CORMAC McCARTHY: LA STRADA. Seconda Parte

Il romanzo di McCarthy si presenta dalle primissime pagine segnato dall’asimmetria fra tempo e spazio: il primo è azzerato nel senso che il futuro sembra non esistere più e il mondo vive in un eterno presente, mentre i luoghi e gli oggetti, sono riconoscibili e fanno già parte del nostro quotidiano, seppure in una forma solo un po’ più degradata rispetto alla realtà:

Nel giro di due giorni arrivarono in una regione dove le tempeste di fuoco si erano lasciate alle spalle chilometri e chilometri di terra bruciata. Sulla strada una crosta di cenere spessa diversi centimetri e difficile da affrontare con il carrello. L’asfalto sottostante aveva ceduto per il calore e poi si era risolidificato … Gli esili alberi caduti. La fanghiglia grigia dei canali. 7

I due protagonisti, un padre e un figlio, sono in fuga verso sud ovest – e quindi la California – perché in riva all’Oceano sperano che la vita sia più clemente. C’è di nuovo la frontiera, dunque; ma dall’epopea della conquista, passando per la Grande Depressione immortalata da Steinbeck in Furore e nelle poesie di Karine Hesse, si è giunti al tempo presente azzerato.

In che rapporto si pone questo romanzo con il genere della distopia, di cui la letteratura anglo-statunitense ci ha dato nei secoli scorsi molti e celeberrimi esempi? Confrontiamo il brano precedente con quello che segue, tratto da un racconto di Ballard dal titolo Le voci del tempo:

Raggruppate a semicerchio a breve distanza gran parte delle vasche e delle gabbie accatastate l’una sull’altra alla rinfusa. In una di esse un’enorme pianta simile a un polipo era quasi riuscita ad arrampicarsi fuori dal terrario … il suo corpo era esploso in una pozza gelatinosa di mucillagine globulare. In un’altra un gigantesco ragno  rimasto intrappolato nella propria tela penzolava impotente … Tutte le piante e gli animali del laboratorio erano morti.8

Le affinità indubbiamente esistono; entrambi gli scenari sono inquietanti e hanno aspetti apocalittici, ma nel secondo caso, alcune parole chiave, il tono della descrizione e le dimensioni abnormi degli animali, ci fanno individuare subito il genere di appartenenza, così che il lettore viene subito portato dentro un mondo artificiale e futuribile, anche se nel caso di Ballard come di Philip Dick, il genere diventa allegoria. Il racconto in questione risale a un’epoca compresa fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso e immagina un futuro di dominio della tecnologia, fatto di città futuribili, più o meno abnormi e mostruose, esperimenti pericolosi come quello cui si allude in questo brano.9

Per quanto inquietanti, le opere distopiche, lette a distanza di anni, rivelano tutta l’ambivalenza di chi si sente al tempo stesso affascinato e impaurito dalla società futuribile che descrive, mettendo in atto anche espedienti narrativi che colludono con la realtà descritta. Con La strada non siamo più nella fantascienza e neppure nella distopia per il semplice fatto che non c’è più il futuro e cioè la proiezione temporale verso cui tutte le opere di genere si protendono: uno dei temi sottesi a La strada è proprio come continuare a vivere e questa è una prima risonanza che il romanzo intrattiene con il libro di Ciccarelli, che si pone, fra gli altri, anche questo interrogativo: come vivere da postumi?

Il romanzo è l’esito coerente del percorso del suo autore: tutti gli elementi forti costituivi della sua narrativa e del rigore stilistico vengono tesi al massimo; ma è proprio questo che getta una luce diversa sull’intera opera dallo scrittore. Non nella semplice rivisitazione del mito statunitense e bianco delle origini va cercata la sua forza, ma nel fare della conquista del West la metafora della possibile fine della specie umana. Nel rappresentare questo, tuttavia, McCarthy porta anche alle estreme conseguenze il telos implicito che era contenuto in altre opere che per tutto il secolo scorso hanno ipotizzato, con la loro visionarietà, gli esiti catastrofici che qui vediamo rappresentati; ma quella era fiction e solo fiction. Sarà difficile per tutti (e dunque anche per lui) scrivere opere catastrofiche dopo questo romanzo e proprio nel finale lo scrittore allude al necessario superamento della sua stessa narrativa.  

L’orizzonte delle grandi distopie novecentesche è sempre il futuro (meglio ancora il futuribile), anche quando il tempo narrativo scelto è il passato remoto.

L’arte naturalmente è sempre finzione, ma secondo una nota definizione che mi permetto di parafrasare, c’è differenza fra una finzione che dice la verità e una che invece reitera la finzione stessa con una sequenza d’effetti speciali, il cui unico scopo è quello d’intrattenere. Naturalmente si può obiettare che tracciare una linea netta fra le due finzioni è difficile se non impossibile; tuttavia è possibile stabilire delle analogie, perché penso che ciascuno, intuitivamente, possa comprendere tale differenza, se posto di fronte a  un esempio concreto.10

La finzione minima di cui si serve McCarthy è quella di dare per scontato che la catastrofe sia già avvenuta, senza spiegarne assolutamente i motivi: non vi è nulla nel romanzo, infatti, che ci possa fornire una qualche indicazione al proposito. La perentorietà dell’inizio (le prime due o tre pagine), che forniscono la chiave e danno il tono dell’intero romanzo, sono sufficienti a testimoniarlo. Lo stile di McCarthy ricorda il concetto di straniamento che spinge chi legge a identificarsi con la situazione drammatica nel quale i protagonisti sono coinvolti, piuttosto che con l’eroe, della cui esistenza si sono perse le tracce anche se rientrerà in scena nel finale nei modi che vedremo. L’identificazione è piuttosto con la nuda vita, con la necessità di una cura rivolta alle cose minime di cui è fatta una vita postuma; oppure con una speranza che è rivolta a una gratuità senza limiti, ma anche senza scopi. Kafka, almeno nella lettura che ne dà Walter Benjamin, era arrivato alle medesime conclusioni decenni prima. Per chiarire questo punto rimando alle conclusioni.  

Una secondo elemento, combinato con questo, crea nel lettore, la sensazione di trovarsi dentro la vicenda e non proiettato in chissà quale tempo a venire. Consideriamo per esempio questo passaggio:

La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti. … Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava e cielo. Nel tardo pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve bagnata che sibilava contro la plastica.”11

Il lessico comune, la sobria aggettivazione, la semplicità e brevità dei periodi, talvolta senza alcun verbo, ma semplicemente descrittivi (Mucchi di rifiuti indistinti) danno alla frase maccartiana un forte impatto comunicativo. Se isoliamo ciascuno dei periodi, come se fossero le inquadrature di una lenta sequenza girata in piano medio o americano, possiamo facilmente riconoscere in ciascuna di esse, scenari che abbiamo modo di osservare quotidianamente: è il loro lento accumulo che diviene inquietante perché sedimenta in chi legge un mosaico che assomiglia molto al mondo in cui già viviamo, ma ce lo fa percepire solo un po’ più grigio e uniformato alle sue punte più estreme di dissesto, ma che alla fine ci commuove perché riconosciamo in esso un mondo che stiamo lentamente perdendo e non un futuro indefinito.

Anche i protagonisti che abitano questo mondo, a cominciare dai due più importanti e cioè il padre e il figlio, si trovano immersi in una socialità terminale, dove sono poche le azioni razionali che si possono compiere: incombe la necessità della sopravvivenza insieme a quella della difesa. In questo mondo ridotto all’osso si dispiega la vicenda straziante e tragica del viaggio dei due, fino alla sua conclusione. Il cammino intrapreso porta in direzione della California, cioè del sud e dell’ovest, dove era terminata la conquista e da dove prese inizio anche la narrativa di McCarthy. A differenza del mito e persino dei viaggi verso la California durante la Grande Depressione, non vi è scelta possibile né una vera prospettiva di rinascita: devono andare verso l’Oceano nella speranza che il clima sia più mite, perché dove si trovano ora la sopravvivenza è a termine e per il padre sarà proprio così: quando l’oceano si profila all’orizzonte egli muore e il bambino rimane solo. Sembra la conclusione di tutto, la fine di tutte le fini; invece la sua morte apre uno scenario nuovo.

Un finale aperto

Il finale del romanzo è idealmente diviso in due parti: nella prima viene portato a compimento fino alla dissoluzione la figura dell’eroe nella sua versione cristiana e sincretica, che racchiude in sé anche il precedente greco e classico. Quanto più ci avviciniamo all’epilogo infatti, tanto più il lettore capisce che i due personaggi principali del libro assumono sempre più una dimensione allegorica, pur conservando tratti realistici: sarà sufficiente ricordare che il figlio veglierà la salma del padre morto per tre giorni. L’eroe morto è dunque Gesù Cristo e non il Dio vetero testamentario. Che padre è quello che vediamo in scena? Protegge sì il figlio, ma lo fa diffidando di tutto e di tutti e quindi consegnandolo a un destino di autistica asocialità. Egli non rappresenta un modello alternativo, una legge con cui identificarsi in modo positivo; di fronte del pericolo estremo l’unica cosa che sa fare è indicare al figlio la strada del suicidio, gli consegna sempre la sua pistola e gli insegna a usarla o a farla finita cioè a compiere un sacrificio divenuto nel frattempo del tutto inutile perché non vi è per questa strada alcuna redenzione possibile per l’umanità intera, come nel mito cristiano avviene tramite il sacrificio sulla croce. Tuttavia, proprio ripensando al romanzo dal suo inizio e agli altri, appare sempre più evidente una vistosa assenza: la madre, la donna, senza la quale non esiste la sacra famiglia. In un breve passaggio del romanzo la figura femminile era comparsa, ma in una sorta di teatrino. Davanti alla catastrofe l’uomo e marito della donna avevano reagito in modo diverso: i due si erano lasciati e il bambino aveva seguito il padre nella sua fuga verso il sud ovest.   

Parlare di presenza del femminile nei romanzi di McCarthy, assume un connotato amaramente ironico, trattandosi in sostanza di un’assenza che risponde rigorosamente a una ferrea logica narrativa e non solo. Le donne, nella narrativa di McCarthy, semplicemente non esistono, la società post catastrofe è sia quella del padre vetero testamentario sia quella del figlio che avrebbe dovuto sostituirlo, mentre il bambino che sopravvie al padre morto non è affatto una nuova perpetuazione del ciclo, come vedremo da una battuta successiva. Nei romanzi precedenti di McCarthy tutto questo era accennato per allusioni o filtrato attraverso personaggi femminili irrilevanti o ridotti a mostri androgini. Nell’epilogo de La strada, invece, il femminile compare e si tratta di una donna solare, aperta, seppure tratteggiata in poche righe. Non è sola è insieme a un uomo, entrambi si rivolgono separatamente, al bambino e sembrano accendere un primo lume nelle tenebre in cui è avvolta tutta la vicenda. L’uomo, ferito e armato, rassicura il bambino. La donna si prenderà cura di lui dopo che ha salutato per l’ultima volta il padre morto; lo abbraccerà e gli parlerà di dio, aggiunge il narratore. Il bambino però non si fida e rivolge a entrambi separatamente una domanda perentoria e che chiarisce il perché della comparsa di questi due personaggi:

Ma voi non mangiate la gente? No, noi non mangiamo la gente  rispondono entrambi. 12

Allora il bambino si fida e segue la donna, mentre l’uomo si allontana. La sacra famiglia non esiste più, i due che compaiono alla fine svolgono la stessa funzione degli aiutanti nelle fiabe ma anche nelle opere di Kafka. Alla fine della società del padre e del figlio non c’è alcuna Città di Dio che scende in terra e neppure la ricomposizione della sacra famiglia, ma il cannibalismo, cioè quello stato di natura che due illustri filosofi videro in modo seppure divergente alle origini dell’umanità – Hobbes e Rousseau – come le due facce di una medaglia senza alcun valore e ampiamente contraddetta dagli studi antropologici più recenti. 13

Lei s’allontana con il bambino lui va in armi da un’altra parte e sarà lei a parlare al bambino di Dio, cioè della storia precedente che tuttavia è finita. I tre sopravvivono da postumi e il loro destino non lo conosciamo, ma sappiamo comunque che è un destino postumo rispetto a una storia precedente conclusa, che peraltro ripete coattivamente il solito paradigma patriarcale che ha portato alla catastrofe: l’uomo in armi difende la donna il bambino. Il romanzo però non finisce qui, ma poche righe più avanti eppure assai decisive.


7 Cormac McCarthy, La strada, traduzione di Martina Testa, Einaudi Torino 2007,  pag. 145.

8 Il racconto in questione è contenuto nella raccolta: J:G:Ballard, Tutti i racconti 1956-1962, traduzione di Roldano Romanelli, introduzione di Ballard e postfazione di Antonio Caronia, Collezione Immaginario, Fanucci editore Roma 2003. Pag. 291.

9 Ballard, in ogni caso, è l’autore che più si avvicina a McCarthy, specialmente in  Il mondo sommerso, anche perché si sforza di coniugare una scrittura apocalittica alle teorie scientifiche che si occupano di ambiente. Per esempio, nel testo citato arriva a ipotizzare lo scioglimento delle calotte polari, cioè un fenomeno che fa già parte della nostra attualità, seppure non ancora in dimensioni catastrofiche.

10 Uno, antichissimo, di finzione che dice la verità è quello cui ricorre Omero nell’Odissea, quando Ulisse giunge alla corte di Alcinoo. Con la consueta astuzia, l’eroe rintuzza le indagini del re con risposte che eludono tutte le sue domande, ma proprio per questo generano in Alcinoo sospetto e irritazione. L’ospitalità è sacra, ma egli medita di scardinare le difese di Ulisse e una sera inscena un vero colpo di teatro. All’ennesima cena in onore del suo ospite, il re invita anche Demòdoco, un vecchio cantore cieco (come lo stesso Omero secondo la leggenda) che talvolta intrattiene la corte raccontando le storie dei greci. Ulisse, convinto in questo modo di perpetuare ancor meglio il proprio mimetismo, invita il cantore a raccontare la storia dell’assedio di Troia. Quando si arriva all’inganno del cavallo, però, posto di fronte non alla realtà dei suoi atti, ma alla finzione teatrale della loro messa in scena, Ulisse scoppia in un pianto dirotto e rivela d’essere colui che ha provocato quei lutti. Ecco qui all’opera un mirabile esempio di come la finzione possa avere un valore catartico e quindi di metamorfosi e verità. Infatti, dopo quel pianto Ulisse troverà la via spianata per il ritorno a Itaca: i venti che tante volte gli erano stati ostili lo guideranno verso casa; forse però non si tratta soltanto delle inclemenze del mare, ma delle sue tempeste interiori che finalmente si sono placate

11 Cormac McCarthty, La strada pag. 36

12 Op.cit.pag.216.

13 Mi riferisco in particolare a due libri: L’alba di tutto scritto a quattro mani da David Wengrow e David Graeber e Il debito  gli  ultimi 5000 anni di David Graeber.