INTERVISTA A VINCENZO CONSOLO

A cura di Franco Romanò

Premessa

Questa intervista fu pubblicata sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti nel 2008: ad essa seguirono altri incontro pubblici cui partecipò lo stesso Consolo allo Spazio Coop di via Arona. La ripropongo oggi nel blog per la sua ricchezza e attualità, con due precisazioni. Nella mia introduzione di allora notavo che molti dei suoi libri erano introvabili: per fortuna oggi la situazione è cambiata e questa è una buona notizia. La seconda precisazione. Nella parte finale, pur senza citarlo Consolo mette in evidenza i cambiamenti negativi indotti dal governo Berlusconi. Nel contesto di allora la sua frase era chiarissima, oggi è forse bene ricordarlo in modo esplicito.

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Mi accingo a incontrare Vincenzo Consolo con due pensieri in testa: prima di tutto che i suoi libri sono quasi introvabili, a parte quello d’esordio – La ferita dell’aprile – ristampato di recente da Mondatori. Per fortuna li avevo quasi tutti, e per qualcuno sono ricorso ad amici, ma mi sembra un cattivo segno dei tempi che si faccia fatica a trovare in libreria un autore che ha dato così tanto alla narrativa italiana. Il secondo pensiero riguarda la lingua. Nel prepararmi a intervistarlo mi sono ricordato di un saggio che T.S.Eliot dedicò in anni lontani alla poesia di Marianne Moore: in esso il grande poeta anglo statunitense afferma, fra l’altro (ricordo a memoria), che un poeta va prima di tutto valutato rispetto a quello che ha dato alla lingua d’appartenenza. Penso che questo sia estendibile anche ai narratori e nel caso di Vincenzo Consolo il giudizio di Eliot è quanto mai calzante e di bruciante attualità. Il poeta, infatti, avvertiva già in quegli anni lontani, che l’inglese correva il pericolo di un impoverimento dovuto alla sua estensione planetaria come lingua veicolare, sottoposta quindi a un processo di semplificazione e di impoverimento. Per ragioni diverse anche le altre lingue – e quella italiana in particolare – sono oggi minacciate (sebbene da altri e ben più distruttivi fattori) e questo sarà proprio uno dei temi dell’intervista.

Lo scrittore mi riceve nella sua bella casa milanese; l’ampio salone è pieno di libri e al tempo stesso molto luminoso, due caratteristiche che non sempre vanno a braccetto quando si entra nello studio di un artista della parola; chissà che la solarità della sua terra non abbia a che fare con questo! Entriamo subito in argomento e gli ricordo una frase contenuta in Fuga dall’Etna:

Franco Romanò:

Vorrei partire da questa sua affermazione: “Mi sono sempre sforzato, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna il Carr, credo nel romanzo storico ideologico,… cioè nel romanzo critico.” È una dichiarazione del ’93: ha qualcosa da aggiungere, o da modificare, a tale affermazione?

Vincenzo Consolo:

No, sono convinto di questa mia idea del romanzo storico metaforico, critico e nel momento stesso anche ideologico. Quanto alla parola romanzo, però, credo che oggi questo genere letterario non si possa più praticare; io parlo di narrazione piuttosto. Credo che il romanzo d’intreccio, oggi, non sia più possibile perché una volta l’autore aveva presente qual era il suo interlocutore. Si facevano persino delle indagini e si chiedeva agli scrittori a quale tipo di lettore pensavano. Una volta Calvino rispose alla domanda dicendo che pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui ed era assai difficile saperla più lunga di Calvino! Comunque c’era un lettore cui lo scrittore poteva pensare. Oggi in questa nostra società non è possibile pensare a un lettore e allora occorre spostarsi verso la narrazione…

FR:

E come si potrebbe definire la narrazione?

VC:

La narrazione scaturisce da qualcuno che ha fatto un’esperienza, ritorna e la racconta, come ha scritto Walter Benjamin in Angelus Novus. Il fatto di raccontare, di narrare, lo porta a un ritmo che sposta la prosa verso la forma poetica. È quello che ho cercato di fare nei miei libri, dove non c’è mai l’arresto, la riflessione, l’irruzione di quello che si chiama spirito socratico e cioè la filosofia, come era nella tragedia moderna di Euripide. Oggi questo non è possibile perché l’autore non sa più a chi rivolgersi. Io dico sempre che la cavea è vuota. Sulla scena non arriva più l’anghelos, il messaggero, che raccontava al pubblico presente ciò che era successo in un altro luogo e in un altro tempo. Così aveva inizio la tragedia. L’anghelos per me è lo scrittore che non può più apparire sulla scena e la narrazione è relegata al coro, che commenta e lamenta ciò che è avvenuto. Sono quindi per la narrazione e non più per il romanzo, tutti i miei libri di narrativa sono contrassegnati da questa prosa ritmica, a volte con il ricorso spesso alla rima e all’assonanza; questo è stato notato da diversi critici.

FR:

Andare verso la prosa lirica e la narrazione non è forse andare anche verso l’oralità, verso un senso arcaico della narrazione?

VC:

Sì, è anche tipico del mondo mediterraneo. Ce lo hanno insegnato gli aedi, Omero o chi è stato identificato come tale. Fra l’altro gli aedi erano ciechi perché avevano lo sguardo interno. Òmeros, in greco antico, significa ostaggio e ci si domanda ostaggio di chi? Io credo ostaggio della memoria, perché c’era la tradizione del racconto orale. In questo nostro tempo la memoria è minacciata dai mezzi di comunicazione di massa, dal potere economico e politico. L’interesse di questi poteri è di farci vivere in un infinito presente, per cui non sappiamo più da dove veniamo e non riusciamo a immaginare dove vogliamo andare. Quindi io credo che oggi più che mai il poeta, lo scrittore debbano conservare la memoria per cercare di salvarla. Sembra uno sguardo all’indietro ma credo che sia necessario essere ostaggi della memoria e perciò pratico il romanzo storico metaforico. Ho immaginato la trilogia a partire dal 1860 fino ai giorni nostri, ma la metafora era sul tempo storico che stavamo vivendo.

FR:

Quest’idea di romanzo si è affermata subito in lei o si è modificata nel tempo? Nel romanzo d’esordio La ferita dell’aprile, prevale ancora una narrazione più realistica. Gli stessi eventi storici entrano nel libro in modo diverso da come accadrà per esempio nel romanzo successivo Il sorriso dell’ignoto marinaio, che ha pure una forte carattere visionario.

VC:

Sì la visionarietà è una forma di fantasia…

FR:

Qualcuno ha parlato anche di incrocio fra memoria e profezia.

VC:

Sì. Per quanto riguarda il romanzo d’esordio, naturalmente era un libro di ricordi, il tono era ironico e talvolta sarcastico, era una ribellione ai padri e a tutto ciò in cui loro avevano mancato; ma dal primo, uscito nel ’63, al secondo sono passati tredici anni. Il mio silenzio era dovuto al fatto che stavo riflettendo su quella prima esperienza di restituzione dei ricordi personali e anche su quello che sarebbe stato il mio futuro letterario. A cavallo degli anni ’60 Pasolini ci disse cos’era successo in Italia, io avevo studiato molto e quindi ho intrapreso la strada del romanzo storico metaforico dopo la restituzione dei miei ricordi di adolescenza.

FR:

Lei è uno scrittore che ha dato molto alla lingua italiana. Cosa ci può dire su questo, specialmente sulla mescolanza fra l’italiano e i dialetti; cosa questa che mi è sempre apparsa molto interessante.

VC:

Sì, le dicevo che in quegli anni di silenzio avevo riflettuto molto sul momento storico che stavamo vivendo e anche sulla trasformazione della società italiana, quella che Pasolini chiamava la mutazione antropologica, che era anche e soprattutto una mutazione linguistica. La lingua italiana stava diventando orizzontale e anch’io ho sentito l’assillo che hanno tutti gli scrittori da Dante in poi… È sempre l’assillo delle lingua. Anch’io mi sono domandato in quale lingua scrivevo e ritornando in Sicilia con la mia memoria ho capito che lì – un po’ in tutta Italia, ma in Sicilia soprattutto perché c’è stata una stratificazione di civilizzazioni (io non le chiamo dominazioni) – c’erano dei giacimenti linguistici importanti. Ho pensato che andasse recuperata anche la memoria linguistica e quindi anche dei vocaboli che esistono nel dialetto siciliano, ma senza scadere nella regressione dialettale, secondo l’esempio che ci avevano dato il plurilinguismo gaddiano, oppure il romanesco pasoliniano. Io ho pensato che andassero recuperati vocaboli provenienti dall’arabo, dal greco dallo spagnolo e di italianizzarli, farli emergere ma innestandoli sempre nella lingua centrale. Oltre che della mia memoria linguistica mi sono servito dei vocabolari siciliani dei termini arabi nel dialetto siciliano. C’è per esempio un dizionario prezioso di padre Gabriele da Aleppo, sulle parole arabe presenti nel dialetto siciliano. Proprio per un’esigenza di memoria e anche di memoria linguistica, dal momento che questa nostra lingua, a causa della mutazione antropologica, stava perdendo purtroppo quella che Leopardi chiamava l’infinito che aveva in sé. Ecco io credo che sia un dovere dello scrittore, del poeta di recuperare anche la memoria linguistica.

FR:

Infatti leggere un romanzo come Retablo, per esempio, è anche un po’ immergersi in una storia della lingua. Sempre a questo proposito cosa ne pensa dei manifesti in difesa della lingua che periodicamente sono stilati?

VC:

Il manifesto serve come allarme, ma è un po’ una lotta con i mulini a vento. Questa nostra lingua è stata distrutta dai mass media; inoltre l’italiano, diversamente dal francese o dallo spagnolo che hanno dei bacini di parlanti molto vasti, è parlato solo in questa nostra stretta penisola. Siamo invasi continuamente dall’americanismo. Credo che lo scrittore abbia il dovere, al di là dei manifesti, di difendere questa nostra memoria linguistica e sapere cosa ci sta dietro. Una cosa che cerco di fare è anche operare una scrittura palinsestica – così la chiamo – e cioè una scrittura su altre scritture. Nella mia scrittura ci sono sempre citazioni e recuperi di altri scrittori o poeti, a volte più esplicite a volte meno.

Mi ricordo, a questo proposito, la polemica fra Leopardi e Niccolò Tommaseo – che non amava Leopardi – e definì la sua poesia un palinsesto mal cancellato. Il povero Leopardi si offese terribilmente e scrisse un saggio contro Tommaseo; ma la scrittura deve essere palinsestisca!

FR:

Rimanendo alla lingua, anche per lei si può parlare di plurilinguismo…

VC:

Sì qualcuno ha parlato, nel mio caso, anche di plurivocità, nel senso che riporto nella narrazione anche altre lingue. In Sicilia, per esempio, ci sono sette isole linguistiche. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ne riporto una che ancora esiste: il gallo italico o medio latino. Si tratta di una lingua che hanno portato i Normanni con le truppe mercenarie raccolte nella pianura padana: finita la riconquista, come accade agli immigrati, si sono chiusi nella loro comunità e hanno conservato la lingua. Ne parla anche Vittorini in Conversazione in Sicilia, precisamente del gran lumbardo che parlava con la ü francese. Nel finale del libro (Il sorriso dell’ignoto marinaio, ndr.) quando riporto le scritte sul muro dei carcerati, quelli sono esempi nella lingua gallo italica.

FR:
Un programma linguistico più dantesco che manzoniano…

VC:

Certo, certo. Dante parla delle due lingue: quella di primo grado che impariamo in casa e la seconda che lui definisce grammaticale. Lui dice però con un bel ossimoro che la più nobile è la lingua volgare, che era nata in Sicilia.

FR:

Retablo Mi porta a un’altra considerazione. In alcuni momenti mi ha ricordato Fiori blu di Queneau, con una differenza fondamentale però: la qualità pittorica del testo, assente invece in Queneau. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, i protagonisti sono tanti, ma anche in quel caso si parte da Antonello da Messina e dal suo quadro. Ecco, cosa rappresenta per lei la pittura?

VC:

Per me è un’esigenza di equilibrio fra svolgimento nel tempo e lo spazio. Per me la parola, come la musica, si svolge nel tempo, quindi ho bisogno di riferimenti iconografici e pittorici per equilibrare il tempo e lo spazio. Per me l’ispirazione della pittura è costante: a volte esplicita come è nei due romanzi che lei ha ricordato, a volte nascosta. C’è Guttuso e finanche pittori moderni come Ruggero Savinio, il figlio di Alberto. In Nottetempo, casa per casa, c’è tutto un brano in cui io leggo la pittura di Savinio in forma lirica. Sono delle figure che emergono dalle profondità delle spazio, come affreschi appena dissepolti. Mi interessano finanche pittori contemporanei; per esempio, uno che mi ha ispirato un’immagine è Mario Merz. Una volta vidi un quadro proprio in casa editrice Einaudi di cui ero collaboratore: in un suo quadro veniva raffigurata una lumaca che disegnava un tracciato che era una spirale e da lì sono partito.”Vidi una volta una lumaca…”

FR:

Milano e Palermo, Sicilia e Lombardia. C’è una continua tensione fra queste polarità e la sensazione che siano come due patrie dalle quali però lei si sente sempre anche un po’ esule.

VC:

Sì è proprio così, anzi più che esiliato mi sento estraneo negli anni. Ho fatto i miei studi a Milano e poi sono tornato in Sicilia perché avevo già concepito l’idea di diventare scrittore, dopo aver fatto il servizio militare. Avevo una laurea in legge, ma mi sono rifiutato di fare l’avvocato e ho insegnato diritto ed educazione civica nelle scuole agrarie. Ho insegnato per cinque anni e poi, riflettendo, ho pensato che quei ragazzi che si sarebbero diplomati in agraria sarebbero stati costretti a emigrare come i loro padri. Le racconto un episodio che non posso più dimenticare. Insegnavo nei monti Nebrodi, a Mistretta e Caronìa, che era poi l’antica Calacte… Mi colpì a Caronìa il numero di suicidi di donne che si era verificato in questo piccolo paese. Erano donne il cui marito era emigrato: la solitudine, lo sconforto le aveva portate a quel gesto. Riflettendo sulla loro vicenda anche la scuola mi sembrò una finzione. Consigliai molti di andare nelle scuole alberghiere, dove almeno avevano uno sbocco e non erano costretti a emigrare; alcuni l’hanno fatto. Poi però dopo cinque anni sono stato io a fare le valigie e a emigrare. Mi consigliai con due persone: Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Quando ero libero andavo a Caltanissetta a trovare Sciascia e stavo lì dei giorni. Con Piccolo, invece, l’accordo era che andavo a trovarlo tre volte la settimana. Per me sono stati due riferimenti importanti. Ho anche fatto in modo di farli incontrare perché entrambi mi dicevano sempre di salutare l’altro. Sciascia una volta ha dichiarato che le due persone che più l’avevano colpito, fra le molte incontrate, erano Borges e Lucio Piccolo. Piccolo aveva una cultura sterminata. Mi diceva venga venga Consolo, che facciamo conversazione: la conversazione era che parlava sempre lui e io ascoltavo.

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Ho imparato molto. Insomma mi consigliai con loro e Piccolo mi disse no, no, non vada via perché quando si è lontani dai centri si ha più fascino. Lui parlava da barone che viveva isolato nella sua villa di campagna. Sciascia invece mi disse che se fosse stato giovane come me e non avesse avuto la famiglia, se ne sarebbe andato anche lui perché – mi disse – “qui non c’è più speranza.” Per me l’unica città possibile era Milano, ma quando tornai non la riconoscevo più. C’era stato il miracolo economico e ora c’era il ’68 e quindi molti fermenti. Si parva licet, ho avuto nei confronti di Milano lo stesso atteggiamento che ebbe Verga quando si trovò a Milano nel 1872, nel momento della prima rivoluzione industriale. Verga rimase spiazzato perché era un mondo che non conosceva e di cui gli mancava memoria e lingua. Però da quell’esperienza nacque la grande conversione verghiana. Anch’io rimasi spiazzato e quindi ho riflettuto su questa realtà milanese e su quello che stava accadendo. Da tutto questo nacque Il sorriso dell’ignoto marinaio, a tredici anni dal primo libro. Non sono tornato fisicamente in Sicilia come Verga, ma con la memoria sì.

FR:

Il Risorgimento è molto presente nei suoi libri e anche nelle opere di molti scrittori siciliani. Mi ha colpito molto il bassissimo profilo delle commemorazioni garibaldine.

VC:

C’è questa regressione verso i localismi e l’individualismo. Le racconto un episodio successo a Capo d’Orlando. Durante una manifestazione pubblica il sindaco ha fatto togliere da una piazzetta del paese la targa con il nome di Garibaldi, intitolandola poi al 4 di luglio. La data si riferisce a una battaglia navale che ci fu nelle acque di Capo d’Orlando fra arabi e normanni. L’anti italianismo è ormai dilagante. Il signor Lombardo, attuale Presidente della Regione Sicilia, ha chiamato Autonomia siciliana il suo movimento; ma la Sicilia è già una regione autonoma, lui intendeva un’altra autonomia e infatti ha fatto riferimento anche alla Lumbardia di Bossi. Siamo alla regressione, alla stupidità e all’ignoranza. Non capire cosa è stato questo evento memorabile che fu l’unificazione d’Italia, per cui morirono eroi e persone degnissime è molto grave. Garibaldi riuscì davvero a compiere il miracolo di unire questo paese campanilistico; che era poi il sogno dei grandi italiani da Virgilio a Dante a Machiavelli. Questa regressione localistica è tipica dei momenti bui della storia. Il Risorgimento aveva acceso molte speranza. Garibaldi era un socialista mazziniano, poi capì che l’unità era più importante, ma comprese che le cose non erano andate secondo le speranze e lui prese la via dell’esilio. Da quello scaturirono anche le rivolte, le vendette nei confronti di quelli che erano stati gli oppressori, i famosi gattopardi, i proprietari terrieri… La prima rivolta fu quella di Alcara di cui parlo nel mio romanzo. Non lo dico nel libro ma risulta che dopo avere domato la ribellione di Alcara gli emissari si spostarono a Bronte.

FR:

Infatti gli episodi sono molto simili.

VC:

Sì, sì, tutta la letteratura siciliana poi ha affrontato questo tema perché è un nodo cruciale. Da Verga a De Roberto. Con I vicerè De Roberto ci ha fatto capire cosa sia il trasformismo, fino a Pirandello e al nostro Lampedusa. Tutti hanno affrontato questo momento importante della storia nazionale .

FR:

Sciascia è stato per lei un punto di riferimento, ma nella sua narrativa e anche nella sua prosa, che non è mai del tutto disgiunta dalla narrazione, io trovo un riferimento anche alla tradizione europea del romanzo saggio e non solo a Sciascia.

VC:
Sì, il romanzo saggio; forse questo c’è di più in L’olivo e l’olivastro, la cui matrice, tuttavia, si trova nel nostos, il viaggio di ritorno, che è assolutamente antico. Colui che l’ha riproposto e insegnato di nuovo è stato Vittorini con Conversazione in Sicilia, che è un viaggio nella terra delle madri e della memoria, anche se poi se ne allontana di nuovo, sollecitato anche dalla madre stessa che lo esorta a fare il suo mestiere di tipografo e compositore di parole, cioè il suo dovere di intellettuale. Pensi che nel 1941 sono usciti contemporaneamente Conversazione in Sicilia e Don Giovanni in Sicilia di Brancati, che sono di segno opposto. In Vittorini c’è la rivisitazione del profondo della memoria e poi il ritorno ai suoi doveri di intellettuale. In Brancati c’è la regressione. Quando Giovanni Percolla ritorna dalla madre e dalle sorelle, mangia e poi si mette a letto a un certo punto afferma: “Un’ora di sonno è stata come un’ora di morte.” Il personaggio di Brancati rimane di nuovo prigioniero delle viscere materne.

FR:

Beh ci sta dietro il mito della grande madre mediterranea…

VC:

È curioso come tutta la nostra narrativa, a parte i grandi poemi come L’orlando Furioso e altri che hanno una geografia straordinaria, il romanzo dell’800 da Manzoni in poi, si svolge sempre in piccoli centri, nella piccola città, quel ramo del lago di Como, piuttosto che Vizzini o Acitrezza. Chi inaugura per la prima volta il movimento è proprio Vittorini e questo scaturiva anche dal rapporto che lui aveva con la letteratura americana. La letteratura inglese e americana è contrassegnata dal viaggio, dal movimento.

FR:

Lei è considerato un autore dal forte impegno civile; tuttavia, seguendola in alcune presentazioni mi ricordo anche il suo fastidio costante rispetto a una retorica dell’impegno. Cosa pensa dello scrittore che si impegna direttamente in politica, pensando anche all’esperienza di Sciascia stesso.

VC:

Mi sembrò allora a quel tempo da parte di Sciascia fosse doveroso accettare l’invito. Lui mi raccontò che dopo la sua elezione al Comune di Palermo, insieme a Guttuso e poi dopo le dimissioni, tutti lo invitarono a entrare nei rispettivi partiti. Lui accettò il radicale e mi disse che lo aveva fatto perché era il meno partito di tutti. Anch’io ebbi un invito in anni lontani a presentarmi al Senato per il PCI. Il segretario del partito mi telefonò dicendomi “ti devi presentare” e al mio rifiuto motivato con il fatto che dovevo lavorare mi disse “è un  tuo dovere”; ma io risposi che il mio dovere era quello di scrivere. Tuttavia penso che lo scrittore, come dice Roland Barthes, ha a disposizione anche la scrittura d’intervento, sui giornali, per esempio. Tutti i grandi l’hanno fatto: da Zola, che è stato il maestro con l’Affaire Dreyfus, a Pasolini, Moravia e Sciascia ecc. Io ho sempre praticato la scrittura d’intervento, ho scritto per L’ora di Palermo, l’ Unità, per Il Corriere della sera. Però la spettacolarizzazione mi disturba molto. Anche la manifestazione di Piazza Navona del giugno scorso, non mi è piaciuta, siamo all’indecenza. Gli intellettuali sono diventati i comici, oppure gli scrittori che fanno spettacolo. Purtroppo, se vivessero oggi, Pasolini, Sciascia, Moravia, non avrebbero più lo stesso impatto. I giornali sono in crisi , le case editrici sono in crisi, il nostro è un popolo che non legge più. Io ho definito quello italiano un popolo telestupefatto… È un’espressione che hanno ripreso in Francia: lo ha fatto Christian Salmon nella sua rubrica su Le Monde. Questo dei mass media e della televisione in particolare è stato una specie di tsunami provocato da questo signore che oggi è il capo del Governo. Anche il suo consenso è dovuto a questo mezzo di distruzione di massa che è la televisione, che è quanto di più volgare, stupido e ignorante che si possa immaginare.

FR:

Cosa c’è nei suoi programmi futuri?

VC:

È difficile parlare di programmi futuri. Sono tanti anni che taccio e non pubblico, scrivo di nascosto e nascondo. Ho un progetto di romanzo storico-metaforico che riguarda una storia di Inquisizione. Ho trovato dei documenti presso la biblioteca di Simancas in Spagna; naturalmente si svolge sempre in Sicilia e mi sembra che in questo momento di fondamentalismi religiosi di ogni tipo che rischiano di diventare teocrazie, che sono momenti terribili della storia umana, mi sembra che sia una storia da raccontare. Quando la smetterò di fuggire mi devo sedere a tavolino a scrivere questo libro.

NASCITA E DECADENZA DELLA FAMIGLIA BORGHESE NELLA NARRATIVA EUROPEA.

Introduzione

Una prima versione del saggio qui di seguito fu pubblicato sul numero 21 della rivista Costruzioni psicoanalitiche del 2011 e lo si trova anche nel sito Academia.edu. Lo ripropongo con una precisazione ulteriore e cioè che la riflessione va storicizzata. Il titolo stesso vi allude: si parla di una concezione della famiglia borghese che ha attraversato i secoli, con modificazioni nel tempo, cui corrispondono i diversi capitoli. Vi è però un momento nella storia del ‘900, a partire dal quale non si può più affermare che è nato un nuovo capitolo all’interno di un medesimo percorso, ma piuttosto che è cominciata un’altra storia, che necessita di ulteriori ricerche e anche di nuovi linguaggi. Non solo il concetto stesso di famiglia borghese sembra essersi dissolto, ma il titolo del saggio – che tuttavia ho deciso di mantenere – andrebbe ulteriormente chiarificato dicendo che quel tipo di famiglia era patriarcale e soltanto eterosessuale. Il saggio accenna nel finale, che ho aggiunto recentemente, a queste profonde trasformazioni, ma finisce con quello che almeno per me è il tramonto di una concezione di famiglia, anche se i tentativi reazionari di riportarla in auge nella sua esclusività, sono purtroppo all’ordine del giorno.

Premessa

La narrativa europea è piena di famiglia, di rapporti fra padri e figli, titolo peraltro di un grande romanzo di Turgenev. La difficoltà nell’affrontare un tema come questo, dunque sta nel ridurre il campo d’indagine.

La famiglia che prenderò in considerazione, seppure con qualche ulteriore precisazione strada facendo, è quella borghese, cercando di coglierla in tutti gli aspetti che l’angolo di visuale della narrativa propone. D’altro canto, sarebbe difficile trovare la famiglia come protagonista in epoche precedenti.

La grande poesia europea e la letteratura novellistica che precede la nascita (o rinascita secondo qualcuno), del romanzo, parla molto d’amore, di relazioni fra i sessi, nel Decameron ci sono storie di amanti, di fratelli e sorelle, ma la famiglia in quanto tale non è un oggetto di osservazione, prima di tutto perché è persino discutibile la sua esistenza e quindi, di conseguenza, l’uso stesso di questa parola.

Uno storico di prima grandezza come Lawrence Stone, nel descrivere la decadenza dell’aristocrazia inglese, afferma che essa fu dovuta anche ai rapporti famigliari inesistenti, almeno per come li intendiamo noi. Stone arriva addirittura a mettere in discussione la possibilità del complesso edipico, nell’ambito delle ‘famiglie’ aristocratiche, in quanto i figli raramente avevano un rapporto con i genitori, ma erano del tutto delegati ad altri, dalle balie alla servitù, tanto che egli attribuisce la decadenza – anche da un punto di vista mentale – della nobiltà inglese, al fatto che una delle patologie più diffuse fosse il marasma infantile, un termine che indica la mancanza di punti di riferimento e di figure con cui i bambini potessero confrontarsi e crescere.

Self made men e signorine di buona famiglia

Non esiste una vera definizione a priori della famiglia borghese, ma è possibile ricavarne qualcuna seguendo i grandi romanzi borghesi e quindi prendendo in considerazione un arco di tempo che va grosso modo dalla metà del settecento, per arrivare ai nostri giorni.

Tom Jones di Henry Fielding, pubblicato nel 1749, inizia quando un vecchio signore, recandosi a dormire alla solita ora, si ritrova qualcosa nel letto, precisamente un fagottino con dentro un trovatello. Chiama precipitosamente la governante e decide di prendersene cura. Il trovatello è Tom Jones. Lo ritroviamo giovane uomo che s’innamora di Sofia, figlia di un gentiluomo di campagna, che non acconsente al matrimonio per ragioni classiste. Tom peraltro ha una personalità esuberante che lo mette spesso nei guai; fugge a Londra dove ha una svariata serie di avventure.

Il contraltare di Tom è il signorino Blifil, un aristocratico educato secondo i dettami della sua classe. Dopo una serie di vicissitudini, sarà Tom a sposare Sofia. Al lieto fine, tuttavia, si giunge grazie anche alla scoperta di un misterioso documento, che rivela come Tom non sia affatto un trovatello. L’inganno ordito ai suoi danni aveva lo scopo di escluderlo dall’asse ereditario. Blifil, il cattivo, viene così sconfitto.

Tom Jones è un romanzo che fa da cerniera fra due diverse concezioni della vita e del mondo e dunque anche della famiglia. Blifil reclama per sé un diritto di nascita, in quanto membro dell’aristocrazia, ma la sua classe non può più accedere allo stesso nobile percorso dei suoi predecessori nei secoli precedenti. I nobili, un tempo cavalieri, sacerdoti, o sacerdoti guerrieri, si sono trasformati in parassiti nullafacenti che si aggirano nelle loro proprietà, senza peraltro alcuna capacità di governarle.

Tom, al contrario di Blifil, è una specie di Robinson Crusoe che agisce nella jungla sociale del settecento inglese. Il documento da cui si evince che anche Tom non è un trovatello viene scoperto dopo, quando il matrimonio è già deciso e questo riflette bene la condizione di transizione della società inglese del tempo. Si sta passando da una concezione del matrimonio per cui conta il lignaggio e naturalmente i patrimoni che ad esso si accompagnano a un’altra in cui conta il saper fare, cioè la capacità imprenditoriale che farà, di lì a poco, decollare in Inghilterra la rivoluzione industriale. 

Più o meno contemporaneo al romanzo di Fielding, è invece Il Vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith, siamo infatti nel 1776. Questo romanzo è una specie di bibbia della visione della famiglia come luogo in cui prende forma lo stile borghese, ma anche la funzione pedagogica della famiglia stessa. Siamo sempre fra gentiluomini di campagna, la città arriverà dopo e in modi molti più aspri.

Ci si rende più utili a sposarsi e a metter su una bella famiglia che a restar giovanotti e chiacchierare di figliolanza: così almeno ho sempre pensato io. Perciò, scorso neanche un anno da che ero consacrato sacerdote, presi a petto questa faccenda del matrimonio; e scelsi la sposa come ella scelse poi la veste nuziale, cioè non badando all’eleganza ma alla qualità del tessuto.

Questo breve brano e in particolare la sua parte conclusiva illustrano molto bene la morale borghese. Il matrimonio è necessario per regolare la pulsione erotica, deve essere basato sulla solidità morale dei coniugi piuttosto che sulla frivola eleganza. Tutto il romanzo si svolge nel salotto del Vicario, dove sono soliti incontrarsi la sera o il giorno di festa, i notabili della città. Anche i bambini e i giovani sono ammessi all’ascolto, dal momento che i discorsi che vi si tengono sono edificanti. La famiglia, nel romanzo di Goldsmith, diviene la sede dove si forma l’educazione a uno stile.

Della stessa natura, cioè di strumento di educazione e costruzione del galateo borghese e di un’etica borghese, sono i romanzi di Jane Austen: Emma (1815), Orgoglio e pregiudizio (1813) sono piccoli capolavori di un galateo al femminile, ma anche di una prima elaborazione di un pensiero femminile pubblico e autonomo; nonché della difficoltà a farlo vivere. Le protagoniste dei romanzi di Austen sono giovani donne della campagna inglese, che cercano da se stesse una sorta di educazione sentimentale che permetta loro di orientarsi nella scelta di un marito, sempre prese in mezzo fra matrimoni combinati da madri intriganti (come in Orgoglio e pregiudizio) e dai loro continui errori di scelta, come avviene in particolare a Emma. Austen non è sola, è la prima di una serie di scrittrici e pensatrici europee: insieme a lei Madame da Stael, forse la più grande di tutte e poi George Eliot, nome de plume maschile di Mary Ann Evans, le sorelle Bronte, Mary Shelley, Elizabeth Barret.  

Quanto si è visto fino ad ora gira intorno a un concetto di matrimonio ancora molto legato alla contrattualistica; secondo dato ancora più importante, tutti i romanzi fin qui considerati sono ambientati nelle campagne inglesi, dove, grazie alla rivoluzione del ‘600, culminata nel breve periodo della repubblica di Cromwell, era cresciuta una classe media agricola (la gentry), che elaborava un proprio stile di vita borghese e che investiva tutti gli aspetti della vita sociale. In questo mondo matura anche una voce femminile consistente. Possiamo tentare di delineare alcuni pilastri di questo stile: l’importanza del saper fare rispetto al diritto di nascita, la buona educazione dei figli secondo i principi morali di parsimonia, moderazione, decoro. Tutto questo non è poco se noi lo confrontiamo con il passato anche recente rispetto a quell’epoca.

L’idea del matrimonio come ambito in cui avviene l’educazione dei figli e la loro cura e dove i figli sono oggetti d’amore, è un concetto che non esiste nell’aristocrazia; tanto meno nel mondo contadino, dove i figli sono braccia e basta. La gentry inglese di campagna dunque elabora per la prima volta un galateo universale tramite la narrativa e le riviste come lo Spectator. Nasce un pubblico che si forma intorno a questo stile: la pedagogia in ambito famigliare diventa pedagogia sociale. Però, nel tempo stesso in cui questo avviene, le conseguenze della trasformazione dell’agricoltura e della campagna inglese da feudale a capitalistica provocano una massiccia espulsione dalle compagne stesse di manodopera bracciantile e anche di piccola proprietà, che si riversano nelle città dove formeranno l’esercito di fabbrica (nonché quello di riserva) della rivoluzione industriale. A questa enorme massa viene di fatto impedita la possibilità stessa di una vita famigliare, contraddicendo dunque quel galateo universale che abbiamo visto delinearsi e dal quale costoro sono esclusi.

Amore romantico e questione sociale

Nei grandi romanzi urbani del ‘700-‘800 la famiglia semplicemente non esiste: ci sono ladri, avventurieri, avventuriere, puttane, orfani, ragazzini che lavorano venti ore al giorno. Il romanzo sociale sarà uno strumento di denuncia di tale situazione, ma per tornare al tema, di famiglia se ne trova pochissima in opere come Moll Flanders di Defoe, oppure i Miserabili di Victor Hugo, oppure in Vanity Fair, piuttosto che in Oliver Twist. La descrizione degli slums di Londra in Dickens non è diversa da quella che fa Engels, anzi proprio per l’asciuttezza del linguaggio, Engels sembra addirittura essere più efficace:

In Inghilterra durante la rivoluzione industriale , gli industriali introdussero il sistema del lavoro notturno. Gli operai venivano quindi divisi in due gruppi: un gruppo lavorava nelle dodici ore diurne , l’altro nelle dodici ore notturne. Questo lavoro notturno portava l’abolizione del riposo notturno, e non è sostituibile dal sonno diurno. I risultati, inevitabili, erano un grande eccitamento del sistema nervoso, unito dall’indebolimento ed esaurimento generale di tutto il corpo. Inoltre venivano stimolati l’ubriachezza e gli eccessi sessuali. Altri industriali facevano lavorare parecchi operai per trenta – quaranta ore di seguito, e cioè parecchie volte alla settimana. Le conseguenze di questi fatti si manifestarono ben presto: nelle fabbriche aumentava la presenza di storpi, i quali dovevano la loro minorazione unicamente all’eccessivo prolungamento del tempo di lavoro. Questa minorazione, consiste di solito in una deformazione della colonna vertebrale e delle gambe. L’aspetto di questi storpi è caratterizzato dalle ginocchia “voltate” indentro e all’indietro, i piedi indentro , le articolazioni deformate e ingrossate, la spina dorsale incurvata in avanti o lateralmente.           

La contraddizione sociale, però, è solo uno degli aspetti della questione che riguarda l’etica famigliare. La scissione fra la borghesia di campagna che elabora il suo stile e le masse urbane che ne sono escluse, è soltanto il primo atto della tragedia. La scissione, infatti, si ripercuote all’interno della famiglia stessa, in altre forme. Sulla società europea a cavallo fra il sette e l’ottocento e sulla pretesa universalistica di quel modello matrimoniale, si abbatterà il ciclone romantico che noi interpretiamo ormai secondo i nostri cliché e anche secondo la tesi del più importante studioso dell’amore in occidente e cioè De Rougement: l’equivalenza fra follia amorosa e amore. Alcuni romanzi, a cominciare da quelli delle sorelle Brönte, autorizzano ampiamente tale visione. Le tre autrici sembrano incarnare perfettamente il cliché romantico della passione amorosa come tragedia e destino. Muoiono tutte e tre giovanissime, Anne ed Emily di tubercolosi, il mal sottile, un altro dei cliché romantici. L’ultima, Charlotte, muore a 39 anni. Cime tempestose e Jane Eyre sono i due romanzi più importanti. Il primo, in particolare, è la storia di un amore distruttivo.

Questa visione prevalente nel considerare il romanticismo lascia nell’ombra e in secondo piano che il romanzo romantico è anche quello dove si trovano le maggiori esaltazioni del matrimonio, ma a una ferrea condizione: che si tratti di un matrimonio d’amore. La grande novità che il romanticismo porta è proprio questa, non la critica dell’istituzione matrimoniale in quanto tale, ma la critica al matrimonio in quanto contratto sociale.

Dal punto di vista romantico la famiglia non è più interessante in quanto organismo sociale, ma come ambito in cui si realizza l’unione fra l’uomo e la donna, dove il sentimento amoroso arriva alla sua realizzazione. La famiglia romanticamente intesa diventa un microcosmo che viene visto nelle sue dinamiche interne e nelle relazioni fra i coniugi; non scompare la sua proiezione all’esterno, ma s’affaccia all’orizzonte l’introspezione insieme alla profondità psicologica dei personaggi. Possiamo considerare questi romanzi come un’ulteriore elaborazione di quel galateo borghese di cui abbiamo visto alcuni esempi e che arricchisce, per citare il titolo del romanzo di Flaubert: L’educazione sentimentale.

Tuttavia il matrimonio d’amore, pur essendo uno straordinario momento di civilizzazione, non è così facile da realizzare, non solo naturalmente per le condizioni esterne e cioè la lotta contro la visione contrattualistica del matrimonio, ma anche al proprio interno. Un romanzo emblematico come Le affinità elettive ci dice proprio questo ed essendo del 1809, ci dice anche che Goethe ha saputo in quest’opera intravedere il conflitto irriducibile fra l’eros, la passione amorosa e la struttura stessa della famiglia e dell’istituzione matrimoniale. Romanzo modernissimo quello di Goethe.

Esso inizia con due vedovi che si sposano. Edoardo e Carlotta si amavano da giovanissimi, ma le loro famiglie li costrinsero a sposarsi con altri per questioni patrimoniali. L’inizio del romanzo, dunque ci presenta una situazione che conosciamo bene: il contrasto fra amore e contratto matrimoniale. Goethe, con un primo colpo di genio, fa morire precocemente i loro rispettivi coniugi, così che i due possono ritrovarsi e si sposano. La storia potrebbe finire qui: il matrimonio d’amore alla fine vince. Invece la storia vera comincia qui. I due sposi novelli vivono in una grande villa con un parco, Edoardo ha un vecchio amico, un capitano, che decidono di ospitare come una sorta di giardiniere e factotum. Carlotta è incerta, non vuole turbare il loro equilibrio. Lei però ha una figlia di primo letto che si trova in collegio insieme a una nipote, Ottilia e alla fine accetta la presenza del capitano ma chiede a Edoardo che anche la nipote venga a stare con loro. Sottilmente e in modo più o meno inconscio, Carlotta forse accetta il capitano con il pensiero recondito che egli possa essere un buon partito per la figlia, assai sofferente e introversa. Solo che accade qualcosa di diverso. È Edoardo, il marito, a sentirsi sempre più attratto da Ottilia, la nipote di Carlotta, che a sua volta si sente sempre più attratta dal capitano. Tutti e quattro sono consapevoli di quello che sta accadendo, la passione amorosa si contrappone in modo radicale all’istituzione matrimoniale anche nella sua versione romanticamente positiva. Cercano di affrontare la situazione, assumono un atteggiamento responsabile, non ipocrita. Decidono però di scegliere in qualche modo l’istituzione. Il capitano accetta un’offerta di lavoro, mentre Ottilia viene mandata da un’amica della madre Carlotta. Edoardo però non si piega alla rinuncia del desiderio e rifiuta di tornare al loro rapporto come se niente fosse accaduto: così s’allontana anche lui, sognando sempre di ricongiungersi a Ottilia prima o poi. Visto che Edoardo non vive più nella casa, Carlotta e Ottilia continuano a vivere nel castello, finché un giorno Edoardo si decide a chiedere il divorzio alla moglie e questa gli rivela di essere però incinta di lui. Il figlio che nasce, tuttavia, assomiglia al capitano e a Ottilia più che a lui e a Carlotta, e qui Goethe ha un secondo colpo di genio. La questione è psicologica e molto sottile: non si tratta di un banale inganno, il figlio assomiglia a Ottilia e al capitano perché mentre facevano l’amore ognuno dei due e cioè Edoardo e Carlotta sognavano di farlo con i loro rispettivi amanti. Goethe anticipa la psicanalisi e ha sicuramente ispirato un romanzo dei primi del ‘900, scritto da un autore che piaceva moltissimo a Freud: Athur Schnizler. Mi riferisco a Doppio sogno, cui è ispirato anche il film di Stanley Kubrik, Eyes wide shut.

Torniamo al romanzo. Edoardo vuole sistemare le cose, accetta di tenere il figlio ma insieme a Ottilia, non alla moglie. Un giorno lui ritorna al castello e incontra Ottilia che è andata con il bambino a fare una passeggiata. Si baciano di nuovo con passione. Ottilia ne è sconvolta. Mentre attraversa il lago per ritornare a casa assorta nei suoi pensieri, compie un brusco movimento che fa oscillare la barca. Il neonato cade in acqua e annega. La tragedia travolge tutti personaggi.

Questa del figlio morto annegato – una figlia in  quel caso – tornerà in un romanzo del secondo ottocento italiano: Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro.

La famiglia come istituzione sociale e la famiglia come luogo di realizzazione dell’amore romantico, sono dunque in crisi fin dal loro nascere; lo sono nei grandi romanzi borghesi ma anche nella realtà. Questo non vuol dire che non continuano a esistere famiglie dove il galateo borghese venga praticato, o l’amore perseguito, ma tutto ciò avviene non nel clima idilliaco che abbiamo visto rappresentato nei romanzi della Austen o di Goldsmith, ma nel mezzo di contraddizioni sempre più insanabili e di sofferenze sempre più acute. 

La decadenza

La famiglia amorosa e la famiglia come strumento di educazione sociale, entrambe borghesi vivono scisse l’una dall’altra in molti romanzi ma si ricongiungono di nuovo in una grande opera del 1901: I Buddenbruck di Thomas Mann. Il romanzo è, al tempo stesso, la storia di una famiglia dei capitani d’industria che va verso la decadenza e la rappresentazione della crisi di quel processo di educazione sentimentale e rigore che abbiamo visto nelle opere precedenti. Lo potremmo definire uno dei romanzi capaci di rappresentare come pochi altri l’esplodere di tutte le contraddizioni dell’istituzione famigliare, sia dal suo versante di organismo sociale, sia per ciò che attiene alle relazioni amorose.

Il romanzo inizia con un conversazione affabile che si svolge in un tipico salotto borghese. Si parla d’arte, di poesia, è il trionfo di quel galateo che abbiamo visto costruirsi nel tempo e infatti sembra di essere tornati a casa del Vicario di Wakefield. Siamo nel 1835 e tutta la famiglia è nel salotto perché il vecchio Johann Buddenbruck proprietario della ditta fondata nel 1768, si trova nel momento delicato del passaggio di consegne. Siamo alla seconda generazione ed è qui che cominciano i guai perché i figli non sempre sono meglio dei padri, in ambito borghese almeno, più ancora che non per l’aristocrazia.

Passano gli anni e gli affari non vanno benissimo, i moti rivoluzionari del ’48 fanno la loro parte. All’interno della famiglia è Antoine, detta Tony il personaggio più memorabile. É una ragazza ribelle e inquieta, ma che si sposa male, tanto che i debiti del marito rischiano di riversarsi anche sulla ditta di famiglia. Paradossalmente lei divorzia proprio per preservare la società.

Quando la ditta passa  Thomas, le cose migliorano un po’, ma egli non è solo. Lui è il responsabile capace, ma il fratello Christian è un dissoluto cui piace la vita comoda. Quando torna in famiglia fra i due fratelli è guerra. Tony assiste alle lotte di potere (nelle quali s’inseriscono altri elementi esterni alla famiglia), sempre più delusa e amareggiata, finché la misura diviene per lei colma:

Abituarsi all’ambiente? No, fra gente senza dignità, senza morale, senza ambizione, senza signorilità e senza rigore, fra gente sciatta, scortese e trasandata, fra gente che è allo stesso tempo pigra e leggera, pesante e superficiale… fra gente così non mi posso ambientare…

Tony è proprio il risultato di quella educazione sentimentale che la borghesia ha voluto per lei, ma che ora le si rivolta contro. Tony rimprovera, nel brano appena citato, la mancanza di coerenza, vede lucidamente il fallimento di quel valori intorno ai quali anche lei era stata educata.

Dopo un’alternanza di rovesci e di riprese, nonché il matrimonio della figlia di Tony, si arriva al centenario di fondazione della ditta e cioè nel 1868. L’evento simbolico non cambia il corso degli eventi. I Buddenbruck non falliscono, ma decadono sempre, il marito della figlia di Tony subisce un processo e finisce in galera, tutto si disgrega senza crollare, la borsa e la finanza stanno diventando i nuovi fari dell’economia capitalistica, la funzione imprenditoriale cambia e loro non sono sempre capaci di tenere il passo, ma subiscono anche la concorrenza spietata di altri protagonisti del romanzo, gli Hagelstrom, rivali dei Buddenbruck. Le leggi di una concorrenza spietata hanno una parte nel romanzo ma il messaggio finale, una volta liquidata la ditta, è un altro. Con i Buddenbruck. si dissolve proprio quella capacità imprenditoriale, quel saper fare che avevamo visto incarnato nei suoi aspetti vitalistici da Tom Jones.

Alla fine è Tony che rimane sola a incarnare la famiglia, proprio lei; è benestante come tutti gli altri protagonisti, quindi non è la ricchezza materiale che le manca ma tutto il resto. Ciò che è miseramente fallito è proprio quel galateo borghese che si voleva universale e che invece non regge neppure all’interno della quattro mura domestiche.

Il ‘900

Nel grande romanzo del ‘900, la famiglia di fatto scompare o è di nuovo protagonista laddove lo sviluppo di un’economia capitalistica e di una cultura borghese è stata più tarda, come in Italia, per esempio. In Pirandello e anche precedentemente in Verga, essa è presente, anzi è la cellula primaria che grazie alla cooperazione fra i suoi membri dovrebbe garantire la possibilità di riscatto. Invece, implode internamente e anche come organismo sociale (il ciclo dei vinti). La grande narrativa siciliana, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa rappresenta plasticamente la decadenza delle famiglie aristocratiche nel momento in cui Il regno delle due Sicilie sta per cadere. Nel ‘900 esplode la crisi dell’individualità borghese. Da Svevo a Musil, ma anche in Henry James negli Stati Uniti, la dissoluzione del personaggio eroico o almeno forte, è la costante: è il tempo degli uomini senza qualità. In Italia, Il fu Mattia Pascal fugge da se stesso e da ogni legame.

Nel secondo dopoguerra romanzi come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e ancora di più Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, continuano nobilmente quella tradizione borghese che abbiamo visto alle sue origini rappresentata dai romanzi del primo settecento inglese. I valori, i personaggi, il loro modo di agire ricalcano quei modelli, seppure attualizzandoli e collocandoli nella realtà italiana. Una novità di rilievo è la presenza in alcune narrazioni novecentesche, della famiglia operaia: Figli e amanti di D.H. Lawrence in Inghilterra e alcune opere del neorealismo italiano, come Metello di  Pratolini.

Cosa avviene invece, se si va dall’altra parte dell’Atlantico? L’urlo e il furore di Faulkner e Furore di Steinbeck sono forse i romanzi più rappresentativi, rispetto a questa tematica. Entrambi hanno al loro centro la disgregazione di due famiglie. In Furore è la crisi del ’29 a rovinare Tom Joad e i suoi famigliari, mentre nel romanzo di Faulkner la disgregazione della famiglia borghese bianca assume i toni allucinatori e psicotici di uno dei protagonisti (Bengj); oppure quelli cinici di Jason. Il romanzo, un cult della narrativa d’avanguardia, non apporta nulla di nuovo al copione, ma la rappresentazione plasticamente tragica ed espressionista insieme, fanno di questo romanzo un capolavoro.

Nella narrativa più recente quello che appare evidente, anche nei romanzi di intrattenimento, è la presenza di un mondo orizzontale di fratelli e sorelle che sono rimasti senza padri o senza madri: per esempio Caos calmo di Veronesi. Del resto un bel libro dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, delinea molto bene la deriva della figura paterna, ricostruendone la storia da Ettore ai nostri giorni: Il gesto di Ettore.

Oppure si affaccia anche nella narrativa la famiglia pedofila o l’abuso: La bestia nel cuore di Cristina Comencini, oppure L’amore molesto di Elena Ferrante. In generale è proprio la società senza padre la protagonista di molta narrativa contemporanea, anche laddove esso sembra esistere ma si presenta nella versione post sessantottina del genitore amicone.

Per concludere

Con quest’ultimo passo si compie un percorso secolare ma al tempo stesso, proprio a seguito dei cambiamenti profondi avvenuti dalla metà degli anni ’60 in poi, sono maturate altre consapevolezze e soggettività che hanno cambiato radicalmente il modo di concepire la famiglia e messo in discussione il concetto stesso di famiglia. Mi riferisco al  femminismo, alla crescita dei movimenti LGBTQ, alla riflessione su genere, classe e sesso. Si può davvero dire che da tutto questo fermento ha preso avvio non un nuovo capitolo, ma un’altra storia e altre scritture. In questa fase, la mia impressione è che la saggistica sia qualitativamente predominante rispetto alla narrativa ed è dunque a tale vasto campo che è meglio rivolgersi.  

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LE VITE IMMAGINARIE, I MIMI E I DIALOGHI CON LEUCÓ

Premessa

Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Il cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo ora nel blog con qualche modifica.

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo, per esempio, è stato nell’immaginario collettivo, più importante di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge.

Le vite immaginarie e I mimi di Marcel Schwob fanno parte di quest’ultima categoria. Le opere risalgono alla fine dell”800, in un’epoca di svolta della storia europea, quando cominciava a profilarsi quella crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera che ricorda il Giano del mito classico. Esse hanno lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca; tuttavia le loro radici profonde affondano nella classicità. Esse richiamano alla memoria, nel titolo, le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi 1.

Allo stesso modo I mimi, opera certamente meno celebre della prima ma non per questo minore, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: che la verità di una vita stia nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca spasmodica del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare “al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale”2. Affermazione sorprendente, se ci pensiamo bene; perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte e cioè la ricerca dell’universalità. In realtà, la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune. Rispetto all’avvento di una società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma del suo contrario.

Canone e anti canone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe, la più diversa fra tutte, rispetto alle altre sue, sebbene una traccia di continuità si possa riscontrare nel riferimento al mito come fonte d’ispirazione. Pavese era un conoscitore profondo e acuto delle opere di Károly Kerényi e di altri studiosi, ma I dialoghi sono opera letteraria, governata da una tensione dialogica che rimanda al teatro.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quelli immortalati dagli scrittori più celebrati del ‘900, ma dagli effetti dirompenti, a tanti anni di distanza.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e dicendo questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjant subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione del personaggio: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni d’inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure altri che come la Deledda in Italia, continueranno imperterriti nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista.

Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto, i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiamo alla struttura sotterranea rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico d’ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo, però, Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto e il premio è la gloria. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro.

Pavese segue un percorso diverso. Egli cerca, nelle pieghe del mito, la risposta al mistero, si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, si pone l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata … Orfeo gli risponde: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla”3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. 4.

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.5.

Parole straordinarie e quanto mai attuali in una società che vive sospesa fra il paese dei balocchi e la guerra di tutti contro tutti. L’illusione dell’orgia continua, della festa perenne, di un’ansia dionisiaca selvaggia, nascondono il delirio di onnipotenza; occorre il senso del limite, ma questo non cancella la necessità di accettare quella sfida. È necessario, oggi come ieri, scendere nel proprio inferno; la consapevolezza nasce dall’incontro con il limite, il canto è ancora una volta la risposta. Il paradosso di Pavese emerge qui in tutta la sua forza: il ricorso al mito è indispensabile anche se non gli si può più credere alla lettera. Esso apre ancora, come sempre, le porte alla sublimazione simbolica: senza quest’ultima vi è soltanto il pendolo depressivo che oscilla fra le esaltazioni dell’orgia o gli agiti, nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine.

Il maestro e gli allievi

Schwob, per ragioni anagrafiche, va considerato il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900; ma il suo esempio è tutt’altro che solitario. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges, che gli attribuisce un ruolo primario come ispiratore:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve qualcosa.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. In altre culture letterarie ha pesato meno che da noi il pensiero negativo. Tuttavia, sempre Schwob, ci dimostra come fosse possibile un’interpretazione diversa da quella letterale della morte di dio, così come appare nello Zarathustra nicciano. Anche i suoi Mimi prendono spunto dalla morte di Pan (così s’intitola proprio l’ultimo dei racconti dell’opera), ma egli non ne tira le conseguenze filosofiche. Pur prendendo atto della fine egli rilancia il mito come narrazione: ritesse la tela assumendo la maschera di personaggi inventati ma plausibili che ci offrono vie d’uscita laterali; Pavese, in fondo farà, a modo suo, la stessa cosa.

Nel ‘900 e dopo Nietzsche, invece, il mito come narrazione è sostituito dal concetto filosofico di mito; si parlerà, per esempio, in modo del tutto improprio, di mito del superuomo, espressione – questa – che contiene più di un’imprecisione.

È ipotizzabile un’influenza diretta di Schwob su Pavese? La voluminosa antologia della critica pavesiana non ne parla: né Givone né altri, che si sono occupati in modo particolare dei Dialoghi con Leucò vi accennano. Soltanto Roberto Speziale lo fa di sfuggita nella quarta di copertina de I Mimi 6

Bisogna però considerare che la fortuna di Schwob in Italia è recente. Introdotto dagli Adelphi, il libro ha vissuto una fortuna limitata alla cerchia dei francesisti e poco più. Rilanciato dalle traduzioni recenti dalla casa editrice Azimut e oggetto di nuove attenzioni è stato di nuovo proposto dalla casa editrice Adelphi, ma ci troviamo sempre in un ambito ristretto. È difficile ipotizzare una conoscenza diretta da parte di Pavese della sua opera, ma di certo lo scrittore delle Langhe conosceva Borges e può essersi imbattuto nel suo giudizio su Schwob.

Forse, semplicemente, accade che scrittori anche lontani e indipendenti l’uno dall’altro, fiutino nell’aria le stesse atmosfere o le stesse necessità e diano risposte analoghe. C’è un’aria di famiglia che si avverte leggendo questi tre libri, le loro diversità non cancellano quel sentire comune che li percorre. La ragione del loro fascino può essere rilanciata oggi perché il contrasto evidente fra un razionalismo positivista imperante, di carattere puramente tecnologico, cui fa da contraltare un agito che salta la mediazione del simbolico, ci stanno portando in un vicolo cieco. Queste opere ci ricordano che il simbolico esiste e che è necessario per vivere, non per intrattenerci. Nel nostro mondo postmoderno, una vulgata largamente diffusa ritiene che ogni narrazione sia divenuta impossibile perché tutto è alla luce del sole, verificabile, documentato, senza mistero. Il narrare, in tale contesto, non può che essere sempre più confinato in generi: il giallo, la fantascienza ecc..

Quale sciocca miopia! Faccio tre semplicissimi esempi che smentiscono questa illusione ottica. Negli Stati Uniti d’America, secondo decine e forse centinaia di migliaia di persone Elvis Presley non è morto nella data indicata dai suoi biografi e forse per alcuni è ancora vivo! Sempre nella patria della tecnologia più avanzata un’alta percentuale di statunitensi, dopo aver visto il film Capricorn one, si convinse che gli astronauti non erano mai sbarcati sulla Luna, ma che quell’evento non fosse altro che un’ingegnosa messa in scena hollywodiana girata nel deserto del Nevada. Infine l’Italia: in occasione del decennale della morte di Moana Pozzi, abbiamo assistito a seri programmi televisivi in cui commentatori tutt’altro che sprovveduti, avanzavano più di un dubbio sulla sua morte. Se per avventura rimanessero solo questi documenti e testimonianze, fra le poche cose conservate della nostra civiltà e fra mille anni capitassero nella mani di colonizzatori extraterrestri, Elvis Presley e Moana Pozzi verrebbero considerati eroi come Achille e Cassandra, mentre l’avventura lunare statunitense rientrerebbe nella infinita catena di narrazioni sull’argomento: dalla Storia vera di Luciano di Samosata, passando all’Orlando Furioso e via di seguito.

Del mito inteso come narrazione fantastica non si può fare a meno perché esso contiene una verità che non può essere detta degli storici. Non si tratta naturalmente di sostituire una ricerca di verità a un’altra, di attribuire a queste avventure dello spirito lo stesso rango. La razionalità storica, la cura certosina della ricostruzione minuta e documentaria parla alla nostra ragione, la narrazione fantastica parla al nostro inconscio: abbiamo bisogno di entrambi. Le commistioni indebite, le confusioni e quant’altro, hanno spazio proprio nei momenti storici in cui la pari dignità fra questi modi di cercare la verità viene cancellata e repressa. Nascono allora gli apprendisti stregoni che mescolano tutto con tutto arbitrariamente, invadendo i campi degli altri perché non riconoscono più il loro; oppure perché costretti da una cultura che riconosce solo certi statuti e percorsi, tendendo a eliminarne altri.


1 Marcel Schwob, Vite immaginarie, prefazione dell’autore, traduzione di Cristiana Lardo, Azimut editore, Roma 2005, p.9

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4.Ivi, p. 77

5.Ivi, p.79

6 Marcel Schwob, I mimi, a cura di Roberto Speziale, :duepunti edizioni, Palermo 2006.


 

 

 

CORMAC McCARTHY: LA STRADA. Seconda Parte

Il romanzo di McCarthy si presenta dalle primissime pagine segnato dall’asimmetria fra tempo e spazio: il primo è azzerato nel senso che il futuro sembra non esistere più e il mondo vive in un eterno presente, mentre i luoghi e gli oggetti, sono riconoscibili e fanno già parte del nostro quotidiano, seppure in una forma solo un po’ più degradata rispetto alla realtà:

Nel giro di due giorni arrivarono in una regione dove le tempeste di fuoco si erano lasciate alle spalle chilometri e chilometri di terra bruciata. Sulla strada una crosta di cenere spessa diversi centimetri e difficile da affrontare con il carrello. L’asfalto sottostante aveva ceduto per il calore e poi si era risolidificato … Gli esili alberi caduti. La fanghiglia grigia dei canali. 7

I due protagonisti, un padre e un figlio, sono in fuga verso sud ovest – e quindi la California – perché in riva all’Oceano sperano che la vita sia più clemente. C’è di nuovo la frontiera, dunque; ma dall’epopea della conquista, passando per la Grande Depressione immortalata da Steinbeck in Furore e nelle poesie di Karine Hesse, si è giunti al tempo presente azzerato.

In che rapporto si pone questo romanzo con il genere della distopia, di cui la letteratura anglo-statunitense ci ha dato nei secoli scorsi molti e celeberrimi esempi? Confrontiamo il brano precedente con quello che segue, tratto da un racconto di Ballard dal titolo Le voci del tempo:

Raggruppate a semicerchio a breve distanza gran parte delle vasche e delle gabbie accatastate l’una sull’altra alla rinfusa. In una di esse un’enorme pianta simile a un polipo era quasi riuscita ad arrampicarsi fuori dal terrario … il suo corpo era esploso in una pozza gelatinosa di mucillagine globulare. In un’altra un gigantesco ragno  rimasto intrappolato nella propria tela penzolava impotente … Tutte le piante e gli animali del laboratorio erano morti.8

Le affinità indubbiamente esistono; entrambi gli scenari sono inquietanti e hanno aspetti apocalittici, ma nel secondo caso, alcune parole chiave, il tono della descrizione e le dimensioni abnormi degli animali, ci fanno individuare subito il genere di appartenenza, così che il lettore viene subito portato dentro un mondo artificiale e futuribile, anche se nel caso di Ballard come di Philip Dick, il genere diventa allegoria. Il racconto in questione risale a un’epoca compresa fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso e immagina un futuro di dominio della tecnologia, fatto di città futuribili, più o meno abnormi e mostruose, esperimenti pericolosi come quello cui si allude in questo brano.9

Per quanto inquietanti, le opere distopiche, lette a distanza di anni, rivelano tutta l’ambivalenza di chi si sente al tempo stesso affascinato e impaurito dalla società futuribile che descrive, mettendo in atto anche espedienti narrativi che colludono con la realtà descritta. Con La strada non siamo più nella fantascienza e neppure nella distopia per il semplice fatto che non c’è più il futuro e cioè la proiezione temporale verso cui tutte le opere di genere si protendono: uno dei temi sottesi a La strada è proprio come continuare a vivere e questa è una prima risonanza che il romanzo intrattiene con il libro di Ciccarelli, che si pone, fra gli altri, anche questo interrogativo: come vivere da postumi?

Il romanzo è l’esito coerente del percorso del suo autore: tutti gli elementi forti costituivi della sua narrativa e del rigore stilistico vengono tesi al massimo; ma è proprio questo che getta una luce diversa sull’intera opera dallo scrittore. Non nella semplice rivisitazione del mito statunitense e bianco delle origini va cercata la sua forza, ma nel fare della conquista del West la metafora della possibile fine della specie umana. Nel rappresentare questo, tuttavia, McCarthy porta anche alle estreme conseguenze il telos implicito che era contenuto in altre opere che per tutto il secolo scorso hanno ipotizzato, con la loro visionarietà, gli esiti catastrofici che qui vediamo rappresentati; ma quella era fiction e solo fiction. Sarà difficile per tutti (e dunque anche per lui) scrivere opere catastrofiche dopo questo romanzo e proprio nel finale lo scrittore allude al necessario superamento della sua stessa narrativa.  

L’orizzonte delle grandi distopie novecentesche è sempre il futuro (meglio ancora il futuribile), anche quando il tempo narrativo scelto è il passato remoto.

L’arte naturalmente è sempre finzione, ma secondo una nota definizione che mi permetto di parafrasare, c’è differenza fra una finzione che dice la verità e una che invece reitera la finzione stessa con una sequenza d’effetti speciali, il cui unico scopo è quello d’intrattenere. Naturalmente si può obiettare che tracciare una linea netta fra le due finzioni è difficile se non impossibile; tuttavia è possibile stabilire delle analogie, perché penso che ciascuno, intuitivamente, possa comprendere tale differenza, se posto di fronte a  un esempio concreto.10

La finzione minima di cui si serve McCarthy è quella di dare per scontato che la catastrofe sia già avvenuta, senza spiegarne assolutamente i motivi: non vi è nulla nel romanzo, infatti, che ci possa fornire una qualche indicazione al proposito. La perentorietà dell’inizio (le prime due o tre pagine), che forniscono la chiave e danno il tono dell’intero romanzo, sono sufficienti a testimoniarlo. Lo stile di McCarthy ricorda il concetto di straniamento che spinge chi legge a identificarsi con la situazione drammatica nel quale i protagonisti sono coinvolti, piuttosto che con l’eroe, della cui esistenza si sono perse le tracce anche se rientrerà in scena nel finale nei modi che vedremo. L’identificazione è piuttosto con la nuda vita, con la necessità di una cura rivolta alle cose minime di cui è fatta una vita postuma; oppure con una speranza che è rivolta a una gratuità senza limiti, ma anche senza scopi. Kafka, almeno nella lettura che ne dà Walter Benjamin, era arrivato alle medesime conclusioni decenni prima. Per chiarire questo punto rimando alle conclusioni.  

Una secondo elemento, combinato con questo, crea nel lettore, la sensazione di trovarsi dentro la vicenda e non proiettato in chissà quale tempo a venire. Consideriamo per esempio questo passaggio:

La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti. … Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava e cielo. Nel tardo pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve bagnata che sibilava contro la plastica.”11

Il lessico comune, la sobria aggettivazione, la semplicità e brevità dei periodi, talvolta senza alcun verbo, ma semplicemente descrittivi (Mucchi di rifiuti indistinti) danno alla frase maccartiana un forte impatto comunicativo. Se isoliamo ciascuno dei periodi, come se fossero le inquadrature di una lenta sequenza girata in piano medio o americano, possiamo facilmente riconoscere in ciascuna di esse, scenari che abbiamo modo di osservare quotidianamente: è il loro lento accumulo che diviene inquietante perché sedimenta in chi legge un mosaico che assomiglia molto al mondo in cui già viviamo, ma ce lo fa percepire solo un po’ più grigio e uniformato alle sue punte più estreme di dissesto, ma che alla fine ci commuove perché riconosciamo in esso un mondo che stiamo lentamente perdendo e non un futuro indefinito.

Anche i protagonisti che abitano questo mondo, a cominciare dai due più importanti e cioè il padre e il figlio, si trovano immersi in una socialità terminale, dove sono poche le azioni razionali che si possono compiere: incombe la necessità della sopravvivenza insieme a quella della difesa. In questo mondo ridotto all’osso si dispiega la vicenda straziante e tragica del viaggio dei due, fino alla sua conclusione. Il cammino intrapreso porta in direzione della California, cioè del sud e dell’ovest, dove era terminata la conquista e da dove prese inizio anche la narrativa di McCarthy. A differenza del mito e persino dei viaggi verso la California durante la Grande Depressione, non vi è scelta possibile né una vera prospettiva di rinascita: devono andare verso l’Oceano nella speranza che il clima sia più mite, perché dove si trovano ora la sopravvivenza è a termine e per il padre sarà proprio così: quando l’oceano si profila all’orizzonte egli muore e il bambino rimane solo. Sembra la conclusione di tutto, la fine di tutte le fini; invece la sua morte apre uno scenario nuovo.

Un finale aperto

Il finale del romanzo è idealmente diviso in due parti: nella prima viene portato a compimento fino alla dissoluzione la figura dell’eroe nella sua versione cristiana e sincretica, che racchiude in sé anche il precedente greco e classico. Quanto più ci avviciniamo all’epilogo infatti, tanto più il lettore capisce che i due personaggi principali del libro assumono sempre più una dimensione allegorica, pur conservando tratti realistici: sarà sufficiente ricordare che il figlio veglierà la salma del padre morto per tre giorni. L’eroe morto è dunque Gesù Cristo e non il Dio vetero testamentario. Che padre è quello che vediamo in scena? Protegge sì il figlio, ma lo fa diffidando di tutto e di tutti e quindi consegnandolo a un destino di autistica asocialità. Egli non rappresenta un modello alternativo, una legge con cui identificarsi in modo positivo; di fronte del pericolo estremo l’unica cosa che sa fare è indicare al figlio la strada del suicidio, gli consegna sempre la sua pistola e gli insegna a usarla o a farla finita cioè a compiere un sacrificio divenuto nel frattempo del tutto inutile perché non vi è per questa strada alcuna redenzione possibile per l’umanità intera, come nel mito cristiano avviene tramite il sacrificio sulla croce. Tuttavia, proprio ripensando al romanzo dal suo inizio e agli altri, appare sempre più evidente una vistosa assenza: la madre, la donna, senza la quale non esiste la sacra famiglia. In un breve passaggio del romanzo la figura femminile era comparsa, ma in una sorta di teatrino. Davanti alla catastrofe l’uomo e marito della donna avevano reagito in modo diverso: i due si erano lasciati e il bambino aveva seguito il padre nella sua fuga verso il sud ovest.   

Parlare di presenza del femminile nei romanzi di McCarthy, assume un connotato amaramente ironico, trattandosi in sostanza di un’assenza che risponde rigorosamente a una ferrea logica narrativa e non solo. Le donne, nella narrativa di McCarthy, semplicemente non esistono, la società post catastrofe è sia quella del padre vetero testamentario sia quella del figlio che avrebbe dovuto sostituirlo, mentre il bambino che sopravvie al padre morto non è affatto una nuova perpetuazione del ciclo, come vedremo da una battuta successiva. Nei romanzi precedenti di McCarthy tutto questo era accennato per allusioni o filtrato attraverso personaggi femminili irrilevanti o ridotti a mostri androgini. Nell’epilogo de La strada, invece, il femminile compare e si tratta di una donna solare, aperta, seppure tratteggiata in poche righe. Non è sola è insieme a un uomo, entrambi si rivolgono separatamente, al bambino e sembrano accendere un primo lume nelle tenebre in cui è avvolta tutta la vicenda. L’uomo, ferito e armato, rassicura il bambino. La donna si prenderà cura di lui dopo che ha salutato per l’ultima volta il padre morto; lo abbraccerà e gli parlerà di dio, aggiunge il narratore. Il bambino però non si fida e rivolge a entrambi separatamente una domanda perentoria e che chiarisce il perché della comparsa di questi due personaggi:

Ma voi non mangiate la gente? No, noi non mangiamo la gente  rispondono entrambi. 12

Allora il bambino si fida e segue la donna, mentre l’uomo si allontana. La sacra famiglia non esiste più, i due che compaiono alla fine svolgono la stessa funzione degli aiutanti nelle fiabe ma anche nelle opere di Kafka. Alla fine della società del padre e del figlio non c’è alcuna Città di Dio che scende in terra e neppure la ricomposizione della sacra famiglia, ma il cannibalismo, cioè quello stato di natura che due illustri filosofi videro in modo seppure divergente alle origini dell’umanità – Hobbes e Rousseau – come le due facce di una medaglia senza alcun valore e ampiamente contraddetta dagli studi antropologici più recenti. 13

Lei s’allontana con il bambino lui va in armi da un’altra parte e sarà lei a parlare al bambino di Dio, cioè della storia precedente che tuttavia è finita. I tre sopravvivono da postumi e il loro destino non lo conosciamo, ma sappiamo comunque che è un destino postumo rispetto a una storia precedente conclusa, che peraltro ripete coattivamente il solito paradigma patriarcale che ha portato alla catastrofe: l’uomo in armi difende la donna il bambino. Il romanzo però non finisce qui, ma poche righe più avanti eppure assai decisive.


7 Cormac McCarthy, La strada, traduzione di Martina Testa, Einaudi Torino 2007,  pag. 145.

8 Il racconto in questione è contenuto nella raccolta: J:G:Ballard, Tutti i racconti 1956-1962, traduzione di Roldano Romanelli, introduzione di Ballard e postfazione di Antonio Caronia, Collezione Immaginario, Fanucci editore Roma 2003. Pag. 291.

9 Ballard, in ogni caso, è l’autore che più si avvicina a McCarthy, specialmente in  Il mondo sommerso, anche perché si sforza di coniugare una scrittura apocalittica alle teorie scientifiche che si occupano di ambiente. Per esempio, nel testo citato arriva a ipotizzare lo scioglimento delle calotte polari, cioè un fenomeno che fa già parte della nostra attualità, seppure non ancora in dimensioni catastrofiche.

10 Uno, antichissimo, di finzione che dice la verità è quello cui ricorre Omero nell’Odissea, quando Ulisse giunge alla corte di Alcinoo. Con la consueta astuzia, l’eroe rintuzza le indagini del re con risposte che eludono tutte le sue domande, ma proprio per questo generano in Alcinoo sospetto e irritazione. L’ospitalità è sacra, ma egli medita di scardinare le difese di Ulisse e una sera inscena un vero colpo di teatro. All’ennesima cena in onore del suo ospite, il re invita anche Demòdoco, un vecchio cantore cieco (come lo stesso Omero secondo la leggenda) che talvolta intrattiene la corte raccontando le storie dei greci. Ulisse, convinto in questo modo di perpetuare ancor meglio il proprio mimetismo, invita il cantore a raccontare la storia dell’assedio di Troia. Quando si arriva all’inganno del cavallo, però, posto di fronte non alla realtà dei suoi atti, ma alla finzione teatrale della loro messa in scena, Ulisse scoppia in un pianto dirotto e rivela d’essere colui che ha provocato quei lutti. Ecco qui all’opera un mirabile esempio di come la finzione possa avere un valore catartico e quindi di metamorfosi e verità. Infatti, dopo quel pianto Ulisse troverà la via spianata per il ritorno a Itaca: i venti che tante volte gli erano stati ostili lo guideranno verso casa; forse però non si tratta soltanto delle inclemenze del mare, ma delle sue tempeste interiori che finalmente si sono placate

11 Cormac McCarthty, La strada pag. 36

12 Op.cit.pag.216.

13 Mi riferisco in particolare a due libri: L’alba di tutto scritto a quattro mani da David Wengrow e David Graeber e Il debito  gli  ultimi 5000 anni di David Graeber.

IL PICARO E IL BURLONE, L’EROE E L’EROS: LA NARRATIVA DI JUAN MANUEL DE PRADA

Introduzione

Juan Manuel De Prada, dopo un periodo di grande effervescenza editoriale e di presenza nella letteratura europea e non solo ispanica è un po’ rientrato nell’oblio. Su alcune sue opere scrissi anni fa una riflessione che uscì sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo oggi perché mi sembra quanto mai attuale.

Ripercorrere la narrativa di Juan Manuel De Prada dagli esordi significa addentrarsi in un universo molteplice, anche se – una volta arrivati alla fine – si riconosce la filigrana di uno stile già precocemente maturo. Come prima approssimazione si potrebbe affermare che De Prada è un narratore che crede nella possibilità di raccontare storie. Potrà sembrare banale una dichiarazione del genere ma se si pensa all’evoluzione del genere narrativo in Europa, a partire dal tormentone sulla morte del romanzo, iniziato negli anni ’60 e periodicamente risorgente, tale constatazione non è affatto generica. Raccontare storie è parso a molta critica e anche a molti autori, impossibile; oppure che tale possibilità appartenesse a una letteratura di intrattenimento e di facile consumo, mentre la narrativa alta perseguiva il culto esasperato della cosiddetta bella pagina, oppure si ingorgava nei meandri di una sperimentazione linguistica ingegnosa ma spesso vuota; oppure ancora si rinchiudeva in un freddo cerebralismo. Sembrava che non si potesse più coniugare il gusto della trama, dell’intreccio, del personaggio memorabile, con l’esigenza di una forte letterarietà, ma che le due cose fossero irrimediabilmente scisse, dalla crisi del romanzo ottocentesco in poi; sia per la concorrenza del mezzo cinematografico e televisivo sia per altre e più complesse ragioni. Naturalmente ciò che sto descrivendo è soltanto una parte del processo di trasformazione che ha investito il romanzo e anche il racconto. Juan Manuel De Prada appartiene alla schiera di chi pensa sia ancora possibile raccontare. In questo saggio mi occuperò di tre libri, i cui titoli sono indicati nella traduzione italiana: Fiche, La tempesta (l’ultimo romanzo pubblicato) e Le maschere dell’eroe, il secondo libro in ordine cronologico.

JuanManueldePrada2007

Il tenero burlone

Fiche, rubricato nella librerie italiane, come libro erotico e addirittura pornografico, non poteva trovare collocazione peggiore e stupida disattenzione presso la nostra critica. Il libro consiste di una raccolta di brevissimi e fulminanti racconti, che hanno per oggetto il sesso femminile, ma sono fecondati da un’immaginazione imprevedibile, a volte di impronta surrealista, a volte capace di tenerissima e struggente delicatezza. Bastano poche citazioni per darne un’idea. Scelgo, riproducendone un’ampia parte, il racconto dal titolo La fica della violoncellista, riservandomi un commento più approfondito sull’intero libro in chiusura del saggio.

Ora che le avanguardie hanno definitivamente smesso di dar fastidio, ora che il cubismo è andato a ingrossare le fila delle scuole classiche … a noi nostalgici dell’arte di inizio secolo resta solo la consolazione di assistere a un concerto d’archi; per vedere la violoncellista in simbiosi con il suo strumento, unica vivente immagine cubista rimasta al mondo … Che compenetrazione fra il violoncello e la donna che strappa alle sue corde gemiti, mormorii e grida d’esultanza! Che intreccio di linee rette e curve, che accoppiamento di carne e legno! … Ecco, la violoncellista stringe fra le ginocchia la concavità dello strumento, la superficie di legno incurvato, ondeggiante, che corrisponde alla linea della vita; poi lo afferra per il collo, gli pizzica le corde vocali, gli strofina il petto con l’archetto fino a ferirgli il cuore e a strappargli un si bemolle. Che coppia, il violoncello e la suonatrice! Che intreccio di gambe e braccia, degno di un ritratto di Juan Gris!

Durante l’intervallo vediamo la violoncellista stringere le chiavette del suo uomo di legno, come una donna che torca le orecchie all’amante un po’ tiepido. Nel secondo tempo, dopo la strigliatina, il violoncello sembra meno remissivo … Invano cerchiamo di immaginare la fica della donna, … desiderosi di assistere alla lotta che si svolge dietro al legno tra le viscere del violoncello e quelle della virtuosa … La fica delle violoncelliste, celata da mutande a cremagliera, deve possedere note di recondita musicalità, crome e semicrome, biscrome e semibiscrome, … o forse è in realtà un metronomo che batte il tempo con clitoride, destra sinistra, sinistra destra, allegro ma non troppo … Le fica della violoncellista, durante il diluvio di applausi che le vengono tributati, bacia le corde del suo amante, e ancora una volta l’estetica cubista resuscita; alla faccia di tanti musei a pagamento.” (pag 23).

Venezia, metafora di una soggettività terminale

Con l’ultimo libro uscito in Italia, La Tempesta, Juan Manuel de Prada scrive un’opera meno vistosa del primo romanzo, di cui mi occuperò successivamente. Tecnicamente, il libro si può definire un giallo, con tanto di assassinio iniziale e una serie di peripezie tipiche del genere. Dietro il teatrino, che peraltro De Prada orchestra con maestria, emergono però i tre protagonisti veri di quest’opera: la città di Venezia, il quadro di Giorgione che dà il titolo al romanzo e i falsari dell’arte.

Alejandro Ballesteros è un giovane docente che si reca nella città lagunare per incontrare Gilberto Gabetti, il direttore dell’Accademia, e per studiare uno dei quadri più misteriosi della tradizione pittorica italiana. Arriva d’inverno, Venezia è sommersa dall’acqua alta e dalla neve, è deserta e spettrale come le maschere del suo carnevale: l’umido e il marcio l’avvolgono completamente. È una città molto lontana dall’iconografia turistica! L’albergo che lo ospita non è da meno, con la sua l’insegna luminosa rossa, in sinistro contrasto con il paesaggio imbiancato. Un senso di morte sospesa alberga fin dalle prime pagine e infatti il delitto arriva puntuale non appena Alejandro si è ritirato in camera. Uno sparo, degli uccelli che volano via, un oggetto che tonfa nell’acqua del canale e un uomo riverso nella calle deserta, che il nostro studioso cerca di soccorrere. Il moribondo si chiama Fabio Valenzin ed è un noto falsario. Da quel momento Alejandro si trova coinvolto in un intreccio sempre più inestricabile, la scena si popola di altri personaggi in un crescendo di vicende che confluiranno, per incrociarsi tutte, nelle sale di un palazzo dove si tiene una festa di carnevale. Le donne, come sempre, sono protagoniste di primo piano nei romanzi di De Prada: dall’inquietante proprietaria dell’albergo, assassina del marito ma salvata dall’ispettore di polizia Nicolussi, con il quale ha stretto una perversa complicità, a Chiara; e poi Giovanna Zanon. Il giovane spagnolo si trova coinvolto in una sorta di pericoloso minuetto, al centro del quale ci sono le due donne e altri personaggi maschili docilmente manovrati. E il quadro di Giorgione? La Tempesta sembra destinato a non essere mai raggiunto né visto: fra interrogatori di polizia e colpi di scena, l’incontro con il dipinto sfuma e si confonde con il mistero della sua interpretazione. Quale sia è Chiara a rivelarlo ad Alejandro, prima ancora che lui possa vederlo:

E questa stessa mancanza di catarsi che ti turba tanto la ritroverai nella Tempesta … Anche nel quadro c’è un avvenimento che non avviene, una minaccia che rimane sospesa per aria, un lampo che non scatena la pioggia. Ma i personaggi della Tempesta non si agitano, niente può scuotere la loro indifferenza, niente li commuove. Nella Tempesta, come a Venezia, i fenomeni non si scatenano, la vita pende appesa a un filo sfidando le leggi della fisica, e questa imminenza che non si definisce è causa di apprensione e turbamento.(Pag.83)

Mancanza di catarsi: è l’espressione chiave usata da Chiara, che pronuncia queste parole mentre sta pulendo il pesce che mangeranno insieme la sera e del quale mostra le interiora con una certa perversa esibizione. Il marcio non abbandona mai i personaggi, li avvolge come avvolge tutta la città. Ma chi è poi Chiara? È la figlia di Gabetti; non riesce a distaccarsi da lui e ne è in un certo senso l’ombra, senza che questo le impedisca di avere relazioni che tuttavia la lasciano prigioniera di un complesso paterno del quale non è capace di liberarsi. Chiara conosceva Valenzin e dalle parole del padre si può pensare che fra loro esistesse qualcosa di più di una semplice conoscenza di lavoro; ma ciò che colpisce di più il giovane studioso spagnolo è un altro particolare:

Fabio le aveva insegnato alcuni trucchi che non s’imparano all’Accademia delle Arti. Pag 66.

Al sospetto avanzato da Ballesteros, Gabetti risponde piccato che si tratta di trucchi di restauro, che nulla hanno a che vedere con la sua attività di falsario, ma il dubbio rimane, il labirinto diventa sempre più inestricabile finché non compare Giovanna Zanon, ex moglie separata di Gilberto Gabetti e collezionista d’arte. Il giovane spagnolo è attratto da Chiara, ma è la Zanon che lo invita a casa sua per mostragli un quadro che teme essere un falso; naturalmente è il defunto Valenzin che glielo aveva venduto! Vuole il parere del giovane studioso spagnolo, ma usa la circostanza per mettere in atto una tragicomica scena di seduzione che finisce nel nulla; o meglio in un invito per la grande festa di carnevale che si svolgerà di lì a pochi giorni.

La galleria di personaggi non è ancora al completo; altri falsari, mercanti, guardia spalle, una misteriosa valigia che Valenzin aveva lasciato nell’albergo dove alloggia anche Ballesteros; e altro, fino allo svelamento finale dell’assassino. Ma non è questo, lo ripeto, il contenuto del libro: più scorrono le pagine e più il tema intorno al quale ruota il tutto è la confusione fra autentico e falso e l’impossibilità di tracciare confini netti: è la metafora, a livello estetico, di una decadenza morale inarrestabile.

Il picaro, gli eroi, gli anti eroi e l’eros

Soltanto in Spagna poteva nascere un’opera epica e corale come Le maschere dell’eroe, scritto in una lingua e proveniente da una terra che diede i natali al romanzo moderno con quel grande affresco picaresco che è El Lazarillo de Tormes.

Lo sfondo del romanzo torrenziale di De Prada è quello tragico e grottesco degli anni ’30, che sfoceranno nella guerra che la Repubblica Democratica eletta dal popolo spagnolo condurrà contro la sedizione fascista del generale Francisco Franco; ma è anche l’epoca dell’utopia anarchica che soltanto in Spagna ebbe il seguito che conosciamo e produsse anche (cosa incredibile a dirsi sotto certi aspetti), una cultura di governo e non soltanto quello che tutti si immaginano dell’anarchia: omoni con i baffi, più o meno bombaroli, slanci ideali poco sostenuti da visioni politiche poco razionali, un destino ineluttabile di sconfitte ecc. ecc.

Il romanzo di De Prada è esagerato come gli eventi che fanno da sfondo a tutta la vicenda e ai personaggi che occupano la trama di quest’opera affascinante. In questo sta la sua verità storica, che sintetizza tutti gli elementi di crudeltà, di eroismo, di  meschinità e tradimenti che hanno costellato una guerra civile fra le più spietate, combattute in un secolo che di crudeltà ne ha prodotta in quantità industriali.

Detto questo va subito aggiunto che Le maschere dell’eroe è un romanzo che ha a che fare con la storia ma che non può essere definito romanzo storico. Cominciamo dunque dalla trama in senso stretto.

Il romanzo prende le mosse da una lettera che Pedro Luis de Gálvez invia al Dottor Francisco Garrote Peral, direttore delle carceri. La missiva porta la data del 1908 e il narratore ci avverte che essa può essere pervenuta al direttore soltanto attraverso canali speciali, dal momento che non porta omissis o cancellature censorie. Quella del manoscritto o della lettera ritrovata, è un espediente narrativo molto antico. In tale lettera il prigioniero cerca di giustificare le proprie azioni perorando la propria causa al fine di ottenere uno sconto di pena. Ma chi è Gálvez? È un eroe bohemien, uno sradicato che abita un demi monde culturale e politico di massa. Repubblicano e scrittore combatte la guerra civile e continua a perseguire la sua carriera artistica. Sarà il suo nemico e alter ego Fernando Navales a diventare il custode delle sue opere, condannandole al silenzio. Egli incarna la figura del nichilista, ma i due si somigliano, le gesta dell’uno si travasano in quelle dell’altro.

Il narratore di larga parte del romanzo è proprio Navales, l’alter ego; è grazie alle sue memorie, infatti, che noi lettori veniamo a conoscere la storia.

Due manoscritti ritrovati stanno dunque alla base del romanzo. Si materializza nella narrazione di De Prada la figura eterna del doppio, del sosia, del perturbante, per dirla con il linguaggio di Freud. I due s’inseguono fino alla fine e anche dopo. Pedro Luis Gálvez viene fucilato il 30 aprile del 1940. Lascia una lettera al suo nemico e alter ego e un sonetto per Teresa, che la guardia civil gli strappa proprio mentre sta andando al patibolo. E quanto a Navales:

… morì senza stile, lui che si era tanto vantato di averne, nel più completo oblio; Pedro Luis de Gálvez appartiene ormai all’intatto cielo delle mitologie, cielo che di tanto in tanto abbandona, col permesso di Dio, per scendere all’inferno dove dimora il suo avversario e fargliene di tutti i colori, di qui all’eternità.

Ma adesso basta, o si scade nel moralismo. Pag. 615.

Dell’uno è anonima la vita, dell’altro le opere; solo nella finzione narrativa di De Prada rivivono entrambi.

Le maschere dell’eroe è pieno di figure perturbanti e di riflessioni al vetriolo sull’arte moderna, che diventeranno più pacate e definitive in La tempesta.

Falsari dell’arte, pittori di croste, poetastri, artisti mancati che la buttano in politica e viceversa; una galleria di personaggi grotteschi e, accanto a loro, autori memorabili e protagonisti della scena culturale di quegli anni: Luis Buñuel, Salvador Dalí, uno stralunato Jorge Luis Borges che si aggira vomitando in un bordello di Madrid, García Lorca, Ramón María del Valle Inclán. Ma sono veramente loro oppure sono il risultato di una miscela esplosiva di elementi biografici reali manipolati da un’invenzione sfrenata? E che differenza c’è fra le loro biografie e quelle degli anonimi che vivono gli stessi drammi e le stesse grottesche situazioni? La lingua sarcastica, truce e corrosiva di De Prada non risparmia niente e nessuno, ma è ponendo la sua lente d’ingrandimento sul degrado delle relazioni amorose che l’autore ci dà un’immagine plastica e dantesca degli anni ’30 spagnoli. Tutti i personaggi maschili e femminili sono coinvolti in relazioni sordide, conducono vite allucinate su uno sfondo di crescente violenza, di slanci ideali, di imprese e tradimenti continui. È una girandola continua e sullo scenario del romanzo aleggia una luce fosca, i personaggi non conoscono sosta né riposo; vivono in una sorta di frenetica eternità infernale. Gálvez e Teresa, Novales e Sara e le altre maschere che compaiono, a volte come semplici comparse disegnano tutte insieme un potente affresco, dove il rapporto sessuale degradato diventa una specie di sintesi o di monade metonimica, all’interno della quale si può vedere in piccolo tutto l’universo. Tutti diventano a turno moralisti e scellerati perché vedono sempre gli altri e mai se stessi. E così quando Navales scopre che Sara è in stanza con Ramón con la scusa di doversi preparare a recitare la commedia di lui ecco che l’uomo decide di coglierli sul fatto. Entra nel Torrione dove avvengono gli incontri clandestini e di cui anche lui ha naturalmente la chiave!:

Sara era ancora distesa sul letto, con il camicione sollevato e le calze abbassate…il suo corpo aveva il biancore misero e scialbo delle defunte messe nella bara senza lenzuolo funebre. – Hai ripassato bene la parte? – le domandò Ramón.

Era ridicolo come amante, si preoccupava della propria immagine anche quando finiva di eiaculare. Affrontava il coito senza spogliarsi, come chi si sottopone a una misura igienica per alleviare la prostata. Il fallo gli fuoriusciva dai pantaloni, incongruente come l’abito scuro della domenica…..- Tu credi che Fernando ce la farà pagare?-….- Tu credi che cercherà di distruggere il nostro amore?-

Utilizzava un linguaggio da feuilleton, parlando di una fuga consentita. Sul cassettone del corridoio c’erano due biglietti ferroviari per la tratta Madrid-Irùn-Parigi.: bisogna esser veramente di cattivo gusto e quasi putrefatti per scegliere Parigi come approdo di un adulterio. Uscii in punta di piedi, per non rovinare i loro piani. (Pag.388-89).

Le maschere del narratore

Vorrei concludere il saggio tornando a Fiche, quel libro così particolare e sorprendente, nel quale però si può leggere una delle filigrane che costituiscono la stoffa della narrativa di De Prada. Se il degrado di un’intera società viene visto attraverso la lente metonimica dei rapporti erotici, come abbiamo visto sia ne Le maschere dell’eroe, sia in La tempesta, tornare a questo libro d’esordio sembra quasi di immergersi in una fresca sorgente vitale. In Fiche non si parla dell’eterno femminino, né di una figura angelicata della donna. Il sesso femminile è esposto, la donna di De Prada è tutt’altro che asessuata; ma, – questa la straordinaria forza del libro – non è violata! Mai! E neppure penetrata; mentre nei due romanzi dove il sesso è presente come atto – sempre più abnorme in Le maschere dell’eroe, in modo più misurato e quasi come citazione del precedente in La tempesta – lo è sempre. Come violati nella loro dignità sono sempre anche i personaggi maschili; siano essi grandi della cultura del tempo o semplici comparse. Tutti sono immersi, uomini e donne, in un grottesco precipitare nell’abisso di una trasgressione coatta. C’è invece una grande innocenza in questo primo libro dal titolo irriverente, una limpidezza che si colora di nostalgia; forse il sogno di una cosa o quello di un rapporto d’amore che sembra irrimediabilmente perduto.

E il narratore come si colloca in tutto questo? C’è una spia che De Prada mette del suo secondo romanzo, Le maschere dell’eroe. È una citazione breve, che compare in una pagina che non fa parte del testo, essendo quella dei ringraziamenti dell’autore a tutti coloro che l’hanno aiutato nella stesura del romanzo. È una breve citazione che riporto integralmente e che chiude la pagina in questione. Scrive De Prada:

Come disse Marcel Schwob (dopodiché basta con le citazioni): Il biografo non deve preoccuparsi di risultare veritiero; deve creare, dal caos, dei tratti umani. E ora caro lettore, non capisco cosa aspetti a tuffarti a capofitto in questo caos. Salamanca- Zamora, maggio 1996. (pag.10).

Compaiono in questa breve citazione il nome di un gigante poco conosciuto della narrativa moderna e una parola chiave, Schwob, l’ispiratore di Borges e del Pavese dei Dialoghi con Leucò, le cui Vite immaginarie sono state ritradotte alcuni anni fa dalla casa editrice Azimut. La parola chiave è naturalmente caos. A partire da questa vorrei allora concludere  tracciando un parallelismo. Se nel Lazarillo de Tormès il vitalismo che vi predomina è quello di una società nascente e il personaggio – che vive certamente di espedienti – è  ancora positivo e volto al futuro, il truce vitalismo che alberga in Le maschere dell’eroe è quello di una soggettività e di una società moribonde, che si agitano e si tingono di belletto, come nella smorfia di un agonizzante. I protagonisti del romanzo per me maggiore di De Prada sono proprio figure grottesche, che mi ricordano – se fossero dipinte – i ritratti spettrali di Egon Schiele e di Otto Dix, ma con i corpi deformi e michelangioleschi di Arcimboldo.

Al tempo stesso, se la Venezia del ‘500-600 non era solo la capitale della Repubblica veneta ma dell’intero Occidente e se il suo sfarzoso carnevale era l’immagine della pienezza di una civiltà, la Venezia dei falsari veri e dei pittori falsi, di quadri veri che diventano falsi e viceversa, della festa carnevalesca dove alle stanche orge si mescola la cocaina, appare come lo scenario mortifero e grottesco della dissoluzione di quella pienezza. Il caos si colloca prima del principio ordinatore che ne fa un cosmo; oppure dopo, successivamente alla fase terminale di un cosmo che è divenuto entropico e si scioglie di nuovo nel caos.