Il libro di Ledermann e Hill, Fisica quantistica per poeti, edito da Bollati e Borginghieri, insieme a quelli di Rovelli, compreso l’ultimo appena uscito dal titolo Relatività generale, suscita interrogativi e riflessioni a vasto raggio. Sono gli scienziati stessi a non potere fare a meno di incursioni filosofiche, o che fuoriescono dal campo strettamente scientifico e questo è certamente un buon segno, sia per la divulgazione sia per le irriducibili domande di senso che le scienze suscitano. Nel caso specifico, poi, il titolo del libro, quanto mai evocativo, connette le infinite discussioni sulla meccanica quantistica e le sue diverse interpretazioni, addirittura al dettato poetico. Che la teoria sia, per via dei suoi paradossi, più adatta di altre a suscitare suggestioni analogiche con la poesia, è tutto da vedere: anche la relatività non scherza, se è per questo. Tuttavia, credo vada mantenuta una sana diffidenza di fronte a trasposizioni metaforiche troppo disinvolte.
La questione che il libro di Lederman e Hill affronta di petto è un’altra ed è la solita, di cui si discute da un secolo: l’interpretazione della meccanica quantistica da parte di Niels Bohr e della scuola di Copenhagen è l’ultima parola, oppure aveva ragione Einstein a ritirarsi in uno sdegnoso silenzio, tanto da suggerire ai giovani in un’intervista di quegli anni, di lasciar perdere la fisica e di dedicarsi a lavori utili come l’idraulico o l’elettricista? I due autori stanno dalla parte di Bohr e Copenhagen; tuttavia il testo dà voce ai dubbi – non proprio a tutti – cita anche piste di ricerca minoritarie, ma resistenti, che possono aprire ad altre ipotesi. Insomma, non proprio uno schieramento del tutto convinto, sebbene le alternative possibili siano spesso indicate piuttosto asetticamente, senza approfondirle. Lederman e Hill si tengono dunque prudentemente in una posizione che sembra defilata, visto il peso soverchiante del pensiero dominante; in altri momenti sembra quasi che la loro mano destra stia con Copenhagen e quella sinistra con tutti i dubbi possibili.
Molte parti del libro, in capitoli diversi, sono dedicate al famoso EPR (Einstein, Podolskj, Rosen), cioè al tentativo da parte dei tre fisici di dar vita a un esperimento cruciale che potesse mettere in mora l’interpretazione statistica della meccanica quantistica. L’esperimento tuttavia è l’ennesimo circolo vizioso perché si presta anch’esso a interpretazioni diverse e quindi siamo daccapo.. Va pure riconosciuto che alcune alternative vennero alla luce più tardi e dal confronto con altre scienze, per esempio la biologia. Inoltre, il clima per Einstein era diventato avvelenato, fatto di colpi bassi e anche di meschinità: fu questo che spinse lo scienziato all’isolamento e lo si può comprendere. Quali sono però i dubbi o le incongruenze cui il libro di Lederman e Hill in qualche modo dà voce? Li riassumo in una sequenza di affermazioni che sono disseminate in parti diverse del libro:
… I dati sperimentali ci dicono che la meccanica quantistica è valida e fondamentale per la comprensione di fenomeni da 10 alla meno 9 a 10 alla meno 15 metri, … pag. 33.
… Cosa non va nella teoria di Newton? … Ci sono due ambiti in cui è non è più valida: quello delle altissime velocità, vicine a quella della luce e della minuscole dimensioni, la scala dell’atomo. In questo secondo caso la teoria che funziona è quella quantistica, …”pag. 51
Pag. 207: … Ovviamente qualche problema riusciva a penetrare la corazza che ci eravamo fati crescere attorno alle nostre intuizioni (per corazza si deve intendere proprio la scuola si Copenhagen come ultima parola ndr). Uno di questi era dato dalla natura degli strumenti di misura: non sono forse anch’essi fatti di atomi? … A quale livello inizia a manifestarsi la realtà classica? Cento atomi? Un milione? Le leggi quantistiche perdono di valore a livello macroscopico?”
Pag 230: …” ma la cosa ancor più sconcertante è che le strane leggi del micro mondo lasciano il posto alla vecchia fisica newtoniana quando la scala dimensionale cresce al livello di palle da tennis e dei pianeti:”
Se si prendono alla lettera queste affermazioni se ne deduce che esistono almeno due diverse fisiche a seconda delle dimensioni e lo sconcerto aumenta quando alla pagina 263 all’inizio del capitoletto intitolato
E la gravità quantistica? si legge:
I primi seri tentativi da parte della fisica di mettere insieme meccanica quantistica e gravità risalgono agli anni cinquanta dello scorso secolo. Fin da subito ci si accorse che sarebbe stata molto dura … Una teoria quantistica della gravità sembrava non avere senso: tutto quello che si tentava di calcolare era infestato di infiniti, dunque inutilizzabili …
Come può essere l’ultima parola un’interpretazione che non è in grado di dissolvere tali dilemmi? La risposta di Bohr, che Ledermann e Hill riprendono senza commentarla, è che queste grandi domande sono inutili e non ha più senso porle: la meccanica quantistica funziona molto bene, anzi sarebbe la più accertata fra le teorie, per cui va accolta come un dato di fatto. Tali affermazioni suonano apodittiche e ne ricordano altre per assonanza.
I SEMINARI DEL THOR E ROVELLI
Nel lontano 1953 Martin Heidegger propose dei seminari che possiamo definire interdisciplinari, che si rivolgevano dunque a una platea di scienziati e intellettuali appartenenti a campi diversi. L’iniziativa ebbe successo: durarono fino al 1969, ma continuarono anche dopo la morte del filosofo, avvenuta nel 1976. Per l’Italia, nel 1988, vi partecipò anche l’economista Claudio Napoleoni per esempio. Per oltre venti anni scienziati, filosofi ed epistemologi, si confrontarono intorno alle questioni della tecnica che come è noto occupa una larga parte dell’opera tarda di Heidegger. Fra gli altri Heisenberg diede il suo prestigioso avallo all’iniziativa. Gli intenti di quei seminari erano molteplici, ma uno sembra prevalente e cioè ripristinare una visione multidisciplinare delle scienze e allontanarsi dall’iper specializzazione che impedisce il dialogo fra scienze diverse. Proprio in un seminario del 1988, ripreso recentemente dall’economista Massimo Amato in un saggio dal titolo Napoleoni e Heidegger durante un convengo organizzato dall’istituto Gramsci, il filosofo Jean Beaufret così si espresse sulla fisica contemporanea:
… la fisica non finirà quando verrà risolto il problema ancora aperto dell’unificazione delle forze fondamentali (problema che non è stato ancora risolto neppure oggi ndr): essa è fin dall’inizio trascendentalmente finita, nel senso che essa progetta e proietta una possibilità della natura, e ciò facendo ne adombra un’altra.
Quanto a Rovelli, nei suoi libri possiamo apprezzare un doppio registro: da un lato egli sottolinea l’importanza della meccanica quantistica e ne ricostruisce la storia, dall’altro ammonisce però il lettore su un fatto cruciale e cioè che chi pensa che nelle pieghe della teoria ci sia qualcosa che possa dire un parola definitiva sulla vita e su come nasce e si sviluppa, rimarrà deluso, perché non vi è nulla nella fisica quantistica che possa dire qualcosa sul vivente. In altro modo, è quanto affermano Lederman e Hill quando scrivono che la quantistica, da una certa dimensione in poi, che comprende il vivente e cioè anche noi, cede il passo alla fisica classica. Del resto, in più parti del libro i due autori parlano della quantistica come una fisica spettrale. Faccio allora la domanda dell’ingenuo: ma una fisica che non può dire nulla sul vivente a che cosa serve? O per meglio dire; di che cosa è al servizio?
Conclusioni
Il titolo del libro è in buona parte fuorviante e probabilmente ha prevalso nella sua formulazione una scelta di tipo editoriale, estranea agli autori come spesso avviene per i titoli; una scelta volta a suscitare l’interesse del lettore. L’uso che si fa della poesia nel libro è quasi irrilevante, a volte incomprensibile, con l’unica eccezione del testo di Robert Frost. Inoltre, si tratta di citazioni troppo limitate nel numero, che alla fine non costituiscono né un controcanto, né un modo di impreziosire il testo con accostamenti analogici. Il tema poteva essere trattato in ben altro modo. Le suggestioni fra letteratura e scienza sono tutt’altro che peregrine e si prestano a esplorazioni diverse, che il libro ha in larga parte mancato.