MEMORIA E RICORDO

Nel pieno dei processi staliniani degli anni ’30, delle repressioni e internamenti nei Gulag che ne seguirono, alla poetessa Anna Achmatova accadde un giorno di trovarsi  in mezzo a una fila di persone che attendevano il proprio turno davanti a una stazione di polizia, dove si erano recate per chiedere notizie dei congiunti e amici arrestati. La fila triste, i volti bassi dei presenti, l’angoscia che regnava su tutto e tutti trasformava il silenzio in qualcosa d’intollerabile, ma al tempo stesso impediva la parola, azzerava qualsiasi discorso. Poi, alzando lo sguardo da terra, una donna anziana la riconobbe e, in un lampo di speranza e sollievo, si rivolse alla poeta dicendole: “Lei può raccontare tutto questo.”

Sappiamo dell’accaduto dalla testimonianza della Achmatova stessa, dunque, superficialmente, si potrebbe dire che la poetessa ha ottemperato a ciò che l’anonima donna le chiedeva; solo superficialmente, però, poiché credo che questo piccolo e tragico episodio, introduca molto bene la differenza che vi è fra ricordo e memoria. Se scomponiamo la scena nelle sue sequenze, prese isolatamente, vediamo una triste fila di persone, sconosciute le une alle altre, forse in parte sospettose le une delle altre e che dunque non si confidano i loro guai. Anna Achmatova è una di loro, è anche lei anonima, ha le stesse apprensioni degli altri, attende silenziosamente il suo turno. Se connettiamo lo spazio scenico con il tempo possiamo collocare sull’asse delle ascisse la fila anonima delle persone che si succedono nello spazio, mentre possiamo porre sull’asse delle ordinate le scansioni del tempo d’attesa, un tempo anch’esso anonimo che fa solo da sfondo neutro alla tragedia che si sta svolgendo e la cui unità di misura sono gli istanti rappresentati dalle persone che entrano una dopo l’altra dentro la stazione di polizia. Nella seconda sequenza, in primissimo piano, abbiamo due sguardi che s’incrociano per caso: idealmente, lo possiamo rappresentare come il punto in cui le due linee degli assi cartesiani s’incrociano. Uno sguardo s’illumina. L’istante rompe la cattiva continuità temporale, istituendo uno spazio differente; dentro questo perimetro spazio temporale la comunicazione diventa possibile.

Nella terza scena, ancora breve, un altro istante rispetto al monotono scorrere del tempo, la donna non ha riconosciuto un’amica di cui si fida e neppure una persona qualsiasi, bensì la poeta Anna Achmatova. La barriera di diffidenza cade di colpo, la richiesta della donna del popolo è perentoria, ma di quale richiesta si tratta esattamente? Cosa viene chiesto alla poeta: di ricordare forse? No, la richiesta è più complessa e per avvicinarsi al senso che essa racchiude bisogna usare un altro verbo da quello comune, perché ricordare suona troppo generico. Anche l’anonima donna poteva ricordare e c’è da credere che lo abbia fatto, che il segno di quella tragica attesa non l’abbia abbandonata per tutta la vita. Evidentemente, però, la popolana, in modo più o meno cosciente, stava chiedendo altro e per questo si rivolgeva alla Achmatova, non in quanto persona anonima che attendeva come lei e come tutti, in preda al suo personale strazio, bensì alla scrittrice, alla poeta.

Il ricordo può essere privato, ma per diventare universale ha bisogno di una forma; la memoria collettiva non è una testimonianza qualunque da aula di tribunale e probabilmente neppure una serie quantitativamente importante di testimonianze singole, anche se la tendenza contemporanea di costruire una storia memoriale grazie alla ricostruzione personale di eventi storici, da parte di persone non direttamente coinvolte in posizioni di responsabilità diretta, sia un fattore importante di cui tenere conto.

Naturalmente da questo episodio si possono trarre molte altre considerazioni: prima fra tutte che nell’Unione Sovietica staliniana degli anni ’30 gli scrittori godevano di uno statuto di credibilità che oggi si può riscontrare soltanto nei paesi Latino Americani, in India, nei paesi Islamici, e in Estremo Oriente; ma non in Europa o negli Stati Uniti. Forse in Russia.

Torniamo alla Achmatova e alla donna che si rivolse a lei. Non sono in grado di dire in che modo la poeta abbia metabolizzato in senso artistico questo episodio e altri simili: non ne conosco così profondamente l’opera tanto da poterlo dire; sono certo, tuttavia, che, se lei lo ha raccontato, il problema se lo è posto e ha tentato pure di risolverlo, forse senza riuscirci, se ha sentito così fortemente il bisogno di restituirlo a noi in una forma che non è quella che si chiede a un racconto che abbia lo statuto riconoscibile di un’opera artistica, ma quello di una semplice testimonianza.

Alexander Solgenitsin, invece, la tragedia dei Gulag staliniani ha cercato di raccontarla e i suoi romanzi, discutibili anch’essi, talvolta, nella loro resa estetica, sono importanti e appartengono a pieno titolo alla grande letteratura; tanto che la parola Gulag è diventata un simbolo e un’icona del campo di concentramento, affiancando nell´immaginario collettivo il termine precedente, Lager, che godeva, fino agli anni ‘80 del secolo scorso, una predominanza pressoché totale.

Gli scrittori veri inventano sempre parole nuove, che diventano successivamente di tutti. Fu così anche con Primo Levi, la cui testimonianza sui campi di sterminio nazisti è tuttora insuperata, anche perché letterariamente risolta. I suoi romanzi, quale per esempio, Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, oppure  Arcipelago Gulag, Un giornata di Invan Denissovic, del romanziere russo, hanno contribuito a creare una memoria collettiva che è diventata nell’Europa del secondo dopoguerra, senso comune largamente condiviso. Mancano all’appello gli Stati Uniti.

La memoria dei vincitori   

Non esiste una narrativa statunitense che abbia elaborato le tragedie della Seconda Guerra Mondiale e ciò che più l’ha caratterizzata: il lager come immagine sintetica dell’accaduto. Ci sono testimonianze cinematografiche (molte di pregio), che insistono sulla ragione dei vincitori, sulla superiorità delle democrazie occidentali, oppure che indulgono nel culto dell’eroismo e fanno del conflitto bellico lo scenario ideale per film di grande impatto spettacolare: valga per tutti l’esempio de Il giorno più lungo. Oppure propagandano l’immagine dell’americano liberatore. I grandi film sulla Shoah, però, sono tutti europei fino a tempi molto recenti: l’unico statunitense, addirittura hollywoodiano, è Shindler’s list di Spielberg. Se si vuole ricordare un grande romanzo di guerra statunitense bisogna tornare a Addio alle armi di Hemingway e, per il cinema, arrivare fino alla guerra del Vietnam. Tutta l’epopea del West e le allegorie di Cormac McCarthy affrontano il tema bellico e quello della violenza congenita della società americana, ma lo fanno con modalità che prescindono da questo o dall’altro evento storico; infine Scorsese, in Gangs of New York ha affrontato in modo hollywoodiano (sebbene il film sia stato girato a Cinecittà), il nucleo psicologico e sociale dell’imperialismo americano e cioè la necessità del nemico esterno per impedire la dissoluzione della società americana dall’interno.  

Le ragioni che possono spiegare questo atteggiamento sostanzialmente reticente, sono tante: quella apparentemente più semplice è che gli Usa, mai invasi prima dell´11 settembre, da un evento bellico che pioveva davvero sulle loro teste, hanno una percezione molto rarefatta dello sconvolgimento che una guerra provoca nella società civile. Un’altra, fallace, sta nel pensare che il lager fu un problema eminentemente europeo, dimenticando che due milioni di nippo statunitensi furono internati in campi di concentramento negli Usa dopo l’attacco alla base di Pearl Harbour e che, alla fine del conflitto, di centinaia di migliaia di loro non si ebbe più notizia. Una terza potrebbe indicare un riflesso di altro genere, una disattenzione dovuta al fatto che, in fondo, la tragedia della persecuzione ebraica è una storia tutta europea. Penso, tuttavia, che ci sia una ragione preponderante, addirittura enorme e che, se mai, utilizza tutte le altre ragioni al fine di perpetuare nel tempo una gigantesca rimozione: il lancio dell’atomica su Hiroshima e Nakasaki e il trattamento differenziato che la cultura occidentale tutta (anche europea dunque) assegna alle due città giapponesi  rispetto ad Auschwitz, luogo qui inteso in senso riassuntivo e simbolico dell’intera tragedia della Shoah. [1]   

Gli Usa e la Shoah

Se dalla narrativa si passa alla storiografia, la rimozione è altrettanto pesante. Per comprenderlo occorre fare un passo indietro. L’attenzione statunitense nei confronti della Shoah è recente e direttamente proporzionale alla difesa dello stato di Israele, mentre è stata del tutto ignorata nei decenni successivi la Seconda Guerra Mondiale. Durante il maccartismo, per esempio, ogni accenno alla persecuzione degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, era visto con sospetto negli Usa, in quanto l’intelligentia ebraica aveva forti simpatie comuniste e socialiste e nella mentalità paranoica di quegli anni bastava essere semplicemente critici dell’American way of life per essere perseguitati: la vicenda surreale di Chaplin e quella ben più tragica dei coniugi Rosenberg lo sta a testimoniare. Quando fu pubblicato il libro di Annah Arendt, oggi tanto esaltato, e cioè La banalità del male (siamo a metà degli anni ’60, dopo il processo al criminale nazista Eichman), la diffidenza era così forte che ne fu sconsigliata la pubblicazione negli Usa. Tutto questo, nel silenzio totale da parte della comunità ebraica di quel paese e non solo.

Se poi si passa al bombardamento atomico delle città giapponesi nonché alla criminale rappresaglia seguita alla battaglia di Okinawa, che portò al bombardamento di Tokio durante il quale i morti furono persino superiori per numero a quelli immediatamente colpiti dalle bombe nucleari, la rimozione è totale.

Quanto ai campi di internamento statunitensi, il primo film degno di nota sulla tragedia dei nippo statunitensi è della metà degli anni ’60, uno più recente con Richard Geere, affronta di nuovo il tema in modo assai edulcorato, ma non esiste nulla di paragonabile rispetto all’attenzione dedicata ad altri eventi. La storiografia ufficiale giustifica l’atomica, non vi è traccia di revisionismo o almeno di resipiscenza critica per un atto che, sotto ogni aspetto, si configura come un crimine contro l’umanità, neppure giustificato da esigenze belliche, dal momento che il Giappone era allo stremo e non poteva minimamente minacciare le potenze alleate. La logica politica che guidò quella decisione scellerata, lo sanno tutti anche non si può dire, fu quella della vendetta e della rappresaglia da un lato (una sorta di attualizzazione del detto romano guai ai vinti) e costituiva un avvertimento all’Unione Sovietica dall’altro. Finché non ci sarà anche solo simbolicamente, una Norimberga per Hiroshima e Nakasaki, la memoria dell’occidente sarà basata solo su un peloso senso di colpa nei confronti della Shoah e nella rimozione di un altro crimine spaventoso.

L’uso politico della memoria storica appare qui talmente vistoso da risultare grottesco. Se la condanna dei Rosenberg fosse accaduta oggi si può dare per certo che essa sarebbe stata rubricata come una vicenda di antisemitismo, tanto frequente e abusata tale accusa nei conforti di tutti coloro che semplicemente criticano la politica di discriminazione razziale e apartheid da parte dello stato di Israele. D’altro canto, tale atteggiamento corrisponde a una filosofia della storia che si è fatta strada nel corso del ‘900 e che è diventato una sorta di paradigma dopo la tragedia della seconda Guerra Mondiale e cioè la considerazione che lo sconfitto, il vinto, sia per definizione anche un reprobo, concetto che appare all’orizzonte solo nel secolo scorso: dall’avversario al nemico, al Male. Tutto ciò con effetti grotteschi: non appena appare qualcuno all’orizzonte che disturba la politica americana esso diviene immediatamente il nuovo Hitler!

Che rapporto ha, invece, l’Europa con la storia e la memoria della Seconda Guerra Mondiale? Apparentemente la risposta è molto semplice: sono talmente numerose le celebrazioni, le manifestazioni, le reiterate iniziative istituzionali con cui viene ossessivamente ricordata la Shoah, da sembrare, la mia, una domanda inutile. Non lo credo affatto, invece, perché anche nel continente europeo, se si gratta sotto l’apparenza, si scoprono molte crepe in quella che sembra l’icona ben costruita. Prima di tutto va ricordato che anche in Europa, per ragioni diverse rispetto agli Stati Uniti, la memoria collettiva della Shoah è più recente di quanto non si creda. Subito dopo il conflitto gli stessi internati nei campi di concentramento non parlavano volentieri della loro esperienza e lo si può comprendere; ci vuole del tempo per metabolizzare una simile tragedia. Le stesse opere letterarie citate in precedenza non nascono nell’immediatezza, ma successivamente. Lo stesso si può dire per la Germania, dove il processo di elaborazione del passato è stato fatto in una forma che è sconosciuta in altri paesi (per esempio in Italia) che portano le stesse responsabilità politiche, almeno per quanto riguarda i crimini di guerra in altri paesi: mi riferisco all’uso dei gas nelle guerre coloniali del fascismo e alle efferatezze compiute dall’esercito italiano durante l’occupazione della Croazia e del Montenegro.

La memoria come costruzione    

La memoria può essere soltanto costruzione e ricostruzione insieme. Tale processo può essere compiuto sia dagli storici, sia, almeno in teoria, dagli scrittori.

Nel Giulio Cesare di Shakespeare c’e’ un passaggio che ha fatto saltare il buon Freud sulla sedia e forse fu uno dei dati che lo spinse a scrivere (secondo me con un ottimismo eccessivo, se guardiamo a quanto avvenuto successivamente), che gli scrittori e i poeti avevano inventato la psicanalisi prima di lui.

Nella tragedia del grande bardo si accenna al fatto che Cesare, uscendo di casa il mattino del fatidico 15 marzo, inciampi nella soglia. Naturalmente sul piano del dato storico, tutto questo non esiste: nessuna testimonianza, da Sallustio a Tacito ad altri storici romani ci autorizzano a pensare a qualcosa del genere. Sappiamo che secondo la cultura pagana del tempo Cesare aveva avuto le sue premonizioni; sappiamo pure che alcune di esse erano molte precise nel delineare la congiura, ma che abbia inciampato nel gradino uscendo di casa è una pura invenzione, ma la circostanza è talmente vera sul piano psicologico che si può finire per crederla vera anche sul piano storico.

La memoria può essere solo una costruzione che si avvale di apporti diversi e appartenenti a campi diversi che spaziano dall’arte all’antropologia ed è dal loro intreccio che si può arrivare a una affresco degno di nota, mentre una dossologia di eventi che, per il solo fatto di essere posti in una scansione lineare di tempo che procede dal più piccolo al più grande pretendono perciò stesso di essere significativi, finiscono per avere poco senso, come non ne aveva la fila di persone dalla testa bassa in attesa di entrare nella stazione di polizia, con cui questa riflessione è iniziata. Ciò che distingue quella fila da una qualsiasi coda in attesa di entrare in un ufficio postale, oppure di salire su un autobus, è l’istante in cui lo sguardo della popolana rompe la cattiva sequenza spazio-temporale e successivamente, ciò che da quello sguardo e da quella rottura poteva nascerne. La testimonianza di Achmatova, non ci ridà il senso compiuto, neppure il suo ricordo diviene memoria, ma la sua testimonianza illumina la differenze che noi possiamo leggere in altri: oltre ai ricordati già Levi e Solgenitsin, anche altri che ciascuno può inserire in un elenco personale di scrittori che conosce.


[1] L’espressione trattamento differenziato non è mia. La prendo in prestito dal filosofo Costanzo Preve che l’ha usata nel suo libro dedicato alla guerra della Nato alla Serbia .

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Terza parte

Un tentativo di bilancio

L’originalità di questo frammento di storia culturale italiana è indubbia, sia per la durata nel tempo, sia perché è sufficiente una rapida indagine per capire che in nessun altro paese occidentale è esistito qualcosa di paragonabile. A valle dei cicli industriali conclusi è nata in Gran Bretagna e nel nord Europa una disciplina come l’archeologia industriale, che si è diffusa in vario modo anche in altri paesi. Il restauro dei docks di Londra, piuttosto che i villaggi minerari sono esempi straordinari di queste nuove discipline, nonché attrazioni turistiche; ma siamo nell’ambito di una cultura museale, seppure profondamente diversa dal museo tradizionale.9

In sede conclusiva mi pongo due interrogativi in particolare: è esistita un’egemonia della cultura di sinistra nell’Italia del secondo dopoguerra? Il particolare rapporto fra cultura, industria e movimento operaio, può essere considerato un segmento importante della traduzione originale in lingua italiana del compromesso fordista fra capitale e lavoro che ha caratterizzato l’intero mondo occidentale post bellico?10 Anticipo le conclusioni dicendo che, pur nel loro intreccio, fra le due domande vi è una notevole asimmetria. Mentre alla seconda mi sentirei di dare una risposta affermativa, sulla prima occorre innanzi tutto scorporare dall’analisi concreta dei processi concreti, la narrazione propagandistica che è stata alimentata, per opposte ragioni, sia da destra sia da sinistra.

Il rapporto virtuoso fra scienza, cultura industriale, capacità manageriali e cultura tout court fu un fattore determinante nella rinascita post bellica, fino al boom economico. La politica petrolifera di Mattei, l’invenzione del Moplen – il padre della plastica – da parte di Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 e che fu prodotto dalla Montedison, sono tappe decisive – insieme a quelle già ricordate in precedenza – per affermare che l’intreccio del tutto particolare fra cultura e industria fu un elemento propulsivo della società italiana. A questo aggiungerei la consulenza dell’economista Federico Caffè ai primissimi governi di centro sinistra. Alcuni capitani d’industria come Olivetti e Luraghi e un banchiere come Raffaele Mattioli hanno giocato un ruolo di primaria importanza che va molto oltre le loro funzioni istituzionali e ha costituito un tessuto intermedio, più che un corpo intermedio vero e proprio; piuttosto una trama trasversale fra impresa, istituzioni culturali e politica che ha permesso la crescita di una cultura laica e in molti casi di sinistra, protetta da interventi censori, che pur non mancarono e furono molto gravi. Valga per tutto la fondazione a Milano, per esempio, della casa della Cultura, un baluardo della sinistra non solo milanese, alla cui nascita contribuirono personaggi di spicco del capitalismo italiano, oltre a quelli già ricordati; lo stesso si può dire della casa editrice Einaudi a Torino. Laici e in qualche caso – Mattioli – in odore di massoneria, ma lontano dagli scandali che sarebbero scoppiati decenni dopo, svolsero insieme a un pezzo consistente di sinistra socialista un ruolo terzo – basato sul rispetto dell’autonomia della cultura e sulla diversità – rispetto sia ai democristiani sia ai comunisti: in molti casi, questo mondo intermedio offrì più di una sponda alla crescita di una cultura democratica e fu assai importante nelle trasformazioni del sindacato. Capitalismo illuminato? Sì, ma con dei limiti molto precisi. Gli imprenditori citati, cui possiamo aggiungere anche Mattei, erano prima di tutto una minoranza anomala rispetto a un mondo imprenditoriale acefalo e reazionario, diretto a bacchetta da un altro banchiere – Enrico Cuccia – e tenuto a balia dalla sua creazione – Mediobanca – che suppliva con le sue acrobazie finanziarie alla storica incapacità del capitalismo italiano di ricapitalizzarsi con le proprie forze. In secondo luogo, non erano di certo gli Olivetti a dirigere Confindustria e a trattare con i sindacati: questo compito era lasciato ai mazzieri come Valletta e Costa, nonché alla Celere di Scelba. Tuttavia, i vari Olivetti, Girotti e alcuni dei managers di stato costituirono un cuscinetto che permise una certa flessibilità e fin quando riuscirono ad avere voce in capitolo, poterono far pesare la loro autorevolezza sia in campo economico, sia ancor più in campo culturale, dove nessuno si permetteva di criticare anche le loro scelte più eccentriche, tenuto conto dell’ignoranza congenita di gran parte del ceto imprenditoriale italiano. Quegli uomini, tuttavia, non avevano eredi e quando la crisi del boom economico portò al pettine molti nodi sociali e politici, già nel 1963, le redini furono prese dai settori più reazionari ed eversivi: cominciava a finire quella tradizione anomala, fatta anche di salotti trasversali – per esempio quello di Giulia Maria Crespi a Milano – e iniziava un’altra storia.

Diverso il discorso sulla cosiddetta egemonia della cultura di sinistra, sebbene s’intrecci con la questione del compromesso fordista. Credo ci sia una prima considerazione da fare: intellettuali come i coniugi Steiner e come Elio Vittorini permisero alla stampa del Pci di avvalersi delle menti migliori e dei progetti grafici più avanzati esistenti in quegli anni. Politecnico rimane un’impresa straordinaria – lo sarà Alfabeta in un contesto diverso anni dopo –  e anche Rinascita, la rivista teorica del Pci, era quanto di più moderno si potesse pensare in quegli anni. Se parliamo di egemonia in senso gramsciano possiamo dire che la pubblicistica comunista si avvalse del meglio e così pure altre istituzioni culturali. Tuttavia, ci sono due problemi di cui tenere conto: prima di tutto la stagione dei rapporti idilliaci fra Pci e intellettuali s’incrinò molto presto, almeno con alcuni di loro. In secondo luogo, la cultura del militante medio del Pci, non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda di chi dirigeva la politica culturale nel partito. L’egemonia che il Pci cercava di esercitare sugli intellettuali come mondo separato era un mondo a se stante. In buona sostanza, l’intellettuale organico del Pci, quello che si occupava della cultura intesa come lavoro di massa da un lato, ma che al tempo stesso teneva i rapporti con i grandi intellettuali dall’altro, parlava ai colti con un linguaggio e agli incliti con un altro, riproducendo al proprio interno una tradizione curiale tutta italiana. Questa contraddizione fu particolarmente visibile rispetto a tre nuovi aspetti della cultura di massa: il fotoromanzo, il cinema e la canzone. 11

Il fotoromanzo come genere nacque infatti nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ne ricostruisce puntualmente la storia.12 L’autrice ricostruisce le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. L’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche della Dc, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni furono immediate. In questa prima fase la diffusione del fotoromanzo si scontrò con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, per i primi, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe, per i secondi. Cosa accadde, però, nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda, accennando a un dibattito assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente, intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che ebbero un ruolo politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero. Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma di Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affrontavano temi come contraccezione e aborto.

La terza fase riguarda il cinema e i cambiamenti che stavano avvenendo nell’ambito della musica cosiddetta leggera. Come mai gli intellettuali vincenti come Zavattini and company, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi venivano bollati da Aristarco – anch’egli intellettuale di punta del partito –  come pornografi dei sentimenti? 13 A mio giudizio  le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura profonda della dirigenza comunista era umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante l’omaggio formale alle avanguardie sovietiche, che avevano aperto sia nel cinema sia nella grafica le maggiori e più importanti trasformazioni novecentesche e proprio nella Russia del primo decennio del secolo e poi nei primi anni successivi la Rivoluzione Bolscevica, Il Pci scelse da subito e molto di più gli interventi censori di Stalin e Zadanov, ben rappresentato da Mario Alicata, il cui furore non era infondo diverso da quello dei sovietici. La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente – anche in Gramsci – di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini, cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo. Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista fu molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual’era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro.

Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica della propaganda fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni – tutt’altro che banali – e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada. Nel mezzo e grazie al cinema, cresceva una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: da quel momento iniziò anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale erano venuto prima, con buona pace del nesso struttura sovrastrutture e riguardava proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa nel contesto del neocapitalismo italiano. Entra in scena anche un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo, cui anche lui aveva dato un contributo all’inizio, riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

Il combinato disposto fra queste spinte e contro spinte contraddittorie, faceva del mondo comunista una società nella società come avrebbe detto anni dopo Pasolini, ma in un’ottica di arroccamento difensivo. Se parliamo dell’insieme della società italiana, non vi è dubbio che l’egemonia culturale clerico-fascista fosse di gran lunga prevalente ed esercitò un plumbeo dominio fino alla metà degli anni ’60. Basti pensare ai processi che subì Pasolini, alla canea reazionaria che travolse Fausto Coppi, a Braibanti, ai casi continui di censura, al sequestro di film e romanzi, alla censura televisiva nei confronti di Dario Fo e Franca Rame. Tale egemonia cominciò a essere messa in discussione non tanto dalla critica comunista, ma dai processi di modernizzazione innescati dal boom economico e dall’irruzione della sociologia statunitense negli atenei italiani. Tale processo non fu affatto compreso dal Pci. Non bisogna infatti dimenticare che i grandi consiglieri politici del partito non erano più gli Steiner e i Vittorini, non erano gli economisti, ma piuttosto esponenti importanti del mondo cattolico come Franco Rodano, oppure uomini come Ambrogio Donini, che guardavano prima di tutto al mondo cattolico, da atei, ma anche ostili alla cultura laica e socialista più progressista; prima di tutto in materia di sessualità e famiglia. I primi movimenti di massa anticapitalistici durante quegli anni, furono certamente tenuti a battesimo anche dal Pci – si pensi al luglio del 1960 – ma furono le riviste eretiche del marxismo italiano, nate da costole socialiste e comuniste, fu l’opera di intellettuali come Fortini, Beccalli, Panzieri, Bellocchio, Morandi, Pirelli, infine il Concilio Vaticano Secondo, a creare quello strano crogiolo, frutto dell’eterogenesi dei fini, che sarebbe esploso nel triennio 1967-69 e che spazzò via per un decennio l’egemonia clerico-fascista.11 Fu una parentesi felice, ma mise anche in evidenza che se egemonia vi fu, essa non venne prevalentemente dalla cultura del Pci, ma da una sinistra più vasta, operaista e antiautoritaria, o dalla teologia della liberazione. Il Pci cercò di cavalcare i movimenti, poi fu costretto a inseguire, come su tutta la materia riguardante i diritti civili, poi a cercare di egemonizzare o reprimere. Le trame eversive criminali, le stragi e la scelta sciagurata della lotta armata posero fine alla parentesi più felice della storia italiana recente e travolsero anche il Pci.


9 Insieme all’archeologia industriale è nata, in particolare in alcuni paesi del nord Europa come Danimarca e Olanda, l’idea del turismo antropologico, cioè rivolto al passato. Ci sono molte agenzie che se ne occupano in quei paesi. Si tratta di trascorrere un periodo di vacanza in villaggi che sono stati ricostruiti in base agli studi etnografici. Si sceglie il periodo storico nel quale si vuole viaggiare e ci si ritrova a vivere nelle condizioni di cinque o diecimila anni fa.  Nel nord Europa questi villaggi sono usati anche per fini didattici.

10 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

11 Questa parte del saggio dedicata al cinema, al fotoromanzo e alle canzoni, è la rielaborazione di un testo già pubblicato sulla rivista online Overleft, nell’ambito di una dibattito della redazione cui parteciparono anche altri.

12 Il fotoromanzo174 pag., Euro 12.00 – Edizioni il Mulino (L’identità italiana n.22) ISBN.

13 A questo proposito mi riferisco all’espressione usata da Adriano Voltolin nel suo intervento su Oveleft.

11 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Seconda parte

Il secondo dopoguerra

La caratteristica più originale dalla fine degli anni ’40 fino agli anni ’70 è il doppio intreccio che lega artisti, letterati, architetti e designers alla cultura di sinistra e in alcuni casi al Partito comunista italiano da un lato e al mondo dell’industria dall’altro. Elio Vittorini, Albe e Lica Steiner, Franco Fortini, Gian Giacomo Feltrinelli. Su quest’ultimo la pubblicistica è talmente vasta che è superfluo aggiungervi qualcosa. I due esponenti più originali, sia per la loro storia personale, sia per i contributi che hanno dato, sia per la loro stessa relazione amicale sono Raniero Panzieri e Giovanni Pirelli. Il secondo, un piccolo – ma non minore – Engels italiano, rifiutò il ruolo naturale che gli sarebbe spettato in quanto figlio maggiore di una storica famiglia d’imprenditori, lasciando al fratello Leopoldo le redini dell’azienda, con cui tuttavia mantenne un rapporto fino al 1948. Quanto a Panzieri, il suo ruolo nella nascita dell’operaismo italiano è più che nota: meno nota e assai rilevante la vicenda di Giovanni Pirelli, che verrà ripresa anche nelle conclusioni. 3

Albe Steiner iniziò il suo percorso artistico approfondendo la conoscenza sia del Costruttivismo sovietico (El Lisitzkij), sia del Bauhaus, sia degli astrattisti. La sua prima mostra grafica fu del 1940, alla VII triennale di Milano. Nel 1939 si avvicina al PCI e insieme alla moglie Lica  conosce Di Benedetto e Vittorini. Durante la guerra partecipa attivamente alla Resistenza nelle file del battaglione Valdossola e perde il fratello Mino, deportato a Mauthausen. Dopo la Liberazione entra come grafico nella redazione del Politecnico diretto da Vittorini. Le sue scelte grafiche innovative, che si richiamano alle avanguardie russe post rivoluzionarie per approdare persino al fumetto, costituiscono gli elementi fondanti del suo percorso artistico. Sempre con Vittorini, Steiner realizzerà per la Einaudi Politecnico biblioteca, una collana di undici titoli editi fra il 1946 e il 1949.4

La storia di Adriano Olivetti e dell’azienda omonima è troppo nota per riassumerla qui, se non per l’aspetto che riguarda il rapporto fra industria e cultura.5 Dagli anni ’40 fino agli anni ’80, poeti, letterati e scrittori di rilievo lavorarono alla Olivetti ricoprendo ruoli diversi, anche di grande responsabilità. Tra gli altri Giudici, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni e Fortini. Quest’ultimo entrò nella società nel 1947, dove operò fino al 1960. Si occupava delle pubblicazioni aziendali, delle campagne pubblicitarie e dei nomi dei prodotti (tra questi, si ricordano Lexikon, Tetractys e Lettera 22). L’utopia di Adriano Olivetti consisteva nell’integrazione fra la formazione tecnico-scientifica e quella umanistica in ogni ambiente, azienda compresa.

Coerente con questo proposito, la selezione del personale prevedeva che per ogni nuovo tecnico o ingegnere entrante si assumesse anche una persona di formazione economico-legale e una di formazione umanistica. Gli scrittori che operarono in Olivetti non furono un semplice fiore all’occhiello della direzione aziendale, ma erano ritenuti organici allo sviluppo aziendale, in particolare in settori critici come pubblicità e comunicazione, le relazioni con il personale, i servizi sociali.

Giuseppe Luraghi fu l’ultimo di questa schiera di intellettuali prestati all’azienda, ma attenti alla cultura e con una visione umanistica del loro ruolo. Dirigente d’industria finirà la sua carriera di manager all’Alfa sud, dopo aver diretto la Necchi e la Mondadori. Coltivava al tempo stesso la passione letteraria, sia come scrittore di romanzi (Due milanesi alle piramidi 1966) e come saggista (Le macchine della libertà del  ’67, Milano, dal quattrino al milione nel ’68  e Capi si diventa del ’74.Un capitolo a parte è la sua passione per la poesia spagnola che si tradusse anche in un sodalizio con il poeta comunista Rafael Alberti. Fra i due corse anche un intenso carteggio dal 1949 al ’75.   

Un discorso a sé va fatto invece per Bruno Munari e ne riassumerò la vicenda prevalentemente in nota, visto che la sua figura si distacca anche dal punto di vista qui scelto e cioè la relazione che lega gli intellettuali citati non solo al mondo dell’industria ma a quello della sinistra. Munari è un raro esempio di artista che è riuscito a passare indenne – in un certo senso invisibile – dalle tragedie del ‘900, interpretando in momenti diversi un ruolo di artista, manager, intellettuale a tutto campo – tanto da essere definito una figura leonardesca –  che con la sua opera ha attraversato il regime Fascista e poi il dopoguerra sempre relativamente estraneo alle vicende del momento storico, ma sempre presente con le sue multiformi e mutanti creazioni.6 A lui, in ogni caso, andrebbe dedicato uno studio ben più ampio di questa nota. Come conclusione provvisoria direi che la sua esperienza segna un passaggio senza soluzione di continuità fra modernità e post modernità. La sua ironia e la sua – direi programmatica – assenza di astrazioni teoriche ne fanno però anche un convitato di pietra della seconda metà del ‘900, capace di indicarne silenziosamente i limiti. I suoi fossili del 2000, aldilà della loro comicità, sono un monumento al dissolversi delle forme e della tecnologia e diventano perciò una metafora dell’inconsistenza del consumismo tecnologico e dello stesso post modernismo: dei nulla rispetto alla permanenza millenaria delle statue dell’isola di Pasqua, della stele di Rosetta e delle Piramidi.

Infine, fra le multiformi esperienze che hanno contraddistinto la letteratura dei quegli anni, un posto importante lo occupano i romanzi operai: sia scritti da lavoratori, sia quelli che hanno il lavoro e spesso la fabbrica come centro di propulsore della narrazione. Oppure le inchieste sul lavoro in fabbrica, a metà strada fra saggistica e giornalismo. Legata a questa esperienza è anche la nascita della rivista Abiti-Lavoro, quaderni di scrittura operaia, fondata da Giovanni Garancini e Sandro Sardella (1983-1993). I romanzi operai costituiscono un fenomeno che riguarda prevalentemente il secondo dopoguerra: i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Calvino, Testori, Tonon, Bianciardi, Ottieri, Bilenchi e Volponi.7 Il giudizio critico sulle loro opere esula dagli intenti di questo studio e peraltro i contributi citati nella nota ne danno un quadro più che esauriente.

Quanto alla rivista, la sua veste grafica è volutamente minimalista, abiti-lavoro è una voce compresa nella busta paga operaia e, in questo senso, la sua fondazione s’iscrivere pienamente nel solco dell’arte povera. Uno dei suoi animatori più prestigiosi fu Ferruccio Brugnaro, poeta e operaio alla Montefibre di Porto Marghera, ma la maggioranza delle scritture pubblicate sulla rivista proveniva da uomini e donne che lavoravano nella fabbriche. Essa non fu importante solo per la poesia ma anche per la narrativa operaia, nel duplice senso indicato prima. Nel numero uno, per esempio, l’articolo di Paolo Rossi intitolato la Nuova letteratura operaia fra eversione integrazione, è una rassegna dei romanzi di Bernari, Pratolini, Ottieri, Volponi e Balestrini. Nell’arco di dieci anni Abiti-lavoro ha tenuto a battesimo poete e critiche come Carmela Fratantonio, Mariella Bettarini e Maria Teresa Mandalari; tanto che nell’editoriale del numero 4 e con un certo orgoglio, si sottolinea la volontà della redazione di allontanarsi da un’impronta maschilista. Mandalari è anche l’autrice del solo saggio che si occupi della scrittura operaia a livello europeo e precisamente, nel suo caso alla Germania, con il libro: Poesia operaia tedesca del ‘900  www.dimanoinmano.it/…/poesia-operaia-tedesca-del-900. Lo sguardo internazionale diventa, nel corso del decennio, uno dei tratti salienti della rivista. Nel quinto e nel nono numero l’inserto su Sabra e Chatila, poi la testimonianza di Jean Genet e Piero Del Giudice, costituiscono un momento alto di cultura critica.

L’ultima esperienza di questa rassegna riguarda Antonio Caronia, l’ennesima figura anomala nel panorama della sinistra italiana. Si laurea in matematica e svolge un’intensa attività politica dal ’64 al ’67, prima nel Psi e poi nella Quarta Internazionale, dove dirige per due anni la rivista Bandiera Rossa. Tuttavia, la singolarità della sua esperienza è legata all’interesse per la fantascienza. Aderisce  al collettivo milanese Un’ambigua utopia, che si ispira a un romanzo di Ursula Le Guin I reietti dell’altro pianeta. Le Guin è una delle autrici di fantascienza più originali del panorama mondiale e Caronia ne favorisce la conoscenza in Italia.8


3 Giovanni Pirelli fu un comandante partigiano e nell’immediato dopoguerra curò con Piero Malvezzi la prima edizione delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945. Tornato a Milano nel maggio 1946, s’iscrisse al Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), senza abbandonare la posizione all’interno dell’azienda di famiglia. Sostenne finanziariamente il settimanale giovanile Pattuglia e il quotidiano l’Avanti! Successivamente contribuì alla ricostruzione delle istituzioni culturali milanesi, sostenendo le attività della libreria Einaudi e grazie a tale impegno conobbe Elio Vittorini, con il quale strinse una grande amicizia. Negli stessi anni partecipò alla fondazione della Casa della cultura e del Piccolo Teatro. Il 1948 fu un primo anno di svolta nella sua vita. Attaccato dalla destra, decise di compiere il passo decisivo: lasciare famiglia e azienda per trasferirsi a Napoli, dove iniziò la collaborazione con l’Istituto italiano di studi storici, sotto la direzione di Federico Chabod. Lasciata Napoli nel ’49 continuò a occuparsi di storiografia con Gianni Bosio e divenne redattore della rivista Movimento operaio. La sua cultura umanistica e la passione letteraria lo indirizzarono alla scrittura di libri per ragazzi, racconti e romanzi. Quando Bosio nel 1953, rilanciò l’attività delle edizioni Avanti!, Pirelli pubblicò nella collana Il Gallo il racconto Giovannino e Pulcerosa (1954). L’esordio narrativo, in realtà, era già avvenuto nel 1952, con la pubblicazione del racconto L’altro elemento nella collana I gettoni di Einaudi. Nel 1950, peraltro, Piero Malvezzi lo aveva coinvolto nella riedizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Torino 1952), cui seguirono le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea (Torino 1954). I volumi ebbero immediato successo, molte ristampe e traduzioni. Tornò alla narrativa con La malattia del comandante Gracco, pubblicato da Einaudi nel 1958 nella raccolta L’entusiasta. Nel racconto biografico, narra l’esperienza della malattia che lo colpì durante la guerra partigiana. Nel frattempo  era maturata anche la passione per la cinematografia: nel 1953 con Malvezzi lavorò alla sceneggiatura di un cortometraggio tratto dalle Lettere italiane, con regia di Fausto Fornari, che vinse il premio come miglior cortometraggio a soggetto alla XIV Mostra del cinema di Venezia. Nel 1955 realizzò, sempre con Malvezzi, l’adattamento teatrale delle Lettere europee, Europa incontro all’alba, per la regia di Vito Pandolfi. Firmò inoltre la sceneggiatura di due documentari a carattere storico-politico diretti da Nelo Risi: Il delitto Matteotti (1956) e I fratelli Rosselli (1959). A Roma, dove si era trasferito nel 1950, aveva sposato nel 1953 la pittrice Marinella Marinelli, dalla quale ebbe due figli, Francesco (1953) e Pietro (1954). Gli anni romani furono anche quelli della vicinanza a Raniero Panzieri. Il rapporto fra i due fu una grande amicizia, basata su una piena sintonia politica. Entrambi aderirono alla corrente morandiana del PSI e dopo il 1955 diressero la sezione cultura, poi curarono la raccolta degli scritti di Rodolfo Morandi. Alla fine degli anni Cinquanta avvenne una seconda svolta nella sua vita. Come molti intellettuali e militanti di matrice resistenziale, sposò la causa dell’Algeria contro la dominazione francese, fornendo sostegno al Fronte di liberazione nazionale (FLN) algerino sia dal punto di vista logistico e finanziario sia editoriale, con le raccolte di documenti Racconti di bambini d’Algeria e Lettere della Rivoluzione algerina, pubblicate in Italia da Einaudi rispettivamente nel 1962 e nel 1963 e in Francia, negli stessi anni, da Maspero. Nel 1961 avvenne l’incontro decisivo con Franz Fanon a Tunisi. Il pensiero anticoloniale dello psichiatra antillese influenzò in modo determinante il successivo percorso di intellettuale impegnato politicamente. Pirelli ne divenne il principale divulgatore e sostenitore in Italia: nel 1963 curò per Einaudi l’edizione italiana di L’an V de la révolution algérienne (Sociologia della rivoluzione algerina), di cui aveva discusso personalmente con Fanon. Sempre nel 1963 fondò a Milano il Centro di documentazione Frantz Fanon, con lo scopo di raccogliere e fornire informazioni sui Paesi del Terzo Mondo: in pochi anni il centro costituì una ricca biblioteca e diventò uno dei punti nevralgici del sostegno ai movimenti anticoloniali in Italia. L’incontro con Fanon, ma anche le riflessioni che condivideva con Panzieri e Bosio, fecero maturare in tutti e tre la decisione  di lasciare il PSI (erano gli anni dei primi governi di centro-sinistra), senza tuttavia aderire al PSIUP. Dopo la morte di Panzieri (1964), Pirelli curò, insieme a Dario Lanzardo, un’antologia di suoi scritti: La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere (1956-1960), pubblicata dalle edizioni Lampugnani Nigri (Milano 1973).  Chiuso nel 1967, il centro Frantz Fanon avrebbe poi riaperto nel 1970 con il nome di Centro di ricerca sui modi di produzione (CRMP). Sulla scia dell’incontro con Fanon si sviluppò il suo intenso impegno a favore dei movimenti di liberazione. Grazie a Giovanni Arrighi, Pirelli compì numerosi viaggi, in Africa centrorientale (1964), negli Stati Uniti (1966), a Cuba (1968); infine in Cina nel 1970. Iniziò così l’ultimo segmento di una vita cui non mancò mai l’impegno e il coraggio del nuovo. Si avvicinò alle riviste e ai gruppi della nascente nuova sinistra, in particolare ai Quaderni rossi e ai Quaderni piacentini. Insieme a Bosio dette vita anche a un nuovo progetto editoriale: le edizioni del Gallo e partecipò alle attività dell’Istituto Ernesto De Martino (nato nel 1966) e del Nuovo canzoniere italiano, favorendone l’apertura internazionale. Dopo la morte di Bosio (1971) assunse personalmente la responsabilità delle edizioni del Gallo. Alla ricerca di nuovi strumenti di espressione per il suo impegno politico, selezionò i testi per A floresta é jovem e cheja de vida di Luigi Nono, opera dedicata al FLN vietnamita ed eseguita per la prima volta al teatro La Fenice di Venezia nel settembre 1964: l’opera era il risultato parziale di un lavoro teatrale più ampio sul tema dell’antimperialismo, al quale Pirelli lavorò con Nono per quasi cinque anni. Anche l’attività letteraria continuò in parallelo all’impegno politico. Nel 1962 aveva pubblicato da Einaudi la raccolta per ragazzi Storia della balena Jona e altri racconti, riedita nel 1972 da Fabbri con il titolo Giovannino e i suoi fratelli e una nuova prefazione in forma di interessante Autoritratto. Nel 1965, sempre per Einaudi, aveva pubblicato il romanzo di fabbrica A proposito di una macchina, sua ultima opera letteraria. Il suo archivio contiene tuttavia molti inediti, tra cui la bozza di un romanzo a carattere autobiografico dedicato alle vicende di una famiglia di industriali milanesi, I Bonora. Morì il 3 aprile 1973 a Sampierdarena per le ustioni riportate in un incidente stradale.

4 Dopo una parentesi messicana dal 1946 al 1948, in Messico, Albe e Lica Steiner tornano a Milano dove iniziano ad insegnare al Convitto Scuola della Rinascita. Come grafico, lui lavora per le riviste Domus, Metron ed Edilizia moderna, per alcune delle più importanti case editrici italiane (Feltrinelli, Einaudi, Zanichelli), per molti dei giornali e settimanali italiani di sinistra e per aziende come la Pirelli e la Olivetti. Nel frattempo e sempre negli anni cinquanta è docente dell’Umanitaria che rimane una delle imprese educative più importanti del dopoguerra. Oltre agli incarichi universitari, nel 1963 apre a Reggio Emilia il primo magazzino a libero servizio e disegna quello che diventerà il logo della Coop. Collabora con enti e istituzioni culturali come la Rai, il Piccolo Teatro, La Triennale di Milano, il Teatro popolare italiano, Italia ’61, la Biennale di Venezia. Progetta insieme all’architetto Lodovico di Belgioioso il primo Museo al Deportato politico e razziale, a Carpi. Il Museo, tuttora aperto, è stato inaugurato nel 1973. Il sodalizio sentimentale e politico con la moglie Lica non venne mai meno, ma è pur vero che ciascuno di loro aveva una propria autonomia artistica e culturale. Durante il soggiorno in Messico, per esempio, Lica ebbe modo di lavorare con Hannes Mayer, ex direttore del Bauhaus, al volume Construyamos escuelas. Sempre in Messico partecipò alla campagna di alfabetizzazione dei peones insieme a Diego Rivera e Siqueiros. Nel 1947 nacque la secondogenita Anna. Al rientro in Italia, contribuì alla fondazione del Convitto Scuola della Rinascita di Milano dove iniziò a occuparsi di didattica, sia come docente, sia come coordinatrice dei corsi di grafica. Nel 1957 curò per l’Unità la Pagina della Donna, prima esperienza del genere di un grande quotidiano nazionale. Nel 1964 fu lei a ricevere l’incarico di recuperare documenti, materiali fotografici e storici sui campi di concentramento politici e razziali per la costituzione del Museo di Carpi. La promozione e il riconoscimento della grafica e del designer sul piano tecnico, professionale e politico, sarà un impegno costante della coniugi Steiner durante tutta la loro vita e continuerà ad esserlo per Lica dopo il 1974, anno dell’improvvisa scomparsa di Albe. Rimasta vedova, continuò a dirigere lo studio di grafica e a insegnare fino agli anni novanta presso la Scuola del Libro dell’Umanitaria a Milano. Con le figlie e con il genero Franco Origoni curò la raccolta degli scritti di Albe e istituì nel 1979 l’associazione Albe Steiner per la comunicazione visiva, allo scopo di ordinare le opere del marito e proprie, e divulgarne la conoscenza attraverso mostre e pubblicazioni. Tutto il materiale raccolto confluì nell’Archivio Albe e Lica Steiner, che nel 1998 viene dichiarato di notevole interesse storico dal Ministero per i Beni culturali. Nel 2003, insieme alle figlie, decise di donarlo al Politecnico di Milano. Morì nel 2008 a Milano; è sepolta con Albe a Mergozzo. Le scritte incise sulla comune lapide dicono: Albe Steiner, partigiano; Lica Covo Steiner, partigiana.

5 Anche sulla fine di Olivetti sono sorti sospetti che fanno pensare alla sua morte come un possibile anello in più che va ad aggiungersi alla triste vicenda dei cosiddetti misteri italiani. Anche di questo aspetto non ci si occupa in questa sede. Del resto la pubblicistica su questo come su altri casi è sterminata e facilmente reperibile su carta stampata e anche in rete. Per apprezzare meglio la sua opera è utile invece considerare il concetto di Impresa integrale, che riecheggia in qualche misura anche l’utopia dei Crespi. Qui di seguito il link di un sito appropriato www.attivismo.info/adriano-olivetti. L’utopia di Olivetti finisce con lui, le narrazione successive che legano il suo nome a managers come Marisa Bellisario o Carlo De Benedetti hanno a che vedere solo con aspetti propagandistici che atro.

6 Bruno Munari è stato uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica novecentesche. Anche tale definizione, tuttavia, risulta un po’ stretta se si tiene conto dei contributi fondamentali che, a partire dai campi già citati, finivano per ramificare e produrre effetti che si propagavano a macchia d’olio: è il caso per esempio del tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco.  Nato a Milano passò l’infanzia e l’adolescenza a Badia Polesine. Tornò in città nel 1925 per lavorare in alcuni studi professionali di grafica. Nel ’27 inizia il suo sodalizio con Marinetti e i futuristi  e nel 1930 realizzò la macchina aerea. Nel ’33 proseguì la ricerca di opere d’arte in movimento, ma iniziò anche a distanziarsi dal futurismo militante e le sue macchine inutili possono essere considerate come un primo esempio di patafisica e anche una caricatura dell’esaltazione macchinale futurista. Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni nella storia dell’arte, quasi coeva, benché precedente, all’ambiente nero che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano. Nel 1948, insieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Giuliano Mazzon e Atanasio Soldati, fondò il Movimento Arte Concreta. Insieme a Lucio Fontana dominò la scena milanese degli anni cinquanta-sessanta; sono gli anni del boom economico, in cui nacque anche la figura dell’artista operatore-visivo che diventava consulente aziendale, come era accaduto anche per la fabbrica integrale di Olivetti. Munari è considerato uno dei protagonisti dell’arte programmata e cinetica, Nel 1951 presenta le macchine aritmiche in cui il movimento ripetitivo viene interrotto in modo causale e umoristico. Sempre degli anni cinquanta sono i libri illeggibili in cui il racconto è puramente visivo. Nel ‘55 crea il museo immaginario delle isole Eolie dove nascono le ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari, composizioni astratte al limite tra antropologia, humour e fantasia. Poi le sculture da viaggio, che sono una rivisitazione rivoluzionaria del concetto di scultura, non più monumentale ma come un bagaglio al seguito e a disposizione dei nuovi nomadi del mondo globalizzato di oggi. Nel ’59  crea i fossili del 2000 che con vena umoristica fanno riflettere sull’obsolescenza della tecnologia moderna. Negli anni sessanta diventano sempre più frequenti i viaggi in Giappone. La scoperta di quella cultura e in particolare per lo zen, lo porta su nuove strade. Nel ’65, a Tokyo progetta una fontana a 5 gocce che cadono in modo casuale in punti prefissati, generando una intersezione di onde, i cui suoni, raccolti da microfoni posti sott’acqua, vengono riproposti amplificati nella piazza che ospita l’installazione. Verso la fine degli anni ’60 si dedica alle sperimentazioni cinematografiche con i film i colori della luce (musiche di Luciano Berio, tempo nel temposcacco mattosulle scale mobili (1963-64). Infatti, insieme a Marcello Piccardo e ai suoi cinque figli a Cardina, sulla collina di Monteolimpino a Como, tra il 1962 e il 1972 ha realizzato pellicole cinematografiche d’avanguardia. Da questa esperienza nasce la Cineteca di Monteolimpino – Centro Internazionale del film di ricerca. Munari è tumulato nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano.

7 I siti e la bibliografia indicata qui di seguito sono ricavati da una ricerca in rete da fonti diverse e offorno un quadro esauriente della narrativa industriale. Giuseppe Iadanza, L’esperienza meridionalistica di Ottieri con Appendice sulla questione meridionale, Bulzoni, Roma 1976. Per testimonianze su Adriano Olivetti e sul movimento “Comunità” si rinvia alla sezione Bibliografia. ^ Per un completo profilo critico di questi due autori (segnalati qui a titolo esemplificativo, per la particolare attenzione rivolta alla tematica industriale), Cfr., per Ottieri: Giacinto Spagnoletti, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974, pp. 1603-1624; per Volponi: Enzo Siciliano, Op. cit., pp1589-1601. ^Donnarumma all’assalto, dopo critiche e riserve, fu pubblicato da Bompiani nel 1959 col pieno benestare di Adriano Olivetti.  Giorgio Bàrberi Squarotti, Volponi, Paolo, in Grande dizionario enciclopedico, prima Appendice (1964), Torino, UTET, 1965,, p. 1028. ^Giorgio Bàrberi Squarotti, op. cit., ivi. Giacinto SpagnolettiOttiero Ottieri, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974. Enzo SicilianoPaolo Volponi, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974. Giuseppe IadanzaL’esperienza meridionalistica di Ottieri, Bulzoni, Roma 1976. Primo LeviLa chiave a stella, Einaudi, Torino 1979. Geno PampaloniAdriano Olivetti: un’idea di democrazia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1968 Elisabetta Chicco Vitzizzai (a cura di), Scrittori e industria, Paravia, Torino 1982. Francesca Giuntella e Angelo Zucconi (a cura di), Fabbrica, comunità, democrazia: testimonianze su Adriano Olivetti e il movimento Comunità, Fondazione Olivetti, Roma 1984. Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Giuffrè, Milano 2001. Giorgio Bigetti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Bari 2013. Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Giuffrè, Milano 2001. Giorgio Bigetti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Bari 2013. Lucio Mastronardi con la trilogia di vigevano (il calzolaio,il meridionale e il maestro di vigevano) Infine di Vincenzo Baraldi Condizione operaia e rappresentazione del lavoro www.uni3pinerolo.it/wp-content/uploads/2014/09/Vincenzo-Baraldi.. 10

8 Dalla metà degli anni ’80 collabora a riviste come Linus, Corto Maltese, Millepiani, Linea d’Ombra e con il quotidiano Il Manifesto. Continua la sua attività in ambito fantascientifico fondando la Viortual Isaac Asimo’v Science Foction Magazine Virus Mutaitons, Cyberzone. Collabora inoltre alla stesura di testi per MediaMente, trasmissione televisiva dedicata al mondo delle nuove tecnologie, prodotta da Rai Educational. Nel 2007 partecipa al Film Festival Visionaria, proiettando sotto il titolo di Città immateriali vari cortometraggi realizzati dalle accademie milanesi Accademia di Brera  e NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a cui segue un convegno collegato con il nuovo cyber fenomeno Second Life, sul quale si svolgeva il festival in forma virtuale. È stato per diversi anni docente di Comunicazione all’Accademia di Brera. Ha partecipato in prima persona alla Scuola di media design & arti multimediali della Nuova accademia di belle arti di Milano, NABA, con la titolarità della cattedra in estetica dei media al diploma triennale omonimo e della cattedra di culture digitali alla laurea di specializzazione in film & new media. Muore a Milano  nel 2013.

UN PO’ DI STORIA CON SOTTOFONDO DI CANZONI

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola a causa di una nefrite e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazional popolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino agli anni ‘60. Quando ci fu la cesura? Se m’identifico con il bambino di allora, fu senz’altro Nel blu dipinto di blu (1958) anche perché, oltre che al mito che ne seguì, quella canzone è per me uno scampolo assai particolare del mio vissuto. A cantarla a Sanremo, insieme a Modugno c’era Johnny Dorelli, nome d’arte e figlio di Giovanni Guidi, in arte Nino D’Aurelio, tenore nato e vivente a Meda, provincia di Milano, dove ero nato e vivevo pure io. Nino D’Aurelio, emigrato negli Usa e poi tornato al paese, era uno dei fiori all’occhiello di Meda. Lo si vedeva normalmente in giro in paese e nei bar; ora il figlio balzava alla notorietà e lo superava. Il tragico si mise di mezzo perché Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica (me lo dissero mia madre e mio padre che l’avevano ascoltata, io già allora mi tenevo a una certa distanza di sicurezza dalle cerimonie religiose sebbene fossi molto giovane, per cui andavo alla messa delle undici che durava poco e non era cantata). La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a una persona discretamente bigotta come mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco e nonostante il mio anticlericalismo, non saprei davvero dire se fu un bene o un male.

Tuttavia l’identificazione con il ragazzino di allora porta ad alcune incongruenze. Come prima di Toni Dallara è del ‘57 e fu anch’esso un testo di rottura assai importante, forse il primo e del ’58 è pure Eri piccola così di Buscaglione, il più anomalo di tutti, ma che certamente rompeva con il gusto precedente. Tua di Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la rai tv non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60.

Questi ricordi e la constatazione di alcune imprecisioni mi hanno sospinto verso altre curiosità e così ho deciso di ascoltare anche una compilation di canzoni degli anni ’50 e ’60. Il quadro si è ulteriormente modificato in due direzioni, una della quali mi ha sorpreso. Insieme alle ragioni di continuità fra le due Italie, s’è fatta strada una seconda convinzione e cioè che le canzoni del ventennio le ricordavo molto di più perché erano più belle, banalmente per questo. Della compilation degli anni ’50 e primi anni ’60 ricordavo altrettanto bene solo quelle già citate, o altre, che avevano segnato una rottura nel gusto e nell’orchestrazione, mentre molte altre erano di una tale svagata pochezza che me n’ero dimenticato, pur avendole certamente ascoltate anch’esse alla radio di mio padre. Alcune, poche, continuavano senza rotture il cliché del ventennio, ma in modo sempre più impoverito oppure con effetti sempre più stranianti, per esempio nell’impostazione della voce da parte dei cantanti.

Le canzoni non sono affatto un genere sociologicamente minore di altri; anzi, alimentando l’immaginario collettivo e quotidiano, sono ed erano allora – insieme ai fumetti e agli incipienti fotoromanzi – la cultura popolare per eccellenza. I fumetti, però, ci portavano fuori dal nostro mondo a differenza di quelli precedenti (almeno ricordando quello che mi dicevano mia madre e mio padre), e precisamente verso la lontana America; per il fotoromanzo ero troppo giovane e poi era solo per donne, impensabile che a un maschio in quegli anni venisse in mente di andarlo a scoprire. Rimanevano le canzoni e quel mondo stava in bilico fra il ventennio precedente e un rovesciamento che si concluse proprio con Buscaglione, i cantautori genovesi, Gaber e Jannacci, a metà degli anni ’60. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia. https://digilander.libero.it/AcomeChiSaiTu/saggi_borgna.html

Jack Kerouac: dalla letteratura al mito

Premessa

Questo che segue è il testo scritto di una conferenza che ho tenuto a Celle Ligure per il centenario della nascita di Jack Kerouac, nell’ambito dell’estate cellese organizzata dall’Amministrazione comunale e presentata dall’Assessore alla cultura Giorgio Siri.

Parlare di Kerouac è complicato perché non c’è linguaggio artistico che egli non abbia toccato nella sua frenetica bulimia. Tuttavia, è la narrativa che fa di lui quello che è e dunque è ad essa che sarà rivolta la mia attenzione.  Kerouac considerò le sue opere un’unica lunga autobiografia che voleva intitolare La leggenda di Duluoz.  Come si colloca il suo percorso nella tradizione statunitense del romanzo?

Il ‘900 statunitense è stato per lungo tempo monopolizzato da due diverse schiere di autori e intellettuali. Alla prima, la più numerosa, appartengono quelli che si sentivano orfani dell’Inghilterra, dell’Europa intera o dell’Africa, se erano di colore. Tendenzialmente ripudiavano tutti, in modi più o meno netti, le loro radici statunitensi: o perché le sentivano già tradite (è il caso di Pound), oppure perché si sentivano sradicati in una nazione che non possedeva una storia e tanto meno una storia culturale. Quanto ai neri, mai entrati nell’American dream, molti di loro sognavano di ritornare nelle terre d’origine: l’intellettuale e attivista politico nero più autorevole del primo ‘900 – Du Bois – pensava che il ritorno in Africa fosse il destino naturale della popolazione di africana. Questo però valeva anche per i bianchi. Un episodio illuminante può chiarire quanto sto dicendo ben più che le mie stesse parole. Quando nel 1916, il Governo degli Usa scelse momentaneamente la neutralità piuttosto che entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra, Henry James rifiutò la nazionalità americana e optò per quella inglese. In sostanza, dopo ben oltre cento anni dalla proclamazione dell’Indipendenza, il più grande romanziere statunitense del suo tempo si sentiva più inglese che statunitense! James è solo la punta dell’iceberg: Eliot, nato nel Missouri, scelse l’Inghilterra come patria letteraria d’adozione e lì nasceranno i suoi capolavori a cominciare dalla Waste Land, pubblicata nel 1922. Insieme a lui Pound, con l’aspirazione a una poesia universale, poi Hemingway perennemente in fuga dagli Usa e forse anche da se stesso. Infine l’ossessione erotico sentimentale di Henry Miller, che lo portò nei bordelli di Parigi come si ritorna a una grande madre. Opposta alla schiera degli orfani ce n’era un’altra in formazione ma ancora silente. Sarebbe esplosa più tardi e il suo esponente di primo piano era William Carlos Williams. È la schiera dei nativi, che rivendicavano, a differenza dei primi, la loro appartenenza alla cultura statunitense. I maggiori interpreti, a parte Williams, erano perlopiù romanzieri: William Faulkner, John Dos Passos, John Steinbeck. Molti di loro, e non è un caso, venivano dal sud, perché infondo è proprio nella terra dei Confederati sconfitti che gli umori profondi della società americana si sono formati: fra schiavismo e scontri razziali, ma anche nella lontananza culturale da New York, da Washington e dallo stato federale. Alcuni film memorabili – a parte Via col vento – hanno rappresentato assai bene tali atmosfere., uno in particolare: Pomodori verdi fritti alla fermata dell’autobus.  

Kerouac è fra i primi narratori a non appartenere più alle due schiere: in lui coesistono in modo spontaneo e non ragionato – i programmi sono lontani dalla mentalità di Kerouac – elementi che appartengono o all’una o all’altra delle due schiere: l’originalità, però, non va cercata negli elementi stilistici che Kerouac ruba un po’ ovunque, ma nel mix. Il suo stile ritmato e immediato, che cerca di imitare l’oralità, chiamato dallo stesso Kerouac prosa spontanea,  ha ispirato numerosi artisti e scrittoridella Beat Generation e anche Bob Dylan, ma non si può definire originalissimo in sé: gli esperimenti di scrittura automatica di Breton negli anni ’30 sono precedenti.

Dalla schiera degli orfani Kerouac prende il nomadismo, anche lui si vive come uno sradicato, ma con una profonda differenza: è un nomade ma negli Usa. Viaggerà molto anche all’estero, ma non c’è in lui il mito di un altrove come era per Hemingway e gli altri e lo vedremo bene in un libro considerato minore ma importante: Satori in Paris. Nel sentirsi statunitense assomigliava molto di più agli appartenenti alla seconda schiera con una grande differenza però e cioè che lui è un uomo del nord. La sua prosa, per esempio, si può considerare jazzistica, ma si tratta di un jazz che ha ascoltato nelle grandi città del nord e non dove esso è nato nel profondo sud come evoluzione del blues.

La città e la metropoli, pubblicato nel 1950 fu il suo primo romanzo e uno dei pochi che hanno trovato d’accordo pubblico e critica: è un libro molto bello e anche in controtendenza rispetto al cliché che accompagnerà Kerouac e non solo lui dopo la pubblicazione di On the road. Protagonista, è una famiglia di nome Martin, originaria di una provincia immaginaria. Anche questo romanzo è in parte autobiografico nel senso che Kerouac era un provinciale – la sua origine è franco canadese. I Martin hanno una lontana origine irlandese e i cinque ragazzi, in particolare, rappresentano diversi aspetti della personalità di Kerouac medesimo. Dicevo prima che si tratta di un romanzo in controtendenza perché solitamente gli sradicati e i nomadi tipici della letteratura statunitense, anche quelli precedenti successivi a On the road, a ripresi recentemente anche nel film Nomadland della regista cino statunitense Chloe Zhan si perdono sulle strade e nei non luoghi anche naturali degli Stati Uniti, invece i Martin invece si perdono a New York, la metropoli evocata nel titolo del romanzo è proprio la Grande Mela. Il romanzo segue le peripezie dei cinque fratelli: sullo sfondo il rapporto padre e figlio ma specialmente un flusso narrativo che ne fa anche il romanzo di un viaggio interiore, un atteggiamento anche questo in contrasto con la febbrile e superficiale frenesia che contraddistingue sia On the road sia un altro fra i suoi romanzi più estremi e cioè the Subterraneans, I sotterranei. In quest’ultimo, in particolare, Kerouac porterà all’estremo certe caratteristiche della sua prosa spontanea: presa diretta sugli eventi, tendenza all’oralità, rarefazione della punteggiatura.

Nel 49’ Kerouac scoprì la filosofia di Thoreau e a fine maggio, partì per Denver, dove affittò una baracca di legno, cercando di vivere alla maniera del filosofo, cioè nella solitudine della natura. Anni dopo ripeterà la stessa esperienza sul Monte Hozomeen. Questa seconda volta rinunciò anche alle droghe, ma la solitudine non gli diede la serenità sperata. Tenne come d’abitudine un diario, intitolato Desolation in Solitude di scarso valore letterario.

Ho ricordato questi due episodi della sua caotica biografia, assai difficile da seguire, perché ci portano a un altro aspetto della sua opera, il rapporto con i grandi spazi e la natura debordante del continente americano. L’esperienza di immersione nella natura fu fallimentare da un punto di vista personale, però il tentativo di trovare in essa un alveo di salvezza si ripresenterà in un altro fra i suoi romanzi più significativi e cioè Big Sur ma sarà è pure un tramite che ci traghetta alla terza tematica centrale della sua opera, quella religiosa, in oscillazione continua fra cattolicesimo e buddismo. Quest’ultimo lo scoprì nel 1954 e fu un’immersione frenetica, cercò di studiare il più possibile come fece sempre quando scopriva qualcosa di nuovo; il  più delle volte poteva abbandonare un percorso con la stessa velocità con cui lo aveva abbracciato, ma non nel caso del buddismo. La sintesi di questo percorso fu il romanzo I vagabondi del Dahrma, il secondo che trovò giudizi favorevoli sia nel pubblico sia di critica.

Il 1955 fu un anno decisivo per la Beat Generation e anche di svolta nella vita di Kerouac. Il 7 ottobre, in una ex officina ribattezzata Six Gallery, Allen Ginsberg lesse per la prima volta in pubblico Howl, Urlo. Kerouac era presente alla storica serata e questo rinsaldò il loro rapporto. Ginsberg, la vera mente del movimento insieme a Ferlinghetti, seppe convogliare l’interesse persino dell’Accademia sulla poetica beat. Nell’ottobre 1956 Ginsberg lasciò San Francisco per raggiungere Kerouac a Città del Messico e da qui tornarono a New York, dove la Grove press stava per pubblicare I sotterranei. Ginsberg ebbe un ruolo di primo piano anche nella pubblicazione di On the road che Kerouac aveva già finito di scrivere agli inizi degli anni ’50, ma che nessun editore voleva pubblicare. Finalmente lo fece  la Vicking Press.  Il 5 settembre 1957 Gilbert Millstein scrisse sul New York Times che il libro era una vera e propria opera d’arte.Tre giorni dopo invece David Dempsey, sempre sul New York Times, scrisse che pur essendo originale, leggibile e divertente, il romanzo mancava di una cornice solida e la strada non portava da nessuna parte. Invece, i giovani lettori furono attratti dalle avventure che si narrano e ritrovavano il senso di libertà che si prova a percorrere i grandi spazi d’America, inseguendo il sogno americano. Lo stile è quello del grande romanzo statunitense di formazione: ricche descrizioni, visioni di paesaggi desolati e senso di libertà fortemente individualistico.  Elementi che per molti critici ricordavano Mark Twain e che contribuirono a mitizzare Kerouac.La fama improvvisa spinse gli editori a contendersi qualunque scritto dell’autore, richiedendoli tutti i manoscritti che in precedenza erano state respinti nel corso degli anni. Il successo, però, fu anche l’inizio del suo declino. Non si può dire, però, che fosse lui l’artefice del successo, anzi proprio il contrario. La sua vita era talmente estrema che in definitiva Kerouac non era neppure un buon imprenditore di se stesso, poteva tiranneggiare chi gli stava vicino e  in particolare le donne, ma non era in grado di gestire la propria vita, tanto che anni dopo quando insieme al successo crebbe anche il conto in banca, era la madre Gabrielle ad amministralo, ci voleva sempre la doppia firma per ritirare soldi. Quando entrò nell’ennesima e profonda crisi decise di tornare a Lowell la piccola città in cui era nato, dove incontrò Stella Sampas, sorella di Alex, suo amico di infanzia morto durante la guerra. Decise di prendersi cura di Jack e di sua madre, diventando la sua terza moglie. La tormentò come tormentò tutte le altre donne della sua vita ma almeno quando lui morì i diritti d’autore andarono a lei e alla sua famiglia.

Nel giugno del 1965, la Grove Press pagò a Kerouac le spese di una trasferta in Francia, sperando che in questo modo trovasse nuovi stimoli narrativi, ma nulla andò come previsto: Satori in Paris è la cronaca di questo fallimento. A Parigi e poi in Bretagna  alla ricerca delle origini della sua famiglia, non fece che vagabondare come sempre. Il romanzo tuttavia è importante perché segna la distanza che lo separa da Miller o dagli altri autori che erano fuggiti dagli Stati Uniti nella prima metà del secolo cercando rifugio e in un’Europa spesso mitizzata. La Parigi di Kerouac è oscura e ostile.

Ritornato a New York, Jack e la madre si trasferirono nuovamente, nel marzo del 1966, questa volta a Hyannis, vicino a Cape Cod. Gabrielle venne colpita da un ictus che le paralizzò il lato sinistro del corpo a causa del frequente abuso di alcolici a cui si era abbandonata pure lei.

IL MITO E LA FINE

La divaricazione fra il successo di pubblico, le stroncature da parte della critica e le continue crisi dovute a ogni genere di eccessi segnarono gli ultimi anni di vita di Kerouac che, questo gli va riconosciuto, non fece tuttavia nulla per creare il suo mito. La Beat Generation veniva costantemente paragonata alla Lost Generation degli anni ’30, anche se non tutti erano d’accordo. Venivano descritti come dei rivoluzionari, addirittura, campioni di libertà nei confronti  dei poteri costituiti e altro ancora. Nelle numerose interviste Kerouac non solo non confermò mai questo cliché ma affermò proprio il contrario definendosi per esempio: uno strano solitario pazzo mistico cattolico. Alle frequenti domande che gli rivolgevano sul Buddismo lui rispondeva dicendo che si sentiva affascinato sia da misticismo cristiano sia da quello buddista e zen, aggiungendo però di essere un fedele seguace di Teresa di Lisieux e san Francesco d’Assisi e che considerava il Nirvana buddista simile al Paradiso cristiano.  Sarebbe un errore pensare che dicesse tutto questo per suscitare interesse o farsi pubblicità: nella sua ingenuità e anche confusione quello era il suo pensiero. Quando venne in Italia e gli fu posta una domanda sulla guerra nel Vietnam rispose candidamente che condivideva le ragioni degli Stati Uniti: subissato di fischi fu addirittura e invitato a una cena nell’ambasciata statunitense.

In che cosa consiste allora il suo mito di rivoluzionario, come è possibile che esso continuasse a esistere anche a dispetto di tutto? Penso che occorra distinguere bene due aspetti di tale mito: fuori dagli Usa, in Italia per esempio, esso influenzò superficialmente la generazione che si affacciava alla vita adulta e alla politica in quegli anni: eravamo tutti un po’ hippies! Una critica importante come Fernanda Pivano ebbe di certo un ruolo nel veicolare lui e gli altri della Beat Generation. In qualche modo ne fui testimone, ma va pure detto che quando iniziarono le lotte studentesche e poi operaie, i riferimenti divennero assai presto altri e della Beat Generation ci si dimenticò assai in fretta. Negli Stati Uniti, il loro mito cominciò a infrangersi quando un critico, David Widgery, a seguito di un’intervista rilasciata da Kerouac a Penthouse, scrisse un famoso articolo – tradotto successivamente anche in Italia nelle edizioni Mille lire di Baraghini – il cui titolo dice tutto:

Sareste mai scappati di case se aveste saputo che Kerouac visse tutta la vita con la sua mamma?  

Tuttavia, non è possibile evitare una domanda più radicale? Perché quella generazione di sbandati, anche a dispetto di loro stessi, interpretò il disagio di un’intera generazione di giovani bianchi statunitensi, in maggioranza maschi? Una risposta possibile la troviamo se spostiamo lo sguardo dalla letteratura al cinema e a un attore-mito di quegli anni, James Dean, morto prematuramente in un incidente d’auto: il protagonista de Il Gigante e specialmente di Gioventù bruciata  un titolo più ambiguo dell’originale inglese – The rebels without a cause. Ribelle senza causa è una definizione che calza a pennello per Kerouac e per altri della Beat Generation, anche se va stretta a due di loro e cioè Ginsberg e Ferlinghetti. I ribelli senza causa non sanno contro che cosa si ribellano e per che cosa lo fanno, un ritratto perfetto per Kerouac. I giovani bianchi che s’identificarono con loro avevano le loro buone ragioni: usciti dalla guerra ed entrati subito in un’altra, con addosso la paura del conflitto nucleare con l’Unione sovietica e altro ancora, quei giovani del dopoguerra furono la prima generazione che vide incrinarsi il cosiddetto sogno americano. Nel pieno degli anni ’60, tuttavia, quando cominciarono le lotte per i diritti civili e le manifestazioni contro la guerra del Vietnam assunsero valenze anticapitalistiche anche negli Usa, altri protagonisti balzarono in primo piano e molti di loro erano neri, anche in letteratura: James Baldwin, Leroy Jones che modificò il suo nome in Amira Baraka, Audree Lord e la futura premio  Nobel  della letteratura Toni Morrison. Tutti autori e autrici di ben altra statura cui possiamo aggiungere Cormac McCarthy e Salinger. Infine, Mohammed Alì Cassius Clay, il pugno di Carlos alle Olimpiadi messicane del ’68, Joan Baez e Bob Dylan. Furono quegli uomini e quelle donne i protagonisti maggiori di una stagione di attivismo politico, di lotte sociali per i diritti civili. Soltanto Ginsberg e Ferlinghetti possono essere traghettati dall’esperienza precedente a quella successiva: il primo per la sua maggiore consapevolezza politica – fu lui a scrivere La caduta dell’America – libro assai profetico, il secondo perché la sua opera di editore e organizzatore di cultura diede alla Beat Generation un respiro che senza di lui non avrebbe avuto: la City Lights Boookshop di San Francisco è ancora oggi un presidio di cultura democratica negli Usa.

PER CONCLUDERE   

Cosa rimane di quell’eredità e di quella generazione? Sicuramente alcune opere: i due migliori romanzi di Kerouac – La città e la metropoli e I Vagabondi del Dahrma,  Sulla strada perché è impossibile farne a meno aldilà del suo valore letterario, infine Howl e Kaddish di Ginsberg. Gli altri appartenenti al gruppo non hanno lasciato segni altrettanto decisivi, tuttavia la lettura dei diari di Diane di Prima, sono assai interessanti per ricostruire il quadro d’ambiente e anche perché si tratta di uno dei pochi casi di testimonianza al femminile. Infine Gregory Corso, che per una decina d’anni scelse l’Italia come luogo d’elezione. Su altri autori, troppo disinvoltamente associati alla Beat Generation, andrebbe fatto un discorso a parte. Mi riferisco in particolare a Gary Snyder, Peter Orlovskj e a William Burroughs.  

Quanto al mito e al sostrato sociale che ne decretò il successo in che modo si è trasformato? Possiamo dire che sia presente nella realtà statunitense di oggi? La modalità genericamente ribellistica che si esprimeva in  quella generazione della fine degli anni ’50 come culto di un eccesso – dalle droghe, all’alcol, al sesso, – che faceva male solo a loro, si è espressa eccome durante la pandemia nelle forme usuali di un’idea di libertà che fa dell’individuo la misura di tutto: è la vecchia idea dei primi coloni, per i quali esistevano solo gli individui e non la società. Quanto al nomadismo, il recente film di Chloe Zahn ce ne offre una versione edulcorata, una sua gestione intelligente. La protagonista femminile del film è una rappresentante di quel ceto medio e bianco, impoverito dalla crisi del 2008, ma che possiede le risorse culturali ed anche economiche per conciliare la stessa idea di libertà in una versione meno estrema: periodi lavorativi intensi ma limitati nel tempo (il modello Amazon), vita nomade e ricorso alla sorella o altri famigliari quando le cose vanno un po’ peggio. La terza componente di questa evoluzione del ribellismo generico è rappresentata oggi dal giovane maschio bianco, spesso suprematista, armato fino ai denti, che ha paura e odia le minoranze culturali e sessuali, ma specialmente i diritti delle donne e dei neri. La Washìngton post ha censito 167 stragi di massa dal 1967 al 2021, le più recenti di Buffalo e poi dei bambini nella scuola del Texas sono solo le ultime in ordine di tempo.

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Parte prima

PREMESSA.

Nel ‘900 italiano  ci sono delle peculiarità interessanti nei rapporti fra arti e industria, da un lato, arte e movimento operaio dall’altro. Si può parlare addirittura di una tradizione plurima che si è nutrita di ideali socialisti e utopie capitaliste, come quella dei Crespi, una famiglia di cotonieri di fine ‘800. Una tradizione esaurita, che ebbe notorietà fino alla fine degli anni ’70 e che fra l’altro ha diffuso anche in Italia l’interesse per l’archeologia industriale, assai più sviluppata in altri paesi europei.1 Gli esempi sono molti e distribuiti sull’intero secolo. Ne ho scelti alcuni perché meno noti di altri.

Crespi d’Adda. UNESCO. Lombardy. Italy. (Photo by: Giovanni Mereghetti/Education Images/Universal Images Group via Getty Images)

1 I cotonieri Crespi fondarono fra le altre cose anche il famoso villaggio che porta il loro nome e si trova a Trezzo d’Adda, a pochi chilometri da Milano. Furono i primi a incarnare una forma di utopia industriale fondata sul rapporto organico, seppure gerarchicamente definito, fra imprenditori, classe operaia e territorio: il villaggio ne è l’espressione emblematica, sia per la concezione architettonica che lo ispira, sia per l’ideologia che veicola e cioè l’idea di un corporativismo illuminato, con al centro la fabbrica, i quartieri operai vicino ad essa e dotati di servizi essenziali; nel punto più alto del villaggio l’abitazione della famiglia degli imprenditori e la chiesa. In rete sono facilmente disponibili siti che ne ricostruiscono la storia. La tradizione della famiglia continua in pieno ‘900 con Giulia Maria Crespi, proprietaria del Corriere della Sera e poi fondatrice del FAI.

PARTE PRIMA

Il centro Italia, fra artigianato e industria

La prima testimonianza nasce, in modo del tutto casuale, da una visita compiuta anni fa al Museo della Ceramica di Civita Castellana. La storia di questa cittadina laziale è emblematica per molte ragioni ed è piena di sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. Il Museo costituisce oggi la maggiore ricchezza della città, un esempio di cura dell’archeologia industriale e un prezioso concentrato, denso di storie che ne richiamano altre. Il Museo si trova all’interno della ex chiesa di san Giorgio, dove nel 1915-16 Ulderico Midossi aprì la Regia Scuola Professionale per l’Arte Ceramica. La tradizione falisca e civitonica, però, risale alla fine del diciottesimo secolo, quando fu fondata la fabbrica Treja per la produzione di vasellame e stoviglie. Dall’artigianato all’industria, il proliferare di piccole entità produttive continuò a crescere nel tempo. Il tornio divenne il cardine della produzione e un esemplare assai bello è conservato nella sala centrale del Museo: un manufatto degli anni ’50 che apparteneva a Osvaldo Cirioni, fondatore della ceramica MAISC. Il passaggio dalla manifattura alla fabbrica portò con sé anche un ulteriore salto di qualità verso la ceramica d’arte. Tale scelta, di cui fu sempre promotore Ulderico Midossi, diede nuovo impulso alla nascita di altre realtà produttive nei primi decenni del’900; tanto che la produzione evolse sempre più in quel senso. Artisti di fama internazionale come Duilio Cambellotti, Basilio Cascella e Assen Peikov furono coinvolti in diversi progetti; fino agli anni ’70 quando cominciò il declino e si tornò in parte a una produzione più legata all’arredamento domestico, per esempio con la produzione di sanitari. Proprio fra questi mi aggiro nella parte finale del Museo e l’occhio si sofferma sulla tazza del water closet di un colore rosso scuro, intenso e bellissimo. Il pensiero corre all’orinatoio di Duchamp e a tutto l’infinito dibattito sull’arte moderna, il design, il post moderno. Il gesto di Duchamp fu provocatorio perché a compierlo fu lui e con quel gesto iniziò il rovesciamento di valore fra l’opera e l’artista, a vantaggio del secondo: un rovesciamento che trasformò l’autore in un performer e anticipò la società narcisista o postmoderna di cui vediamo oggi gli esiti più nefasti. Un gesto come quello, infatti, non poteva che aprire la stura alla reiterazione di gesti analoghi che, nel loro essere prima di tutto delle trovate, finivano per diventare dei significanti senza più significati e senso. Fino al gesto più estremo e più intelligente di tutti: la merda d’artista di Manzoni che ebbe il merito d’indicare dove doveva per forza finire quel poderoso movimento dissacratore che ebbe in Duchamps un maestro – almeno in parte – involontario e in Andy Warhol il più grande di cattivi maestri del ‘900. Il gesto che sostituisce l’opera e che mette al primo posto il suo autore è forse il marchio distintivo dell’arte novecentesca in occidente, più dedita alla contemplazione della propria morte, ma che trova la sua origine anche nella mitologia dell’originalità ad ogni costo, che ha pure nel Romanticismo una delle sue lontane radici. La ricerca di un gesto o di una trovata che sia sempre più stupefacente del precedente, porta infatti a una nevrotica serialità e quindi alla pornografia; niente più di quest’ultima è tanto seriale da un lato, quanto sempre protesa a promettere qualcosa di nuovo ai suoi fruitori, dall’altro. Si tratta però di un nuovo impossibile, dal momento che essa non può che proporre una sequenza di pochi gesti identici a se stessi, spogliati di ogni magia e ridotti allo scheletro: come se si venisse invitati a un meraviglioso concerto e scoprire invece che si tratta della ripetizione ossessiva e senza soluzione di continuità della scala delle note musicali. Invece, quanta bellezza e quanta ironia nel bellissimo manufatto di Civita Castellana. Forse nessuno, per via del suo colore così volutamente vistoso,  si metterebbe in casa un oggetto che infondo deve solo raccogliere le deiezioni di un corpo umano; ma anche se così fosse, la tazza del water al Museo della ceramica di Civita Castellana si mostra e si offre nella sua gratuità, che è sempre un dono. L’oggetto di Duchamp, invece, visto nella sua proiezione storica e alla luce di quanto è accaduto dopo di esso (o di lui come sarebbe meglio dire) appare come un oggetto inutile.

Luisa sargentini Spagnoli

Il secondo esempio di rapporto virtuoso fra lavoro artigiano, arte e impresa, lo troviamo nell’esperienza di Luisa Sargentini Spagnoli, che fu una straordinaria protagonista dell’utopia industriale italiana. La sua storia particolarissima si presta a molte riflessioni, se non altro per l’epoca in cui è vissuta e anche perché se si facesse una domanda generica chiedendo a cento persone chi fosse Luisa Spagnoli, a quasi tutti verrebbe in mente la casa di moda e niente altro; tanto meno si ricorderebbero del suo cognome da ragazza. Invece, la famosa e prestigiosa casa fu fondata dai figli quando lei era già morta. La sua vera impresa fu precedente. Luisa Sargentini nacque a Perugia il 30 ottobre del 1877 e morì a Parigi nel 1935. Figlia di un pescivendolo e di una casalinga era una ragazza vivacissima e indipendente. Nel 1898 sposa Annibale Spagnoli e insieme rilevano la vecchia drogheria di un anziano negoziante con cui la giovane Luisa, fin da ragazzina, s’intratteneva durante le sue scorribande per la città, fra gli scherzi e le ragazzate che combinava insieme a un’amica cui rimarrà vicina per tutta la sua vita. Fu proprio questo anziano droghiere – in un certo senso un nonno acquisito – a spingerla a rilevare il negozio dopo la sua morte. L’anziano uomo si era reso ben conto delle sue capacità! Insieme al marito avviò un’attività dolciaria, la produzione di confetti. Il successo fu immediato. La mente imprenditoriale era la sua, ma ciò che più conta fu che Luisa Sargentini non dimenticò le proprie origini sociali. S’interrogò per esempio sul  motivo per cui le donne non potessero accedere al lavoro e si diede delle risposte ovvie per noi, ma che a quel tempo erano rivoluzionarie: non lavoravano perché non sapevano come conciliare la maternità con la professione e nessuno offriva loro soluzioni. Dalla produzione di confetti i coniugi Spagnoli passarono ad altri generi dolciari, ma la storia della drogheria cambiò radicalmente quando Luisa propose a Francesco Buitoni, produttore della famosa pasta, quella che oggi si chiamerebbe una joint venture: unificare in una sola azienda i loro prodotti. L’imprenditore si recò personalmente al negozio di Sargentini e del marito e da anziano fondatore d’imprese fu subito ammirato dall’efficienza e dalle sue capacità imprenditoriali. Accettò la proposta, non senza qualche resistenza da parte dei suoi figli, il maggiore in particolare. Insieme fondarono la Perugina che all’inizio della Prima Guerra Mondiale poteva contare su 15 dipendenti. Alla fine della Guerra i dipendenti saranno addirittura un centinaio ed è a questo punto che Luisa Sargentini Spagnoli convinse l’azienda a introdurre le innovazioni più rivoluzionarie nel rapporto con i dipendenti: l’asilo nido interno all’azienda e l’allattamento sul lavoro senza diminuzione di salario. Come aveva pensato, l’occupazione femminile aumentò e a queste misure se ne aggiungeranno altre di natura sociale, che riguarderanno i figli delle dipendenti. La guerra mutò radicalmente la sua vita e quella della famiglia. Il marito ritornò devastato dal fronte; inoltre, non avendo alcuno spirito imprenditoriale e un temperamento piuttosto da sognatore, (era un discreto musicista), si ritrovò ai margini dell’impresa, finché nel 1923 decise di ritirarsi anche perché nel frattempo era accaduto altro e cioè l’inizio della storia d’amore fra Luisa Sargentini e Giovanni Buitoni, il minore dei figli di Francesco e di lei assai più giovane. Oltre che essere un uomo brillante, Giovanni aveva uno spirito imprenditoriale simile a quello di Luisa. Sotto il loro impulso l’azienda crebbe ulteriormente, tanto da estendere il proprio raggio d’azione all’intero mercato nazionale, facendo concorrenza all’industria dolciaria torinese. Intorno all’azienda, tuttavia, fu creato anche un ambiente sociale che faceva della fabbrica un centro di aggregazione, d’iniziative culturali e ricreative che coinvolgevano la cittadinanza perugina ben oltre i confini della fabbrica. Fu Luisa Sargentini a inventare il Bacio e l’uovo pasquale con la sorpresa e altri gadgets di cui Giovanni Buitoni aveva studiato l’importanza, grazie ad alcune esperienze all’estero. L’immagine dei due innamorati dei Baci Perugina fu opera di Federico Seneca, che peraltro aveva già collaborato con Buitoni prima della joint venture del pastificio con Luisa Sargentini. Egli s’ispirò al quadro di Hayez Il Bacio. La storia d’amore fra i due è un capitolo a parte di tutta questa vicenda e merita a sua volta qualche attenzione. Quello che è straordinario nella loro relazione è che tutti gli uomini delle due famiglie, superato lo sgomento iniziale, accettarono la situazione e loro due furono molto determinati a proteggere la loro storia d’amore, ben nota alle stesse dipendenti, ma che non suscitò mai un vero scandalo. Luisa Sargentini Spagnoli morì nel 1935 per un tumore alla gola, probabilmente dovuto all’eccesso di consumo di dolci e assaggi (non c’era un solo prodotto che uscisse dall’azienda senza passare dal suo vaglio). L’idea della casa di moda nacque ancora una volta per caso e per una sua intuizione, sebbene Luisa coltivasse l’idea fin da ragazza.

coniglio d’angora

Si rese conto che i conigli d’angora che aveva ricevuto come regalo di natale, non erano solo animali da compagnia ma ancor più da curare amorevolmente e pettinare. Fu ancora una volta lei ad avere l’idea della tosatura per produrre lana d’angora e quindi maglioni e scialli di pregio. Fu una scelta virale, si direbbe oggi, tanto che a metà degli anni ’30 erano ben 8.000 gli allevatori che mandavano i loro conigli per la tosatura all’Angora Spagnoli, ormai sul punto di diventare una grande azienda. Luisa Sargentini morrà prima di vederla nascere, quasi all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Sarà il figlio Mario a guidarla ma con l’aiuto dello stesso Giovanni Buitoni e degli altri famigliari. Nel ’47 nascerà La città dell’angora a Perugia. Va ricordato, infine, che l’influenza delle sue idee non venne mai meno nella gestione dell’azienda, successive alla morte di lei. Nel periodo più duro della guerra gli Spagnoli regalarono ai loro dipendenti generi di vestiario per cifre ingenti per quell’epoca. Infine Giovanni Buitoni, pur ancora giovane, non si sposò e visse, come peraltro tutti gli altri uomini della famiglia, nel culto di Luisa Sargentini Spagnoli e delle sue imprese.2 Pur nella consapevolezza che stiamo parlando di un modello paternalista ma gestito al femminile anche dopo di lei –  rimane comunque giusto rilevare come le lavoratrici italiane abbiamo goduto di diritti simili e neppure tutti, solo durante la stagione degli anni ’70, grazie prima di tutto alle loro lotte e anche a quelle di quegli anni.  


2 Anche Umberto Boccioni ebbe un passato da cartellonista, eseguendo diversi lavori in merito. Uno degli artisti simbolo dell’Art Nouveau, Alfons Mucha, operò ampiamente in campo pubblicitario per diverse aziende, ma anche per il cinema, ad esempio. Era la routine per molti al tempo che si affermo ancora di più alla fine degli anni ’20 e poi ’30. Un’esperienza a parte, anche per la sua durata nel tempo, fu il sodalizio di Fortunato Depero con la Campari, che si manifestò sia nelle campagne pubblicitarie negli anni ’20 e ’30, sia del disegno della bottiglietta del Campari soda nel 1932.

Piero Sraffa, la sfinge marxiana. Di Franco Romanò

Perché tornare a occuparsi di un uomo enigmatico e di un economista per lungo tempo dimenticato? Tanto più che la teoria economica appare ostica ai più. Cercherò di dirne le ragioni, evitando il più possibile argomenti troppo specifici. Nel mondo rovesciato in cui ci capita di vivere, sono sempre più numerosi gli articoli e i saggi critici sull’andamento dell’economia e sulla teoria economica medesima, scritti da uomini di potere. Uno in particolare mi ha colpito perché al centro del suo discorso compare una metafora poco usuale in un uomo e mi piace pensare che senza il femminismo di mezzo, non gli sarebbe venuta in mente. Tanto più che Giandomenico Scarpelli, un dirigente della Banca d’Italia che si occupa di collocazione dei titoli di stato, è ritornato a occuparsi di teoria economica per aiutare la figlia a sostenere gli esami universitari. Al centro del suo discorso c’è una mirabolante cucina: il forno è acceso e va a mille, i fuochi pure, le pentole sono già pronte e così tutti gli accorgimenti tecnici più sofisticati; solo che non c’è più nulla da cucinare e infatti nel titolo del suo saggio l’economia odierna diventa una Ricetta senza ingredienti. Ecco, una prima risposta al quesito che ho proposto posto all’inizio potrebbe essere questa: perché l’economia di Sraffa, parte dagli ingredienti per arrivare alla cucina.

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OVERLEFT.IT OverLeft Rivista di culture a sinistra

Riflessioni rapsodiche su Fisica quantistica per poeti

Il libro di Ledermann e Hill, Fisica quantistica per poeti, edito da Bollati e Borginghieri, insieme a quelli di Rovelli, compreso l’ultimo appena uscito dal titolo Relatività generale, suscita interrogativi e riflessioni a vasto raggio. Sono gli scienziati stessi a non potere fare a meno di incursioni filosofiche, o che fuoriescono dal campo strettamente scientifico e questo è certamente un buon segno, sia per la divulgazione sia per le irriducibili domande di senso che le scienze suscitano. Nel caso specifico, poi, il titolo del libro, quanto mai evocativo, connette le infinite discussioni sulla meccanica quantistica e le sue diverse interpretazioni, addirittura al dettato poetico. Che la teoria sia, per via dei suoi paradossi, più adatta di altre a suscitare suggestioni analogiche con la poesia, è tutto da vedere: anche la relatività non scherza, se è per questo. Tuttavia, credo vada mantenuta una sana diffidenza di fronte a trasposizioni metaforiche troppo disinvolte.

La questione che il libro di Lederman e Hill affronta di petto è un’altra ed è la solita, di cui si discute da un secolo: l’interpretazione della meccanica quantistica da parte di Niels Bohr e della scuola di Copenhagen è l’ultima parola, oppure aveva ragione Einstein a ritirarsi in uno sdegnoso silenzio, tanto da suggerire ai giovani in un’intervista di quegli anni, di lasciar perdere la fisica e di dedicarsi a lavori utili come l’idraulico o l’elettricista? I due autori stanno dalla parte di Bohr e Copenhagen; tuttavia il testo dà voce ai dubbi – non proprio a tutti – cita anche piste di ricerca minoritarie, ma resistenti, che possono aprire ad altre ipotesi. Insomma, non proprio uno schieramento del tutto convinto, sebbene le alternative possibili siano spesso indicate piuttosto asetticamente, senza approfondirle. Lederman e Hill si tengono dunque prudentemente in una posizione che sembra defilata, visto il peso soverchiante del pensiero dominante; in altri momenti sembra quasi che la loro mano destra stia con Copenhagen e quella sinistra con tutti i dubbi possibili. 

Molte parti del libro, in capitoli diversi, sono dedicate al famoso EPR (Einstein, Podolskj, Rosen), cioè al tentativo da parte dei tre fisici di dar vita a un esperimento cruciale che potesse mettere in mora l’interpretazione statistica della meccanica quantistica. L’esperimento tuttavia è l’ennesimo circolo vizioso perché si presta anch’esso a interpretazioni diverse e quindi siamo daccapo.. Va pure riconosciuto che alcune alternative vennero alla luce più tardi e dal confronto con altre scienze, per esempio la biologia. Inoltre, il clima per Einstein era diventato avvelenato, fatto di colpi bassi e anche di meschinità: fu questo che spinse lo scienziato all’isolamento e lo si può comprendere.  Quali sono però i dubbi o le incongruenze cui il libro di Lederman e Hill in qualche modo dà voce? Li riassumo in una sequenza di affermazioni che sono disseminate in parti diverse del libro:

 … I dati sperimentali ci dicono che  la meccanica quantistica è valida e fondamentale per la comprensione  di fenomeni da 10 alla meno 9  a 10 alla meno 15 metri, …  pag. 33.

 … Cosa non va nella teoria di Newton? … Ci sono due ambiti in cui è non è più valida: quello delle altissime velocità, vicine a quella della luce e della minuscole dimensioni, la scala dell’atomo. In questo secondo caso la teoria che funziona è quella quantistica, …”pag. 51

Pag. 207: … Ovviamente qualche problema riusciva a penetrare la corazza che ci eravamo fati crescere attorno alle nostre intuizioni (per corazza si deve intendere proprio la scuola si Copenhagen come ultima parola ndr). Uno di questi era dato dalla natura degli strumenti di misura: non sono forse anch’essi fatti di atomi? … A quale livello inizia a manifestarsi la realtà classica? Cento atomi? Un milione? Le leggi quantistiche perdono di valore a livello macroscopico?”

Pag 230: …” ma la cosa ancor più sconcertante è che le strane leggi del micro mondo lasciano il posto alla vecchia fisica newtoniana quando la scala dimensionale cresce al livello di palle da tennis e dei pianeti:”

Se si prendono alla lettera queste affermazioni se ne deduce che esistono almeno due diverse fisiche a seconda delle dimensioni e lo sconcerto aumenta quando alla pagina 263 all’inizio del capitoletto intitolato 

E la gravità quantistica? si legge:

I primi seri tentativi da parte della fisica di mettere insieme meccanica quantistica e gravità risalgono agli anni cinquanta dello scorso secolo. Fin da subito ci si accorse che sarebbe stata molto dura … Una teoria quantistica della gravità sembrava non avere senso: tutto quello che si tentava di calcolare era infestato di infiniti, dunque inutilizzabili …

Come può essere l’ultima parola un’interpretazione che non è in grado di dissolvere tali dilemmi? La risposta di Bohr, che Ledermann e Hill riprendono senza commentarla, è che queste grandi domande sono inutili e non ha più senso porle: la meccanica quantistica funziona molto bene, anzi sarebbe la più accertata fra le teorie, per cui va accolta come un dato di fatto. Tali affermazioni suonano apodittiche e ne ricordano altre per assonanza.

I SEMINARI DEL THOR E ROVELLI

Nel lontano 1953 Martin Heidegger propose dei seminari che possiamo definire interdisciplinari, che si rivolgevano dunque a una platea di scienziati e intellettuali appartenenti a campi diversi.  L’iniziativa ebbe successo: durarono fino al 1969, ma continuarono anche dopo la morte del filosofo, avvenuta nel 1976. Per l’Italia, nel 1988, vi partecipò anche l’economista Claudio Napoleoni per esempio. Per oltre venti anni scienziati, filosofi ed epistemologi, si confrontarono intorno alle questioni della tecnica che come è noto occupa una larga parte dell’opera tarda di Heidegger. Fra gli altri Heisenberg diede il suo prestigioso avallo all’iniziativa. Gli intenti di quei seminari erano molteplici, ma uno sembra prevalente e cioè ripristinare una visione multidisciplinare delle scienze e allontanarsi dall’iper specializzazione che impedisce il dialogo fra scienze diverse. Proprio in un seminario del 1988, ripreso recentemente dall’economista Massimo Amato in un saggio dal titolo Napoleoni e Heidegger durante un convengo organizzato dall’istituto Gramsci, il filosofo Jean Beaufret così si espresse sulla fisica contemporanea: 

 … la fisica non finirà quando verrà risolto il problema ancora aperto dell’unificazione delle forze fondamentali (problema che non è stato ancora risolto neppure oggi ndr): essa è fin dall’inizio trascendentalmente finita, nel senso che essa progetta e proietta una possibilità della natura, e ciò facendo ne adombra un’altra.    

Quanto a Rovelli, nei suoi libri possiamo apprezzare un doppio registro: da un lato egli sottolinea l’importanza della meccanica quantistica e ne ricostruisce la storia, dall’altro ammonisce però il lettore su un fatto cruciale e cioè che chi pensa che nelle pieghe della teoria ci sia qualcosa che possa dire un parola definitiva sulla vita e su come nasce e si sviluppa, rimarrà deluso, perché non vi è nulla nella fisica quantistica che possa dire qualcosa sul vivente. In altro modo, è quanto affermano Lederman e Hill quando scrivono che la quantistica, da una certa dimensione in poi, che comprende il vivente e cioè anche noi, cede il passo alla fisica classica. Del resto, in più parti del libro i due autori parlano della quantistica come una fisica spettrale. Faccio allora la domanda dell’ingenuo: ma una fisica che non può dire nulla sul vivente a che cosa serve? O per meglio dire; di che cosa è al servizio?   

Conclusioni

Il titolo del libro è in buona parte fuorviante e probabilmente ha prevalso nella sua formulazione una scelta di tipo editoriale, estranea agli autori come spesso avviene per i titoli; una scelta volta a suscitare l’interesse del lettore. L’uso che si fa della poesia nel libro è quasi irrilevante, a volte incomprensibile, con l’unica eccezione del testo di Robert Frost. Inoltre, si tratta di citazioni troppo limitate nel numero, che alla fine non costituiscono né un controcanto, né un modo di impreziosire il testo con accostamenti analogici. Il tema poteva essere trattato in ben altro modo. Le suggestioni fra letteratura e scienza sono tutt’altro che peregrine e si prestano a esplorazioni diverse, che il libro ha in larga parte mancato.

Umberto Eco e Ida Magli

Premessa.

Questo testo è stato pubblicato sul sito della società di psicoanalisi critica, a ridosso della loro morte.  Lo ripropongo a pochi giorni dalle commemorazioni del primo, con pochi ritocchi.

Il destino, talvolta illuminante, ha posto queste due morti l’una accanto all’altra, ma ancora ad anni di distanza dall’evento, di Ida Magli non si è ricordato Non esito a dire che per me Magli è stata una maestra e lo è ancora; questo non mi impedisce di criticare le sue prese di posizioni sull’Islam, l’Europa, ma anche di riconoscere, nella sua esasperazione, la radice di alcune verità negate. Su questi aspetti del suo pensiero, tuttavia, credo sia meglio dedicare in futuro una riflessione specifica.

I DUE ECO.

Umberto Eco, in quanto semiologo, linguista e strutturalista, è stato un eminente studioso e accademico che ha portato nell’università italiana la tradizione europea che a partire da De Saussure e Wittgenstein, passando poi da  Levi Strauss, Jakobson e Barthes, ha fatto della scienza dei segni, della filosofia del linguaggio e dello strutturalismo un’importante segmento della cultura europea del ‘900, sebbene la sua personale propensione verso l’analisi strutturale risalisse alla Scolastica (dunque anche ad Aristotele) e alla tesi di laurea su Tommaso D’Aquino. Dalle testimonianze provenienti dall’ambito universitario, si comprende che era stimato da colleghi e studenti e che è stato dunque un bravo professore, di grande erudizione. 

Tuttavia, egli non è stato solo questo, ma, come hanno ripetuto fino alla nausea i servizi televisivi e giornalistici a ridosso della morte “Molto, ma molto di più”. È proprio su questo che è lecito avere dubbi, o quanto meno porre interrogativi e sollevare problemi: tanto più perché è questo secondo l’Umberto Eco che ha tenuto le scene, mentre i suoi lavori accademici o il suo ruolo di fondatore della facoltà di scienza della comunicazione sono scivolati da tempo in seconda linea, almeno per il grande pubblico. Anche nelle celebrazioni che nei giorni scorsi si sono tenute in altri paesi, per esempio alla tv tedesca che gli ha dedicato una serata sul canale Arte, di lui si è parlato solo in quanto autore di romanzi  gialli a sfondo storico. 

Eco, in quanto intellettuale di massa, che è cosa diversa dall’essere studioso della società e della cultura di massa, nasce con la pubblicazione de Il nome della rosa: siamo nel 1980. Cinque anni prima, nel 1975, si era chiusa la sua stagione più militante che lo aveva visto, sull’abbrivio dei movimenti intorno al ’68, collaboratore de Il Manifesto, – con lo pseudonimo di Dedalus – dopo un articolo assai duro su quello di Pasolini contro l’aborto, pubblicato sul Corriere della sera. Da quel momento in poi Eco, in perfetta consonanza con i tempi, approdò sia al pubblico televisivo, sia alla divulgazione. Nacquero così I diari minimi, le interviste impossibili, le Bustine di Minerva, le collaborazioni con riviste letterarie come Il cavallo di Troia, che riprendevano temi e modi che erano stati anche delle avanguardie del primo ‘900 e già ripresi dal Gruppo ’63, nel quale Eco aveva militato: la parodia, lo sberleffo, il pastiche, il gioco linguistico, la preminenza del significante sul significato. A tutto questo egli apportava in più la sua virtuosa abilità nel manipolare i segni e la scienza dei segni.

Negli anni precedenti il 1980, da intellettuale critico e di opposizione, si servì virtuosamente degli strumenti semiotici per smontare e anche demistificare le strutture della narrazione e togliere un po’ di ruggine all’accademia italiana ancora legata alla critica crociana. Tuttavia, con Il nome della Rosa, egli compì una vera e propria invasione di campo: usare gli stessi strumenti con cui aveva demistificato molta cultura sia alta sia bassa, per costruire un tipico prodotto di genere, cui solo l’autorevolezza ormai consolidata del suo nome poteva conferire un quid in più che non c’era. Il modello, in realtà, era molto antico – Conan Doyle e altri giallisti presenti nella sua personale biblioteca, su cui si è soffermato durante l’intervista alla tv tedesca; ma trasportando tutta la materia in un favoloso Medio Evo, la narrazione acquisiva una veste apparentemente nuova. L’esperimento riuscì talmente bene che diede il via ad altri analoghi, fino al Codice da Vinci di Dan Brown.

Gli anni ’80 e ’90 furono anche quelli del maggior trionfo dello strutturalismo applicato alla letteratura e in particolare alla narrativa. Erano gli anni in cui la lettura testuale si affermava anche nelle scuole come lo strumento principe per comprendere un testo, ma isolandolo dal suo contesto per coglierlo nella sua nuda essenza di materiale linguistico. Per ragioni biografiche mi trovavo negli stessi anni alle prese con due figli in età scolare che leggevano libri game, componevano in classe narrazioni di cui ciascuno scriveva un capitolo e un altro doveva continuare ecc. Persino in un gruppo di scrittura di cui facevo parte ci divertimmo per qualche tempo a farlo anche noi. Devo ammettere che ne fui affascinato, era stupefacente osservare come ragazzini e ragazzine di quell’età fossero capaci, sotto la guida di bravi insegnanti, di inventare trame e intrecci, personaggi e loro caratterizzazione. Insomma, lo strutturalismo era una macchina che funzionava davvero bene se utilizzando i suoi modelli, studenti delle medie potevano arrivare a tanto; a molto di più poteva arrivare un professore che la scienza dei segni e delle strutture la conosceva a fondo.

Fu proprio in quegli anni e precisamente nel 1985 che, anticipato dagli studi Cesare Segre, approdò in Italia l’analisi strutturalista che Roman Jakobson e Claude Levi-Strauss proposero del sonetto di Baudelaire Les Chats, disaggregandolo con l’abilità con cui un perito settòre seziona un cadavere sul tavolo anatomico.

Nei fui colpito sinistramente; poi mi allarmai di più quando vidi che la tecnica del libro game o altre molto simili entravano nelle scuole di scrittura e poi che cominciavano ad apparire romanzi che assomigliavano molto a esercizi scolastici. Eco ha anticipato tutto questo nel 1980; con lui il postmodernismo entrò a vele spiegate in Italia e lo strutturalismo, da strumento insieme ad altri per avvicinare un testo letterario divenne una macchinetta multiuso.

L’ANTROPOLOGIA AL CENTRO.

Ida Magli non ha goduto della medesima attenzione mediatica. Le ragioni sono tante e sarà sufficiente ricordare che oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: l’essere politicamente molto scorretta, tanto da avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra e l’essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano.

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco), andando alle radici più recenti e dominanti di questa cultura e cioè al cristianesimo e alla sua visione della donna, cui sono strettamente legati i modi di concepire la sessualità. Nel compiere questo passo, Magli non ha dimenticato in ogni momento che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che l’immagine femminile occidentale è una costruzione dello sguardo maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è.

Il centro di irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le rare incursioni che si allontanavano un po’ da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee, legate a fatti di attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, che era poi una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici.

I suoi grandi libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le opere cui ci si deve in prima istanza rivolgere per comprendere il suo percorso e anche i suoi crucci più estremi. Ne scelgo tre, sebbene anche in altri compaia sempre prima o poi un riferimento a questo archetipo (l’uso di questo termine è mio) della cultura occidentale: Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose. Sono tre libri strettamente legati, dove l’antropologa si smarca dalle antinomie classiche con cui si è guardato alla figura di Cristo e di Maria di Nazareth (i primi due libri) e cioè tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue, per leggere i testi evangelici e i pochi altri documenti dell’epoca, mettendo al centro usi costumi, mentalità e quindi contesto sociale, cultura profonda, quelle che Braudel chiamerebbe lunga durata, espressione che Magli stessa cita nella introduzione a La Madonna; sempre però a partire dal linguaggio concreto dei testi, in primis naturalmente, la Bibbia e i Vangeli. In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte quelle figure storiche fossero veri uomini o donne e li situa nel loro contesto. L’analisi del testo evangelico da un punto di vista antropologico, apre le porte a un campo di ricerca vastissimo. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stesso strumento la costruzione dell’immagine femminile a partire però dalle storie reali, dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio.    

STORIA E MEMORIA.

Nelle ultime interviste rilasciate e riproposte nei giorni successivi la morte, Eco tornava sempre a un tema a lui caro, la memoria e ne sembrava un po’ più ossessionato del solito, forse perché nel suo ultimo romanzo, Numero zero, si occupa della recente storia d’Italia. 

Di memoria e strutture si è occupata anche Ida Magli, nessun antropologo ne può prescindere; ma è proprio la diversa e critica considerazione dello strutturalismo che le ha permesso di non essere imprigionata nelle gabbie di un angusto riduzionismo. La sua critica a Levi Strauss è a questo proposito molto importante.

E siamo con questo tornati a quello strumento così potente, il cui metodo permette di saltare sopra il tempo; anzi, di non tenerne conto per nulla. Così, per esempio, tale metodo si può applicare con la stessa efficacia all’analisi di un filastrocca come Ambarabà ciccì coccò tre civette sul comò, oppure alla Vispa Teresa e poi a un canto della Divina commedia. Lo strutturalismo però, in quanto metodo che tratta indifferentemente le strutture, non conosce la dimensione del tempo. Ma se l’oggetto analizzato è il testo letterario, oppure un reperto antropologico, la storia di un popolo o di una cultura, l’eliminazione del tempo rende tutto orizzontale, schiacciato su una sola dimensione e quindi senza tempo e per conseguenza senza memoria possibile. Le strutture diventano allora forme vuote di contenuto, pericolosamente buone per tutti gli usi. Non sarà proprio anche per questo che lo strutturalismo è stato uno degli agenti più o meno consapevoli delle eternizzazione del presente, tanto cara a chi pensa che la storia sia finita? Sarà un caso che nell’epoca in cui esiste un giorno della memoria praticamente per qualsiasi cosa, persino per le ferrovie dimenticate e abbandonate (cercare in rete se qualcuno non ci crede), abbiamo a che fare con una dilagante incapacità di massa, anche da parte di persone che dovrebbero essere colte, di collocare gli eventi storici nel tempo e nello spazio? Naturalmente le responsabilità di questa tragica deriva sono anche altre, ma questa non è trascurabile dal momento che molti formatori si sono formati proprio in quei due decenni in cui lo strutturalismo era sugli scudi.  

La dimensione del tempo e dello spazio occupato da una cultura, inoltre, è forse la sola in grado di indicare a una qualsiasi teoria o scienza, qual è il suo limite.

Nei libri di Ida Magli, l’analisi delle strutture non prescinde mai dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e le loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente e dunque la storia. Questo permette a Magli delle incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. È sua per esempio l’intuizione e poi la ricerca approfondita sulla dipendenza di tutto il linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa, così come sue sono le rapide ma profondissime analisi del soggetto pittorico più frequentato dalla pittura occidentale, la madonna con bambino; oppure sulla musica, come scrive nell’ultima parte del settimo capitolo de La Madonna, intitolato Il tempo interrogativo della musica.

Tuttavia, nel fare questo Magli non ha mai superato il limite. Faccio un solo esempio, ma che vale per tutti. Alla fine dell’analisi antropologica di Gesù di Nazareth, l’antropologa deve affrontare il momento topico della testimonianza sulla sua resurrezione. A quel punto lei registra ciò che viene detto e avviene senza alcun commento: su ciò l’antropologia non ha nulla da dire. Questa coscienza del limite rende ancor più grande quel libro e la sua autrice.