descrive un ceto medio delle professioni, con qualche punta verso l’alto. Il loro impegno sociale e religioso si esprimeva in poche e scontate cose e prima di tutto – se non esclusivamente – proprio nella scelta di quella scuola, solo maschile e in cui i docenti sono sacerdoti. Nelle prime 400 pagine, il romanzo ricostruisce puntualmente il tipo di educazione e lo stile degli educatori. Trattandosi di un collegio cattolico e pensando ad altre istituzioni totali, nonché a c­­elebri film o romanzi, scattano nella mente di chi legge dei riferimenti molteplici, letterari e non, ma ecco in arrivo la prima sorpresa. Il clima non è greve e repressivo, sebbene la repressione non manchi e non manchi neppure qualche episodio di piccola violenza fisica da parte di qualcuno che poi commetterà ben altri delitti; ma nel complesso il clima è diverso:

Non ci arrivavano. Non lo capivano. Non capivano che i loro precetti liberali ci davano il voltastomaco, concepiti com’erano per farci stare buoni. Certo, ne approfittavamo, ne approfittavamo e basta, ma li disprezzavamo manifestando questo disprezzo quasi come una sfida che loro certo vedevano con chiarezza ma erano costretti a fingere di non vedere. Fino all’ultima goccia succhiavamo il miele di un’educazione permissiva. Quel miele spremuto dalle dottrine moderne e mescolato alla tradizionale bontà. Disprezzavamo chiunque cercasse o pretendesse di “capirci.” Quelli di noi che hanno commesso dei delitti, credo che ci siano arrivati per il gusto di vedere fino a che punto potevano spingersi, continuando a essere “capiti.” Nella comprensione il coltello affonda come nel burro.

Essendo noi stessi il prodotto di quelle balle progressiste sull’educazione, sapevamo benissimo come smentirle, o meglio, eravamo noi la smentita; la prova che funzionavano al contrario. La prima generazione ad avere goduto di una quasi illimitata libertà ne ha fatto il peggiore uso possibile: che del resto è l’unico uso possibile, il più significativo perché eccezionale, estremo. La libertà pura non consiste che in questo. Ed è la sua purezza a fare paura.”1

Siamo lontani da un atteggiamento intimidatorio, abbiamo a che fare con un mix particolare, fra un cattolicesimo che, senza rinunciare ad alcuna delle sue prerogative storiche ben note, si sforza di essere a la page con i tempi: operazione quanto mai rischiosa per chiunque e quasi sempre votata al fallimento, ma specialmente per chi pensa di dover custodire una verità assoluta da millenni! Già da questo passaggio si può intuire come una drammatica ambivalenza corra lungo l’intero romanzo: il nodo di questa educazione non viene del tutto sciolto dal suo autore perché – forse – è impossibile. Tuttavia, lo specifico cattolico occupa una parte importante del romanzo. Al brano di cui sopra, infatti, accosto subito una riflessione di alcune pagine più avanti che sposta lo sguardo rispetto al precedente:

Avere come modello Gesù, è stato sempre il contrario di tutto. Forse è proprio da lui che nasce questa fissazione di volere rovesciare, …. Le gerarchie rovesciate, rovesciare i banchetti dei mercanti… E poi Gesù ha rovesciato l’ultima e unica certezza degli uomini, la morte, resuscitando Lazzaro, probabilmente la più grande ingiustizia mai commessa. Vallo a spiegarlo agli altri morti rimasti sottoterra, ai loro parenti. …. Il sacerdote che volesse seguire l’esempio di Cristo nella sua interezza, sarebbe paralizzato dal compito….2

Queste parole possono suonare irritanti per il cattolico, ma risuonano anche in chi si sente lontano da quella cultura. Anche i rivoluzionari vogliono rivoluzionare e rovesciare tutto e nel prosieguo dell’opera vedremo come questo dover essere assumerà valenze e toni tragicamente grotteschi. Nel mezzo, fra questi due sguardi, quello di chi vuole rovesciare tutto e l’altro, di un cattolicesimo che cerca di seguire i tempi, c’è un vuoto che il narratore non colmerà del tutto, ma tornerà più volte sul tema con variazioni che lo renderanno di volta in volta più complesso senza scioglierlo. Da un lato un modello quasi impossibile da raggiungere persino dai ministri del culto, dall’altro un adattamento che, durante il ‘900 e proprio nell’Italia degli anni ’70 assumerà colorazioni grottesche e persino – mi si perdoni l’ossimoro – tragicamente comiche come in questo brano dove lo sguardo viene portato sulla propensione cattolica al perdono del reo: 

Questa regola santa mi stupiva allora come adesso e va nel novero delle cose di cui riconosco la grandezza spirituale, ma è appunto questa grandezza a sgomentarmi e a irritarmi …. Mi accadrà in seguito molte volte quando vedrò uomini di chiesa così appassionati di peccatori da farli diventare i loro cocchi, quasi i loro beniamini … Pensai una volta a come vincere il Nobel per la Pace: un metodo sicuro è quello di fare il terrorista, mettere bombe e far saltare aeroplani eccetera poi a un certo punto decidere di non esserlo più e deporre le armi e appunto in questo modo diventare a tutti gli effetti un pacificatore, un uomo di pace. Le vittime non scatenano tanta passione quanto il reo redento, è ovvio.

Albinati ci mette spesso di fronte al paradosso e non so se avesse in mente qualcun altro che andasse oltre il perimetro degli anni ’70. Questo passaggio del romanzo mi ha ricordato la storia di Celeste Di Porto, di molto precedente e di certo più tragica delle tragicommedie del pentitismo brigatista, che destano pure il sospetto che certi provvedimenti favorevoli nei loro confronti fossero indirizzati a ottenere il silenzio su molte questioni spinose.3 Il modo apparentemente leggero di questo brano solleva un problema che ha percorso la storia italiana di quegli anni: la sovrapposizione fra una visione del perdono che appartiene del tutto legittimamente al pensiero cattolico e l’impunità di stato, che è altra cosa: ci ritorneremo. Tuttavia, la violenza, anche quella più cruda, fa parte a tutti gli effetti della strategia educativa, senza che questo susciti alcuna reazione:

La violenza è nel mito e nella storia. A grattare sotto la crosta degli insegnamenti che ricevevamo usciva tutta un’altra versione, un’altra religione, una morale rovesciata. Bastava andare un dito sotto o qualche pagina più in là, tra gli episodi meno raccontati, … come quando Achille sgozza un po’ di prigionieri troiani, per celebrare il funerale di Patroclo. E già, li sgozza! Mentre quelli avevano le mani legate dietro la schiena. È roba che si insegna a scuola … a ragazzini di tredici e quattordici anni, come esempi di eroismo, modelli da imitare, voglio dire sì Achille il grande Achille, un mito, un eroe! Non un criminale nazista!…4

La storia, nella letteratura; a volte fa da controcanto all’esaltazione del femminile come un mondo altro che è al tempo stesso inaccessibile perché fuori, oltre e altrove. Proprio alcune autrici contemporanee, peraltro, hanno riscritto la storia di alcuni miti, attingendo a fonti peraltro esistenti ma trascurate e dalle quali emerge una narrazione del tutto diversa: penso a Christa Woolf e a Marguerite Yourncenar in particolare. 

Famiglia, morale cattolica e morale borghese https://www.youtube.com/watch?v=k8O30wPbjHc

Alla relazione fra cultura cattolica e borghese, dentro e fuori la famiglia, il romanziere dedica molti capitoli e passaggi nel libro, alternando come sempre la riflessione al caso emblematico, alla narrazione.  

La famiglia è per eccellenza il luogo del compromesso, essendo prima di tutto un territorio di scambio tra sessi ed età diverse. Da tempo non pensabile una assoluta rigidità educativa, che però non viene quasi mai abbandonata del tutto …. I genitori talvolta sono tentati dalla controriforma, minacciano di tornare indietro di decenni anzi di secoli, ripristinando castighi, correzioni severissime eccetera. … I modelli delle epoche trascorse forniscono di membra e organi la famiglia contemporanea: una testa borghese, un cuore romantico, uno stomaco medioevale animano un corpo che cammina sulle gambe del rispetto arcaico verso i genitori. Quelle gambe spesso vacillano. …. Pp- 411-12.

La convivenza fra elementi diversi e spinte contraddittorie fra di loro ha segnato profondamente le famiglie italiane, anche perché il processo di modernizzazione capitalistica degli anni ’60, in una società ancora largamente contadina, fu impetuoso e disordinato, ma veicolò anche comportamenti che probabilmente non erano previsti sia dall’establishment cattolico e democristiano, ma neppure dalla cultura comunista: non è un mistero che la Dc fosse convinta, ancora a metà degli anni ’70 e con tutto quello che era accaduto, di vincere il referendum sul divorzio, ma la stessa cosa in campo opposto lo pensava anche parte del Pci, sostanzialmente altrettanto estraneo a quei cambiamenti culturali che furono gestiti caso per caso all’interno delle famiglie italiane e tutto sommato con grande buon senso. Il maggiore accesso alla cultura psicoanalitica, almeno a partire dal ’68 in poi, costituì un supporto prezioso, ma successivamente ai cambiamenti più tumultuosi.

Nel brano successivo, Albinati allarga di nuovo il campo della riflessione:

L’identità virtuale fra la morale borghese e quella cristiana, si spezza in questo punto. La morale borghese sembrava solo un doppione di quella cristiana, ma si rivela autonoma laddove difende con puntiglio le scelte di facciata, il fariseismo, contro l’adesione totale dell’anima che Cristo esige.  Pag 495….

E poi c’è una clausola del contrato con cui il cristianesimo si è consegnato allo spirito borghese …. che si rivela alla lunga svantaggiosa: voglio dire quel baratto in cui per conquistare il resto del mondo sulla scia delle flotte imperialiste, si perdeva l’Europa, … Bene il contratto è stato onorato, l’Europa perduta,… prova ne è che i suoi legislatori hanno vergogna a nominare il cristianesimo nei suoi principi ispiratori: la Grecia sì, i Romani sì, gli illuministi pure, ma Cristo che per primo ha detto che tutti gli uomini sono uguali, no. Pag. 514.

In effetti, c’è qualcosa di paradossale nella determinazione con cui i legislatori europei hanno escluso qualsiasi accenno al Cristianesimo nei principi costitutivi della comunità. Paradossale, tuttavia, non vuol dire ingiustificato, ma che, forse, sono le motivazioni reali che vanno cercate. Albinati solleva a mio avviso questo problema: perché l’Europa può essere tutto fuorché il richiamo al Cristianesimo? La motivazione non è chiara perché alle sue spalle ci sono sensi di colpa, non detti e in definitiva non dicibili. Come è possibile accennare a una religione della fratellanza e all’eguaglianza dopo le imprese imperialiste e due guerre mondiali in cui i popoli cristiani si sono scannati fra loro? Meglio tacere, ma nel silenzio opera la rimozione. La storia dell’Europa è quella che è e cinquant’anni e più di pace, sbandierata a sproposito (il Congresso di Vienna del 1815 garantì un periodo di pace ancor più lungo e poi la Jugoslavia non fa parte dell’Europa? Ci siamo già dimenticati di Srebrenica e di Serajevo?) è una coperta tropo corta per coprire tutto il resto; per non parlare dei rischi di implosione dell’Unione europea.   

E veniamo alla famiglia borghese, di cui tratta questo libro: contestata sul piano ideologico e svuotata sul piano pratico, allargata, decimata sul piano demografico, privata delle sue canoniche appendici (servitù), villeggiature, frequentazioni del parentado, cerimonie di iniziazione). Certo che a prima vista sembra il luogo della conservazione piuttosto che quello del rinnovamento. Basti pensare alla implacabile monotonia su cui si incardinano le consuetudini domestiche… polpettone e zucchine ripiene …  la pasta ripassata  … 416

Possono cambiare gli ingredienti ma penso che ciascuno possa stilare la propria lista. Poi la conclusione lapidaria:

L’unica cosa da cui la famiglia non può proteggere è da se stessa. Quando al suo interno è il non – famigliare a manifestarsi. 417-

FINE DELLA PRIMA PARTE


1 Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli editore, Milano 2016 pag.

2 Op.cit. pag. 32.

3 Op.cit. Pag.65. Celeste di Porto, una giovane donna di origine ebraiche, abitante del ghetto di Roma, fu amica e forse amante del gerarca fascista Antonelli. Tale relazione la salvò ma ne fece pure una delatrice, tanto che ebbe un ruolo tragico nel rastrellamento del ghetto. Nel dopoguerra fu sottoposta a diversi processi, finché non decise di convertirsi al cattolicesimo, dichiarando addirittura che avrebbe preso i voti e si sarebbe di ritirata in convento. Tale proposito non ebbe seguito, ma la conversione pose termine ai suoi guai giudiziari.

4 Op.cit pp. 403-4