L’APOCALISSE  E LA SINISTRA.

Le scritture apocalittiche sono cresciute di numero fino a diventare esorbitanti, come avviene quasi sempre in momento di acuta crisi. Una variante rinata in pieno ‘900 in ambito linguistico anglo-statunitense, è la distopia. Il rapporto della narrativa distopica con l’Apocalisse di Giovanni è problematico: assente in alcuni casi (Animal Farm e 1984, per esempio), presente labilmente in altri, tale riferimento è però di uso corrente nelle interpretazioni catastrofiche del testo giovanneo; specialmente in certa saggistica. Proprio a questo livello la relazione è innegabile, seppure basata su una lettura che può non soddisfare molti credenti, ma che è ben radicata nella tradizione protestante nordamericana; tanto radicata che importanti consiglieri di presidenti statunitensi si sono spesso lanciati in ardite formule terrificanti. Fredkin, per esempio con il suo urlo: la bomba all’idrogeno è la buona novella della dannazione! e i continui richiami all’Harmageddon, cioè allo scontro finale fra il Bene e il Male.1 Per non parlare dell’ineffabile Edward Luttwak che studia da decenni la Caduta dell’Impero romano per capire come cadrà quello americano e cercare di impedirlo.

In anni a noi prossimi, però, è avvenuto un nuovo cambiamento rispetto al passato e cioè l’uso della scrittura apocalittica come strumento di denuncia e di critica anticapitalistica. Prendo come pretesto per questa riflessione un lungo saggio di Dany-Robert Dufour, introdotto da una nota di Miguel Martinez. Il saggio s’intitola L’uomo modificato dal neoliberismo. Dalla riduzione delle teste all’alterazione dei corpi e fu pubblicato su Le monde diplomatique nell’aprile del 2005. Lo riprendo a distanza di anni perché mi sembra ancora attuale. Non mi addentrerò in un’analisi dettagliata delle tesi di Dufour che si rifà anche a esempi molto diversi e disparati fra di loro e fa molte affermazioni senza motivarle e senza spiegarle. Cercherò piuttosto di dire per quale motivo ritengo che le scritture apocalittiche non possono essere usate come strumenti di denuncia anticapitalistica o come critica allo storicismo della sinistra, come afferma Martinez nella nota introduttiva, confondendo però a mio giudizio storicismo con positivismo e riferendosi soltanto al marxismo storico novecentesco più che al pensiero di Marx. La sinistra non ha perso perché è stata storicista, ma perché ha smesso di essere anticapitalista, perché non ha accolto la sfida del femminismo, neppure quello che è rimasto ancorato alla critica anticapitalista, perché è rifuggita da un bilancio teorico, antropologico e non solo politico dell’esperienza fallimentare del socialismo reale; perché, infine, ha sposato le tesi neoliberali e neo liberiste, come dimostra il fatto che in Italia e non solo, le privatizzazioni più selvagge e tutta l’impalcatura disastrosa della cosiddetta casa europea sono state messe a punto e realizzate dai due governi Prodi e dal governo D’Alema (che ci ha pure regalato la partecipazione alla guerra alla Serbia) e non dai governi Berlusconi, che hanno fatto ben altri danni ma su terreni diversi. Lo stesso è accaduto in Francia e in Germania. 

Le scritture apocalittiche non possono essere strumenti di critica e denuncia in quanto non ammettono l’esistenza di una via d’uscita se non nell’escatologia e dunque fuori dalla storia. Come tali assumono la veste involontaria di apologie dell’esistente. L’Apocalisse di Giovanni, infatti, finisce con la discesa della città di Dio sulla terra solo alla fine dei tempi quando la guerra di tutti contro tutti ha dissolto la storia umana. La leggiamo ancora oggi dopo migliaia di anni perché è un grande testo letterario. Essa non fu scritta per criticare i mali del mondo, che erano terrificanti tanto quanto i nostri se non di più, ma per alimentare la speranza di un rapido ritorno di Gesù Cristo sulla terra. Mentre la via d’uscita per Giovanni esisteva come trascendenza, nell’uso catastrofico che dell’Apocalisse si fa nelle scritture mondane, la via d’uscita non esiste più, si viene posti di fronte al ritorno di Ananke, ma senza la grandezza del pensiero greco. Il linguaggio usato, allora, produce un effetto contrario a quello che vuole ottenere perché, invece di produrre indignazione aumenta i vissuti di frustrazione e impotenza. Viviamo dunque nei migliore dei mondi? Proprio no, ma la critica è altra cosa e non può essere disgiunta dall’indicazione almeno di un orizzonte di senso, cioè quello che manca alla sinistra ormai da decenni. Perché è l’orizzonte di senso che muove le persone ed è quest’ultimo il solo a generare praxis: qualsiasi denuncia disancorata da questo non produce nulla. C’è un’altra ragione che scoraggia l’uso critico della scrittura apocalittica. Come i miti, l’Apocalisse è qualcosa che esiste sempre ma non accade mai, ma nel suo aspetto di sempre esistente è sempre già accaduta. Gli esperimenti di clonazione umana di cui parla Dufour, Antinori li fa da anni, l’esistenza di corpi predati per fornire organi è documentata dall’Onu, la dissoluzione dei vincoli sociali è all’origine del sistema capitalistico, ma noi siamo ancora qui! Infine, la critica apocalittica assolutizza gli aspetti più appariscenti del momento ma non ne coglie gli aspetti ideologici, distopici e di falsa coscienza A questo proposito l’uso che Dufour fa di una celeberrima citazione di Marx è del tutto fuorviante. Riporto per intero citazione:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento dell’antico sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le istituzioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti … Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Se storicizziamo tale affermazione, ne comprendiamo bene la ragione: il suo intento era proprio quello di mettere in evidenza le differenze fra la staticità del mondo precedente, quello dell’ancien regime, regolato ancora dal sorgere e calare del sole e la nascente società industriale, governata dagli orologi, da un’ossessiva dinamicità e da tempi di lavoro che non coincidevano più con i tempi della prima natura. Se la critica di Marx viene riproposta tout court in un contesto diverso e destoricizzato assume essa stessa  una tonalità apocalittica del tutto estranea al suo pensiero. Per un verso Dufour non ci dice nulla di nuovo, visto che Marx lo aveva scritto duecento anni fa, dall’altro veicola un vissuto che si può condensare in un sentimento di resa: se le cose andavano così allora e vanno nello stesso modo oggi, non c’è nulla da fare. In questo modo però siamo del tutto interni alla legge dell’eterno ritorno, che è appunto la ragione per cui fu scritta l’Apocalisse di Giovanni. Invece le cose non sono andate affatto così e anche quella frase di Marx, è stata smentita e non confermata dalla storia, che è stata anche storia dell’insorgenza operaia, di una Rivoluzione contro il Capitale e di molto altro ancora. L’auto contraddittorietà del ragionamento apocalittico emerge a mio giudizio in questo passaggio del saggio di Dufour:

Ma il mercato riesce a strumentalizzare tutto a proprio vantaggio: già sono sulla breccia numerosi gruppi che vantano e vendono una morale da paccottiglia. Sarebbe però un errore cruciale abbandonare il dibattito sui valori ai conservatori, siano essi “neo” o di vecchio stampo. Se si trascura questo terreno, ad occuparlo provvedono George W. Bush, i tele-evangelisti e i loro accoliti puritani, come sta accadendo negli Stati uniti, oppure i populisti fascistoidi come in Europa. È dunque urgente costruire una nuova riflessione sui valori, sul significato della vita nella società e sul bene comune, rivolgendosi a fasce di cittadini allarmati, sia pure confusamente, dai guasti morali dovuti all’espandersi indefinito del regno delle merci. È chiaro che se si trascura questo terreno, molti cittadini saranno tentati di lasciarsi trascinare dalla parte di chi lo occupa in maniera tanto abusiva quanto rumorosa.

Se il mercato può strumentalizzare davvero tutto, quello che segue nel ragionamento di Dufour smette di avere senso se non nella direzione di un discorso astratto sui valori che non può essere conteso ai telepredicatori ma anche a un Bergoglio, per esempio, il quale cacciatosi nella missione impossibile di convertire al cristianesimo la curia romana e molti cattolici, si trova ad essere inviso a una buona parte dei medesimi, diventando al tempo stesso un involontario leader della sinistra senza pensiero!

Nel quaderno 32 intitolato Americanismo e fordismo, Gramsci, dopo una lunga serie di osservazioni sulla fabbrica fordista, arriva alla conclusione che l’ideale di operaio per il signor Henry Ford erano il robot e la scimmia ammaestrata. Se ci fermiamo qui la frase è apocalittica e sembra un’anticipazione di quell’uomo nuovo costruito in laboratorio di cui parla anche Dufour. Gramsci, però, la usa sia per affermare che il modello fordista si sarebbe affermato ovunque e che era quello cui si doveva guardare per capire i nuovi orizzonti della conflittualità di classe, sia per mettere in evidenza i caratteri ideologici e cioè di falsa coscienza di quell’osservazione. Quella della scimmia ammaestrata era l’utopia del signor Ford e di tutti quelli come lui (anche se preferisco definirla distopia e sul fatto che questo genere letterario sia nato in ambiente anglo-americano ci sarebbe molto da dire, ma esula dagli intenti di questo scritto). Ognuno ha le sue utopie, anche i capitalisti: alcune terrificanti come quelle indicate anche da Dufour, altre meno, come  quella di Adriano Olivetti. Ora, se è sbagliato irridere le utopie degli altri è ancora più sciocco crederle vere alla lettera! Rimango fedele a un’idea di essere umano come ente generico (Gattungsgewesen, per dirla con Marx), cioè non specializzato. Ciò vuol dire in sostanza che mentre le termiti sanno bene cosa sono al mondo per fare, lo fanno bene e sanno fare solo quello, gli esseri umani sanno fare un po’ di tutto, ma lo fanno genericamente e anzi, gli eccessi di specializzazione portano a corpi paradossalmente fragili. Questo lo si può notare osservando gli sportivi, specialmente in alcune specialità come la ginnastica e a prescindere dal doping. La ragione di questo è indicata anche da Dufour: la specie umana è neotenica. L’animale umano nasce immaturo rispetto a tutte le altre specie e l’osservazione di un qualsiasi animale appena nato ce lo indica facilmente: nessun cucciolo ha bisogno di tanta cura da parte di altri, mentre un neonato morirebbe nel giro di pochi giorni se fosse lasciato solo: la neotenia ci obbliga a inventare protesi e questo, grazie alla tecnologia, può favorire deliri di onnipotenza che sono anche forme ideologiche. Non so se Antinori pensa davvero di essere il dio di una nuova creazione, non lo conosco se non per avere letto un po’ di polemiche sulle sue ricerche (lo pensa, invece sicuramente Fredkin e cioè il massimo esperto di intelligenza artificiale); ma forse dovrà arrendersi alla mancanza di fondi e qualcuno che lo ricondurrà a miti consigli e altro ancora.

Paolo Rabissi, sul primo numero della rivista online Overleft, ha scritto un saggio sul più grande studioso del post modernismo – Frederick Jameson – che nella sua opera monumentale definisce proprio utopie del capitale certe ipotesi o intendimenti visionari e catastrofici, svelandone il contenuto ideologico. Al saggio di Rabissi rimando per chi volesse approfondire la questione.

Per venire a tempi a noi recenti e forse ancora nella memoria collettiva, il fordismo non è morto di morte naturale, ma perché ci sono state le lotte operaie di un secolo intero e perché le scimmie ammaestrate non erano tali, ma uomini e donne che si sono ribellati, che hanno creato valori diversi nella concretezza del loro agire e non in astratto; che questo in Italia, per esempio, ha significato anche avere per anni una scuola e un servizio sanitario di alto livello, che rimpiangeremo assai dopo averlo criticato perché volevamo di più. Il problema è che, se si smarriscono le radici, si smarrisce anche la propria storia e smarrendola non si cercano più gli errori che si sono fatti o le nuove aperture che non si sono viste, ma non ci si ricorda di quanto positivo è durato nel tempo! Allora si cade in una duplice forma di oblio: quella del tempo che non passa e che si traduce nel finto agire della cosiddetta sinistra radicale, oppure nel rinnegare del tutto il proprio passato sposando la causa neoliberista come è avvenuto sia per i partiti ex comunisti sia per le socialdemocrazie europee.


1 Uno studio dettagliato sui rapporti fra mistica e tecnologia si trova nel libro di David Noble intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito di invenzione. Esiste una vecchia edizione introvabile tradotta in italiano per Einaudi, ma fuori catalogo.

CORMAC McCARTHY: LA STRADA. Seconda Parte

Il romanzo di McCarthy si presenta dalle primissime pagine segnato dall’asimmetria fra tempo e spazio: il primo è azzerato nel senso che il futuro sembra non esistere più e il mondo vive in un eterno presente, mentre i luoghi e gli oggetti, sono riconoscibili e fanno già parte del nostro quotidiano, seppure in una forma solo un po’ più degradata rispetto alla realtà:

Nel giro di due giorni arrivarono in una regione dove le tempeste di fuoco si erano lasciate alle spalle chilometri e chilometri di terra bruciata. Sulla strada una crosta di cenere spessa diversi centimetri e difficile da affrontare con il carrello. L’asfalto sottostante aveva ceduto per il calore e poi si era risolidificato … Gli esili alberi caduti. La fanghiglia grigia dei canali. 7

I due protagonisti, un padre e un figlio, sono in fuga verso sud ovest – e quindi la California – perché in riva all’Oceano sperano che la vita sia più clemente. C’è di nuovo la frontiera, dunque; ma dall’epopea della conquista, passando per la Grande Depressione immortalata da Steinbeck in Furore e nelle poesie di Karine Hesse, si è giunti al tempo presente azzerato.

In che rapporto si pone questo romanzo con il genere della distopia, di cui la letteratura anglo-statunitense ci ha dato nei secoli scorsi molti e celeberrimi esempi? Confrontiamo il brano precedente con quello che segue, tratto da un racconto di Ballard dal titolo Le voci del tempo:

Raggruppate a semicerchio a breve distanza gran parte delle vasche e delle gabbie accatastate l’una sull’altra alla rinfusa. In una di esse un’enorme pianta simile a un polipo era quasi riuscita ad arrampicarsi fuori dal terrario … il suo corpo era esploso in una pozza gelatinosa di mucillagine globulare. In un’altra un gigantesco ragno  rimasto intrappolato nella propria tela penzolava impotente … Tutte le piante e gli animali del laboratorio erano morti.8

Le affinità indubbiamente esistono; entrambi gli scenari sono inquietanti e hanno aspetti apocalittici, ma nel secondo caso, alcune parole chiave, il tono della descrizione e le dimensioni abnormi degli animali, ci fanno individuare subito il genere di appartenenza, così che il lettore viene subito portato dentro un mondo artificiale e futuribile, anche se nel caso di Ballard come di Philip Dick, il genere diventa allegoria. Il racconto in questione risale a un’epoca compresa fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso e immagina un futuro di dominio della tecnologia, fatto di città futuribili, più o meno abnormi e mostruose, esperimenti pericolosi come quello cui si allude in questo brano.9

Per quanto inquietanti, le opere distopiche, lette a distanza di anni, rivelano tutta l’ambivalenza di chi si sente al tempo stesso affascinato e impaurito dalla società futuribile che descrive, mettendo in atto anche espedienti narrativi che colludono con la realtà descritta. Con La strada non siamo più nella fantascienza e neppure nella distopia per il semplice fatto che non c’è più il futuro e cioè la proiezione temporale verso cui tutte le opere di genere si protendono: uno dei temi sottesi a La strada è proprio come continuare a vivere e questa è una prima risonanza che il romanzo intrattiene con il libro di Ciccarelli, che si pone, fra gli altri, anche questo interrogativo: come vivere da postumi?

Il romanzo è l’esito coerente del percorso del suo autore: tutti gli elementi forti costituivi della sua narrativa e del rigore stilistico vengono tesi al massimo; ma è proprio questo che getta una luce diversa sull’intera opera dallo scrittore. Non nella semplice rivisitazione del mito statunitense e bianco delle origini va cercata la sua forza, ma nel fare della conquista del West la metafora della possibile fine della specie umana. Nel rappresentare questo, tuttavia, McCarthy porta anche alle estreme conseguenze il telos implicito che era contenuto in altre opere che per tutto il secolo scorso hanno ipotizzato, con la loro visionarietà, gli esiti catastrofici che qui vediamo rappresentati; ma quella era fiction e solo fiction. Sarà difficile per tutti (e dunque anche per lui) scrivere opere catastrofiche dopo questo romanzo e proprio nel finale lo scrittore allude al necessario superamento della sua stessa narrativa.  

L’orizzonte delle grandi distopie novecentesche è sempre il futuro (meglio ancora il futuribile), anche quando il tempo narrativo scelto è il passato remoto.

L’arte naturalmente è sempre finzione, ma secondo una nota definizione che mi permetto di parafrasare, c’è differenza fra una finzione che dice la verità e una che invece reitera la finzione stessa con una sequenza d’effetti speciali, il cui unico scopo è quello d’intrattenere. Naturalmente si può obiettare che tracciare una linea netta fra le due finzioni è difficile se non impossibile; tuttavia è possibile stabilire delle analogie, perché penso che ciascuno, intuitivamente, possa comprendere tale differenza, se posto di fronte a  un esempio concreto.10

La finzione minima di cui si serve McCarthy è quella di dare per scontato che la catastrofe sia già avvenuta, senza spiegarne assolutamente i motivi: non vi è nulla nel romanzo, infatti, che ci possa fornire una qualche indicazione al proposito. La perentorietà dell’inizio (le prime due o tre pagine), che forniscono la chiave e danno il tono dell’intero romanzo, sono sufficienti a testimoniarlo. Lo stile di McCarthy ricorda il concetto di straniamento che spinge chi legge a identificarsi con la situazione drammatica nel quale i protagonisti sono coinvolti, piuttosto che con l’eroe, della cui esistenza si sono perse le tracce anche se rientrerà in scena nel finale nei modi che vedremo. L’identificazione è piuttosto con la nuda vita, con la necessità di una cura rivolta alle cose minime di cui è fatta una vita postuma; oppure con una speranza che è rivolta a una gratuità senza limiti, ma anche senza scopi. Kafka, almeno nella lettura che ne dà Walter Benjamin, era arrivato alle medesime conclusioni decenni prima. Per chiarire questo punto rimando alle conclusioni.  

Una secondo elemento, combinato con questo, crea nel lettore, la sensazione di trovarsi dentro la vicenda e non proiettato in chissà quale tempo a venire. Consideriamo per esempio questo passaggio:

La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti. … Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava e cielo. Nel tardo pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve bagnata che sibilava contro la plastica.”11

Il lessico comune, la sobria aggettivazione, la semplicità e brevità dei periodi, talvolta senza alcun verbo, ma semplicemente descrittivi (Mucchi di rifiuti indistinti) danno alla frase maccartiana un forte impatto comunicativo. Se isoliamo ciascuno dei periodi, come se fossero le inquadrature di una lenta sequenza girata in piano medio o americano, possiamo facilmente riconoscere in ciascuna di esse, scenari che abbiamo modo di osservare quotidianamente: è il loro lento accumulo che diviene inquietante perché sedimenta in chi legge un mosaico che assomiglia molto al mondo in cui già viviamo, ma ce lo fa percepire solo un po’ più grigio e uniformato alle sue punte più estreme di dissesto, ma che alla fine ci commuove perché riconosciamo in esso un mondo che stiamo lentamente perdendo e non un futuro indefinito.

Anche i protagonisti che abitano questo mondo, a cominciare dai due più importanti e cioè il padre e il figlio, si trovano immersi in una socialità terminale, dove sono poche le azioni razionali che si possono compiere: incombe la necessità della sopravvivenza insieme a quella della difesa. In questo mondo ridotto all’osso si dispiega la vicenda straziante e tragica del viaggio dei due, fino alla sua conclusione. Il cammino intrapreso porta in direzione della California, cioè del sud e dell’ovest, dove era terminata la conquista e da dove prese inizio anche la narrativa di McCarthy. A differenza del mito e persino dei viaggi verso la California durante la Grande Depressione, non vi è scelta possibile né una vera prospettiva di rinascita: devono andare verso l’Oceano nella speranza che il clima sia più mite, perché dove si trovano ora la sopravvivenza è a termine e per il padre sarà proprio così: quando l’oceano si profila all’orizzonte egli muore e il bambino rimane solo. Sembra la conclusione di tutto, la fine di tutte le fini; invece la sua morte apre uno scenario nuovo.

Un finale aperto

Il finale del romanzo è idealmente diviso in due parti: nella prima viene portato a compimento fino alla dissoluzione la figura dell’eroe nella sua versione cristiana e sincretica, che racchiude in sé anche il precedente greco e classico. Quanto più ci avviciniamo all’epilogo infatti, tanto più il lettore capisce che i due personaggi principali del libro assumono sempre più una dimensione allegorica, pur conservando tratti realistici: sarà sufficiente ricordare che il figlio veglierà la salma del padre morto per tre giorni. L’eroe morto è dunque Gesù Cristo e non il Dio vetero testamentario. Che padre è quello che vediamo in scena? Protegge sì il figlio, ma lo fa diffidando di tutto e di tutti e quindi consegnandolo a un destino di autistica asocialità. Egli non rappresenta un modello alternativo, una legge con cui identificarsi in modo positivo; di fronte del pericolo estremo l’unica cosa che sa fare è indicare al figlio la strada del suicidio, gli consegna sempre la sua pistola e gli insegna a usarla o a farla finita cioè a compiere un sacrificio divenuto nel frattempo del tutto inutile perché non vi è per questa strada alcuna redenzione possibile per l’umanità intera, come nel mito cristiano avviene tramite il sacrificio sulla croce. Tuttavia, proprio ripensando al romanzo dal suo inizio e agli altri, appare sempre più evidente una vistosa assenza: la madre, la donna, senza la quale non esiste la sacra famiglia. In un breve passaggio del romanzo la figura femminile era comparsa, ma in una sorta di teatrino. Davanti alla catastrofe l’uomo e marito della donna avevano reagito in modo diverso: i due si erano lasciati e il bambino aveva seguito il padre nella sua fuga verso il sud ovest.   

Parlare di presenza del femminile nei romanzi di McCarthy, assume un connotato amaramente ironico, trattandosi in sostanza di un’assenza che risponde rigorosamente a una ferrea logica narrativa e non solo. Le donne, nella narrativa di McCarthy, semplicemente non esistono, la società post catastrofe è sia quella del padre vetero testamentario sia quella del figlio che avrebbe dovuto sostituirlo, mentre il bambino che sopravvie al padre morto non è affatto una nuova perpetuazione del ciclo, come vedremo da una battuta successiva. Nei romanzi precedenti di McCarthy tutto questo era accennato per allusioni o filtrato attraverso personaggi femminili irrilevanti o ridotti a mostri androgini. Nell’epilogo de La strada, invece, il femminile compare e si tratta di una donna solare, aperta, seppure tratteggiata in poche righe. Non è sola è insieme a un uomo, entrambi si rivolgono separatamente, al bambino e sembrano accendere un primo lume nelle tenebre in cui è avvolta tutta la vicenda. L’uomo, ferito e armato, rassicura il bambino. La donna si prenderà cura di lui dopo che ha salutato per l’ultima volta il padre morto; lo abbraccerà e gli parlerà di dio, aggiunge il narratore. Il bambino però non si fida e rivolge a entrambi separatamente una domanda perentoria e che chiarisce il perché della comparsa di questi due personaggi:

Ma voi non mangiate la gente? No, noi non mangiamo la gente  rispondono entrambi. 12

Allora il bambino si fida e segue la donna, mentre l’uomo si allontana. La sacra famiglia non esiste più, i due che compaiono alla fine svolgono la stessa funzione degli aiutanti nelle fiabe ma anche nelle opere di Kafka. Alla fine della società del padre e del figlio non c’è alcuna Città di Dio che scende in terra e neppure la ricomposizione della sacra famiglia, ma il cannibalismo, cioè quello stato di natura che due illustri filosofi videro in modo seppure divergente alle origini dell’umanità – Hobbes e Rousseau – come le due facce di una medaglia senza alcun valore e ampiamente contraddetta dagli studi antropologici più recenti. 13

Lei s’allontana con il bambino lui va in armi da un’altra parte e sarà lei a parlare al bambino di Dio, cioè della storia precedente che tuttavia è finita. I tre sopravvivono da postumi e il loro destino non lo conosciamo, ma sappiamo comunque che è un destino postumo rispetto a una storia precedente conclusa, che peraltro ripete coattivamente il solito paradigma patriarcale che ha portato alla catastrofe: l’uomo in armi difende la donna il bambino. Il romanzo però non finisce qui, ma poche righe più avanti eppure assai decisive.


7 Cormac McCarthy, La strada, traduzione di Martina Testa, Einaudi Torino 2007,  pag. 145.

8 Il racconto in questione è contenuto nella raccolta: J:G:Ballard, Tutti i racconti 1956-1962, traduzione di Roldano Romanelli, introduzione di Ballard e postfazione di Antonio Caronia, Collezione Immaginario, Fanucci editore Roma 2003. Pag. 291.

9 Ballard, in ogni caso, è l’autore che più si avvicina a McCarthy, specialmente in  Il mondo sommerso, anche perché si sforza di coniugare una scrittura apocalittica alle teorie scientifiche che si occupano di ambiente. Per esempio, nel testo citato arriva a ipotizzare lo scioglimento delle calotte polari, cioè un fenomeno che fa già parte della nostra attualità, seppure non ancora in dimensioni catastrofiche.

10 Uno, antichissimo, di finzione che dice la verità è quello cui ricorre Omero nell’Odissea, quando Ulisse giunge alla corte di Alcinoo. Con la consueta astuzia, l’eroe rintuzza le indagini del re con risposte che eludono tutte le sue domande, ma proprio per questo generano in Alcinoo sospetto e irritazione. L’ospitalità è sacra, ma egli medita di scardinare le difese di Ulisse e una sera inscena un vero colpo di teatro. All’ennesima cena in onore del suo ospite, il re invita anche Demòdoco, un vecchio cantore cieco (come lo stesso Omero secondo la leggenda) che talvolta intrattiene la corte raccontando le storie dei greci. Ulisse, convinto in questo modo di perpetuare ancor meglio il proprio mimetismo, invita il cantore a raccontare la storia dell’assedio di Troia. Quando si arriva all’inganno del cavallo, però, posto di fronte non alla realtà dei suoi atti, ma alla finzione teatrale della loro messa in scena, Ulisse scoppia in un pianto dirotto e rivela d’essere colui che ha provocato quei lutti. Ecco qui all’opera un mirabile esempio di come la finzione possa avere un valore catartico e quindi di metamorfosi e verità. Infatti, dopo quel pianto Ulisse troverà la via spianata per il ritorno a Itaca: i venti che tante volte gli erano stati ostili lo guideranno verso casa; forse però non si tratta soltanto delle inclemenze del mare, ma delle sue tempeste interiori che finalmente si sono placate

11 Cormac McCarthty, La strada pag. 36

12 Op.cit.pag.216.

13 Mi riferisco in particolare a due libri: L’alba di tutto scritto a quattro mani da David Wengrow e David Graeber e Il debito  gli  ultimi 5000 anni di David Graeber.