WALLACE STEVENS: LA POESIA SFIDA IL PENSIERO

Poets in the city: Wallace Stevens

Le Notes toward a supreme fiction (Note verso una finzione suprema) sono una meditazione in versi scritta nel 1942. L’opera è suddivisa in tre parti, intitolate: It must be abstract (Deve essere astratta), It must change (Deve cambiare) e It must give pleasure (Deve dare piacere.) Queste tre sezioni sono a loro volta suddivise in dieci stanze di 21 versi ciascuna suddivisa in sette terzine. Non sono esperto di numerologia, ma diversi critici hanno sottolineato la non casualità di tali scelte. Alle tre sezioni indicate avrebbe dovuto seguirne una quarta dal titolo It must be human (Deve essere umana), che il poeta non scrisse.

La metrica è solenne, il tono è alto: sono tutti blank verse, a volte maggiorati di un piede. È la misura più classica della poesia inglese, paragonabile all’endecasillabo, nel quale spesso Stevens sconfina, peraltro. L’uso della terzina, poi, con il suo andamento concatenato che ricorda anche il passo lento e costante di un viaggiatore che s’incammina verso una meta, sono una spia ulteriore dell’intenzione del poeta. Il richiamo dantesco è presente nel testo, ma non dobbiamo intenderlo in senso metafisico, né come citazionismo. Le Note, come ben afferma Nadia Fusini nel suo studio dedicato a quest’opera, sono una vera e propria quête, cioè un viaggio iniziatico, la cui meta però non sono le altezze del paradiso, ma quello che Stevens definirà come Canto della terra.28 L’anno in cui il poema è stato composto è per gli Usa la fine dell’illusione di star fuori dal conflitto mondiale: dopo Pearl Harbour i preparativi sono divenuti frenetici e le ultime resistenze della popolazione sono cadute. Non vi è una traccia diretta degli eventi storici nel poema – Stevens lo farà in un altro testo – ma se si torna al discorso dei due leoni, della necessità cioè che il leone del liuto non sia una pura fantasticheria ma un severo confronto con la pressione esercitata dal leone del reale, forse non è causale che la meditazione probabilmente più alta dell’intero percorso compiuto dal poeta, si collochi proprio in quel momento storico. L’inizio e cioè i primi sei versi della prima sezione indicano il tema del poema:

/Begin, ephebe, by perceiving the idea/Of this invention, this invented world,/The inconceivable idea of the sun.//You must become an ignorant man again/And see the sun again with ignorant eye/And see it clearly in the idea of it.//

(/Comincia, o efebo, col percepir l’idea/Di questa invenzione, questo mondo inventato,/L’inconcepibile idea del sole.//Devi tornare l’uomo ingenuo che eri/E vedere il sole con occhio ingenuo/ E vederlo chiaramente nell’idea.//)

Tale invocazione, non si rivolge alla musa o a figure trascendentali, ma a un efebo, immagine di una verginità dello spirito, tendenzialmente ermafrodito. Continuando sempre con la prima sezione e sempre rivolto all’efebo Stevens scrive:

/Never suppose an inventing mind as source/Of this idea not for that mind compose/ A voluminous master folded in his fire.//How clean the sun when seen in its idea/Washed in the remotest cleaness of a heaven/That has expelled us and our images …/

(/Non supporre mai una mente che crea all’origine/Dell’idea non creare per quella mente un ingombrante/Padrone avvolto in lingue di fuoco.//Com’è terso il sole se visto nell’idea/Purificato nella remota chiarità di un cielo/Liberatosi delle nostre immagini e di noi …//) 29

È solo tornando all’idea originaria del sole, che noi possiamo vederlo nella sua essenza, senza caricarlo di simboli o di idee che l’umano ha elaborato intorno alla stella: torna in questi versi una eco dell’ottava sezione di Sunday Morning.

Il tema è la meditazione sulla poesia, i suoi strumenti, il suo valore conoscitivo e il suo ruolo nella contemporaneità. La polarità immaginazione-realtà è qui in seconda linea perché la necessità primaria è porsi di fronte all’oggetto sgombri da ogni pregiudizio o idea precedente: questo il senso dell’esortazione a tornare ingenuo, rivolta all’efebo.30 È ancora una volta il tema dell’ultima sezione di Mattino domenicale, che da meditazione finale di quel percorso, diventa nelle Note punto di partenza. In Stevens, come dice ancora Nadia Fusini:

Il senso si costruisce così, per insistenza, ripetizione, ritorno31

Tuttavia un altro elemento va considerato oltre a questi: si tratta delle variazioni che il poeta introduce ogni volta che ritorna ai luoghi topici della sua poesia, variazioni che con il tempo non solo chiariscono sempre di più, con apporti continui di senso, la ricchezza della sua trama poetica, ma che diventano delle vere e proprie metamorfosi in atto. È quest’ultima caratteristica che diviene essenziale anche per chi legge: abbiamo sì la sensazione di tornare sempre laddove siamo già stati, ma il procedimento decreativo di Stevens non è una tela di Penelope, è una costruzione che si modifica ogni volta senza mai buttare via tutto quello che si era raggiunto in precedenza, ma conservandone invece una parte per trasformarla. Si tratta piuttosto di liberarsi di volta in volta delle scorie, salvando però il nucleo centrale dell’intuizione. Tale procedimento non porta all’accumulo, ma alla necessità di cambiamento che viene indicata nella seconda sezione delle Note (It must change). Torniamo però alla prima sezione intitolata Deve essere astratta. L’idea di astrazione, in Stevens, va intesa diversamente da come normalmente si pensa a questa parola, specialmente in relazione alla filosofia. Il poeta esorta l’efebo a liberarsi, nel guardare il sole, di tutte quelle ombre della lingua e del pensiero che impediscono alla visione di afferrarne la prima idea, l’idea originaria del sole. Piuttosto che di astrazione, siamo qui in presenza di un procedimento di spoliazione o rarefazione progressiva, di un invito a sospendere tutte le affermazioni fatte intorno alle cose reali, così da poterle vedere nella loro nuda essenza. È solo quando avremo tolto questi orpelli del pensiero, le scorie di cui si è detto più sopra, che – secondo Stevens – la realtà si risveglierà, al di là di ogni metaforica evasione; le cose, allora, cominceranno a parlare la loro lingua, a risuonare della loro musica: è il canto della terra.

Lo stile stevensiano, fatto di ripetizioni e accostamenti paratattici, ci permette d’introdurre un discorso che riguarda la tradizione. Vi sono concetti e parole che hanno una storia e anche un peso, se noi accettiamo di considerare il punto di vista di una tradizione che si estende a tutte le civiltà poetiche. Per rimanere in occidente, un lessico apparentemente così comune come quello usato da Stevens (il sole, il giorno e la notte), può essere accolto da uno sguardo ingenuo solo se si libera delle troppe costruzioni di senso. Le parole chiave di questa prima sezione girano intorno al tema dell’idea prima, dell’origine, su cui grava il peso della storia, ma anche quello della nostra semplice presenza di umani in un mondo che non è solo nostro. A volte il pensiero poetante di Stevens sfugge nella meditazione pura, non sempre facile da seguire, creando immagini concettuali  sorprendenti e a volte oscure, che sfociano però sempre in soluzioni che creano nuove immagini di grande limpidezza espressiva. Così nella quarta stanza Adamo è già padre di Cartesio, nel senso che la razionalizzazione matematico geometrica del mondo inizia già nell’Eden e quanto agli umani:

We are the mimics. Clouds are padagogues//… (/Noi siamo i mimi. Le nuvole i nostri maestri./) 33

L’umano turba l’idea prima e svolge un ruolo ambivalente che tormenterà il poeta per tutta la vita. Nella chiusa della quinta stanza, seppure con un tono ironico, la presenza dei sapiens sapiens rompe l’equilibrio naturale:

/These are the heroic children whom times breeds//Against the first idea – to lash the lion,/Caparison elephants, teach bears to juggle//…

(/Questi sono i giovani eroi che l’epoca genera//Contro la prima idea – per frustare il leone/Bardare l’elefante, domesticare l’orso nel circo.//) 34

Gli umani come progetto sbagliato della natura? Ci sono scienziati che lo sostengono, ma vennero tutti dopo.

Tuttavia, nella settima stanza, il destino degli umani si muta in qualcosa di diverso, cioè in un accesso possibile che sa ancora aprirsi a quell’andare fortuito verso le cose, che metta fra parentesi la ragione; allora:

/The truth depends on a walk around a lake … (/La verità dipende da una passeggiata/intorno al lago…)

e  nella chiusa della medesima:

/Perhaps there are moments of awakening./Extreme, fortuitous, personal in which//We more than awaken, sit on the edge of sleep,/As on an elevation, and behold/The academies like structures in a mist.//

(/Forse ci sono momenti di risveglio,/Estremi, fortuiti, personali, quando/…/Più che svegli, sediamo sull’orlo del sonno,/ Come su un’altura, e guardiamo/le accademie come fossero strutture di nebbia./) 35

Nell’ultima stanza Stevens si rivolge di nuovo all’efebo e torna all’umano, ma un umano che ha perso i suoi orpelli e che ritroveremo nelle opere della maturità: non più l’eroe che combatte (e siamo nel 1942!), ma l’uomo comune. Riporto l’intera sezione nella traduzione di Nadia Fusini:

/The major abstraction is the idea of man/And major man is the exponent, abler/In the abstract than in his singular,//More fecund as principle than particle,/Happy fecundity, flor-abundant force,/In being o more than an exception, part.//Though an heroic part, of a commonal,/The major abstraction is the commonal, /The inanimate, difficult visage. Who is it?//What rabbi, grown furious with human wish,/What chieftain, walking by himself, crying/Most miserable, most victorious,//Does not see the separate, figures one by  one,/And yet see the only one, in his old coat, /His slouching pantaloons, beyond the towns,//Looking for what was, where it used to be?/Cloudless the morning. It is he. The man/In his old coat, those sagging pantaloons,/it is of him, ephebe, to make, to confect,/the final elegance, non to console/Nor sanctify, but plainly to propound. //

(/L’astrazione maggiore è l’idea di uomo/E l’uomo maggiore il suo esponente, più capace/Nell’astratto che nel singolo caso,//Più fecondo come principio che come particella,/Felice abbondanza forza flor-abundante,/In quanto parte più che eccezione,//parte anche se eroica di ciò che è comune./L’astrazione più grande è il volto/Difficile, anonimo, dell’uomo comune. Chi è?//Quale rabbino, invasato di umano fervore/Quale capitano che cammini solo, piangente,/Il più miserabile, o il più vittorioso,//Non vede queste figure staccate, una per una?/E tuttavia una sola, un vecchio cappotto,/Un paio di pantaloni sgualciti, di là dal villaggio,//In cerca di ciò ch’è stato, com’era una volta.//Senza nubi il mattino. È lui l’uomo ravvolto/Nel vecchio cappotto, i pantaloni cascanti,//Di lui, efebo, dovrai fabbricare, ad arte/Confezionare l’eleganza finale, non per consolare/Né consacrare, ma solo presentare./)36

La seconda sezione s’intitola Deve cambiare. L’idea di metamorfosi è una presenza costante nell’opera di Stevens, ma in questo caso viene nominata espressamente. Dalla pittura l’accento si sposta sulla scultura, un’arte del tutto particolare, nel senso che la durezza dei suoi materiali evoca la pesantezza della staticità e quindi il contrario del cambiamento. Nella terza stanza la scultura è quella che immortala il generale Du Puy e sarà un’altra statua – quella di Bartolomeo Colleoni scolpita da Verrocchio – a occupare larga parte di uno dei suoi saggi più importanti.37

 /The great statue of general Du Puy/Rested immobile, though neighboring catafalques/Bore off the residents of its noble Place.//The rights, uplifted foreleg of the horse/Suggested that, at the final funeral,/The music halted and the horse stood still.//On Sundays, lawyers in their promenades/Approached this strongly-heightened effigy/To study the past, and doctors, having bathed//Themselves with care, sought out the nerveless frame/Of a suspension, a permanence, so rigid,/That it made their General a bit absurd,//Changed its true flesh to an inhuman bronze./There never had been, never could be, , such /A man. The lawyers disbelieved, the doctors,//Said that as keen, illustrious ornament,/As a setting for geraniums, the General,/The very Place Du Puys, in fact, belonged//Among our more vestigial states of mind./Nothing had happened because nothing had changed./Yet the General was rubbish in the  end.

(/La grande statua del generale Du Puy rimase /Immobile, mentre i vicini catafalchi inghiottivano/I residenti della nobile piazza.//La zampa destra del cavallo alzata/ Suggeriva che all’atto conclusivo del funerale/La musica/s’era arrestata e il cavallo ristette immobile.//La domenica gli avvocati passeggiando/Accostavano l’effigie austera in alto levata/Per studiare il passato, e i dottori,//Dopo accurati lavacri,indagavano la struttura/Inerte sospesa a una permanenza tanto rigida/Che rendeva il generale alquanto ridicolo,//E mutava la carne vera in bronzo inumano./Non c’era mai stato, né avrebbe potuto, un uomo/Così gli avvocati dubitavano, i dottori//Dicevano che il generale, la piazza Du Puy stessa,/Erano l’ornamento illustre, perfetto/Per i gerani, il vanto, la testimonianza//Tra le vestigia del nostro intelletto./Nulla era accaduto poiché nulla era mutato./Eppure il generale finì nell’immondizia.//)38

Una sottile ironia percorre l’intero testo, evocando al tempo stesso l’immutabilità della storia e il suo peso: la statua sopravvive a tutti coloro che hanno popolato quella piazza, ma solo come immagine sinistra d’immutabilità. Vale forse la pena di ricordare che non è estranea all’ironia il ricorso stesso a una figura come un generale tutto sommato anonimo, nel quale si possono anche identificare due personaggi diversi, anche se penso che si riferisca a quello che ebbe una parte importante nella Rivoluzione Francese. Nella stanza che segue, la quarta, Stevens contrappone alla staticità della scultura, l’immagine degli opposti che danno vita la cambiamento:

/Two things of opposite nature seem to depend/One another, as a man depends/On a woman, day on night, the imagined//On the real. This is the origin of change./Winter and spring, cold copulars, embrace/And forth the particulars of rapture come.//

(/Due cose di opposta natura sembrano dipendere/L’una dall’altra, come l’uomo dipende/Dalla donna,/il giorno dalla notte, l’immaginato//Da ciò che è reale. Questa è l’origine del mutamento/L’inverno e la primavera, gelidi congiunti, s’abbracciano/E alla luce nascono i particolari dell’estasi./)

La chiusa della sezione è ancora più esplicita:

/The partaker  partakes of that which changes him./The child that touches takes character from the thing,/The body, it touches. The captain and his men//Are one and the sailor and the sea are one./Follow after, O my companion, my fellow, my self,/Sister and solace, brother and delight.//

(/Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta./Il bimbo che tocca prende il carattere della cosa,/Del corpo che tocca. Il capitano e i suoi uomini//Sono tutt’uno e così il mare e i marinai./Seguita tu compagno, mio prossimo, me stesso, /Sorella e sostegno, fratello e diletto.//) 39

In questi versi Stevens rovescia la figura dell’ipocrita lettore di Baudelaire, ripreso da Eliot, per farne una figura del tutto diversa. Penso che il poeta di Hartford, in ogni caso, avesse in mente il secondo e non il primo perché, pur essendo identiche, le due formule hanno un senso diverso, dal momento che una citazione ha comunque un altro valore rispetto all’originale. Il verso di Baudelaire smascherava il linguaggio aulico e la figura sacrale del poeta contrapposta all’uomo comune, rovesciando al tempo stesso il linguaggio amoroso nel suo controcanto e invitando il lettore a uscire egli stesso dall’inganno e dalla complicità con il poeta. L’ipocrita lettore di Eliot, invece, s’inscrive nel solco del Tramonto dell’Occidente, per citare il libro di Spengler. Quello che Stevens propone al lettore è un patto di tipo nuovo, che spazza via ogni indulgenza verso il narcisismo del decadere, che del verso di Baudelaire hanno fatto in troppi, proponendo invece un patto di fratellanza e di sorellanza fondato sulla comune appartenenza al genere umano.40

Nella quinta stanza, all’inizio, Stevens ritorna al tema delle cose che permangono dopo di noi (un tema carissimo anche a Borges), ma in questo caso, esse a differenza della statua, esse sono un esempio di mutamento:

/On a blue Island in a sky-wide water/The wild orange trees continued to bloom and to bear,/Long after the planter’s death. A few limes remained,//Where his house had fallen, three scraggy trees weighted /With garbled green. These were the planter’s turquoise/And his orange blotches, these were his zero green,//A green backed greener in the greenest sun./…

(/Su un’isola azzurra in un ampio cielo d’acqua/gli aranci selvaggi seguitarono a dar fiore e frutto,/molto tempo dopo la morte del piantatore. Rimanevano//dov’era caduta la sua casa, tre scabri alberi di cedrina/grevi di mutilo verde./ Erano le chiazze turchesi e arance/del piantatore, erano il suo verde assoluto./…) 41

L’agricoltura, la base di ogni vita, delle stagioni che ritornano, i colori fulgidi ma anche normali di una natura che il lavoro umano non ha distrutto, ma valorizzato. Le stanze finali andrebbero citate tutte e per intero, sia per la loro bellezza, sia per la densità che esprimono. In esse, precisamente nell’ottava, appare rapidamente un’altra delle figure di Stevens, Nanzia Nunzio, la sposa di Ozymandias, che rimanda a Shelley. Metafora dell’incontro fra uomo e donna ma anche di realtà e immaginazione, il matrimonio non può essere mai del tutto raggiunto ma sempre sul punto di esserlo. Il poeta romantico inglese, evocato in questa sezione, torna della decima e ultima con la citazione del vento occidentale come fattore di mutamento continuo, di rimescolamento e metamorfosi ininterrotta.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere ed è fra le tre la più complessa e anche quella in cui il pensiero poetante entra ed esce dai confini che lo separano dalla filosofia. Il piacere di cui il poeta intende trattare è di ordine estetico e conoscitivo. La figura centrale di questa parte è il canonico Aspirin, non lontano dall’Angelo, anzi, tappa di avvicinamento a questa figura che il poeta metterà compiutamente in scena alla fine di Auroras of autumn.

Per delineare i contorni del piacere che la poesia deve dare Stevens ricorre a una serie di esempi, fra i quali scelgo per primo quello della festa.

/We drank Meursault, ate lobster Bombay with mango/Chutney. Then the Canon Aspirin declaimed/of his sister, in what a sensible ecstasy/She lived in her house…

(/Bevemmo Meursault, mangiammo aragosta Bombay/con salsa di mango. Poi il Canonico Aspirina declamò/della sorella/in quale estasi composta/abitasse la sua casa/)

Quando leggiamo questi versi, non sappiamo chi sia il soggetto della narrazione. L’iniziale noi si riferisce a un gruppo generico di persone. Con il secondo verso il Canonico Aspirina diviene protagonista del testo, ma è qualcun altro che sta parlando di lui. Il linguaggio è colloquiale e piano, il setting facile da definire: una festa importante, vista la preziosità dei cibi.  

Il Canonico Aspirina declama, una parola altisonante e in apparenza distante dall’atmosfera famigliare e ciò che egli declama è ancora più sorprendente: come sua sorella viva felice nella propria casa. Per lei, la sorella, tutto questo rappresenta una concreta estasi, un’altra coppia di termini di una certa importanza. Tuttavia, ancora  una volta, i protagonisti del canto sono destinati a cambiare rapidamente, ma è sempre qualcun altro che parla di volta in volta di loro. La sorella del Canonico è ora divenuta la figura in primo piano, solo che – come vedremo presto – è assente. Questa prospettiva tridimensionale costruita attraverso il linguaggio rimanda alla pittura: 

/…She had two daughters, one/Of four, and one of seven, whom she dressed/The way a painter of pauvred colors paints.// But still she painted them, appropriate to their poverty…./ 

(/Aveva due figlie, una /di Quattro anni l’altra di sette, che abbigliava/come dipinge un pittore parco di colore./Ma pur le dipingeva, in maniera conforme/alla loro povertà./)

Il dipingere, in questo caso, diviene metafora della poesia e sembra che Stevens stia suggerendo che anche la poesia può essere fatta di elementi poveri e prendere ispirazione dalle cose più comuni; per esempio una serata famigliare e colloquiale.  C’è di più: i colori, le forme, gli strumenti, sono appropriati alla loro povertà. Quanto al modo di procedere del testo è anch’esso assai pittorico e al lettore sembra quasi di assistere alla composizione di un affresco: prima un dettaglio sulla tavola imbandita, poi un personaggio, poi un altro. Solo alla fine del canto, forse, riusciremo ad afferrare il senso dell’intera composizione? Ci aspetteremmo qualcosa di più sulla sorella; invece, dopo aver continuato a descrivere i colori usati da lei, il Canonico tace. 

/The Canon Aspirin, having said these things,/Reflected, humming an outline of a fugue/Of praise, a conjugation done by choirs.//Yet when her children slept, his sister herself/Demanded of sleep, in the excitements of silence/Only the unmuddled self of sleep, for them/ 

(/Il Canonico Aspirina, dette queste cose, rifletté, canticchiando una fuga abbozzata/di elogio, una coniugazione per cori//Però quando le bimbe dormivano, sua sorella/chiese per se stessa il sonno/nel giubilo del silenzio/per loro soltanto l’io inconfuso del sonno./) 42

Questi versi sono davvero sorprendenti e polisemantici! Non solo tutto quanto precede è un parlare di assenti, ma nel momento in cui la sorella – vera protagonista della serata e della festa che si svolge proprio a casa sua – si materializza, lo fa per porre fine alla serata. La fuga improvvisata dal Canonico, anticipa quel momento di silenzio ed esaurimento del parlar conviviale, che precede i saluti di congedo. La composizione finale della scena ci fa comprendere, come in una retrospettiva, che la serata era andata avanti da molto tempo e che la sorella si era assentata proprio per mettere a letto le due figlie.

Fermiamoci un momento e poniamoci una domanda. I versi di cui sopra sono tratti dalla quinta stanza. Se Stevens, nella stanza successiva, avesse cambiato scenario, nessuno – credo – potrebbe pensare che quella precedente non sia risolta. La sua complessità, la tridimensionalità e le qualità pittoriche sono tutti elementi adeguati e coerenti con la situazione. Tuttavia, il Canonico Aspirina (un personaggio metafora della poesia stessa) non può fermarsi a questo.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere, ma si tratta di un piacere diverso da quello che può scaturire dalla rappresentazione di una festa conviviale, sebbene anche da questo la poesia possa partire. Del resto, Stevens lo aveva scritto nel primo canto di questa terza sezione:

/To sing jubilas at exact, accustomed times,/……./To speak of joy and to sing of it, borne on/the shoulders of joyous men,… This is a facile exercise …

(/Cantar jubila a scadenze esatte e fisse,/… parlar di gioia e cantarne,/portati a spalla da uomini gioiosi … Questo è un facile esercizio …/) 43

Anche condividere una festa può essere un facile esercizio. Ciò che accade nella sesta sezione è la trasformazione alchemica di quell’esperienza concreta, in sé già preziosa, in una metamorfosi che trasfigura la sostanza dell’esperienza festa, ora che essa è finita. Il silenzio che segue e che era stato anticipato dalla intonazione di una fuga, diviene il preludio a qualcosa d’altro. Il Canonico – tornato nel frattempo a casa sua e in procinto di addormentarsi – vive l’esperienza della solitudine, quel vuoto che segue gli incontri conviviali piacevoli.

/The nothingness was a nakedness, a point,// Beyond which fact could not progress as fact./

(/Il nulla fu una nudità, un punto/Oltre il quale il fatto in quanto fatto naufragava./)

Il piacere di condividere una festa non può essere esteso in modo indefinito, in quanto evento concreto, ma solo essere trasfigurato e tale processo ha a che fare con un materiale diverso, di tipo mentale. Si tratta di intonare il nudo fatto con la sua trasfigurazione e allora cosa vede il Canonico Aspirina?

/So that he was the ascending wings he saw/And moved on them in orbits’ outer stars/Descending to the children’s bed, on which// They lay. Forth then with huge pathetic force/Straight to the utmost crown of the night he flew./The nothingness was a nakedness, a point// Beyond which thought could not progress as thought./…

(/Così egli divenne le ali stesse della visione che vedeva/e ascese alle orbite più lontane delle stelle/discese al letto delle bimbe, dove/esse dormivano. Poi con impeto di passione/volò diritto al culmine della notte/Il nulla fu una nudità, un punto/oltre il quale il pensiero come tale naufragava./) 44

Le orbite delle stelle più lontane e il letto delle bambine sono i due estremi di una più ampia armonia che va oltre il pensiero perché è fusione fra la sostanza materiale delle cose e la sostanza materiale della mente. Tale più ampia consapevolezza non proviene dal pensiero o da un occhio che guarda dal di fuori e che domina la scena, ma da una percezione che sta internamente sia alle cose comuni, sia a quelle più vertiginose: le stelle più lontane (metafora delle altezze cui può aspirare la poesia) e il letto dove dormono le nipotine hanno la stessa importanza. In questi due canti Stevens non si limita a riproporre uno dei leit motiv  più celebrati della sua opera e cioè il confronto fra il leone del liuto e il leone della pietra, di cui si è già scritto a proposito del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra.

Nella parte conclusiva del sesto canto, il poeta fa un passo in più:

/He had to choose. But it was not a choice/Between excluding things. It was not a choice// Between, but of. He chose to include the things/That in each other are included, the whole, /The complicate, the amassing harmony.//

(/Dovette scegliere ma non fu una scelta /fra termini che si escludono. Non fu una scelta fra/ma di. Scelse di includere le cose/che s’includono a vicenda, l’intero/ la complessa, l’affollata armonia./) 45

Questi sono i versi chiave. Nel suo volo, il Canonico Aspirina viene messo di fronte a una delle antinomie tipiche del pensiero occidentale e si rende conto che la visione le comprende entrambe. Invece di insistere sulla mancanza che il poeta avverte dopo avere condiviso con altri l’esperienza a tutti comune, scopre l’impossibilità di separare l’esperienza comune dall’immaginazione. La sintesi è una nuova armonia in cui le figure stesse dei due leoni vengono superate. Essa è una quarta dimensione che potremmo paragonare al puro colore della pittura astratta, quando ogni sembiante figurativo si è dissolto. Tuttavia, il materiale della mente e quello dell’immaginazione non sono fatti di una sostanza diversa rispetto alle normali cose. Un chiaro di luna e un tramonto ci scuotono anche prima della loro trasfigurazione in versi memorabili. Se non fosse così la metamorfosi non sarebbe neppure possibile. Perciò la realtà non è solo il fardello del mondo, ma anche la sorgente di ogni ispirazione. Il poeta è un demiurgo e questo implica anche un passaggio nel silenzio e nella solitudine, un momento di vuoto; ma solo un momento, perché quando la metamorfosi è compiuta, nulla è andato perso. Soltanto separando perdiamo qualcosa, sia nel caso in cui rimaniamo legati e prigionieri alla lettera degli avvenimenti, sia perseguendo le rotte delle stelle come fuga, cadendo così in un vuoto spiritualismo. Il poeta demiurgo vola fra queste due polarità, ma Stevens ci sta forse suggerendo che per chiunque tale esperienza è possibile. Naturalmente siamo distanti dal modo ridicolo in cui una formula apparentemente simile è venuta in auge nel post modernismo italiano della fine degli anni ’90 e cioè che chiunque è poeta; ma nel senso che chiunque può raggiungere il concreto materiale della propria mente e della propria immaginazione, nei modi diversi accessibili a ciascuno. Quando siamo commossi fino alle lacrime, quando siamo colpiti da un ricordo improvviso, tale emozione non è differente da un processo di trasfigurazione. Il nudo fatto non è più presente in quel momento, ma è capace di agire a distanza di tempo e di luogo. Che tipo di esperienza è questa? È forse separabile da quel volto, quella voce, quel tramonto che hanno provocato il ricordo e fatto scattare quell’emozione? La poesia è più intensa, il poeta demiurgo è partecipe di esperienze comuni come tutti ma anche memorabili per chiunque, così che tutti possiamo a nostra volta rispecchiarci nelle medesime; altrimenti non potremmo. Probabilmente la grande poesia è quella in cui è attiva anche una capacità di sospendere il giudizio, di accedere a una dimensione astratta e per Stevens astratto non è l’opposto di concreto ma un andare verso un’esperienza concreta come se la si facesse per la prima volta. In definitiva, qual è allora la differenza fra il condividere il piacere di una festa e la poesia che la trasfigura? E fra il poeta e la persona comune nel sentire un’emozione? Abbiamo visto come per Stevens è un demiurgo, ma egli accompagna la parola a un aggettivo molto particolare: debole.

/The man-hero is not the exceptional monster,/But he that of repetition is most master./

(/L’uomo eroe non è il mostro eccezionale;/ma colui che della ripetizione è il miglior mastro./) 46

Soltanto tornando più volte alla stessa esperienza e raffinandola sempre di più è possibile intensificarne il senso: ma ripetere è l’opposto del separare e chi separa troppo cade in quello che i greci definivano hybris, l’arroganza, l’imporre ordine. Il nome del canonico – Aspirina – appare al fine del percorso, niente affatto una bizzarria. L’aspirina, con la sua debole effervescenza, scioglie comunque gli acidi e le incrostazioni, permette alla visione di togliere all’esperienza comune ciò che è troppo comune, per farla risplendere di una luce diversa: il debole demiurgo e l’aspirina condividono tale peculiarità e anche il poeta deve rinunciare alla propria di finzione, eccetto che in un caso:

…../ the fiction of an absolute-Angel,/Be silent in your luminous cloud and hear/The luminous melody of proper sound./ 

(/la finzione di un Angelo assoluto,/sii silente nella tua nube luminosa e ascolta/la luminosa melodia del suono appropriato./) 47 

Nella figura dell’Angelo precipitano (e uso il termine nel significato di reazione chimica) tutte le altre figure di cui di volta Stevens si è servito: ora è diventato l’Angelo della realtà che condivide la sostanza umana e quella divina, che altro non è se non  la parte eccedente noi stessi, ma che a noi ritorna sempre, senza allusioni a un favoloso altrove.

Stevens, coerentemente a quanto veniva scoprendo, rinunciò a darci una definizione esaustiva della Finzione Suprema, limitandosi a fornircene alcune Note, sebbene abbia lasciato qualche traccia della direzione che avrebbe preso la parte non scritta del Poema. Come Mosè egli ha puntato il suo dito verso la terra Promessa della Finzione Suprema. L’armonia molteplice è la contemplazione pacata e accolta del confine, cioè del limite: lo sguardo che da lì e per un attimo coglie l’intero, stando però un passo indietro. Qualcosa di simile deve aver sentito Michelangelo Buonarroti quando, nell’affrescare la Cappella Sistina, lasciò uno spazio vuoto fra il dito di Dio e quello dell’uomo.

Questa terza sezione del poema è quella nella quale Stevens raggiunge i toni più alti, le vette più estreme. Proprio in questo punto, però, la meditazione s’interrompe e la famosa quarta sezione, It must be human, rimane nella penna del poeta. Perché? Ed è proprio vero poi? Su tale mancanza i critici si sono arrovellati e hanno pure interrogato lo stesso Stevens, il quale – con il suo solito modo disarmante – ha risposto in modo a mio avviso esauriente, esponendo i motivi per cui la sezione quarta non fu scritta nella forma in cui lui stesso all’inizio aveva in mente: oppure, come sono propenso a credere, che abbia finto di avere in mente. Seguiamo il suo ragionamento. In una lettera all’amico Henry Church Stevens scrive:

Il nucleo della faccenda è espresso nel titolo…  E in un’altra lettera a Simons: Non ho certamente definito la finzione suprema, le note si limitano ad affermare alcune caratteristiche necessarie ad una finzione suprema48

E continua più avanti, sempre rivolta a Montague:

Per molto tempo ho pensato di aggiungere alle note altre sezioni, una in particolare – Deve essere umana -…Che il lavoro di un uomo rimanga incompiuto, è spesso un fatto intenzionale. Ad esempio, se devo pensare ad una finzione suprema, non riesco ad immaginare niente di più fatale che il definirla categoricamente e senza le necessarie cautele.” 49

A furia di pensarlo come un poeta oscuro, capita di equivocare la chiarezza di Stevens anche quando parla in prosa: forse basterebbe avere il semplice coraggio di prenderlo alla lettera. Quando il poeta afferma che il nocciolo della questione sta nel titolo, dice il vero perché il titolo è lì a dirlo. Le sue non sono Note about, circa oppure on (sulla)  finzione suprema, ma toward. Cosa significa la parola inglese usata da lui? Significa verso, indica cioè una direzione ma non il raggiungimento di una meta specifica, nella forma almeno della meditazione sulla propria poesia e poetica. In un’altra dichiarazione Stevens dice qualcosa di più che illumina definitivamente la questione anche a questo proposito, che illumina il senso delle note. Stevens sente di avere raggiunto il limite oltre il quale il pensiero poetante rischia di diventare filosofia pura e semplice, perciò la definizione di finzione assoluta non può essere raggiunta in poesia; ma manchiamo forse d’indicazione sulla terra promessa della finzione suprema? Niente affatto. Dopo avere toccato il vertice del linguaggio e dello stile alto e dopo essersi allontanato dall’umano troppo umano cioè, dopo avere indicato la via di una spoliazione della tentazione di rendere tutto antropomorfo, dopo avere indicato nell’idea prima della cosa il suo punto di arrivo, Stevens, vuole reintegrare l’umano in tutto questo, un umano però cosciente dei suoi limiti, ma anche della sua grandezza nell’insieme del cosmo.

Nadia Fusini ha bene intravisto questo percorso quando afferma nell’opera già citata:

C’è una curva che si descrive, una traiettoria che piega verso la terra. Comprendiamo che la finzione suprema, se fosse dato raggiungerla, avrebbe quell’inclinazione verso l’umano. 50

Ma non è forse vero – allora – che la quarta sezione non è affatto mancante ma che è stata scritta da Stevens in un altro modo, come una messa in pratica – se così si può dire – di quanto aveva intuito nei punti più alti delle Note? Se posso usare una analogia un po’ ardita direi che lo Stevens che giunge al punto più alto delle note è un Mosè alato che indica la terra promessa e che lo Stevens che scrive il poema le Aurore d’autunno, Un giorno qualunque a New Heaven, The rock e l’Opus postumus, è un Mosè che ha perso le ali ma che non ha rinunciato ad entrare nella terra promessa e che anzi ha compreso che per raggiungerla doveva farlo in altro modo, magari a piedi e anche senza farsi troppo riconoscere. E quale è la terra promessa cui Stevens finalmente approda? Semplicemente quella cui la sua poesia tende fin dagli inizi, in un processo di metamorfosi continua grazie alla quale la meta diventa sempre più chiara al poeta stesso: quel canto della terra e quel linguaggio semplice delle cose colte nella loro essenzialità, la luce che emana anche ciò che è comune e quotidiano.

Nei suoi grandi poemi finali ha raggiunto questa misura e infatti il tono altissimo delle Note cede il passo a quello meditativo e più sommesso, ma non basso: è lo splendore tenue ma costante della maturità autunnale, la luce che non abbaglia ma che rende tutto intimo e confortevole, è il tono di un umano finalmente reintegrato e riconciliato con le cose, persino con la roccia, cioè con il nocciolo duro e più ottuso della terra. La poesia di Stevens fa risplendere tutto questo della sua luce che non è più quella delle vertigini, che evocano:

il favoloso altrove che non esiste e che se anche esistesse non ci servirebbe qui dove siamo” 51

ma il canto di ciò che è più comune: della materia che risuona, della realtà che ha la sua musica. Nei suoi poemi finali Stevens dà a ciò che è più comune la dignità di essere parte di un cosmo.


28 Nadia Fusini, Note sulla finzione suprema, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag.33.

29 Op. cit. pp. 29-30

30 Quella che Stevens mette in atto è un invito alla sospensione del giudizio che diventerà ancora più chiaro in opere successive e in particolare in Aurore d’autunno. Il criterio della sospensione del giudizio ha una lunga storia nella filosofia occidentale. Se modernamente può essere fatta risalire a Kant e a come il filosofo tratta l’aspetto fenomenico dell’esperienza e poi nel ‘900 a Husserl, nell’antichità greca lo troviamo in Sesto Empirico. Stevens non ci lascia tracce evidenti dei suoi possibili riferimenti a questi autori o altro, tuttavia il modo di procedere sembra avere qualche ancoraggio a tali autori, in particolare quelli più antichi, insieme a Husserl.

31 Nadia Fusini, Op. cit. pag. 10.

33 Op. cit. pp.64-5

34 Op. cot. pp. 66-7

35 Op. cit. pp.70-1

36 Op.cit. pp. 77-8. Fusini a piè pagina del testo inglese e della sua traduzione cita molto opportunamente alcuni passaggi di lettere che Stevens indirizzò a Church e a Herringman e che si ricollegano a questo testo, ma che sono pure espressioni assai note che Stevens ha usato in altri contesti. Una l’abbiamo già citata, ma riproporla qui mi sembra assai significativo: “Caro Church, per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta, e la poesia non è che la difficile ricerca di questo.”

37 Wallace Stevens L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum editore, pp.77-112.

38 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, pp 84-5

39 Nadia Fusini, op. cit. pp.86-7.

40 Charles Baudelaire, I fiori del male, in Tutte le poesie, a cura e traduzione di Claudio Rendina con saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1972, pp.50-1.

41 In questo caso ho preferito la traduzione di Massimo Bacigalupo in Wallace Stevens Harmonium, Einaudi pag. 465.

42 Op. cit. pp.480-1

43 Op.cit. pp. 474-5

44 Op. cit. pp. 480-1

45 Su questo passaggio decisivo occorre soffermarsi molto, anche perché le differenze nelle traduzioni sono rilevanti. Il testo in lingua originale, le giustifica tutte, ma esse non sono ovviamente neutre l’una rispetto all’altra. Mi riferisco in particolare all’ultimo verso: The complicate, the amassing harmony. Ho scelto la traduzione di Nadia Fusini che rispetta prima di tutto la presenza della virgola fra l’aggettivo complicate e ciò che segue. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma non lo è affatto perché a mio giudizio Stevens voleva proprio distaccare i due concetti: l’armonia in altre parole non è complessa perché affollata, ma neppure il contrario. Detto ciò, alla traduzione affollata io avrei preferito la parola molteplice, ma è del tutto ragionevole che Fusini abbia fatto la sua scelta perché in una lettera a Simons riportata in calce alla traduzione, Stevens usa gli stessi termini anche in prosa.Non mi convincono invece le traduzioni che vedono nell’aggettivo amassing qualcosa che ha a che fare con l’accumulo. Da Nadia Fusini pp.112-13.

46 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema, terza parte, stanza nona. La traduzione è mia

47 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, in Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, I millenni Einaudi, Torino, pp. 484-5

48 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag 53. Il corredo di lettere che Fusini mette in calce alle tradizioni è preziosissimo. Ho mescolato in questo caso due citazioni da lettere diverse, ma si può dire che in ognuna di queste missive, Stevens ritorna più volte sullo stesso argomento precisandolo sempre di più.  

49 Op. cit. pag 154 nota 22

50 Ivi.

51 L’espressione è usata da Nadia Fusini nella sua introduzione alle Aurore d’autunno, Adelphi, Milano 2012, pag 42. Fusini ricorda l’assonanza con un’analoga espressione usata da Kafka.

WALLACE STEVENS: DAL GIARDINO INCANTATO AI DUE LEONI

Blue Guitar

Sunday morning (Mattino domenicale) è l’opera più simbolista scritta da Stevens. ll poemetto è del 1923 ed è diviso in otto brevi sezioni. Il setting è un giardino nel quale una dama medita solitaria una domenica mattina:

Complacencies of the peignoir, and late/ Coffee and oranges in a sunny chair,/And the green freedom of a cockatoo/Upon a rug mingle to dissipate/The holy hush of ancient sacrifice/.

(Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda/ Caffè ed arance sulla sedia al sole,/La verde libertà di un pappagallo,/Su un tappeto si fondono a disperdere/Silenzi d’un arcaico sacrificio.) 14

Rispetto allo scenario di Wordsworth, il giardino di Stevens è il luogo di una natura addomesticata ed elegante, che si manifesta anche nella presenza di un pappagallo, un animale esotico, ma anche imprigionato. Il gioco dei rimandi simbolici è raffinato, la dama dovrebbe recarsi a messa come vuole la sua tradizione religiosa, ma preferisce una meditazione solitaria, mentre il richiamo della divinità è lontano, non più in grado di muovere passioni. Nelle sezioni successive Stevens rivisita i diversi aspetti del tema. È un excursus che va dal dio cristiano agli dei precedenti del Pantheon occidentale, dentro una partitura testuale densa, con rime interne raffinate, nel metro più classico della poesia inglese, il blank verse. Gli echi e in particolare quello di Wordsworth sono presenti in più di un testo ma in particolare nella parte conclusiva della quinta sezione:

…/She makes the willow shiver in the sun/For maidens who were wont to sit and gaze/Upon the grass, relinquished to their feet./She causes boys to pile new plums and pears/On disregarded plate. The maidens taste/And stray impassioned in the littering leaves.

(/Ma essa fa tremare al sole il salice/Per le fanciulle avvezze a contemplare/I prati abbandonati ai loro piedi./Essa fa sì che ammucchino i ragazzi/pere e susine sui vassoi. Gustandone,/fra vie di foglie assorte errano le vergini./) 15 

Nelle sette sezioni del poema è riflesso anche il tema biblico dei sette giorni della creazione, se non che Stevens aggiunge un’ottava e ultima sezione, con la quale imprime una svolta al suo pensiero poetante. Usando un procedimento che Stevens medesimo ha definito decreativo 16, egli spezza la catena simbolica, sottrae gli oggetti al disegno interpretativo dato fino a quel momento e li restituisce nella loro nuda realtà all’occhio e all’orecchio del lettore; non al nulla dunque, ma all’increato, cioè alla loro sostanza come elementi, fisici o meno, che vengono liberati dalla catena simbolica entro la quale erano stati inscritti, anche dalla tradizione letteraria. Data la sua importanza riprodurrò la sezione ottava per intero:

/She hear, upon the water without sound,/A voice that cries: “The tomb in Palestine/is not the porch of spirit lingering./It is the grave of Jesus where he  lay”. We live in an  the old chaos of the sun,/Or old dependency of day and night,/Or island solitude, unsponsored and free,/of that wide water, inescapable./Deer walk upon our mountain, and the quail/Whistle about us their spontaneous cries;/Sweet berries ripened in the wilderness;/And, in the isolation of the sky,/At evening, causal flocks of pigeons make/Ambiguous undulations as they sink,/Downward to darkness, on extended wings./

(/Essa ode sull’acqua senza suono/Una voce che dice: “In Palestina/luogo non v’è d’indugio per gli spiriti,/Ma solo per la tomba di Gesù”./O sole, noi viviamo nel tuo caos, /Nel vincolo del giorno e della notte,/In un’isola libera e deserta,/Orfana in un oceano senza scampo./Sui nostri monti vanno i daini, e il fischio/Delle quaglie spontaneo ci risponde./Dolci bacche maturano nei boschi,/Passano rari stormi di colombi,/Che ambiguamente oscillano su tese/Ali quando sprofondano nel buio./) 17

Stevens è giunto al limite estremo della parabola simbolista, ma con questa sezione  si congeda da quella poetica e da questo momento la sua meditazione riprende per approdare a esiti diversi. Il mondo nel quale Stevens ci porta con l’ultima sezione del poema è un mondo irreligioso e di misteriosa bellezza. Il sole, il giorno e la notte ritrovano il loro significato originario, scandiscono i tempi del vivere, legano l’umano a una radice primordiale che preesiste all’umano, ma liberi anche dalla catena simbolico-religiosa costruita intorno ad essi. Il sole assume un ruolo fondamentale nella settima sezione:

Supple and turbulent, a ring of men/Shall chant in orgy on a summer morn/Their boisterous devotion to the sun,/Not as a god, but a god might be,/naked among them , like a savage source./

(… Un mattino d’estate agile e fiera, Un’orgiastica ronda di creature/canterà al sole inni di fedeltà:/Non un iddio, ma degno d’esser dio/nudo fra loro come una sorgiva …/) 18

Questo vero e proprio inno al sole, che ha evidenti tratti pagani, assume una notevole importanza nell’ultima sezione considerata in precedenza, perché apre le porte a un mondo irreligioso. Al Cristianesimo della croce, egli contrappone la vitalità dei riti pagani precedenti e ancora una volta in questa danza orgiastica di uomini e fenomeni naturali, non ritroviamo affatto Keats, ma ancora una volta Wordsworth, seppure in un contesto completamente diverso. Il romantico inglese, a differenza di Stevens, non rompeva la catena simbolica che per lui era la tradizione protestante inglese, ma celebrava la natura per contrapporla alla nascente società industriale. Per Stevens l’approdo a questo mondo irreligioso sembra qui definitivo anche se vedremo successivamente che le cose sono più complesse. Le immagini di una natura splendente, ma non titanica come era in Wordsworth, il ritorno a elementi così primari del vivere in senso puramente fisico (il sole, la notte, il giorno), sono l’avvio di un percorso del tutto nuovo, che emergerà nel tempo, costruendosi passo dopo passo.19 Quella che viene sicuramente abbandonata con quest’opera, è la poetica simbolista e anche quel rischio di estetismo che il simbolismo porta sempre con sé. Tale abbandono coincide, per Stevens, con un cambiamento radicale di prospettiva: è la poesia stessa a divenire oggetto della sua poesia e con essa l’immaginazione. Cosa sono entrambe? E quale rapporto hanno con la realtà?

La prima realizzazione matura in un testo poetico della meditazione stevensiana intorno al rapporto fra realtà e immaginazione si trova nel poemetto The man and the blue guitar (L’uomo e la chitarra azzurra), pubblicato nel 1937, ma già in Peter Quincy at the clavier, (1915), si era cimentato con il tema. La prima sezione del poemetto contiene un verso che diventerà celebre nel tempo e costituirà una specie di icona: le cose come sono.

The man bent over his guitar,/A shearsmen of sorts. The day was green.//They said: “You have a blue guitar,/ you do not play things as they are”.//The man replied: “Things as they are/ are changed upon the blue guitar.//And they said again:”But play, you must,/A tune beyond us, yet ourselves,//A tune upon the blue guitar/Of things exactly as they are.”/

(/L’uomo chinato sulla sua chitarra/Nella verde giornata. Forse un sarto.//Gli dissero:“Sulla chitarra azzurra /Tu non suoni le cose come sono.”//Egli disse: “Le cose come sono/Si cambiano sulla chitarra azzurra.”//Risposero:“Ma tu devi suonare/un’aria che sia noi e ci trascenda,//Un’aria sopra la chitarra azzurra/Delle cose così come esse sono.) 20

Questo primo testo si rifà alla lirica Introduzione che apre I canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake. La scena ha qualcosa di analogo ma la diversa scelta dei personaggi è assai interessante. Blake immagina un suonatore di piffero cui appare una figura angelica e cioè un bimbo su una nuvola che gli rivolge un invito: Suona una canzone dell’Agnello!. La scena è agreste come si evince facilmente dal testo, il suonatore stesso potrebbe essere un pastore. Il pifferaio accoglie l’invito ma successivamente il bimbo gli consiglia di fare di quelle canzoni un libro. Il suonatore allora abbandona lo strumento musicale e:

…And I pluck’d a hollow reed,//And I made a rural pen,/And I stain’d the water clear ,/And I wrote my happy songs,/Every child may joy to hear.!!

(Ed io staccai una canna vuota,/E ne feci una penna agreste/E macchia la limpida acqua/E scrissi le mie canzoni felici/Che ogni bimbo può sentire con gioia./21

Nella poesia di Stevens abbiamo un sarto, dunque un artigiano. In entrambi i casi abbiamo a che fare con persone semplici e con le cose come sono, cioè l’icona di una realtà persino modesta, ma che la chitarra azzurra però deve cambiare. Il tema viene svolto in diversi modi nelle sezioni successive con alcune parole chiave che si ripetono, finché non arriviamo a un primo snodo che ci riporta anche ai motivi che avevano ispirato Mattino domenicale e che ritroviamo proprio nei versi conclusivi della quinta  sezione:

Exceeding music must take the place/Of empty heaven and its hymns,/Ourselves in poetry must take that place,/even in the chattering of your guitar./

(La musica trascende e tiene luogo/Del cielo vuoto e dei suoi inni. Il loro//Posto prendiamo noi nella poesia,/E nelle ciarle della tua chitarra.) 22

La musica è metafora della poesia e prende il posto degli inni religiosi rivolti a un cielo ormai vuoto di dei. Nella dodicesima sezione, il suonatore si rivolge al suo pubblico in questi termini:

Tom-tom, c’est moi. The blue guitar/ and I are one. The orchestra //fills the high wall with shuffling men/High as the hall. The whirling noise/ of a multitude dwindles, all said,/To his breath that lies awake at night./…

(Tom-tom, c’est moi. Io e la chitarra azzurra/ siamo una cosa unica. L’orchestra// Riempie l’aula di gente scalpicciante, /Alta fino al soffitto. Il vorticoso// Clamore d’una turba si riduce/Solo a un alito vigile di notte.) 23

Qual è l’elemento sorprendente di questi versi che peraltro continua a ritornare? È l’azzurro, che non siamo abituati ad associare all’oggetto in questione e cioè una chitarra: ma siamo proprio sicuri che Stevens alluda al colore dello strumento fisico e non invece a qualcos’altro? I versi successivi, il primo distico ci danno una risposta quasi ovvia: è la musica ciò cui il poeta allude e l’azzurro24 esprime una qualità dell’oggetto che lo trascende e lo trasfigura pur non potendo prescinderne. La trascendenza cui porta la musica, tuttavia, non ha nulla di metafisico, non porta ai cieli vuoti. Tuttavia nella sezione di cui sopra è avvenuta anche una piccola metamorfosi perché il suonatore e l’oggetto chitarra sono diventati una cosa sola. Il sarto della prima sezione, cioè l’immagine dell’uomo comune nella sua semplicità, è diventato altro perché ha incorporato in sé lo strumento e la sua musica; anche lui si è colorato d’azzurro pur rimanendo un uomo semplice. Nella diciannovesima sezione del poemetto, troviamo un primo momento di sintesi, dove Stevens paragona realtà e immaginazione a due leoni:

/That I may reduce the monster to/Myself, and then may be myself// In face of the monster, be more than part/Of it, more than the monstrous player of// One of his monstrous lutes, not be/Alone, but reduce the monster and be,// Two things, the two together as one,/ And play of the monster and of myself,//Or better not as myself at all,/But of that as its intelligence,//Being the lion in the lute/Before the lion locked in stone./

(Oh ch’io possa ridurre il mostro a me/ Medesimo, e poi essere me stesso// Di fronte al mostro, più che una sua parte,/O più che il mostruoso suonatore// D’uno dei liuti mostruosi; solo// Non rimanere, ma trionfarne e farsi// Due cose, le due insieme come una,/ E suonare del mostro e di me stesso,// O meglio non di me ma sol di lui,/Della sua mostruosa intelligenza,// Ed il leone essere del liuto, Di fronte a quello chiuso nella pietra.) 25

La poesia nasce dunque da una tensione mai risolta fra realtà e immaginazione e dunque la scelta di due leoni implica l’impossibilità dell’uno di vincere in modo definitivo sull’altro. Se l’esercizio della facoltà immaginativa fosse inconsapevole della forza degli ostacoli con cui deve misurarsi, per il poeta statunitense finirebbe per dare vita a pure fantasticherie; soltanto cimentandosi con la durezza della realtà, con il suo peso, la sua impenetrabilità, essa si affina diventando il leone del liuto. D’altro canto se i poeti cedessero al peso di una realtà greve, la poesia perderebbe la propria prerogativa, diventando essa stessa prosa del mondo. La sfida consiste proprio nel sapere infondere il soffio vitale anche nella materia più dura e a questo proposito, come non ricordare l’opera che Gaston Bachelard dedica proprio all’elemento terra e alla forgia che ne doma la durezza?26

Per riuscire in questo intento, tuttavia, il poeta stesso deve trasfigurarsi (a questo allude Stevens quando definisce mostruoso il suonatore), cioè andare oltre il proprio io ed entrare in un diverso stato di coscienza. Nella sezione ventiduesima, il poeta torna alla poesia con un testo che si può considerare una prima e compiuta dichiarazione di poetica in versi, cui ne seguiranno altre:

Poetry is the subject of the poem,/From this the issue and//To this returns. Between the two,/Between issue and return, there is //An absence in reality,/Things as they are. Or so we say//But are these separate? Is it/An absence for the poems, which acquires//Its true appearances there, sun’s green/Cloud’s red earth feeling, sky that thinks//From these it takes. Perhaps it gives, /In the universal intercorse./

(La poesia è il tema del poema./Da ciò il poema ha origine ed a ciò//Fa ritorno. Fra questi due estremi,/fra origine e ritorno,//C’è un’assenza in realtà,/Le cose come sono .O così pare.//Ma sono i due distinti? Ed è l’assenza/Che al poema dà le vere parvenze//Verde il sole, porpora di nuvola,/Terra che sente, cielo che riflette.//Da questi prende. E forse anche ne rende/In universa reciprocità//27

Come affermavo più sopra i due leoni sono una prima incarnazione in figure che si trasformeranno in altre con un andamento metamorfico incessante. Stevens le mette in scena ritornando sempre alle sue tematiche, ma introducendo di volta in volta un elemento in più: non è la coazione a ripetere che lo spinge a ritornare sugli stessi luoghi topici, ma un processo incessante di chiarificazione e anche di rarefazione e di decreazione come abbiamo già visto. Inseguire tutte le figure è quasi impossibile e non è di certo il mio intento; solo soffermarmi su alcune di esse e arrivare all’ultima, quella dell’Angelo Necessario della terra che chiude le Aurore d’autunno.

Nella sezione trentaduesima del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra, ritroviamo di nuovo assonanze che ci riportano a Blake, per introdurre un nuovo elemento che sarà ulteriormente elaborato nelle opere successive:

Throw away the lights, the  definitions,/And say of what you see in the dark//That it is this or that it is that,/But do not use the rotten names.//How should you walk in that space and know/Nothing of the madness of space,//Nothing of its jocular procreations?/Throw the lights away. Nothing must stand///Between you and the shapes you take//When the crust of shape Has been destroyed.//You as you are? You are yourself. /The blue guitar surprises you.//28

(Getta via le formule, le lampade,/E dì ciò che tu scorgi nelle tenebre//Dì che è questo o che è quello,/Senza usare i vocaboli corrotti./Come potrai avanzare in quello spazio,/Se dello spazio ignori la follia,//Se ignori le allegre procreazioni?/Getta via le tue lampade. E che nulla//stia tra te e le parvenze che tu assumi Quando alle cose si rompe la crosta.//Tu come sei? Tu sei te stesso./Ma ti sorprende la chitarra azzurra.//

Le parole corrotte sono quelle di una realtà fine a se stessa e misura di tutto, non colorata dall’immaginazione, ma sono anche il peso della storia. In Blake tale perorazione che abbiamo visto nell’Introduzione alle Canzoni, assume un tono spiccatamente religioso con la metafora dell’Agnello, ma l’invito a usare parole semplici, alla penna rurale rimane in Stevens in un’altra forma e cioè nella necessità da parte del linguaggio poetico di stare il più possibile vicino alle cose come sono nella loro semplicità.

Il giardino incantato

14 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, con testo a fronte e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino 1988, prima pagina.   

15 Op.cit. pp.12-13. In questa parte del testo si ritrova l’eco di una delle più celebri poesie di Wordsworth, The solitary reaper (la mietitrice solitaria).

16 Su questo termine e il suo uso è necessario qualche chiarimento. In un saggio che fu pubblicato insieme ad altri nel 1951, Stevens usa questo termine citando Simone Weil, ma equivocando il senso del termine da lei usato. Nel contesto di cui sopra, il termine da me usato indica semplicemente un modo di procedere della poesia di Stevens. In ogni caso anch’egli ci ha dato la sua definizione di ‘decreazione’ nel saggio dal titolo I rapporti tra la poesia e la pittura: “Decreare significa passare da ciò che è creato a ciò che non lo è mentre distruggere è passare da ciò che è creato al nulla. In Wallace Stevens, l’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore Milano 1988, pag.247.

17 Op. cit. pp18-19.

18 Op.cit. pp-16-17

19 Il sole ritornerà spesso nella poesia di Stevens. Il critico che si è maggiormente occupato di questo aspetto è Harold Bloom nell’opera The poems of our climate.

20 Wallace Stevens L’uomo e la chitarra azzurra, in Mattino domenicale  e altre poesie, a cura di Renato Poggioli e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino, 1988 pp.50-1. Parlando di questo poemetto il curatore indica nella pittura di Picasso uno dei motivi ispiratori e ricorda come la prima edizione dell’opera portasse in copertina proprio una chitarra azzurra, che ricorda il periodo blu dell’opera picassiana; del resto, il rapporto con la pittura è costante nell’opera di Stevens, sebbene nel caso specifico il poeta si mostri prudente nell’indicare un quadro preciso del grande pittore spagnolo come fonte della sua ispirazione.

21 William Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, Introduzione. Il testo si trova facilmente in rete, La traduzione è mia.

22 Op. cit. pag. 37

23 Op. cit. pp.50. Questo capitolo è la riproduzione quasi integrale di un saggio dal titolo L’angelo della terra, pubblicato sulla rivista Fare anima, diretta da Gabriella Galzio, nel 2001.

24 Fra l’altro il colore azzurro è associato all’infinito.

25 Op. cit. pp. 60-1

26 Gaston Bacheard: La terra e le forze. Le immagini della volontà, Red edizioni, collana a cura di Cludio Risè, traduzione di Anna Chiara Peduzzi e Mariella Citterio. La relazione fra le intuizioni di Bachelard, la sua filosofia e la poesia di Stevens è stata considerata sia da Bloom sia da altri critici ed è una problematica essenziale per l’interpretazione filosofica che si può dare della poesia del poeta di Hartford.

27 Op.cit. pp. 70-1

28 Op. cit. pp.90-1.

WALLACE STEVENS: UNA GIARA NEL TENNESSEE

Al confine nord del Tennessee

In questa seconda parte del saggio viene preso in considerazione un testo degli esordi, spesso trascurato.  

Perché Stevens è così decentrato rispetto alla temperie del suo tempo? È bene ritornare a un testo pubblicato nel 1919 dalla rivista Poetry e intitolato Anecdote of the jar.

I placed a jar in Tennessee

And round it was upon a hill

It made the slovenly wilderness

Sorround the hill.

The wilderness rose up to it,

And sprawled around no longer wild.

The jar was round upon the ground

And tall and of port in air.

It took dominion everywhere

The jar was grey and bare.

It did not give of bird and bush,

Like nothing else in Tennessee.

———–

Posai una giara nel Tennessee,

Ed era tonda sopra un colle.

Obbligò la sciatta selva

A circondare il colle.

La selva sorse alla sua altezza,

attorno adagiata non più selvaggia,.

La giara era tonda sulla terra

E alta e ben portante in aria.

Prese a dominare tutto.

La giara era grigia e spoglia.

Non sapeva di cespo o uccello,

come nient’altro nel Tennessee.4

Il tema di questo componimento verte su uno dei tanti contrasti latenti intorno ai quali ruota e medita la poesia di Stevens: ordine e caos, oppure natura selvaggia ed elemento umano. Non è difficile trovare i termini che si contrappongono nel testo: jar e wilderness. Tuttavia, se di guarda meglio la varietà di significati possibili di queste parole, cominciano a delinearsi alcune sorprese.

Se si sta al dizionario, il termine natura sfiora ma non tocca direttamente la parola wilderness: è l’aggettivo sostantivato wild che ha una precisa curvatura naturalistica, mentre wilderness è un vocabolo più concreto che definisce il territorio selvaggio, disabitato, non coltivato. Il vocabolo è assai meno evocativo e più comune, intermedio, quasi prosaico e adatto a formare una coppia asimmetrica con jar: una giara, infatti, non è l’opposto simmetrico dello spazio incolto. La curvatura che assume la parola wilderness si precisa ancor meglio se si guarda all’aggettivo con cui essa è accoppiata nella seconda strofa: slovenly. Apparentemente si tratta di un’inutile ripetizione dal momento che la parola significa sciatto, trasandato e solo in terza istanza disordinato. Slovenly, invece, serve a Stevens per avvicinare sempre più la parola wilderness al suo terzo significato, quello di landa desolata. Priva dell’elemento umano? L’umano aleggia eccome in questa poesia ma vedremo in che modo. Stevens sembra sì alludere a ordine e caos, ma lo fa in modo così obliquo da far pensare che ci sia altro sotto traccia. Infatti, se si torna alla parola jar scopriamo che non ha solo il significato che sembra ovvio, tanto che quasi tutte le traduzioni insistono nel tradurre il termine con la parola italiana barattolo a volte aggiungendo per maggiore precisione di vetro. La parola inglese jar infatti è anche un termine onomatopeico che significa suono stridente e disarmonico, dissonante, come quello fatto da un oggetto che viene sfregato contro qualcosa. Stevens, sfruttando a fondo la molteplicità di significati dei sostantivi inglesi, mette qui in scena una complessità di senso molto elevata. L’elemento umano rappresentato dalla giara non sembra portare ordine, bensì una disarmonia, un suono stridente, mirabilmente coerente, peraltro, con le scelte lessicali compiute dal poeta e che m’inducono anche a preferire di gran lunga la traduzione del termine jar con giara, il solo che in italiano possa dare l’idea di un suono stridente. Prendiamo infatti il primo verso: I placed a jar in Tennessee seguito nel secondo verso dalla parola wilderness: il ruolo delle sibilanti evoca certamente il frusciare di alberi, il vento, o anche il silenzio della natura incontaminata, mentre la parola jar spezza l’armonia con un suono, appunto, dissonante e stridente.

Ritorniamo ora all’inizio di questa lirica. L’uso del simple past (passato remoto) e del soggetto I, danno un tono solenne ma anche misterioso alla poesia. Il simple past è il tempo della narrazione mitica: e chi è poi questo misterioso Io che ha posto la giara nel Tennessee? Se la scelta verbale ci proietta nel tempo astorico della favola, del racconto orale, questo andamento solenne contrasta con il titolo ed anche con l’oggetto concreto della visione. Anecdote è una parola prosaica la cui traduzione è scontata, mentre dal canto suo giara non è un oggetto qualunque e astorico, non è un prodotto metafisico della civiltà o del lavoro umano astratto: si tratta di un manufatto. La tensione fra il tempo verbale e l’oggetto concreto della visione è massima. L’oggetto della visione, è sopra una collina circondato dalla landa desolata; ciò che mette in fuga wilderness è proprio jar, l’elemento umano. Nel ritrarsi della wilderness c’è qualcosa di sinistro, sembra una fuga disordinata ed infatti l’inizio dell’ultima quartina lo testimonia: It took dominion everywhere. La giara prese il potere ovunque! Qui Stevens usa un’espressione che ricalca il linguaggio politico, ma che incarna anche l’idea di un’azione di forza. Facciamo un passo indietro. La conclusione della seconda quartina suona così: The jar was round upon the ground/ And tall and of a port in air. La ripetizione con rima interna è un richiamo martellante, evoca una presenza sinistra, prepara l’ultima quartina preannunciando il dominio della giara, ben saldo sulla terra ma anche in alto. Si trova lì perché la collina è alta o per qualche altra ragione? All’inizio non vi è dubbio che  si trovi sulla cima di una collina, ma ora esso è in alto anche perché domina. E come se non bastasse port e portly sono un segnale di arroganza: port è la persona che si gonfia il petto ma anche la sentinella militare che guarda il territorio. Le giare si sono moltiplicate: è una collina di giare ciò che Stevens vede!

Continuiamo: The jar was grey and bare (la giara era grigia e spoglia) scrive il poeta. L’aggettivo bare può sembrare a prima vista una scelta gratuita associata ad una giara, dal momento che esso è usato per costruire fruste metafore autunnali. Se però lo poniamo in connessione con l’aggettivo slovenly precedentemente accoppiato a wilderness ci rendiamo conto che Stevens ha costruito una similitudine interna al testo: la landa è desolata rispetto alla natura tanto quanto la giara lo è nei confronti dell’umano.

Jar non porta ordine, ma una desolazione di tipo diverso, creata dall’essere umano. L’ordine è solo una maschera perché jar did not give of bird and bush (la giara non ha nulla a che vedere con il cespuglio e con l’uccello. Essa non domina solo sulla landa desolata ma anche sulla natura che si ordina da sé. Siamo all’epilogo. Così come il viaggio testuale era iniziato con un ritorno indietro imprecisato nel tempo mitico della narrazione e in quello storico della nascita del manufatto, Stevens lo chiude con un bruciante ritorno al qui e ora cioè al presente del Tennessee e vi torna con un finale enigmatico che rilancia tutta la questione. Egli infatti non vede solo il presente e cioè che nulla più della giara è oggi più estraneo al Tennessee, ma anche il futuro, allorché più nulla avrà a che fare con bird e bush, cioè con la natura incontaminata. La sua poesia vive nel mezzo, corre da un punto all’altro del tempo che lega insieme mito e aneddoto, storia e cronaca, presente, passato e futuro. La poesia non si ferma su alcuno di questi punti ma li ripercorre tutti e li fa risuonare ma in modo dissonante. È la disarmonia e non l’ordine il tema di questa lirica, una disarmonia intervenuta nel rapporto fra l’umano ed il suo ambiente, oppure se si vuole fra natura e cultura; oppure ancora fra prima e seconda natura. L’io che campeggia in questo testo non è dunque lirico; in realtà è un noi, l’indicazione apparentemente impersonale di un soggetto collettivo che ha introdotto una disarmonia. Se questo è l’aneddoto che il poeta ci racconta qual è la scena maggiore? La disarmonia, la rottura di un equilibrio. La giara, è un manufatto, è un prodotto industriale.5

La parabola poetica di Stevens comincia da qui e lo porterà molto lontano. Alcuni critici hanno parlato dell’influenza di Keats su questa poesia, ma essa mi sembra superficiale, basata solo su qualche assonanza che potrebbe apparire come una citazione ironica dell’Ode sull’urna greca, sostituita appunto da una comunissima giara o da un ancor più comune barattolo. Inoltre è stato pure notato che l’anno di pubblicazione della poesia di Stevens (1919), viene proprio a cento anni dalla stesura delle grandi odi del poeta inglese.6  In Keats, tuttavia, il ritorno alla classicità è una fuga nel mondo passato, mentre – nel caso di Stevens – è alla prima generazione dei romantici che a mio avviso occorre guardare, a Wordsworth e a Coleridge (al primo dei due in particolare)  per i quali è viva, presente e operante (lo era stato in precedenza anche per Blake), la visione di uno shock provocato dalle trasformazioni nella società inglese del tempo e quindi una fervida attenzione al presente.7

La Prefazione alle Ballate liriche indica con chiarezza proprio questo proposito:

The subject is indeed important! For the human mind is capable of excitement without the application of gross and violent stimulants; and he must have a very faint perception of its beauty and dignity who does not know this, and who does not further know that one being is elevated above another in proportion as he possesses this capability… enlarge this capability is one of the best services in which, at any period, a Writer can be engaged; but this service, excellent at all times, is especially so at the present day.

Il soggetto, è davvero importante! Dal momento che la mente umana è capace di eccitarsi senza che siano necessari chissà quali e violenti stimolanti; e deve avere davvero una debole percezione della sua bellezza e dignità colui che non sa questo, e chi non si propone inoltre di sapere che un essere umano si eleva sopra un altro in proporzione a quanto possieda o meno tale capacità… allargare tale capacità è uno dei migliori servizi in cui un scrittore, in qualsiasi epoca, si debba sentire coinvolto: ma tale servizio, eccellente sempre, lo è specialmente nel tempo presente…

La ragione per cui Wordsworth e Coleridge pensano che tale compito sia quanto mai importante nell’Inghilterra del suo tempo, viene resa esplicita subito dopo:

For a multitude of causes unknown to former times are now acting with a combined force to blunt the discriminating powers of the mind,… to reduce it to a state of almost savage torpor. The most effective of these causes are the great national events which are daily taking place, and the encreasing accumulation of men in cities, where the uniformity of their occupations produces a craving for extraordinary incident which the rapid communication of intelligence hourly gratifies. To this tendency of life and manners the literature and theatrical exhibitions of the country have conformed themselves…

Per una serie di ragioni, sconosciute nelle epoche precedenti, agiscono sul presente forze che combinate insieme ottundono la capacità del discernimento della mente, … per ridurla a uno stato di torpore selvaggio. La parte più consistente di queste cause è costituita dagli eventi che avvengono a livello nazionale, la sempre crescente concentrazione di uomini nelle grandi città, dove l’uniformità del loro lavoro produce miseria … A tale tendenza tutte le rappresentazioni teatrali e letterarie si stanno uniformando.  8

La polemica diventa chiarissima in questo passaggio: la vita urbana e specialmente la vita industriale, la concentrazione nelle fabbriche e nei quartieri è vista come una minaccia e un corrompimento dei costumi. A tutto questo si oppone la semplicità della vita rurale come esempio, la natura in quanto suscitatrice di emozioni e non la natura matematizzata e geometrizzata della rivoluzione scientifica e della ratio illuminista. Tuttavia il poeta inglese e il suo sodale non hanno in mente un disegno di tipo aristocratico ma il contrario:  

La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”9

Siamo così lontani dagli esiti ultimi della poesia di Stevens, quando il poeta invoca la necessità di scrivere (cito a memoria) i poemi della terra e non del cielo inteso come paradiso, e di avvicinarsi alle cose come sono, nella loro semplicità? In una lettera a Henry Church, si esprimerà con una chiarezza ancora maggiore:

Caro Church … per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta e la poesia non è che la ricerca difficile di questo.10

La seconda generazione dei romantici inglesi (Keats, Shelley, Byron) aveva già indirizzato la propria poetica per altre e diverse strade, ma ugualmente cospiranti nel rompere la difficile unità d’intenti che Wordsworth e Coleridge cercarono di proporre nelle Lyrical Ballads: riforma del linguaggio poetico in senso popolare, critica della società industriale sul piano simbolico (L’ode all’antico marinaio), rifiuto della modernità. Tuttavia, già in Coleridge sono evidenti le scelte sempre più visionarie e rivolte all’interiorità, mentre Wordsworth espresse anche personalmente il suo rifiuto, barricandosi nella sua casa di campagna nel Lake Distritct, lontano da tutto e da tutti. L’eredità che la seconda generazione romantica raccolse andava ormai in tre direzioni diverse: il culto del passato classico come rifugio (Keats), la natura come fonte di meditazione intima e personale e dunque la rinuncia a vederne una sorta di contraltare al mondo industriale, nei confronti del quale opporre invece la critica sociale (Shelley), la riscoperta delle radici dei popoli europei e la passione politica e risorgimentale (Byron). In fondo, quella espressa dalla prima generazione dei romantici inglesi, fu l’ultima, estrema e vana resistenza alla modernità, ma Wordsworth e Coleridge ebbero l’enorme merito di rivoluzionare il linguaggio della poesia inglese e questo in definitiva fu il loro grande contributo:

“Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”11

Nella seconda generazione dei poeti romantici, la scissione fra individuo, natura e società è già compiuta e le diverse scelte dei tre esponenti maggiori lo dimostrano.12

Di lì a poco sarebbe esplosa in tutta Europa la stagione del realismo, ma i protagonisti sarebbero stati narratori, romanzieri, pittori, caricaturisti e musicisti. La poesia inglese si sarebbe sempre più ritirata nella meditazione solitaria e nell’intimismo, che conosce le sue vette più alte con Tennyson; nell’Europa intera saranno Leopardi e Baudelaire ad aprire nuove strade alla poesia.

Stevens, in Anecdote of the jar, si trova più vicino alla prima generazione, ma più di cento anni dopo e in un contesto diverso. Come per Wordsworth e Coleridge, anche per lui nulla sarebbe stato come prima: gli Usa dei grandi spazi e dei grandi fiumi, della natura incontaminata e selvaggia, oppure dell’intimità domestica nel ranch e nelle praterie, erano già stati rappresentati da Whitman, da Dickinson, da Twain. La lezione del bardo americano per eccellenza è ben presente e operante in Stevens, così come nei testi più brevi è presente la eco di Emily Dickinson; ma la New York di Whitman non poteva più essere la sua. Se mai vi fu davvero un tempo dell’innocenza statunitense (c’è molto da dubitarne e lo si dovrebbe comunque domandare ai popoli nativi di quelle terre e ai neri statunitensi), esso era finito. Per questa ragione, Stevens sente le ragioni di  Wordsworth come una eco profonda, nel senso che vede analoghe trasformazioni in atto nella società statunitense. Ecco come affronterà questa problematica molti anni dopo in una conferenza. In essa, Stevens si confronta, come farà per tutta la sua vita di autore sulla relazione fra realtà e immaginazione. Parlando della prima e della vita statunitense, ecco cosa scrive:

… La realtà è data dalle cose così come sono … Dapprima abbiamo una realtà che viene data per scontata, latente e tutto sommato ignorata. È l’agiata vita americana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e del primo decennio dell’attuale. C’è poi una realtà che ha cessato di essere irrilevante, e questo si è avuto quando, una volta accantonati i vittoriani, le minoranze intellettuali e sociali hanno cominciato ad occupare il loro posto, trasformando la nostra vita in qualcosa di potenzialmente instabile. Di fronte a questa realtà, molto più vitale, quella precedente appare simile a un libro di litografie stampate da Rudolf Ackermann o a uno dei libri di schizzi svizzeri di Töpffer…

Il manufatto porta il marchio del lavoro industriale ma anche della modernità statunitense, rispetto al secolo precedente e ai primi dieci anni, ancora sognanti e immersi in quella che il poeta definisce come agiata vita americana. Nella collina delle giare del Tennessee s’intravede la potenza dell’industria che avanza, la modernità, le ciminiere delle fabbriche.

Nel modo di tornare a quel momento storico e alla moderna caduta, si palesa tuttavia da subito la differenza e la distanza che lo separano da Wordsworth. Se la natura rappresentata dal romantico inglese era un mondo splendente, lussureggiante, dai colori forti – come è pure nelle rappresentazioni di Whitman – una sorta di paradiso terrestre da contrapporre come un Titano al grigio e orrido mondo della produzione industriale – la natura di Stevens può essere anche una wilderness, oppure il giardino elegante, ma immobile e incantato, di Sunday Morning.

Il poeta statunitense non ha bisogno d’immaginarsi il paradiso terrestre. La disarmonia può introdursi anche laddove il paesaggio è desolato pur essendo naturale: la disarmonia riguarda il rapporto fra l’umano e l’ambiente naturale e la società vittoriana precedente, ma la natura non deve essere per forza di straordinaria bellezza, può essere plain e cioè normale o addirittura piatta, un aggettivo che Stevens userà sempre più spesso. Ribadirà un concetto analogo anche in un altro dei saggio de L’Angelo necessario, dal titolo L’immaginazione come valore:

La generazione precedente alla nostra avrebbe detto che l’immaginazione era un aspetto del conflitto fra uomo e natura; oggi siamo più inclini a dire che si tratta di un aspetto del conflitto fra l’uomo e l’organizzazione sociale. 13

L’America agiata, forse un po’ sognata, era quella di una presunta innocenza, mentre quella attuale sta dentro i conflitti sociali della modernità. Stevens lo capisce molto di più di certi suoi critici, anche se non si può pretendere da lui che ne tragga tutte le conseguenze. L’organizzazione sociale e anche la guerra, oppure la storia, come vedremo meglio più avanti, sono per Stevens la pressione massima che la realtà esercita sugli individui e quindi l’ostacolo maggiore che l’immaginazione incontra per esercitare il suo diritto a stare nel mondo.


4 Wallace Stevens, Anectode of the Jar. In Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, con testo a fronte, Einaudi Torino, 1994, pp. 98-9. Ho scelto questa edizione e la traduzione di Bacigalupo poiché ritengo, come viene spiegato nel testo, che la traduzione di jar con giara sia la più felice possibile.

5 Mi si potrebbe obiettare, a questo punto, che la parola barattolo, sarebbe stata più adatta come traduzione perché la giara infondo è più legata a un mondo ancora artigianale e preindustriale e a noi italiani, oltretutto, ricorda proprio un memorabile racconto di Pirandello, fortemente legato a quel mondo. Tuttavia, ritengo che il traduttore abbia privilegiato l’aspetto onomatopeico e abbia fatto bene, anche perché l’onomatopea non è un’eccezione nella poesia di Stevens. Nelle traduzioni, lo sappiamo, si perde sempre qualcosa, in particolare da una lingua che vede nell’estensione dei significati lessicali, più che non nelle strutture della frase – come è per esempio per la lingua tedesca – una delle sue caratteristiche più rilevanti.

6 Gert Buelens e Bart Eeckhout ne scrivono in un interessante saggio pubblicato sul numero 1 volume 34 di The Wallace Stevens Journal, primavera 2010. Nel saggio, che mette fra l’altro in evidenza l’influenza di William James sulle opere di Stevens, si sostiene che la giara del poeta di Hartford sarebbe un ironico contrappunto all’urna greca di Keats. Se anche così fosse, tuttavia, significherebbe che Stevens è del tutto alieno da quella fuga nel passato come rifugio che un poeta come Keats, di fronte ai diversi orrori o delusioni del suo tempo, ha cercato. Keats non era il solo e anche il suo viaggio a Roma e la sua morte nella città eterna lo dimostrano. Fu un’intera generazione di poeti che, per ragioni diverse, prese la via del Grand Tour e dell’Oriente. Si pensi a Goethe dopo il 1815 e il suo Divano Occidentale orientale.

7 I canti dell’innocenza e dell’esperienza furono la prima opera in cui, nella società inglese, si percepiva una frattura che sarebbe diventata sempre più acuta fra natura, cultura e società. L’idea stevensiana di caduta è più vicina alla sensibilità della prima generazione dei romantici inglesi, anche se ritengo eccessivo definire Stevens come l’ultimo dei romantici. Se mai, lo accomuna a Wordsworth l’appartenenza, almeno come punto di partenza, ai poeti della tradizione protestante. Ne scrive Massimo Bacigalupo nell’introduzione a L’angelo necessario Coliaeum editore, Milano 1988, pag.10.

8 La prefazione alle Ballate Liriche si trova on line in diversi siti britannici. Mi sono servito  della versione inglese di Wikimedia, ma ne esistono altre. Nelle citazioni che seguono riporterò solo la traduzione italiana, vista la facilità con cui si può attingere agli originali in inglese. A volte la traduzione è mia come in questo caso, altre volte tratta da siti italiani.

9 Questa parte della prefazione è tratta dal sito italiano La soffitta incantata, il mio mondo fra parole e sogni.

10Egli (il poeta ndr) ha perduto il mondo soprattutto perché i grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra … Questa citazione, ripetuta anche in altre forme, ricorre più volte in Stevens; nel caso specifico si trova in L’angelo necessario a cura di Massimo Bacigalupo traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Milano 1988, pag. 216. La seconda citazione è tratta dalla lettera 521, indirizzata appunto a Henry Church.

11 Anche questa citazione dalla Prefazione alle Ballate liriche è tratta dal sito italiano La soffitta incantata.

12 Sebbene il loro apporto non si discosti dai canoni indicati in precedenza, è utile riscoprire la poesia delle poete romantiche, molto seguite e del tutto integrate nei consessi letterari del tempo, ma poi dimenticate. Va dato merito all’editore italiano Carocci, di averle riscoperte alcuni anni fa e pubblicate con testo a fronte. Le loro opere cambiano qualcosa nelle gerarchie del valore, rispetto alla canonizzazione tradizionale?  Una risposta esaustiva è impossibile darla per la scarsità di studi anche da parte della critica letteraria nata in ambito femminista. Tuttavia, almeno una di loro e cioè Mary Blachford Thige (18772-1810), va posta nel Pantheon delle voci più originali di entrambe le generazioni. In: Antologia delle poetesse romantiche inglesi, a cura di Lilla Maria Crisafulli, in due volumi, Carocci editore, Roma 2003. 

13 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum, Milano 1988, pag. 101. La prima citazione è tratta dal saggio Il nobile cavaliere e il suono della parole. Esso fu letto all’università di Princeton durante un convegno dal titolo Il linguaggio della poesia, organizzato da Barbara Church.   Successivamente fu pubblicata nel 1942 per Princeton University Press.  La seconda si trova nello stesso libro ma in un saggio dal titolo L’immaginazione come valore, alla pag. 224.

WALLACE STEVENS: IL BARDO DELLA MENTE

Greenwich Village

Premessa

Lo studio che segue, dedicato al poeta statunitense Wallace Stevens, è il più lungo fra quelli già pubblicati in questo blog e dedicati a Marianne Moore e William Blake. A quello su Stevens seguirà infine il saggio su Eliot. Tutti insieme potrebbero formare un libro, ma essendo l’anglistica e l’americanistica italiane un mondo molto bloccato e inaccessibile a un outsider come me, ho deciso che non perderò ulteriore tempo nella ricerca inutile di un editore. Il saggio in questione, come i precedenti, può essere stampato da chi legge. Chiedo soltanto di essere citato qualora lo utilizziate per vostri scritti o riflessioni. Vista la lunghezza ho deciso di pubblicarlo per parti che saranno introdotte da una brevissima premessa come questa.   

    

Introduzione 

La fortuna di Wallace Stevens è cresciuta lentamente nel tempo. Schivo e aristocratico, egli mantenne rapporti cordiali, ma distaccati, con l’ambiente letterario e tale atteggiamento, in una società sovraesposta come quella statunitense, dove tutto tende a diventare spettacolo, fa di lui un raro esempio di mimetismo, seppure non così estremo come quello cui ricorsero i suoi contemporanei Jerome Salinger e Marianne Moore, con la quale il poeta intrattenne un interessante epistolario, rimasto per lungo tempo sconosciuto.

Quanto alla sua notorietà in Italia, dobbiamo considerare che vi è stato un asse privilegiato di lettura della poesia anglo-statunitense nel nostro paese, intorno al binomio Pound-Eliot. Tale coppia ha talmente dominato la scena che, per il pubblico che va oltre la cerchia degli specialisti, soltanto alcune altre opere si sono imposte; più qualche movimento letterario, ma per ragioni spesso estranee, almeno in parte, alla letteratura. È stato così per l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (anche per merito di Fabrizio De Andrè e di Fernanda Pivano), per la Beat Generation, per la letteratura afro-americana o per la coppia maledetta Silvia Plath-Anne Sexton. In un simile contesto non stupisce che poeti come Stevens e Moore, abbiano faticato a diventare visibili.

Le prime traduzioni di Stevens si trovano in antologie: nel 1949 in Poeti americani 1662-1945 di G. Baldini e in Poesia americana contemporanea di Carlo Izzo. Nel 1953, Renato Poggioli scrisse l’introduzione a Mattino domenicale che Einaudi avrebbe pubblicato l’anno successivo. Nello stesso libro, la nota critica di Guido Carboni costituisce un primo momento di riflessione sull’opera più simbolista scritta dal poeta. Tuttavia, pur importante, quel libro non suscitò un grande interesse e anche negli ambienti universitari italiani la sua opera rimase ai margini. I due maggiori critici italiani che si sono dedicati a lui, oltre ai già citati, sono Glauco Cambon e Massimo Bacigalupo, ma anche con loro si rimane all’interno di una cerchia ristretta di estimatori. Lo scenario cominciò a cambiare durante gli anni ’80, sia per Stevens, sia –  in misura minore – per Marianne Moore grazie alla pubblicazione da parte di Adelphi, per la traduzione e la cura di Lina Angioletti, della sua opera omnia. Di Stevens, nel 1987 uscivano le Note sulla finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, per Arsenale editrice. L’edizione comprende anche un saggio assai importante della curatrice. Tale svolta culminò con la pubblicazione nel 1992 di Aurore d’autunno, sempre a cura e traduzione di Nadia Fusini e, nel 1994, di Harmonium nella collana I Millenni di Einaudi, a cura di Massimo Bacigalupo.1

Successivamente a questo periodo fortunato, Stevens è ritornato in un relativo oblio. Nel 2014, tuttavia, è stata pubblicata da Adelphi una nuova edizione delle Aurore d’autunno, sempre a cura e traduzione di Nadia Fusini, contenente anche alcune preziose lettere, aforismi  e prese di posizione del poeta, tutte assai interessanti.

Uno dei grandi meriti di Stevens sta in questo: nel momento in cui l’inglese s’affermava sempre di più come lingua veicolare mondiale, subendo così un processo d’impoverimento sia nel restringimento del lessico, sia nella semplificazione delle strutture sintattiche, la sua lingua ampia e generosa ha dato un contributo fondamentale nel mantenerne la ricchezza, sottraendola a un destino di pura comunicazione: un merito analogo va riconosciuto a Marianne Moore e naturalmente a Eliot e a Pound.

L’importanza del poeta di Reading, tuttavia, travalica questo orizzonte. Se vi sono poeti importantissimi per la cultura e la lingua a cui appartengono e soltanto per quella, altri lo sono per un universo più ampio. Alcuni, pochissimi, riescono a superare tutti i confini e a imporsi come poeti trasversali alle lingue e alle culture. Stevens sta dentro questa esigua schiera e per rendersene conto basta scorrere l’indice del Wallace Stevens Journal, una meritoria impresa editoriale. L’interesse verso la sua poesia è vivissimo ovunque, la sua importanza – ancora relativamente poco cresciuta in senso verticale e cioè per numero di lettori – si è amplificata in senso orizzontale e nello spazio, tanto da coprire il mondo intero. Egli è uno dei pochissimi poeti del secolo scorso capaci di parlare a generazioni diverse e a latitudini così diverse. Per noi che apparteniamo non solo alla cultura italiana ma a quella occidentale in senso lato, la poesia di Stevens apre nuove prospettive, sia per la varietà di stili, metriche e figure retoriche di cui è pervasa, sia che si allarghi l’orizzonte fino ad abbracciare il valore conoscitivo e non soltanto estetico che la grande poesia possiede.

Sebbene l’appartenenza a un continente giovane come le Americhe non basti a spiegare la vastità degli orizzonti di Stevens, pur tuttavia essa ha il suo peso e lo si può riscontrare anche in altri autori, diversissimi da lui, ma che condividono con lui l’appartenenza a quel mondo di vasti spazi disabitati e popoli giovani. Jorge Luis Borges, parlando del rapporto con la tradizione, afferma che per un argentino essa coincide in un certo senso con la letteratura mondiale, non avendone una propria radicata in un lungo passato. Qualcosa di analogo lo afferma anche un altro poeta, assai diverso da Stevens: Derek Walcott. Ciò non significa negare le radici statunitensi di Stevens, che sono assai robuste, ma di vederle in un contesto in cui è normale per un americano (del nord come del sud), attingere ovunque quando si parla di tradizione: quello che muta è il modo in cui servirsene e Stevens, per esempio, lo fece in modo assai diverso rispetto a Pound e a Eliot.   

Un fiore di serra vagamente profumato

Wallace Stevens nasce nel 1879 a Reading in Pensylvania e cioè in quella parte degli Stati Uniti d’America più legata alle origini inglesi e in senso lato europee.

I suoi studi di legge sono regolari, si laurea ad Harvard ed esercita l’avvocatura a New York dal 1916. Nel 1919 si trasferisce ad Hartford dove trascorrerà l’intera vita, a parte qualche viaggio, e dove morirà nel 1955; quest’ultima città, insieme a New York è il suo vero habitat.

Il periodo newyorchese fu decisivo per la sua formazione, nonostante la brevità della permanenza. A New York, peraltro, Stevens sarà sempre di casa, perché Hartford si trova a poca distanza dalla metropoli e il poeta ha sempre apprezzato la preziosa opportunità di poter vivere in un’appartata cittadina di provincia, ma vicina alla rutilante frenesia newyorchese.

Fu nella città atlantica (che non dobbiamo considerare, come oggi noi la viviamo e cioè come la capitale dell’Occidente, ma solo come una grande metropoli statunitense), che egli entrò in contatto con il mondo artistico e con la sua prima grande passione: la pittura. Anche dopo averla abbandonata, Stevens si considerò sempre un poeta della vista, come dirà anche nelle sue lezioni di poetica e l’arte pittorica ha una parte rilevante in tutto il suo percorso.

A New York frequenta il Greenwich Village e si traveste da dandy ironico, incline a prendersi in giro. Entra in contatto con l’espressionismo, l’avanguardia e con quell’atmosfera da bohème un po’ inventata e importata dalla Francia. Fin dagli esordi la sua presenza nel mondo artistico sembra distratta, ma sufficientemente attenta da fargli comprendere che l’ambiente del Greenwich non risponde alle sue esigenze d’autore. Nello stesso tempo studia profondamente il teatro giapponese, manifestando da subito una curiosità che si spinge oltre i confini della cultura occidentale.

Come poeta esordisce tardi e su rivista: precisamente nel 1914 quando ha già 35 anni. La sua prima raccolta pubblicata è Harmonium, nel 1923; dopo di essa un lungo silenzio che verrà rotto nel 1936 con la pubblicazione di Ideas of order. Un’ultima data vorrei ricordare: il 1919, anno in cui pubblica sulla rivista Poetry un testo decisivo per comprendere da quale nucleo tematico e problematico prende avvio la sua poesia: Anecdote of the jar.

In quale contesto letterario e culturale esordisce il poeta Stevens?

Gli intellettuali statunitensi più in vista di quegli anni sembrano appartenere tutti a un’unica schiera: si sentono orfani dell’Inghilterra, dell’Europa intera o dell’Africa, se sono di colore. Tendenzialmente ripudiano tutti, in modi più o meno netti, le loro radici statunitensi: o perché le sentono già tradite (è il caso di Pound), oppure perché si sentono sradicati in una nazione che non possiede una storia e tanto meno una storia culturale. Quanto ai neri, mai entrati nell’American dream, molti di loro sognano di ritornare nelle terre d’origine: l’intellettuale e militante politico di colore più autorevole in quegli anni, Du Bois, pensa che il ritorno in Africa sia il destino naturale della popolazione di colore. Un episodio illuminante può chiarire quanto sto dicendo ben più che le mie stesse parole. Quando nel 1916, il Governo degli Usa scelse momentaneamente la neutralità piuttosto che entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra, Henry James rifiutò la nazionalità americana e optò per quella inglese. In sostanza, dopo ben oltre cento anni dalla proclamazione dell’Indipendenza, il più grande romanziere statunitense del suo tempo si sentiva più inglese che statunitense! James è solo la punta dell’iceberg: Eliot, nato nel Missouri, scelse l’Inghilterra come patria letteraria d’adozione e lì nasceranno i suoi capolavori a cominciare dalla Waste Land, pubblicata nel 1922. Insieme a lui Pound, con l’aspirazione a una poesia universale, poi Hemingway perennemente in fuga dagli Usa e forse anche da se stesso. Infine l’ossessione erotico sentimentale di Henry Miller, che lo portò nei bordelli di Parigi come si ritorna a una grande madre. Tornando al discorso precedente sulla tradizione, o meglio sulle tradizioni, questa schiera sembra perseguire piuttosto un ritorno anche fisico alle origini europee, una sorta di nomadismo sradicato, una versione planetaria del flaneur urbano.

Opposta alla schiera degli orfani ce n’era un’altra in formazione ma ancora silente. Sarebbe esplosa più tardi e il suo esponente di primo piano sarebbe stato William Carlos Williams. È la schiera dei nativi, che rivendicano, a differenza dei primi, la loro appartenenza alla cultura statunitense. I maggiori interpreti, a parte Williams, sono perlopiù romanzieri: William Faulkner, John Dos Passos, John Steinbeck. Molti di loro, e non è un caso, vengono dal sud, perché in fondo è proprio nella terra dei Confederati sconfitti che gli umori profondi della società americana si sono formati: fra schiavismo e scontri razziali, ma anche nella lontananza culturale da New York, da Washington e dallo stato federale. Alcuni film memorabili – a parte Via col vento – hanno rappresentato assai bene tali atmosfere.2

Da quel crogiolo nasceranno opere come l’Urlo e Furore, di William Faulkner. Alcuni di quei romanzieri, specie durante la Guerra Fredda, saranno violentemente anti comunisti, tranne Steinbeck. Con il passare degli anni la schiera dei nativi si amplierà comprendendo anche autori neri come Gwendoleen Brooks e Countee Culllen; più vicini a noi nel tempo, la premio Nobel Tony Morrison, James Baldwin e Audre Lorde, sebbene – in questi ultimi due casi – sono i ghetti urbani del nord il setting delle loro opere.

Stevens era lontano sia dai nativi sia dai nomadici. Il suo esordio tardivo da un punto di vista editoriale è dovuto anche a questo sentirsi fuori posto. Per un poeta, l’habitat in cui depositare i propri versi è molto importante e l’isolamento può essere un’arma a doppio taglio. Nel caso del poeta di Hartford credo sia stata un’evenienza molto felice. Possiamo immaginare cosa volesse dire per un autore di lingua inglese pubblicare nel ‘23 la sua prima opera, un anno dopo l’uscita de La terra desolata di Eliot! Il rischio era quello di essere tacciati da epigoni, se troppo vicini a un poeta che era già considerato un maestro; oppure da ribelli sciocchi se troppo lontani da lui. Passare inosservato fu la forza di Stevens. Quando la critica cominciò ad accorgersi della sua opera, la raccolta Harmonium aveva già avuto il suo tempo per essere digerita e il poeta se n’era già andato per la propria strada. Stevens cominciava a essere visto, ma con una certa circospezione. Ho intitolato questa parte dell’introduzione alla sua opera con una battuta molto significativa che circolava su di lui. Proprio così veniva definito il poeta di Hartford: un fiore di serra vagamente profumato. 3


1 Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzioni di Massimo Bacigalupo, Giovanni Giudici, Glauco Cambon, Renato Poggioli, I Millenni, Einaudi editore, Torino 1994.

2 Ci sono molti film ambientati in quel mondo, alcuni dei quali tratti da romanzi classici come per esempio Il Buio oltre la siepe. Ne voglio ricordare solo uno, Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (Fried Green Tomatoes)  diretto da Jon Avnet e anch’esso basato,  ma in modo molto disinvolto, dal romanzo di Fannie Flag. Proprio perché non si tratta di un classico, con tutto l’alone anche mitico che circonda alcuni film e romanzi, questa pellicola del 1991, ambientata negli anni ’30, rappresenta molto bene il crogiolo sudista, dove l’aggettivo vuole indicare un complesso di umori e di sentimenti, piuttosto che una dimensione territoriale legata alla Guerra di Secessione.

3 L’espressione viene citata da Carboni, alla pagina 161 della sua nota critica alla ristampa di Mattino domenicale del 1988 per le edizioni Einaudi. Fu Harold Bloom a usarla, ma solo per riferirsi alla critica in generale; non di certo a sé medesimo, che di Stevens fu da subito un estimatore convinto: “l’immagine che di Stevens aveva l’accademia era quella di una sorta di squisito fiore di serra, vagamente profumato.”

Wallace Stevens at Columbia University

LA PASSEGGIATA

Aldo Palazzeschi ha attraversato molte correnti e poetiche, ma senza davvero appartenere a nessuna. Si potrebbe obiettare che ciò è sempre vero per i grandi autori, ma nel suo caso occorre forse aggiungere qualcosa di più e cioè la sua particolare forma di generosità. A differenza di altri artisti che hanno semplicemente occupato un territorio letterario, Palazzeschi è stato uno Zelig che ha impreziosito tutti gli abiti e le maschere che ha indossato in un certo momento e lo stesso futurismo italiano, senza di lui, sarebbe misera cosa, almeno per ciò che riguarda la poesia. Questo breve intervento, tuttavia, è limitato a un solo testo del poeta, emblematico quanto mai e in contro tendenza rispetto alla vulgata che vuole ridurre Palazzeschi al lasciatemi divertire o agli aspetti più scherzosi della sua poesia. Il testo in questione è La Passeggiata, scritta nel 1913, che riporto qui di seguito:

Andiamo?

Andiamo pure.

All’arte del ricamo,

fabbrica passamanerie,
ordinazioni, forniture.
Sorelle Purtarè.
Alla città di Parigi.
Modes, nouveautè
Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell’anno 1843.
avviso importante alle signore !
La beltà del viso,
seno d’avorio,
pelle di velluto.
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole.
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano di Turchia ti aspetta.
La pasticca di Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Orologeria di precisione.
93
Lotteria del milione.
Antica trattoria “La pace”,
con giardino,
fiaschetteria,
mescita di vino.
Loffredo e Rondinella
primaria casa di stoffe,
panni, lane e flanella.
Oggetti d’arte,
quadri, antichità,

26
26 A.
Corso Napoleone Bonaparte.
Cartoleria del progresso.
Si cercano abili lavoranti sarte.
Anemia!
Fallimento!
Grande liquidazione!
Ribassi del 90%
Libero ingresso.
Hotel Risorgimento
e d’Ungheria.
Lastrucci e Garfagnoni,
impianti moderni di riscaldamento:
caloriferi, termosifoni.
Via Fratelli Bandiera
già via del Crocefisso.
Saldo
fine stagione,
prezzo fisso.
Occasione, occasione!
Diodato Postiglione
scatole per tutti gli usi di cartone.
Inaudita crudeltà!
Cioccolato Talmone.
Il più ricercato biscotto.
Duretto e Tenerini
via della Carità.
2. 17. 40. 25. 88.
Cinematografo Splendor,
il ventre di Berlino,
viaggio nel Giappone,
l’onomastico di Stefanino.
Attrazione! Attrazione!
Cerotto Manganello,
infallibile contro i reumatismi,
l’ultima scoperta della scienza !
L’Addolorata al Fiumicello,
associazione di beneficenza.
Luigi Cacace
deposito di lampadine.
Legna, carbone, brace,
segatura,
grandi e piccole fascine,
fascinotte,
forme, pine.
Professor Nicola Frescura:
state all’erta giovinotti!
Camicie su misura.
Fratelli Buffi,
lubrificanti per macchine e stantuffi.
Il mondo in miniatura.
Lavanderia,
Fumista,
Tipografia,
Parrucchiere,
Fioraio,
Libreria,
Modista.
Elettricità e cancelleria.
L’amor patrio
antico caffè.
Affittasi quartiere,
rivolgersi al portiere
dalle 2 alle 3.
Adamo Sensi
studio d’avvocato,
dottoressa in medicina
primo piano,
Antico forno,
Rosticcere e friggitore.
Utensili per cucina,
Ferrarecce.
Mesticatore.
Teatro Comunale
Manon di Massenet,
gran serata in onore
di Michelina Proches.
Politeama Manzoni,
il teatro dei cani,
ultima matinée.
Si fanno riparazioni in caloches.
Cordonnier.
Deposito di legnami.
Teatro Goldoni
i figli di nessuno,
serata popolare.
Tutti dai fratelli Bocconi !
Non ve la lasciate scappare !
29
31
Bar la stella polare.
Assunta Chiodaroli
levatrice,
Parisina Sudori
rammendatrice.
L’arte di non far figlioli.
Gabriele Pagnotta
strumenti musicali.
Narciso Gonfalone
tessuti di seta e di cotone.
Ulderigo Bizzarro
fabbricante di confetti per nozze.
Giacinto Pupi,
tinozze e semicupi.
Pasquale Bottega fu Pietro,
calzature…
Torniamo indietro?
Torniamo pure.

Il testo ha come altri un andamento scherzoso, ma con alcuni scostamenti decisivi che ne fanno un’opera nuova nel panorama italiano di quegli anni. Il primo sta nell’uso delle insegne pubblicitarie e del lessico conseguente come lingua di poesia. Allargare il campo della poeticità a un linguaggio come quello è ancor più significativo se si tiene conto del fatto che l’Italia di allora non presentava certamente città dal volto sfolgorante di vetrine come Parigi.

Il secondo elemento però è ancora più importante. Chi sono i protagonisti di questa passeggiata? Di loro il poeta non ci dice nulla, la loro esistenza non compare nel testo se non per quello che i loro occhi vedono, ma senza che questo susciti alcuna reazione. Fra l’andiamo pure iniziale e il torniamo pure finale non c’è nulla che li identifichi, se non la disperante condizione di ignavi moderni, che inseguono le insegne della pubblicità e oggi, mutatis mutandis, salterebbero da un’offerta pubblicitaria a un’altra, da un telefonino all’altro.

Paolo Febbraro, nel libro La tradizione di Palazzeschi, Alberto Gaffi editore, Roma 2007, dedica proprio alla poesia La Passeggiata un’ampia analisi del testo, sottolineandone proprio gli aspetti più profondamente legati alla tradizione, fino a Dante, piuttosto che quelli più legati agli ‘umori del suo tempo’.

Proprio il richiamo che Febbraro fa ne suo scritto alla tradizione mi porta a una riflessione ulteriore sul Futurismo italiano.

Ezra Pound, che di Avanguardia un po’ s’intendeva, lo giudicava:

… impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione …

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione.1  Del resto, superata la fase di Dada, necessariamente breve come è ovvio per qualsiasi momento iconoclasta, il problema è sempre quello di quale tradizione scegliere. Il futurismo italiano scelse la guerra, la velocità e la potenza tecnologica come simboli di un’epica modernista e mise l’arte al servizio del capitale con le sue campagne pubblicitarie. In tale contesto La Passeggiata di Palazzeschi risalta a decenni di distanza come lo scherzo molto serio di un conservatore che seppe irridere anche loro. Letta oggi, quando viviamo nel doppio vincolo di consumismo del superfluo e miseria del necessario, potrebbe ricordarci che per Dante gli ignavi erano indegni persino dell’Inferno e che forse qualcosa bisogna pur fare per scuotersi di dosso l’ignavia dei tempi.  

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1 Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la Review of the great English verse conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.

LA MONACA SENZA MONASTERO

Introduzione 1

Marianne Moore nasce a Kirkwood nel Missouri. Figlia di un ingegnere e inventore, cresce nella casa del nonno. Nel 1905 frequenta il Bryn Mawr College in Pennsylvania, ove si laurea quattro anni dopo. Insegna all’Indian Industrial School di Craslile fino al 1915, l’anno che segna una svolta nella sua vita perché comincia a pubblicare poesie. Viaggia molto in Europa, in compagnia della madre. Come osserva Laura Cantelmo,2 quello compiuto dalle due donne è un vero e proprio Grand Tour in stile ottocentesco, ma avvenuto negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale. Le tracce della presenza di Moore nei luoghi canonici dove gli artisti di tutto il mondo si ritrovano (Parigi, per esempio), sono scarse, per il semplice fatto che  – pur frequentandoli – lei mantenne riservata la propria identità; difficile, peraltro, immaginarsela a fare bisboccia e a ubriacarsi in un bistrot insieme a Joyce o a Picasso! La sua poesia attira l’attenzione di Ezra Pound, William Carlos Williams, Hilda Doolittle; ma specialmente di T.S. Eliot e di W. Auden, che scriveranno su di lei due celebri saggi. Dal 1925 al 1929, lavora come editore della rivista letteraria e culturale The Dial. Fu grazie a lei che pubblicarono i primi versi Elizabeth Bishop e Allen Ginsberg. La sua fortuna è costante, ma lei è del tutto schiva e per niente incline a partecipare intensamente alla vita letteraria, se non tramite le corrispondenze e qualche lettura pubblica, oltre che naturalmente nel ruolo di editore. Nel 1951 venne premiata con il Pulitzer e il Bolligen Prize. Piuttosto che frequentare gli ambienti letterari, preferisce gli incontri di pugilato o di baseball e in generale le manifestazioni sportive, cui si reca indossando un cappello a tricorno e un mantello nero. È una grande ammiratrice di Mohammed Alì.

Non è mio costume iniziare un saggio su un poeta, o chiunque altro, dalla sua biografia, ma nel caso di Marianne Moore vale la pena di farlo perché pochi altri artisti e artiste della sua grandezza sembrano del tutto fagocitati dalla loro opera, tanto da vivere solo in essa. In Moore, però, c’è anche qualcosa di più e di ancor più affascinante: perché, come abbiamo visto, era anche profondamente radicata nella società nei suoi aspetti popolari più vistosi. Baseball e pugilato sono quanto di più statunitense e maschile si possa immaginare.

Nel saggio più importante a lei dedicato, T.S. Eliot afferma, fra l’ altro, che:

… le sue poesie fanno parte del piccolo corpo della poesia durevole, scritta nel  nostro tempo; di quel piccolo corpo di scritti, in mezzo a ciò che passa per poesia, nel quale una sensibilità originale e un’intelligenza alacre e un sentimento profondo si uniscono a tenere in vita la lingua inglese. 3

Tenere in vita una lingua non è davvero cosa da poco. La sua poesia, però, non ammalia il lettore con fuochi artificiali, ma gli impone una severa disciplina dell’ascolto. Lina Angioletti ha fatto un lavoro egregio nel tradurre un testo che vede il compasso fra l’italiano e l’inglese, aprirsi al massimo della sua estensione. Tutto in Moore è statunitense, linguisticamente; nonostante dietro ogni testo si avverta la presenza di una cultura che travalica i confini americani e sa essere vastissima e profonda, nonostante l’eclettismo.

Il Bestiario

La capacità di Moore nell’osservazione della natura sa mantenersi in equilibrio fra esprit de geometrie ed esprit de finesse, sa alternare il microscopio al telescopio, ma sempre tenendo il rigore scientifico a contatto con la sapienza del cuore. Fatta questa premessa, la sua opera potrebbe essere descritta come una straordinaria Arca di Noè, dove trovano posto specie reali e immaginarie, qualcuna estinta. Eppure, se pensiamo ai bestiari tradizionali, oppure al modo in cui l’animale è stato rappresentato nel cinema americano del ‘900, da Walt Disney per esempio, si coglie subito la distanza che separa i suoi animali da quelli rappresentati da altri. La differenza è ancora più vistosa se si considera che Moore era una profonda conoscitrice dei maggiori autori che ne hanno trattato: infatti, che fra le sue opere spicca la traduzione delle favole di La Fontaine. Inoltre, si può intuire da molti riferimenti, che i classici greci e latini costituiscono una parte importante del suo patrimonio culturale. Tale diversità poggia, a mio avviso, su due pilastri: prima di tutto la considerazione che quella umana è una specie animale come le altre, con caratteristiche di speciazione proprie. Questo primo aspetto taglia alla radice la tentazione di rendere l’animale antropomorfo. Il secondo pilastro è l’identificazione con l’animale, come avviene per esempio in questo testo densissimo, che si colloca a metà strada fra una dichiarazione di poetica in versi e lo svelamento del suo atteggiamento esistenziale.

Emerges daintly, the shunk -/don’t laugh – in sylvan black and white chipmunk/regalia. The inky thing/adaptedly white with glistening/goat-fur, is wood-warden. In his/ermined well-cuttlefish-inked wool. He is/determination’s totem. Out-/lawed? His sweet face and powerful feet go about/in chieftan’s coat of Chilcat cloth.//He is his own protection from the moth,//noble little warrior. That/otter-skin on it, the living pole-cat,/smothers anything that stings. Well, – /this same weasel’s playful and his weasel/associates are too. Only/wood-weasels shall associate with me./

 /si affaccia con grazia, – non ridete -/ la puzzola con le insegne silvestri,/bianche e nere dello scoiattolo. Fatta d’inchiostro,/mascherata di bianco in una lucida/pelliccia di capra. È custode del bosco. Nella sua/ ermellinata, intinta nell’inchiostro della seppia,/è il totem della determinazione/È un fuorilegge? Il muso dolce e le zampe potenti/vanno in giro in un manto regale di panno di Chilcat./ Trova in sé la protezione dalla tarma,//minuscola e nobile guerriero. Quella/pelle di lontra che la copre, la moffetta vivente,/spegne qualunque aculeo. Ebbene,/questa stessa mustela ama giocare,/e come lei le sue compagne. Solo/le mustele del bosco saranno mie compagne./ 4

Ciò che colpisce in questi versi è la sapiente mescolanza di esattezza della descrizione, tenerezza e ironia: frutto di una lunga osservazione e di un’attenzione viva al dettaglio minimo. Il linguaggio ricercatissimo, fatto di un lessico preciso ma non proprio comune, arricchisce il manto dell’animale e lo fa risaltare in tutta la sua ricchezza. La puzzola, tuttavia, è nota anche per l’odore sgradevole che emana per tenere a distanza gli indesiderati. Non ridete, esorta la poetail lettore a fare, poi lo invita a seguirla in una descrizione che è un piccolo capolavoro di virtuosismo: alla fine scatta l’identificazione, assai ambivalente e capace di affermare quel tanto che basta intorno a se stessa. Figlia del bosco e della macchia lei stessa, così attenta nel tenere a distanza critici, chiacchieroni e uomini, Moore si sente vicina alle mustele, ma il verso finale indica anche l’opposto e cioè che saranno loro a cercarla per associarsi con lei: nel reciproco possibile riconoscimento e dunque nella identificazione seppure parziale con l’animale, si rivela (nel doppio senso del verbo), ma solo per un attimo, quel desiderio intimo di distanza dai propri simili che Marianne Moore ha coltivato per una vita intera. L’appartenenza di tutte le specie animali alla natura organica disegna il perimetro della comunanza che quella umana intrattiene con la fauna e in misura minore la flora (presente, seppure non con la stessa abbondanza nella sua opera). Ciò che manca nella poesia di Moore è la certezza tutta umana della superiorità, per decreto indiscutibile, di una specie sull’altra e della nostra su tutte le altre. Rispondo subito a un’obiezione, che sarà forse già sorta nel lettore: è pur sempre un occhio umano quello che osserva e una mano umana quella che scrive. L’obiezione è sensata, ma se ci si ferma a tale constatazione credo si rischi di rimanere ai margini esterni della poesia di Moore. La constatazione ha un valore nel senso di riconoscere che la specie umana ha elaborato un linguaggio con il quale sembra poter parlare e scrivere di tutto e potersi esprimere su qualsiasi argomento: tale tratto costituisce una sua caratteristica di speciazione. Tale constatazione, peraltro, non afferma nulla su come gli animali possano vedere eventualmente noi, cosa che almeno per ora ci è in larga parte preclusa. Possiamo constatare che alcune specie sono in grado di svolgere compiti che noi assegniamo loro; possiamo pure osservare che alcune domestiche sono in grado, fino a un certo punto, di interpretare il linguaggio umano,5 ma riuscire a dire veramente qualcosa su come ci vedano il cane o il gatto di casa, rimane un mistero impenetrabile: figurarsi gli altri animali! Del resto, gli antropologi sono assai cauti quando si tratta di indicare le differenze fra la nostra e le altre specie. Levi-Strauss, per esempio, propose un atteggiamento minimalista, limitandosi a constatare ciò che è visibile: per esempio, che l’animale, a differenza di noi umani, non cuoce il cibo che mangia, sebbene anche in questa materia ci siano stati esperimenti recenti con le scimmie antropomorfe che ridimensionano anche tale aspetto, ma solo limitatamente ai primati a noi più prossimi. Del resto ci sarà pure una ragione per cui tutte le religioni arcaiche nascono intorno all’animale totemico oppure al culto arboreo: la natura organica è da sempre fonte di mistero religioso e non ha mai smesso di esserlo neppure con l’avvento delle religioni positive. Ciò che colpisce nella poesia di Marianne Moore è riscoprire nel cuore di una società iper tecnologica come quella statunitense, la prima natura e la presenza animale come qualcosa di irriducibile. Moore si avvicina a questi fratelli e sorelle viventi con lo stesso ammirato stupore con cui Montaigne, si avvicinava in pieno ‘700 ai popoli lontani per tradizione e costumi dall’Europa. La cultura occidentale, con lui, scopriva l’altro umano da sé, per Moore l’altro da noi per eccellenza rimangono le specie animali diversa dalla nostra. Su questo passaggio chiave s’innesta un altro aspetto della sua meditazione intorno alla cultura di specie: quella umana ha una capacità maggiore delle altre nel rendere visibile e percepibile l’individuo, possiede cioè la possibilità d’individuazione. Sembra tuttavia di capire, dagli esempi scelti e da uno in particolare, che tale prerogativa della specie non sia fra le più notevoli per Moore. La poesia cui mi riferisco è una delle più celebri dell’intera raccolta ed è proprio questa di cui si occupa anche Wallace Stevens nel saggio dal titolo Su una poesia di Marianne Moore:6

He “digensteth harde yron” “Digerisce durissimo ferro”

/Although the aepyornis/or roc that lived in Madagascar, and/the moa are extinct,/the camel-sparrow linked/ with them in size – the large sparrow/Xenophon saw walking by a stream – was and is/a symbol of justice./…

/Sebbene l’aepyornis/o roc, che viveva in Madagascar,/e il moa siano estinti,/il cammello-passero, che è loro parente/per statura – il gigantesco passero/che Senofonte vide presso un fiume – fu ed è/simbolo di giustizia.

L’animale di cui si parla è lo struzzo: la descrizione, ancora una volta, coglie con mirabile esattezza la sproporzione fra la possanza del corpo e la minuscola testa. La combinazione lessicale cammello-passero, esattissima nel descrivere (il movimento ondulatorio della corsa dello struzzo ricorda quella del cammello), non è solo scientifica, ma predispone alla simpatia, che diviene poi empatia. Tuttavia, è il verso finale di questo incipit perentorio ad attirare l’attenzione: perché mai lo struzzo sarebbe un simbolo di giustizia? 

This bird watches his chicks with/a maternal concentration – and he’s/been mothering the eggs/at night six weeks – his legs/their only weapon of defense./…

… How could he, prized for plumes and eggs and young,/used even as a riding-beast, respect men/hiding actor-like in ostrich skins, with the right hand/making the neck as if alive/and from a bag the left hand strewing grain, that ostriches//might be decoyed and killed! Yes, this is he/whose plume was anciently/the plume of justice;…

/Questo uccello vigila i suoi piccoli/con materna attenzione – e le uova/le ha coccolate per sei settimane/anche di notte – le sue zampe  essendo/l’unica arma in loro difesa./

…. Come può lui che è pregiato per le piume, le uova e i suoi piccoli,/ed è usato persino come cavalcatura, rispettare gli uomini/che si mascherano con pelli di struzzo – muovendo/il collo con la mano destra, come se fosse vivo, e spargendo/ con la sinistra il grano che tengono in un sacco//per adescare e uccidere gli struzzi!sì,questo è l’uccello/la cui piuma era nei tempi antichi/la piuma di giustizia;…   

La nobiltà dell’animale e la crudeltà del cacciatore si confrontano in questa densa descrizione e nella scelta della piuma di struzzo come simbolo della giustizia appare quasi il nesso inscindibile e tragico fra senso di colpa e caratteristiche di specie (la nostra è onnivora con tutte le conseguenze del caso, ma è anche predatrice e calcolatrice). Lo struzzo è il solo regale esemplare di altre specie similari ma estinte, un paradosso della natura se si pensa al suo corpo.

/The egg piously shown/as Leda’s very own/from which Castor and Pollux hatched,/was an ostrich-egg….

/L’uovo indicato religiosamente/come l’uovo autentico di Leda,/da cui nacquero Castore e Polluce,/era un uovo di struzzo.

Il richiamo classico conferisce un surplus di nobiltà all’animale, ma apre le porte alla tragica conclusione.

/Six hundred ostrich-brain served/at one banquet, the ostrich-plume-tipped tent/and desert spear jewel-/gorgeous ugly egg-shell/goblets, eight pairs of ostriches/in harness, dramatize a meaning/always missed by the externalist.//The power of the visible/is the invisible; as even where/no tree of freedom grows,/so-called brute courage knows./Heroism is exhausting, yet/it contradicts a greed that did not wisely spare/the harmless solitaire//or great auk in its grandeur:/unsolicited having swallowed up/all giants bird but an alert gargantuan/little-winged, magnificently speedy running bird./The one remaining rebel/is the sparrow-camel./

/Seicento cervelli di struzzo/serviti ad un banchetto, la tenda e la zagaglia/con pennacchi di struzzo, le orrende coppe/ricavate da uova di struzzo e ingioiellate,/otto coppie di struzzi/ben bardati, danno un senso drammatico/a un simbolo che sfugge sempre ai superficiali//La potenza del visibile/ è l’invisibile; e lo sa bene/anche là dove non cresce l’albero della libertà,/il coraggio che chiamano brutale./L’eroismo è qualità estenuante ma non si oppone/a una cupidigia che non ha risparmiato/saggiamente l’innocuo solitario// o la grande la nella sua maestà:/perché l’indifferenza ha sterminato/tutti i maggiori uccelli, tranne questo magnifico corsiero,/alacre Gargantua con ali minime./quest’ultimo superstipe ribelle/è il passero cammello./

L’episodio storico cui si fa riferimento in questi versi è una cena di Eliogabalo, per preparare la quale fu sterminato un considerevole numero di struzzi. Nella poesia di Marianne Moore il modo di concepire il rapporto fra natura e cultura parte dalla considerazione che anche le altre specie animali possiedono una cultura e non semplicemente un adattamento funzionale all’ambiente che popolano, oppure un adattamento forzato, come avviene con le specie più domestiche che finiscono davvero per assumere tratti umani, almeno per quanto attiene ad abitudini, malattie e nevrosi.

Agonismo, mondo animale e umano

La biografia di Marianne Moore non contiene nulla di particolare, a parte il suo curriculum letterario e la passione per due sport come baseball e pugilato. L’eccentricità non spiega da sola tali frequentazioni e neppure le spiega del tutto l’ipotesi che avesse bisogno di un passatempo qualunque per proteggere il suo mondo interiore dalle invasioni della realtà; anche perché, nella parte finale della sua opera, vi sono testi che affrontano di petto queste passioni extra letterarie, specialmente il baseball. L’antagonismo, la sfida, appartengano assai al mondo animale e forse lei vedeva nello sport proprio questo: un aspetto della specie umana che si avvicinava alla lotta animale, mentre non era per nulla interessata alle dispute intellettuali del mondo letterario. Un testo emblematico s’intitola proprio Baseball and writing (Il baseball e la scrittura):

Fanaticism?No. writing is exciting /and baseball is like writing./You can never tell with either/how it will go/or what you will do;/…

Fanatismo? No.Scrivere è eccitante/ e il baseball somiglia allo scrivere./Per l’uno e per l’altro non si può/mai dire come andrà/o che farai/…

It’s a pitcher’s battle all the way – a duel – /A catcher’s, as, with cruel/puma paw…

Battaglia per il pitcher tutto il tempo – un duello -/battaglia per il catcher, se, con quella/sua crudele  zampata da leopardo…  

La poesia prosegue proponendo altri esempi di agonismo animale e si conclude con un vero e proprio inno a questa battaglia, che tuttavia rimane nell’ambito della rappresentazione, dove il conflitto stesso viene ad assumere un’eleganza e un suo stile:

…”Yes,/it’s work; I want you to bear down,/but enjoy it/while you are doing it”./….

/Studded with stars in belt and crown,/the Stadium is an adastrium./O flashing Orion,/your stars are muscled like the lion./

… “Sì,/ è lavoro; voglio vedervi vincere ma voglio/che la vittoria/sia divertimento”.

/Tempestato stelle nella citura e nella corona,/lo Stadio è un adastrio,/O scintillante Orione,/Ogni tua stella ha muscoli degni di un leone./7

Le ragioni di fascino di questa chiusa sono tante, prima di tutto l’analogia fra la cintura di Orione – celebrata anche nel monologo finale di Blade Runner dal replicante morente –  e uno stadio: ancor più l’adastrio, difficile da mettere a fuoco perché la parola riguarda la pallacanestro, ma anche un tipo di gatto e che si trova anche in racconti di fiction. L’insieme si traduce in una linguaggio epico assai originale.

Un altro testo assai significativo è Combat Cultural:

One likes to se a laggard rook’s high/speed at sunset to outly the dark,/or a mount well schooled for a medal;/tucked up front legs for the barrier -/or team of leapers turned aerial.//

Piace vedere il volo di un corvo attardato /che al tramonto vuol battere la note,/o un cavallo ben addestrato a vincere medaglie;con le zampe raccolte a superare la barriera -/o saltatori in gruppo fatti aerei.//

I due animali mettono entrambi alla prova i loro limiti e l’occhio umano che ne ammira le gesta è quasi invisibile. La forza di questo incipit sta nell’immagine sintetica che crea fra la solitudine del corvo proteso nella notte e il cavallo in gara, che, con una rapidissima metamorfosi, diventa prima gruppo di cavalli e poi aerei in volo. Quest’ultima immagine è l’innesco per la seconda quartina, dove la scrivente umana esce dall’ombra:

 I recall a documentary/of Cossacks: a visual fugue, a mist/of swords that seemed to sever/heads from bodies – feet stepping as though through /hatp-strings in a scherzo. However,

Io mi ricordo di un documentario/sui Cosacchi; una fuga visiva una caligine/di spade che sembravano spiccare/teste da corpi – e quei piedi, mobili/come tra corde d’arpa in uno scherzo. A me, però,/

Il richiamo guerresco evocato dalle spade dei Cosacchi avvicina gli umani a un elemento selvaggio che è certamente parte del mondo animale, ma è solo un attimo perché nella quartina successiva avviene un rovesciamento di prospettiva, aperta da quel however che sospende la scena:

the quadrille of Old Russia for me:/with aimlessly drooping handkerchief/snapped lake the crack of a whip;/a deliciously spun-out-level/frock-coat skirt, unswirled and a-droop//in remote promenade…

mi piace di più la quadriglia della vecchia/Russia: quel fazzoletto abbandonato/a caso e colto a volo in uno schiocco/di frusta;e quella gonna delirante/in un vortice e poi distesa e liscia/in una solitaria promenade …

Dalla guerra alla danza con vestiti sontuosi che sfavillano e l’immagine femminile al centro, la guerra stessa diventa simulazione. Nella parte successiva si torna alla lotta. Imprigionati in sacchi scomodi – infondo come lo sono le divise militari – i combattenti esprimono nella loro gestualità:

… “Some art, because of high quality,/is unlikely to become high sales”;

 Un’arte che, per l’alta qualità/non sarà mai merce d’alto consumo

Infine la chiusa:

 These battlers, dressed identically – /just one person – may, by  seeming twins,/point a moral, should I confess;/we must cement the parts of any/objective symbolic of sagesse.

Combattenti vestiti in modo identico – /una persona sola – ci sembrano gemelli e perciò possono,/lo confesso, indicarci una morale: noi dobbiamo/cementare le parti di qualunque/obiettivo simbolico che esprima la sagesse./

Non ho trovato altri testi in cui la lotta animale si ammanti di un richiamo alla guerra così esplicito, a cominciare dal titolo – Combat. Il concatenarsi rapidissimo di analogie conferisce a queste quartine, dalla posa così composta sulla carta, un ritmo vertiginoso. Il corvo che combatte con la notte è anche un animale che evoca sventura e infatti dal cavallo in gara si passa all’animale come strumento di guerra: l’addomesticamento e il suo uso bellico furono infatti la prima trasformazione tecnologica che diede ai combattenti la superiorità su altri. Questa poesia fa parte della raccolta Oh, essere un drago, siamo nella parte finale della sua opera poetica, successiva al 1951, l’anno in cui Moore aveva ottenuto i maggiori riconoscimenti: è un testo che risente senz’altro di lunghe riflessioni sul tema della guerra che, seppure lontana dal continente americano, aveva toccato da vicino la generazione cui Moore appartiene ed era poi continuata con la Guerra Fredda. Proprio per la sua unicità va considerato a mio avviso come un testo definitivo. Anche nella guerra è attivo un elemento estetico e Moore non lo esorcizza, ma nel monito finale emerge la necessità di saper trasformare in elemento simbolico la lotta, prima che essa degeneri in altro. Il simbolico occupa in questa poesia lo stesso ruolo che i rituali di combattimento e sottomissione hanno nel mondo animale ed è il solo strumento per la specie umana per trasformare la guerra in altro. Quando gli umani non sono più in grado di fare questo, sappiamo cosa accade; ma questo spiega anche l’attaccamento della poeta al mondo animale. In una delle sue incursioni pubbliche, ecco infatti come Moore risponde a una domanda dei suoi interlocutori su tale argomento:

Perché questo smoderato interesse per gli animali e per gli atleti? Sono soggetti ed esemplari d’arte, non credete? E pensano ai fatti loro. Pangolini, buceri, giocatori di baseball: né curiosi, né predaci – non tirano mai in lungo la conversazione; non ci mettono in soggezione; sono nella loro forma migliore quando meno ci badano…” 10

Quando lessi per la prima volta questa risposta, mi sovvenne un’immagine famosa: quella di Marilyn Monroe in compagnia del giocatore di baseball Joe Di Maggio. Nella fotografia lei cammina con un’espressione delle sue, fra lo svagato e il seducente, mentre lui le trotterella a fianco, con il suo corpo massiccio, un volto da luna piena dal sorriso francamente ebete, immagine di un tipo di sportivo che sa fare solo quello che sa fare e niente altro, incarnando una specie di perfezione del gesto o della prestazione dentro la quale si risolve felicemente tutta la sua umanità. Forse era proprio questo che attirava anche Moore: una forma di innocenza primaria, la ricerca di una verginità degli esseri viventi che lei – educata alla rigida etica presbiteriana –   spingeva oltre l’umano, oltre lo stesso peccato originale.

L’umano e la storia nella poetica di Moore

Proprio l’incursione nel mondo dello sport permette di aprire lo sguardo sul continente più misterioso della poesia di Moore: quale immagine dell’essere umano ci restituiscono i suoi versi? Per guardare all’umanità Moore sceglie pochi esempi emblematici, uno in particolare: l’istituzione che per eccellenza fa da cerniera fra personale e pubblico, fra domestico e sociale e cioè Il Matrimonio, una delle istituzioni che più allontana la specie umana dalle altre, nonostante qualunque specie abbia le proprie modalità di socialità e riproduzione della vita. Il testo, assai complesso e denso, si presenta come un vero e proprio trattatello in forma di poesia, ma è anche fortemente teatrale, con veri e propri dialoghi interni fra i due protagonisti principali. Il rifiuto radicale e irriducibile del matrimonio come istituzione è espresso in modo netto nel suo incipit, che ha la funzione di una chiave musicale che stabilisce il tono e il timbro dell’opera intera.

/This institution,/perhaps one should say enterprise/out of respect for which/one says one need not change one’s mind/about a thing one has believed in,/requiring public promises/of one’s intention/to fulfil a private obligation:/I wonder what Adam andEve/think of it but this time,/this fire-gilt steel/alive with goldeness;/how bright it shows – /“of circular traditions and impostures,/committing many spoils”,/requiring all one’s criminal ingenuity/to avoid!/Psychology which explains everything/explains nothing/…

Questa istituzione,/o forse è meglio definirla impresa,/ in ossequio alla quale/si suol dire che non bisogna mutare d’opinione/su una cosa in cui si sia creduto,/che pretende pubbliche promesse/di tener fede/a un obbligo privato:/mi domando che cosa ne pensino/Adamo ed Eva,/di  questo acciaio indorato a fuoco,/tutto lucente d’oro;/e come splende -/di tortuoso tradizioni e inganni,/che sono causa di tante rovine,/a cui si può sfuggire solamente/con tutta l’inventiva criminale!/La psicologia che spiega ogni cosa/non spiega niente,/8

La perentorietà di questi versi va considerata anche tenendo conto che si tratta di una poesia scritta nel 1923, quando movimenti di contestazione del matrimonio non erano neppure pensabili. Nella cultura anglosassone esistevano precedenti illustri fra ‘700 e ‘800, oppure in Europa a seguito della diffusione di idee anarchiche e socialiste; ma erano suggestioni che poco avevano messo radici aldilà dell’oceano. Eppure, come vedremo in certi passaggi, Moore anticipa – a modo suo – istanze femministe che appariranno negli anni ‘70. Certo, gli anni ’20 sono anche quelli definiti ruggenti e immortalati nei romanzi di Fitzgerald, durante i quali – per citare un sociologo di quegli anni: le donne che frequentavano i bar clandestini dove si bevevano alcolici non assomigliavano più alle nostre nonne – ma riguardavano una porzione di mondo che poco interessava a Moore. Inoltre, ciò che colpisce di questo incipit è l’assenza di preambolo, la poesia inizia in medias res e denuncia la lunga riflessione ed elaborazione interiore che la precede; se tutti i testi di Moore appaiono pensati e meditati a lungo, frutto di osservazioni minuziose e reiterate nel tempo, questo è certamente uno dei più meditati. In secondo luogo, la lunghezza stessa del testo e l’ampiezza dei temi trattati; tanto che lo si potrebbe definire un poemetto con una sua autonomia rispetto all’insieme dell’opera. La chiusa dell’incipit – la psicologia che non spiega nulla – è la metafora di tutto ciò che il linguaggio poetico di Moore rifiuta, a cominciare dagli orpelli che le nuove scienze umane, psicanalisi compresa, hanno costruito intorno al rapporto fra i sessi e l’eros. Definito così il perimetro entro il quale si muove il testo, Moore risale alle origini del mito biblico, chiedendosi cosa ne pensassero Adamo ed Eva del primo tentativo di matrimonio fallito. Prima di arrivare al dialogo serrato fra loro due, Moore delinea i caratteri dei due personaggi. 

… Eve: beautyful woman -/I have seen her/when she was so handsome/she gave me a start,/able to write simultaneusly/in three languages – /English, German and French – /and talk in the meantime:/equally positive in demanding a commotion/and in stipulating quiet:/”I should like to be  alone”;/to which the visitor replies,/”I should lie to be alone:(/why not to be alone together?”

… Eva: una donna stupenda -/io l’ho veduta/quando era così bella/da farmi sussultare,/capace di scrivere simultaneamente /in tre lingue diverse -/inglese, tedesco, francese – : /e di parlare nello stesso tempo;/perentoria nel chiedere emozioni/come nel contrattare la sua quiete:/ A me piacerebbe restar sola”;/cui l’ospite risponde:/”A me piacerebbe restar solo;/perché non stare soli insieme allora”?/

Eva è dunque una donna moderna che potremmo definire emancipata – tanto che forse nel nostro immaginario finisce per assomigliare più a Lilith che a Eva – ; questa parte del testo si conclude con la proposta di un patto che viene da Adamo: perché non essere soli insieme?

La descrizione di Adamo è ambivalente: Anche lui ha la sua bellezza ma è anche distressing, parola che può essere tradotta con sconvolgente (è la scelta di Lina Angioletti) ma anche con angosciante. Anche Adamo è magnifico, ma è pure un mostro mitologico, nel senso che può parlare di tutto: dalla storia, al bene e al male come se fosse lui stesso un idolo. Anche in questo passaggio Moore anticipa una critica degli atteggiamenti patriarcali maschili che sarà un tratto del pensiero femminista. Dopo la descrizione sommaria di entrambi, che verrà tuttavia ripresa in altri passaggi, inizia la drammatizzazione teatrale del loro rapporto. I due dialogano, o meglio esprimono – come se davvero  fossero soli e insieme – i loro punti di vista sull’altro e l’altra da sé, in un crescendo che si presta molto bene alla rappresentazione. Questa parte è la più complessa e densa di citazioni e rimandi interni 9

… He says:- What monarch would not blush/to have a wife/with hair lie a shaving-brush”?/…

Egli dice: Quale monarca non arrossirebbe /ad avere una moglie coi capelli/uguali a un pennello per la barba?/…

L’uomo parla come un monarca, che pretende una donna sempre in ordine e da esibire in società. Lei risponde:

… She says: “Men are monopolists/ of stars, garters, buttons/and other shining baubles”/unfit to be the guardians/of another person’s happiness”./

… Lei dice: gli uomini sono dei monopolisti di “medaglie, bottoni, giarrettiere, e altre scintillanti cianfrusaglie”.- /…

Esteriorità e feticismo hanno sempre a che fare con l’esibizione di trofei. In un crescendo che oscilla fra ironia e invettiva, il dialogo rasenta l’insulto reciproco. Il virgolettato non è un vezzo, ma corrisponde al fatto che esso avviene – in molti casi – tramite citazioni da autori assai famosi o sconosciuti, dui cui Moore si serve per disegnare un quadro che va dall’incomprensione assoluta allo stereotipo di: una moglie è una bara. 10

E ancora:

… She says, “This butterfly/This waterfly, this nomad/that has proposed/to settle on my hand for life”…

Lei dice: “Questa farfalla,/questa mosca d’acqua, questo nomade/che ha chiesto la mia mano/per farvi sopra il nido per la vita”/ -…

… He says, “you know so many fools/whoa re not artists

… Lui dice: “E tu conosci tanti pazzi/che artisti non sono …

Questi due versi sono assai sottili. Alla descrizione della propensione maschile a sistemarsi, il testo giustappone la propensione femminile a lasciarsi intortare da uomini e artisti fasulli e dal dubbio fascino. Tali crescendo paradossali s’interrompono per nuove descrizioni che fanno da contrappunto al non dialogo fra i due contendenti. Assai significativa questa descrizione di entrambi:

 … he loves himself so much,/he can permet himself/no rival in that love

… egli ama se stesso a un punto tale/che in questo amore non si può permettere/ alcun rivale./

…. She loves herself so much,/she cannot see herslf enough – a statuette of ivory on ivory/the logical last touch/to an expansive splendor/arned as wages for  work done

 … lei ama se stessa a un punto tale/ – statuetta d’avorio senza avorio,/ultimo tocco logico/al dilatarsi di uno splendore/guadagnato in mercede di un lavoro compiuto/. ..

Le due forme speculari di narcisismo dimostrano come Moore non ignori affatto la complicità femminile che si offre allo sguardo maschile come orizzonte esclusivo della propria identità negata.  Inseguire tutti i passaggi del testo ci porta in un dedalo di immagini a volte molto efficaci in altre meno, ma la sintesi è evidente in questo passaggio che introduce il finale:

… “Everything to do with love is mystery; it is more tha a day’s work/to investigate this science.”/One sees that  it is rare -/that striking grasp of opposites/opposed each to the other, not to unity,/

… “Tutto ciò che ha a che fare con l’amore/è mistero; e non basta un giorno solo/ad esplorare a fondo questa scienza”./Ci si accorge quanto sia cosa rara – /quel bizzarro insieme di contrasti/opposti l’uno all’altro, non all’unità/ …

Nessun cedimento al mito della complementarietà, magari con il tramite della procreazione e dell’invito cristiano a moltiplicarsi. Quella che Moore mette in scena è un’opposizione irriducibile che solo l’istituzione coatta del matrimonio cerca di ridurre. Al testo, aggiungerei un elemento extra testuale che, tuttavia, alla radicalità dei versi rimanda: la coerenza della poeta statunitense, tanto da apparire come una moderna e sorprendente figura virginea, o una paradossale Persefone, come la definisce Laura Cantelmo nel saggio già citato. Etica ed estetica sembrano combaciare in lei come una sfida aperta al romanzo famigliare, che sarebbe facile tentazione costruirle intorno, esistendone tutti gli elementi, a cominciare dal suo rapporto esclusivo e simbiotico con la madre. Eppure, il farlo sarebbe una scelta del tutto errata. Ogni tentativo di costruire intorno a Moore un’aneddotica, s’infrange contro un muro elastico che è fatto d’ironia e auto ironia. L’immagine che ci ritorna indietro, quanto più si voglia indagare nelle pieghe della sua biografia, è quella della Sfinge; ma una sfinge sempre pronta a sorridere, seppure da una distanza irriducibile per l’interlocutore.

Le note e l’attività editoriale

La lettura delle note permette di reperire le fonti delle molte citazioni e suggestioni, quasi sempre spiazzanti, certamente poco riconoscibili anche da chi possiede una cultura discreta. Esse sono la testimonianza dei suoi vasti interessi, prima di tutto scientifici. La letteratura non ha una presenza preponderante: i nomi più ricorrenti sono quelli di La Fontaine, Henry James e Anatole France, qualche citazione da Shakespeare; oppure i classici come Senofonte ed Erodoto. Si coglie una certa propensione per la cultura francese, ma filtrata dall’opera di autori poco di moda, seppure grandi; l’interesse per l’Italia è altrettanto presente, seppure in forma minore. Molti sono i riferimenti alla pittura e ai pittori, non sempre famosi, a parte Giorgione, Dürer e Leonardo da Vinci; ma, specialmente, il suo interesse  è rivolto alle riviste e, in particolare, quelle allegate ai grandi quotidiani americani, oppure illustrate, che si occupano di flora e fauna. Amava molto la divulgazione, sia quella alta sia quella più popolare. Nella breve introduzione alle note, scritta da lei stessa, Moore afferma fra l’altro:

 … Ma poiché in tutto ciò che ho scritto vi sono versi in cui il nucleo più interessante è preso in prestito, e non sono ancora riuscita a liberarmi di questo ibrido metodo di composizione, mi sembra semplicemente onesto dar conto delle mie fonti.11

Il corredo di note è quanto mai eclettico e vasto, ma sarebbe errato attribuirle una forma di citazionismo. Prima di tutto, come lei stessa afferma, il suo è uno scrupolo dettato da onestà intellettuale. L’affermazione va presa alla lettera, ma c’è un elemento in più da prendere in considerazioe e cioè il valore che per ha per lei l’analogia, o l’immagine che una semplice parola o una citazione le susciatano. In alcuni casi tali parole non vanno considerate nel loro contesto perché non esiste una vera teorizzazione a monte o a valle che giustifichi il prelievo: sono semplici spunti che innescano la sua immaginazione.

Infine la sua attività editoriale, che fu assai significativa per gli autori che tenne a battesimo. La casa editrice Dial Press fu fondata addirittura nel 1840, ma il periodo che interessa è quello che inzia nel 1929, quando la rivista diventa lo strumento di maggiore influenza nella diffusione della letteratura modernista nei paesi di lingua inglese. L’anno di svolta fu il 1920, quando Scofield Tahyer e James Sibely Watson rifondarono the Dial come rivista letteraria. Furono loro a pubblicare William Butler Yeats e specialmente The Waste land di Eliot negli Usa. Dal 1920 al ’23 Ezra Pound fu il corrispondente estero di riferimento. Nel solo primo anno di pubblicazione troviamo i massimi autori contemporanei, fra cui lei stessa. Fra gli autori troviamo pure Bertrand Russell perché la rivista propose una saggistica che andava oltre lo stretto carattere letterario, occupandosi di cultura in senso lato con una forte predilezione i saggi sulla pittura contemporanea; infine corrispondente dalla Germania fu Thomas Mann e Hugo von Hofmansthal da Vienna. Nel 1926, da collaboratrice, Marianne Moore ne divenne la direttrice insieme a Watson. 

Per concludere

Come collocare Marianne Moore nella letteratura statunitense del ‘900? Nel suo caso è assai più difficile ricostruire una genealogia: il dato biografico può avvicinarla a Emily Dickinson, mentre il suo verso lungo ha ragioni differenti da quello di Whitman ed è assai più controllato di quello a volte troppo debordante del Bardo statunitense. La natura è certamente presente anche in Dickinson, ma non nel senso grandioso che assume in Moore: il dato scientifico, peraltro, è troppo novecentesco per risalire troppo alla tradizione, se non nel senso dell’eclettismo già ricordato dei riferimenti cui Moore ricorre.  Una seconda questione riguarda le istanze femministe e la critica al patriarcato che qui e là e specialmente in Il matrimonio sono presenti nella sua opera. Quale fu l’atteggiamento di Moore nei confronti dei movimenti degli anni’60, che lei di certo conobbe poiché negli Usa iniziarono ben prima che nel contesto europeo? La domanda suona retorica e la risposta è scontata: se ne tenne a distanza. Rifiutò per se stessa il matrimonio, con una determinazione che non ammette repliche, ma vi è una nota aristocratica nel suo passare nel mondo come una monaca senza ordine monastico, capace di costruire intorno a sé il proprio eremo, senza alcun compromesso possibile. In questo rimane profondamente statunitense e individualista. Fu una donna libera nel difendere e preservare le sue scelte, ma la dimensione collettiva e sociale non le apparteneva. Anche tale atteggiamento affonda le sue radici nella filosofia individualista e trascendentalista statunitense, rigorosamente bianca, che ha in Ralph Waldo Emerson il padre e – almeno per una prima fase – anche David Thoreau, che poi di distanziò dal suo maestro con il saggio sulla Disobbedienza civile e la netta opposizione allo schiavismo. Per queste ragioni e per stile personale di vita, Moore non poteva che essere lontana dagli eccessi verbali e comportamentali degli anni ’60 e ’70. Seppe riconoscere in alcuni casi il talento di chi era molto distante da lei: infatti, fu severa nei confronti di Allen Ginzberg, ma lo pubblicò nella rivista Dial, riconoscendo in lui la sola voce veramente significativa di quei movimenti. 


4 Marianne Moore, Poesie, a cura e traduzione di Lina Angioletti,  pp.256-7

5 Recentemente si sono compiuti esprimenti opposti con le scimmie antropomorfe: alcuni uomini e donne si sono chiusi in gabbia insieme a loro, comportandosi nello stesso modo e imitandoli. Pare che uno degli effetti, dopo la sorpresa, sia stata una grande ilarità da parte delle scimmie.

6 Il saggio di Stevens in cui scrive di questa poesia si trova in L’angelo ncessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum. Il testo di Marianne Moore si trova in Marianne Morre, Le Poesie, traduzione acura di Lina Angioletti, Adelphi  Milano 1981 pp.204-5.

7 Op.cit. pp. 419-23.

10 Questa citazione è riportata anche nel libro di Adelphi come esergo al saggio di W.H. Auden sulla poesia di Marianne Moore, alla pagina 521. L’originale inglese si trova nella Prefazione al libro A Marianne Moore reader, New York, 1961, p. XVI.

8 Op.cit. 135-49.

9 Ivi.

10 Sul significato delle note e delle citazioni in Moore rimando a un capitolo successivo.

11 Op.cit. pag. 460.


1 Una parte del saggio che segue è stato pubblicato sul numero 17 della rivista Smerilliana del 2015. In tempi successivi ad esso, le nuove e ripetute letture del testo mi hanno permesso di cogliere valenze che erano state lasciate in secondo piano, in un certo senso fagocitate dal Bestiario della poeta, che certamente costituisce uno dei motivi di maggior fascino della sua opera. Pur rimanendo centrale anche nelle letture successive, esso va posto in relazione ad altre problematiche e in particolare riferita al tema del rapporto fra animali e specie umana, che è infondo un altro del grande mistero e fascino di questo testo.

2 Laura Cantelmo, Il mondo in una stanza  in Con la tua voce, a cura di Gabriela Fantato e nota critica di Maria Attanasio, La vita felice, Milano 2010. Il saggio è stato ripubblicato anche sulla rivista online Overleft.

3 T.S. Eliot, Il fascino di un microscopio: in Marianne  Moore, Poesie, Taduzione di Lina Angioletti, Adelphi, Milano, 1991, pag. 518

WILLIAM BLAKE: CANZONI DELL’INNOCENZA E DELL’ESPERIENZA

Premessa

La maggioranza dei critici ha evidenziato come la poesia di Blake trovi le sue fonti ispiratrici nella ribellione intransigente e senza compromessi al razionalismo. Perciò la sua ricerca di poeta, ma anche di intellettuale e artista incisore, sarebbe rivolta all’immaginazione pura, popolata di visioni interiori e densa di simboli a volte oscuri, sempre attingenti a fonti esoterico/religiose. Sebbene tutto questo sembri molto ovvio, Blake non si adatta così perfettamente come sembra a tale interpretazione. Il primo a metterne in discussione l’esclusività in Italia fu Agostino Lombardo, ma la storia dei rapporti fra Blake e la poesia nonché la critica italiane comincia ben prima di lui e cioè con Mario Praz, di cui esistono vecchissime traduzioni di alcune liriche, senza un preciso orientamento critico. Il punto di svolta fu l’antologia curata da Giuseppe Ungaretti.1 Al poeta va riconosciuto il merito di aver tolto Blake dall’oblio e di averlo proposto al pubblico italiano; ma anche il torto di averne canonizzato un’interpretazione, con qualche forzatura nelle traduzioni. Ungaretti lo considerava grande poeta nei Libri Profetici e si limitò a trattare gli altri testi contemporanei e i precedenti in modo da farli apparire preparatori a questi ultimi. Non è un caso che nella sua Antologia le poche Canzoni presenti rimandino al dopo, a parte La tigre, una lirica talmente famosa e celebrata da trovare posto in qualsiasi antologia. 

Bisogna attendere gli anni ‘80 del secolo scorso perché lo scenario cominci a cambiare.

Una prima svolta avvenne grazie a una scelta editoriale: la pubblicazione presso l’Editore Guanda dell’opera completa di Blake per  la traduzione e la cura di Roberto Sanesi. La ricca introduzione, nonché la possibilità di leggerlo per intero resero più evidente la complessità dell’opera blakiana.2

La lettura che propongo parte dalla convinzione che la linearità d’interpretazione critica in senso esoterico e religioso sia basata sulla rimozione del carattere originale delle Canzoni. Ciò che viene rimossa, in particolare, è la frattura che si produce nel pensiero e nella poetica di Blake. Parlo di frattura e non di sviluppo di alcune premesse piuttosto che altre perché è proprio su tale diversa analisi che si basa la costruzione di un Blake solo visionario ed esoterico. La diversità profonda e irriducibile che esiste fra Le Canzoni dell’Innocenza e dell’Esperienza e le altre opere, a partire dal Poemetto Il Matrimonio dell’Inferno e del Paradiso, per terminare con Jerusalem, è solo parzialmente radicata nella cronologia. Le Canzoni non sfociano nei Libri Profetici, ma sono contemporanee ad alcuni di essi, anche se il loro linguaggio così tipico e lo stile che le contraddistingue verranno abbandonati dal poeta. Insisto ulteriormente sull’esistenza di questa frattura mettendo in evidenza un’altra reticenza. Nessuno ha mai definito le Canzoni una raccolta minore, cosa che avviene sempre quando si riconosce in alcune opere il faticoso sorgere di un’ispirazione poetica che trova poi il suo compimento in opere successive e maggiori; ma vi è di più. Se si esamina un secolo di giudizi critici si scopre come siano proprio i Libri Profetici a essere più vistosamente criticati. Quale lettura diversa si può allora dare dello sviluppo della sua poetica, nonché  del suo pensiero?

William Blake, come altri giovani artisti e intellettuali fu un protagonista appassionato degli eventi storici e artistici del suo tempo. L’influenza che ebbe su di lui la Rivoluzione Francese fu pari a quella che ebbero sul suo pensiero le teorie di Swedenborg o la lettura della Bibbia. Tutto questo può risultare stridente e contraddittorio, ma i cambiamenti epocali che si stavano verificando mettevano a dura prova tutte le tradizioni e i riferimenti, aprivano la strada ai dubbi e alla molteplicità delle soluzioni possibili. La Rivoluzione Francese esercitò su di lui un’influenza più duratura di quella che ebbe su altri suoi contemporanei; penso per esempio a Wordsworth, passato in pochi anni dall’entusiasmo fanatico all’adesione a correnti reazionarie di pensiero. Gli eventi francesi suggerirono a Blake la necessità dell’impegno e lo si ricorda girare per Londra con il berretto frigio, fino all’arresto. Va detto a questo proposito che non si tratta della semplice sparata provocatoria di un artista d’avanguardia; portare il berretto frigio a Londra, quando lo fece lui, era qualcosa di più di un semplice gesto provocatorio. Blake, oltretutto, non era un Byron ante litteram e non ha mai avuto una propensione per il gesto fine a se stesso e amava assai poco esporsi in pubblico. Secondo Sanesi si può affermare che fosse un giacobino, ma credo che con Blake bisogna sempre essere molto attenti a non prendere posizioni troppo nette o a credere troppo a certi suoi interventi estemporanei, nei quali si trova facilmente un’affermazione e poi il suo contrario. La contraddizione è il vero motore del suo pensiero, come peraltro è lui stesso a dire in una pagina dei suoi scritti:

Do what you will, this Life’s a Fiction/And is made up on Contradictions.

Fate ciò che volete, questa Vita è una Finzione/costruita di Contraddizioni.3

Tuttavia il suo spirito democratico è confermato anche dall’entusiamo nei confronti del processo d’indipendenza delle colonie americane dall’Inghilterra. Agostino Lombardo notò per primo come gli eventi francesi suggerissero a Blake l’ispirazione più sociale e attenta alla concretezza del vivere, tematica che è abbondantemente presente nelleCanzoni, diventando invece sempre più rarefatta nel Libri Profetici, o tradotta in figure e visioni simbolico-religiose.

Poesia e poetica delle Canzoni

Nelle Canzoni la tensione religiosa, sempre presente, è affiancata da uno sguardo penetrante e attento, filosofico e al tempo stesso francamente realista, che trova i suoi oggetti e materiali nella realtà sociale del suo tempo. Per esemplificare tale diversità di fonti e ispirazioni vediamo due testi. Il primo è tratto dalle Canzoni dell’Innocenza e s’intitola the Chymney sweeper. Siamo nel 1794, cioè quando alcuni Libri considerati minori erano già stati scritti e pubblicati con la tecnica dell’incisione. Il secondo testo è uno stralcio da The Marriage of Heaven and Hell, probabilmente composto fra il ’90 e il ’92.

When  my mother died I was very young,/And my father sold me while yet my tongue/Could scarcely cry “weep! weep! weep! weep”!/So you chimneys I sweep, & in soot I sleep.// There’s little Tom Dacre, who cried when his head,/That curl’d like a lamb’s back, was shav’d : so I a said:/”Hush Tom,! Never mind it , for when your head’s bare/You know that the soot cannot spoil your white hair”.//And so He was quiet, & that very night/As Tom was a-sleeping, he had such a sight!/That thousand of sweepers, Dick, Joe, Ned & and Jack,/When all of them look’d up in coffins  of black.!!And by came an Angel who had a bright eye,/And he open’d the coffins & and set them all free;/Then down a green plain leaping, laughing, they run,/And wash in a river, and shine in the Sun.//Then naked and white, al their bags left behind,/They rise upon clouds and sport in the wind;/And the Angel told Tom, if he’d be a good boy,! He’d have God for his father, & and never want joy.//Ad so Tom awoke; and we rose in the dark,/And got with our bags & and our brushes to work./Tho’ the morning was cold, Tom was happy & warm;/So if all do their duty they need not fear harm./

Quando morì la mamma ero molto piccolo,/E mio padre mi vendette mentre/ la lingua era ancora solo pianto./ Ora pulisco i vostri camini e dormo nella  fuliggine.// C’è Tommy Dacre che pianse quando gli rasarono/la testa riccia come una schiena di agnello./Gli dissi: “Dai, Tom non prendertela/così la testa calva non scompiglia/i tuoi capelli bianchi.”// E lui allora si calmò e quella notte/ebbe nel sonno una visione/Migliaia di spazzacamini, Dick, Joe, Ned & Jack/imprigionati in bare di fuliggine,//E venne un Angelo con la chiave lucente/aprì le bare e li liberò e corsero/sulla verde pianura e risero/Poi si lavarono nel fiume e brillarono al Sole// Nudi e bianchi, lasciate le  sacche/volarono sopra le nubi, giocarono nel vento./E l’Angelo disse a Tom se sarai bravo/avrai Dio come Padre e non ti mancherà la gioia//E Tom si svegliò e ci alzammo nella tenebra;/E lavorammo con i sacchi e le scope/Era freddo quel giorno ma Tom era caldo e  felice./Chi fa il suo dovere nulla ha da temere.

Da The marriage of heaven and hell

As a new heaven is begun, and it is now thirty-three years since its advent: the Eternal Hell revives. And lo! Swedenborg is The Angel sitting at the tomb; his writings are the linen clothes folded up. Now is the dominion of Edom, & the return of Adam into Paradise; see Isaiah XXXIV & XXXV Chap:

Without Contraries is no progression. Attraction and Repulsion, Reason and Energy, Love and Hate, are necessary to Human existence.

From these contraries spring what the religious call Good & Evil. Good is the passive that obeys Reason [.] Evil is the active springing from Energy.

Good is Heaven. Evil is Hell.

/Poiché un nuovo cielo ha avuto inizio, e si è ora compiuto il trentatreesimo anno dal suo avvento, l’Inferno Eterno rivive. E ecco! È Swedenborg l’Angelo che siede presso la tomba: e quei sudari di lino ripiegati sono i suoi scritti. Ora è il regno di Edom, e il ritorno di Adamoin paradiso. Cfr Isaia, cap xxxiv e xxxv.

Senza contrari non c’è progresso. Attrazione Repulsione, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’esistenza Umana.

Da questi contrari ha origine ciò che i religiosi chiamano Bene e Male. Bene è il passivo che obbedisce alla Ragione. Male l’attivo che scaturisce dall’Energia.

Bene è il Cielo, Male è L’Inferno.6

Come si può notare, la distanza è grande: diversi sono il linguaggio, lo stile, il  rapporto fra senso e suono: vedremo poi in un secondo tempo quale trasformazione subirà Lo spazzacamino nelle Canzoni dell’Esperienza. 7

La raccolta fu concepita in modo unitario, sebbene le due sezioni siano state in un primo tempo pubblicate separatamente. Fra di esse vi è infatti un parallelismo evidente e questo è un motivo originale di quest’opera: dare lo stesso titolo a due liriche appartenenti ciascuna all’altra sezione, ma intorno allo stesso tema di fondo. Tale scelta stilistica fa balzare in primo piano la contraddittorietà dei due stati d’animo in evidente opposizione fra loro ed in tensione continua; ma anche nei casi in cui due liriche hanno titoli diversi, l’opposizione è altrettanto vistosa. Tale opposizione è in alcuni casi portata ai suoi estremi, come accade in queste due famose liriche  dal  titolo diverso ma speculari:  Divine image e Human  Abstract.

The Divine Image. 

To Mercy Pity Peace and Love,/All pray in their distress:/And to these virtues of delight/Return their thankfulness./For Mercy Pity Peace and Love/Is God our father dear:/And Mercy Pity Peace and Love,/Is Man his child and care./For Mercy has a human heart/Pity, a human face:/And Love, the human form divine,/And Peace, the human dress./Then every man of every clime,/That prays in his distress,/Prays to the human form divine/Love Mercy Pity Peace./And all must love the human form,/In heathen, turk or jew./Where Mercy, Love & Pity dwell,/There God is dwelling too.

L’immagine divina

A Clemenza, Pietà, Amore e Pace,/tutti si rivolgono nella disperazione/e a tali delizie virtuose/restituiscono gratitudine/Perché Clemenza, Pietà, Amore e Pace/Sono Dio e nostro Padre caro:/E Clemenza, Pietà, Amore e Pace/Sono l’uomo suo figlio e cura.//Perché Clemenza ha un cuore umano,/Pietà un volto umano:/Amore l’umana divina forma/la Pace il vestito umano//Così ogni uomo ovunque sia/e preghi nella sua disperazione/prega l’umana divina forma/Amore, Clemenza, e Pietà e Pace.//E  tutti devono amare la forma umana/ pagani, turchi ed ebrei:/dove hanno casa Clemenza, Amore e Pietà/Dio è in quella casa.

The Human Abstract. 

Pity would be no more,/If we did not make somebody Poor:/And Mercy no more could be,/If all were as happy as we;/And mutual fear brings peace;/Till the selfish loves increase./Then Cruelty knits a snare,/And spreads his baits with care. /He sits down with holy fears,/And waters the ground with tears:/Then Humility takes its root/Underneath his foot./Soon spreads the dismal shade/Of Mystery over his head;/And the Catterpiller and Fly,/Feed on the Mystery./And it bears the fruit of Deceit,/Ruddy and sweet to eat;/And the Raven his nest has made/In its thickest shade./The Gods of the earth and sea,/Sought thro’ Nature to find this Tree/But their search was all in vain:/here grows one in the Human Brain

L’astratto umano.

Pietà non esisterebbe più/se non facessimo di qualcuno un Povero:/E Clemenza non ci sarebbe,/Se tutti fossero felici come noi;//la paura reciproca porta pace;/fino a che non crescono gli amori egoistici./Poi la crudeltà tesse un cappio/e dispone con cura le sue esche./seduta con i sacri timori,/inonda la terra di lacrime;/poi l’Umiltà mette radici/sotto i suoi piedi/Presto si diffonde la triste ombra/del Mistero sopra la testa/di cui il bruco e la mosca si nutrono/E cresce il frutto dell’inganno,/dolce e rossastro alla bocca,/dove il Corvo ha fatto il nido nell’ombra più fitta./Gli dei della terra e del mare,/cercarono tale albero nella natura/ma non trovarono nulla;/ne cresce uno nella mente umana. 8

Nella prima lirica le parole Amore, Carità, Pace e Pietà, sono una rappresentazione simbolica in  forma di litania dei valori cristiani cui tutti si rivolgono nella disperazione. Nella seconda lirica lo stesso lessico, le stesse parole, diventano grazie a una sapiente partitura, espressione di falsa coscienza. La religione appare in questa seconda lirica come ideologia e gli accenti usati da Blake non sono distanti da quelli che userà Marx pochi decenni dopo quando definirà la religione oppio dei popoli. Certo, l’orizzonte di Blake è lontano da quello di Marx. Il poeta non vedrà la dimensione di massa e collettiva dei fenomeni urbani che osservava. Per lui non esistevano gli spazzacamini oppure i minatori o gli operai, ma sempre  lo Spazzacamino, l’Operaio, il Minatore.9

Tuttavia, non c’è forse in queste due liriche l’immagine di un mondo che si è spezzato e l’impossibilità di ricostruire quel ciclo armonico natura/esseri umani/dio che sostanziava l’esistenza di quei valori di cui si parlava nella prima lirica? Qui la rappresentazione poetica di Blake tocca un nervo scoperto della sua epoca storica. Non è proprio allora che, in Inghilterra, la Rivoluzione Industriale stava portando a compimento la separazione degli esseri umani dalla natura e dagli strumenti del loro lavoro?

Non era questo medesimo passaggio che colse Wallace Stevens più di cento anni dopo quando a proposito della società statunitense, si espresse nel modo che qui riporto da una nota del saggio dedicato a lui?

… La realtà è data dalle cose così come sono… Dapprima abbiamo una realtà che viene data per scontata, latente e tutto sommato ignorata. È l’agiata vita americana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e del primo decennio dell’attuale. C’è poi una realtà che ha cessato di essere irrilevante, e questo si è avuto quando, una volta accantonati i vittoriani, le minoranze intellettuali e sociali hanno cominciato ad occupare il loro posto, trasformando la nostra vita in qualcosa di potenzialmente instabile. Di fronte a questa realtà, molto più vitale, quella precedente appare simile a un libro di litografie stampate da Rudolf Ackermann o a uno dei libri di schizzi svizzeri di Töpffer…

In queste espressioni si ritrova una versione Usa di età dell’oro cui Stevens, a differenza di Blake, credeva fino a un certo punto fin dall’inizio; ma che segnava comunque un passaggio epocale. Le minoranze intellettuali di cui parla Stevens, vanno di pari passo con lo sviluppo dell’industrializzazione statunitense: saranno loro a dissolvere quanto di vittoriano esisteva ancora nella società dei puritani d’America, aprendo le porte ai ruggenti anni ’20, immortalati dai romanzi di Francis Scott Fitzgerald. Stevens si richiama maggiormente a Wordsworth, ma in alcuni passaggi e figure emblematiche come in quella del sarto, troviamo echi che si possono ricondurre anche a Blake. Peraltro, anche nell’Inghilterra della fine del ‘700 e poi dei primi trent’anni del successivo, le minoranze intellettuali erano già attive anche in quel contesto e avrebbero resa ancor più evidente la scissione in atto. Blake sentì la sinistra musica dei tempi prima di altri e spesso la polemica antirazionalista diventa, nei testi delle Canzoni, molto di più una polemica antiborghese che scaglia i suoi strali sugli aspetti drammatici di una realtà sociale sempre più cinica e violenta nei confronti dei più deboli.

Il linguaggio  e  la scelta  stilistica  sono  naturalmente fondamentali in un’opera letteraria, perché ne sono il tratto distintivo saliente. Gli esempi già proposti sono sufficienti  a  dimostrare  la  lontananza  che  esiste  fra le Canzoni e i Libri Profetici: è un argomento che possiamo archiviare. Il titolo stesso dell’opera suggerisce che si tratta di componimenti popolari, solitamente brevi, generalmente lirici. Per i suoi ritmi, la canzone è lontana dalla solennità del linguaggio oracolare e visionario. Il primo componimento della raccolta, nella sezione Canzoni dell’Innocenza è assai importante a tale proposito:

Introduction

Piping down the valleys wild/Piping songs of pleasant glee/On a cloud I saw a child./And he laughing said to me./Pipe a song about a Lamb;/So I piped with merry chear,/Piper pipe that song again—/So I piped, he wept to hear./Drop thy pipe thy happy pipe/Sing thy songs of happy chear,/So I sung the same again/While he wept with joy to hear/Piper sit thee down and write/In a book that all may read—/So he vanish’d from my sight./And I pluck’d a hollow reed./And I made a rural pen,/And I stain’d the water clear,/And I wrote my happy songs/Every child may joy to hear

Introduzione

Suonando lungo valli selvagge/suonando canzoni di gioia e piacere/Sopra una nuvola vidi un bambino,/Ed egli mi disse://”Suona una canzone dell’Agnello!”/E io suonai con allegria/”Dai suona ancora, suonatore, la canzone.”/Ed io suonai di nuovo le stesse canzoni/mentre lui piangeva di gioia.//”Suonatore, lascia il tuo flauto, siediti e scrivile/in un libro che tutti possano leggere”./Scomparve poi dalla mia vista,/ed io colsi una canna vuota//ne feci una penna rurale/macchiai l’acqua limpida/e scrissi le mie canzoni felici/ogni bambino le può ascoltare con gioia. 10

Si tratta di una dichiarazione di poetica e i testi che seguono sono coerenti con tale intento. La difficoltà delle Canzoni non deriva dalla loro oscurità, ma discende paradossalmente dalla loro semplicità, dalla chiarezza disarmante di certe soluzioni, dalla trasparenza d’immagini che sembrano tanti quadretti naif. È sorprendente constatare come non sia stato messo in evidenza un fatto che i testi invece documentano: la rottura rispetto ai modelli della poesia inglese settecentesca, fu Blake a compierla, prima che Wordsworth e Coleridge dichiarassero pubblicamente tale intento nel famoso Preface alle Lyrical Ballads. Se si considerano alcuni punti di quel documento, essi sono ben presenti in Blake e sono precedenti. Vi sono almeno tre elementi significativi comuni: l’irrompere del parlato nella versificazione, l’uso del linguaggio comune e popolare nella poesia, i prelievi diretti dalla tradizione folkloristica. Altre caratteristiche non sono presenti, così come saranno diverse le soluzioni. Infine, un tema controverso riguarda l’Arcadia: si può dire che Blake ne fosse un esponente? Non mancano i testi che giustificano tale giudizio e secondo il critico Gerald Parks, la sua appartenenza a quella corrente è data per scontata. In particolare penso che egli abbia in mente la prima sezione e cioè i Canti dell’Innocenza. 11

Tuttavia un certo sentore di arcadia è presente anche in Wordsworh, per esempio in uno dei suoi testi più famosi: The solitary reaper. In lui, però e a differenza di Blake, prevale sempre di più l’espressione del sentimento legato ai sensi, la sua forza ed è per questo in definitiva che riconosciamo nella sua opera gli stilemi romantici. In Blake vi è una netta contrapposizione fra lo scenario agreste e quello urbano: anche in Blake la scena rurale è idilliaca, ma perché il poeta non saprà cogliere il nesso sociale che trasformerà milioni di braccianti e piccoli agricoltori in fuga dalle campagne in tanti spazzacamini e poi in operai nelle città. Nel testo blakiano si passa dal piano della realtà agreste – che certamente può essere ricondotta a un paesaggio idilliaco e quindi vicino al movimento dell’Arcadia – al simbolico religioso. Il bambino che invita il poeta prima cantare e poi a scrivere una canzone dell’agnello è una figura angelica, cioè un mediatore con il divino.12

Tuttavia, Blake non ha affatto una visione idealizzata del lavoro in generale, solo che le figure prevalenti della sua critica sono di carattere urbano, a parte gli spazzacamini che si ritrovano un po’ ovunque. Anche il testo di Wordsworth ha elementi che lo riportano all’Arcadia, perché bisogna davvero ignorare cosa succedesse nella campagne inglesi in quel momento storico per immaginare una mietitrice come la giovane della poesia. La protagonista del testo di Wordsworth incarna il rimpianto per un mondo contadino che non esiste più. In Blake tali elementi arcadici sono più presenti, specialmente nelle Canzoni dell’Innocenza, ma vengono rovesciati nel contrario di una idealizzazione nella seconda parte del testo.

Questa constatazione rende ancora più bizzarra una certa critica che sottolinea sempre come la diversa fortuna e successo di Wordsworth, Coleridge e Blake andasse cercata nella natura ostica del testo blakiano, nella sua complicata partitura. Come si può vedere facilmente, tali giudizi rimuovono l’esistenza delle Canzoni e prendono in considerazione solo la simbologia del Libri.

La minor fortuna di Blake va cercata in altro: prima di tutto nel suo atteggiamento pre moderno per quanto attiene il rapporto con il pubblico.

Wordsworth e Coleridge, pur detestando formalmente la società industriale, furono più consapevoli dei suoi meccanismi; la loro Prefazione alle Lyrical  Ballads fu un vero manifesto che suscitò un forte richiamo sull’opera. Non solo: i cenacoli e le serate di letture erano frequenti e a esse partecipavano anche poete. Insomma, i due seppero ben curarsi delle necessità di creare un pubblico della poesia che coinvolgeva anche le donne. Blake, nonostante certe frequentazioni, rimane un artigiano e in questo senso appartiene a un mondo preindustriale e pre moderno. Rifiutava sdegnosamente di leggere in pubblico per esempio. La sua visione del lavoro artistico rifugge dagli aspetti salottieri e di massa che si andavano diffondendo. Wordsworth e Coleridge, invece, hanno molti tratti in comune con l’artista sradicato dalla società da un punto di vista del loro modo di vita; ma ben più integrati nei suoi meccanismi sociali. Essi furono i primi artisti/intellettuali di una nuova era. Blake rimase al di qua della problematica che riguarderà i rapporti fra l’artista moderno ed il suo pubblico, anche se per altri aspetti, fu addirittura più moderno dei due romantici della prima generazione; per esempio nel cercare una forte simbiosi fra la pittura e la scrittura attraverso l’incisione. Fu uno dei primi artisti dell’epoca a sentire la necessità di una sinergia fra le arti e se pensiamo all’’800 dovremo aspettare qualche decennio perché un altro grande artista – Richard Wagner – parlasse di arte totale. Ciò che non va mai dimenticato di Blake, è la sua perenne oscillazione fra due tendenze e mondi che lo lacerano in continuazione: in lui convivono aspetti moderni e pre moderni in una continua tensione, anche se alla fine saranno i secondi a prevalere.

Vi è poi un’altra ragione della sua minore fortuna, connessa a un fattore più complesso e che toccherà in sorte anche a Wordsworth e Coleridge, nonostante la loro maggiore  capacità  di essere uomini del mondo nuovo che stava nascendo. Con la Rivoluzione Industriale il pubblico borghese in senso moderno, assegnava fatalmente un ruolo diverso alla poesia nell’ambito delle arti e della cultura. Quel programma di rinnovamento linguistico da cui sia Blake, sia i due romantici erano partiti, sarà sviluppato per tutto l’800 – e con ben altri mezzi – dai prosatori, dai romanzieri, dai critici letterari e d’arte – si pensi al ruolo di John Ruskin – dai giornalisti. Il rinnovamento prenderà quella strada, approfondendo una tendenza che era già nata e si era consolidata nel ‘700, durante il periodo più  stabile  della  società  inglese  dopo che i rivolgimenti del secolo precedente, erano culminati nella Glorious Revolution. Il mandato di fungere da mediatori sociolinguistici, non era più esclusivo dei poeti e dei filosofi; dopo i romanzieri sarà la volta degli scienziati sociali e degli scienziati tout court, degli antropologi, degli economisti e dei politici. Con la Rivoluzione Industriale gli intellettuali moderni diventano un gruppo sociale con dinamiche proprie anche di potere. Baudelaire è ancora lontano, ma s’avvicinano i tempi in cui l’aura cadrà dalle teste dei poeti laureati. Questo passaggio sfuggì a Blake nella stessa misura in cui sfuggì a Wordsworth e a Coleridge, ma a Blake in definitiva poco importava. Agli altri due sì, ma a leggere le loro biografie, specialmente quella di Wordsworth, si ha la sensazione di finire su un binario morto.

Le fonti linguistiche delle Canzoni

Due mi sembrano le più importanti: la tradizione e il folklore popolare da un lato, i canti del radicalismo puritano dall’altro. Per quanto riguarda la prima è interessante notare come, nella lirica The Blossom, sia citato Pretty Robin, il pettirosso, che rimanda ai canti popolari della festività di San Giovanni a metà giugno, con tutti i rimandi  precristiani  e  pagani  che esso ha:

Merry, Merry Sparrow!/Under leaves so green/A happy Blossom/See you swift as arrow/Seek your cradle narrow/near my Bosom.//Pretty, Pretty Robin/Under leaves so green/A happy Blossom/Hears you sobbing, sobbing/Pretty, Pretty Robin,/Near my Bosom:

Passero, Passero felice!/Sotto foglie così verdi/un Fiore gioioso/ti vede veloce come freccia/mentre cerchi/la tua minuscola culla accanto al mio seno//Sei bello pettirosso/sotto foglie così verdi/un fiore allegro/ti sente piangere e piangere/Bel pettirosso/accanto al mio seno. 13

Infine, l’uso del dialogo nei testi poetici. Esso è fra le scelte stilistiche più suggestive delle Canzoni e apre le porte a sviluppi successivi che percorreranno la poesia inglese del secondo ottocento: si pensi al dramatic monologue di Robert Browning. Sono in molti ad essersi avvalsi di Blake, anche se non sempre lo hanno riconosciuto o si sono ricordati di lui.

Concludo questa parte lasciando l’ultima parola di nuovo a tre testi. Appartengono tutti alla seconda delle sezioni, Canzoni dell’esperienza. Il primo è Lo Spazzacamino simmetrico e dissonante rispetto al testo che si trova nella prima sezione. Il secondo, The Garden of Love, riprende con modulazioni leggermente diverse gli stessi temi di Human abstract. Il terzo s’intitola Londra ed è assai interessante perché si tratta della sola vera incursione di Blake nello scenario nuovo della grande città industriale.

The Chimney Sweeper

A little black thing among the snow:/Crying weep, weep, in notes of woe! /Where are thy father & mother? say?/They are both gone up to the church to pray./Because I was happy upon the heath,/And smil’d among the winter’s snow:/They clothed me in the clothes of death,/And taught me to sing the notes of woe./And because I am happy, & dance & sing,/They think they have done me no injury:/And are gone to praise God & his Priest & King/Who make up a heaven of our misery. t

Una piccola cosa nera in mezzo alla neve/ che piange ue ue tristemente/” Dove sono tuo padre e tua madre, dimmi?”/” Sono in Chiesa a pregare.//” Poiché ero felice nella brughiera/ E ridevo in mezzo alla neve invernale:/mi vestirono con gli abiti della morte,/mi  insegnarono  a  cantare  le  note  della tristezza”//” E poiché sono felice e ballo e canto/ pensano di non avermi ferito/e sono andati ad adorare Dio, i suoi Preti  e il Re/che han fatto un paradiso della  nostra miseria.”

The Garden of Love.

I went to the Garden of Love,/And saw what I never had seen:/A Chapel was built in the midst,/where I used to play in the green.//And the gates of this Chapel were shut,/And “Thou shalt not”writ over the door;/So I Turn’d to the Garden of Love/That somanyswee flowers bore;/And I saw it wa filled woth graves,/And tomb-stones where flowrrs should be;/And priensts in balc gowns where walking there round/And binding with briars my joys & desiers./

Andai al Giardino dell’Amore,/e vidi ciò che mai avevo visto:/una Cappella stava nel mezzo,/dove nel verde avevo giocato.//Erano chiusi i Cancelli della Cappella,/”Tu non devi” scritto sopra la porta;/volsi lo sguardo al Giardino d’Amore/che tanti generò dolci fiori;//Vidi ch’era cosparso di tombe/e lapidi di pietra dov’erano i fiori;E Preti in nere gonne giravano in tondo/e legavano coi rovi le mie gioie e i desideri./

London

I wander thro’each charter’d street,/Near where the charter’d Tames does flow,/And mark in every face I meet,/Marks of weekness, marks ov woe.//In every cry of every Man,/In every Infant’s cry of fear,/In every voice, in every ban,/the mind-forge’d manacles I hear.//How the Chimneys-sweeper’s cry/every black’ning Church appals;/ And the hapless Soldier’s sigh/Runs in blood down  Palace walls.//But thro’ midnight streets I hear/How the youthful Harlot’s curse/Blasts the new born Infant’s tear,/ And blights with plagues the Marriage hearse./

Vago per ogni celebre via,/Là dove scorre il famoso Tamigi,/E noto in ogni volto che incontro/Segni di debolezza, segni di dolore.//In ogni grido di ogni Uomo,/In ogni urlo di paura di un bambino,/In ogni voce, in ogni divieto/Io Sento le catene forgiate dalla mente //Come l’urlo dello Spazzacamino/sporchi di nero e atterisca ogni chiesa;/e il sospiro del Soldato sventurato/insanguinare le mura del Palazzo.//Io sento nelle strade di mezzanotte/come la maledizione della giovane prostituta/spegne la lacrima del noenato/e copre di peste la bara del matrimonio./ 14

La poesia è scritta al presente indicativo, il suo tono è dolente, nel leggerla viene spontaneo scegliere il sottovoce, una nota costante di sventura avvolge il testo in un’atmosfera lugubre e infernale. Pur trattandosi di un testo isolato, i modi con cui il poeta si accosta alla città anticipano scenari che saranno celebrati da Baudelaire qualche decennio dopo, con una differenza sostanziale: mentre per il poeta francese la città può essere sordida ma anche fonte di esperienze straordinarie, per Blake, la città industriale è un Inferno nell’al di qua. Una eco di quest’ultimo testo lo ritroveremo in un passaggio molto celebrato di Waste Land

Per concludere

La collocazione di Blake nella cultura e nella poesia di fine ‘700 e inizi ‘800 ha arrovellato i critici, dal momento in cui il poeta è stato veramente scoperto e cioè a metà del 1800 e questo è certamente sorprendente se si considera che era invece conosciutissimo da tutti, tanto che ci sono battute su di lui e aneddoti raccontati dai contemporanei.15 Tuttavia, la particolarità delle sue scelte editoriali, fecero sì che le sue opere fossero stampate e messe a disposizione di pochi amici, concepite come veri e propri libri d’arte in cui la parola e l’incisione, la struttura grafica, la stessa modalità di stampa ne facevano dei pezzi unici replicati in pochi esemplari. La sua attività d’incisore vanta fra l’altro l’illustrazione assai preziosa della Divina Commedia.

La prima biografia autorevole del poeta è quella di Alexander Gilchrist del 1863! Da quel momento inizia il dibattito sulla sua collocazione: proto romantico o esponente dell’Arcadia? Oppure romantico non riconosciuto? Esoterico irrazionalista o anomalo giacobino?

Böhme e Swedenborg sono certamente i suoi punti d’arrivo e vanno in una direzione ben definita, ma lo diventano solo in ultima analisi e la stessa oscurità dei simboli blakiani e del suo linguaggio hanno anche una motivazione mimetica, annunciata dallo stesso poeta, necessaria secondo lui a proteggerlo dalla reazione, dall’oscurantismo e persino dalla censura. Dunque la scelta di passare dal linguaggio delle Canzoni a quello dei  Libri ha pure una motivazione extra letteraria. Esagerava nel ritenersi così pericoloso per il potere? Sicuramente sì e nella sua eccentricità più volte ricordata da tanti è possibile leggere anche un disagio e un disturbo più profondi; ma che una delle ragioni del ricorso al mimetismo fosse quella di nascondersi al potere è indubbio.

L’immagine che mi suggerisce il suo tormentato e affascinante percorso è quella di un uomo che sente la terra sotto i suoi piedi spaccarsi e dividersi in due continenti che si stanno separando. Lui tenta di resistere con un piede su entrambi, ma questo alla lunga non è possibile. L’intento unitario che ispirava le Canzoni, peraltro, deve essere apparso a lui stesso come il sogno di una ricongiunzione impossibile fra i due continenti. Esse, infatti, non rappresentano soltanto due stati della persona umana, ma due diverse ere nello sviluppo dell’umanità; un’età  dell’oro – per Blake lo era davvero e dunque è lecito usare tale espressione – che sta finendo, un oscuro nuovo che nasce e rispetto al quale egli manifesta una lacerante ambivalenza; affermazioni che possono essere ricondotte all’adesione verso questo nuovo, convivono con il rifiuto radicale e irriducibile del medesimo. Quando fu costretto o si sentì costretto a scegliere su quale continente continuare a vivere, Blake si rivolgerà a un progetto grandioso: quello di ricercare in un nuovo sincretismo adatto ai tempi la religione del futuro. Il percorso che lo porterà ai Libri profetici inizia dalla Bibbia del 1611, cioè la Bibbia per eccellenza degli inglesi, che esercitò anche un ruolo di alfabetizzazione di massa e contribuirà fortemente al processo rivoluzionario e repubblicano di Cromwell. Proprio ai Levellers e ai Diggers, le ali più radicali  della Rivoluzione continuerà ad ispirarsi Blake e saranno loro, in definitiva, a portarlo a Swedenborg. Come si vede è una tradizione molto particolare e molto anglosassone. Da quel momento in poi Blake si scaglierà in modo veemente contro tutti gli aspetti della modernità e questa è la ragione che mi induce a prudenza quando si usano per lui parole come giacobino o anarchico. È vero che sostenne, per esempio, il libero amore, seguendo il pensiero di Godwin e Wollstonecraft e la cosa gli costò certamente le critiche dei benpensanti; ma è pur vero che rimase fedelissimo alla moglie per tutta la vita, perché in definitiva non sentiva in quelle idee il proprio habitus.

Blake, infine, rimane pre moderno sotto due aspetti fondamentali ed è proprio rispetto a tali questioni che, per quanto mi riguarda, va nettamente separato il poeta dal pensatore.

Prima di tutto la sua ostilità alla scienza, ribadita in prese di posizioni nei confronti di Bacon e di Newton, confondendo nel primo caso la parte scientifica del suo pensiero con la sua rozza filosofia. Insofferente e ostile a Voltaire – come lo capisco! –  era in secondo luogo irriducibilmente anti materialista e fu questo in definitiva ciò che lo spinse nella direzione di un esoterismo sempre più oscuro, nel quale è assai difficile seguirlo.

Infine, mi piace però ricordarlo anche per un altro aspetto. Blake fu un uomo profondamente buono e mite, in un’epoca di grandi antipatici – Wordsworth – di tigri che stavano diventando squali sociali feroci e pronti a tutto – i padroni delle ferriere e altri squali. C’è in lui la conservazione di un’innocenza primaria che fu la sua difficile salvezza, ma che lo condannò in molti momenti all’isolamento, alla solitudine e all’incomprensione.


1Agostino Lombardo fu allievo di Mario Praz e appartiere a quella generazione di critici e accademici che hanno fondato l’anglistica e l’americanistica in Italia insieme a Melchiorri. Fu docente anche a Milano per alcuni anni e fu proprio allora che assistetti a due sue lezioni alla facoltà di Lingue della Bocconi: una su Troilo e Cressida di Shakespeare e l’altra su Blake. Ungaretti aveva cominciato a interessarsi a Blake fin dal 1936, quando pubblicò qualche traduzione del poeta inglese in un’antologia che comprendeva anche traduzioni di altri poeti fra cui Gongora e Pierce. Nel 1965, uscì Visioni per gli Oscar Mondadori, interamente dedicato a Blake.

2 Nel 1980 Sanesi tradusse per Guanda I Libri profetici, nell’’84 Opera intera di W. Blake, seguita dalla traduzione del Paradiso perduto di Milton nel 1987. Particolarmente importante è il saggio introduttivo di Sanesi stesso ai Libri profetici: per chi voglia avventurarsi nella decifrazione dei simboli e delle figure simboliche che popolano i testi si tratta di uno strumento imprescindibile nella critica italiana. Quanto a quella anglosassone e statunitense, i maggiori critici se ne sono occupati. L’opera profetica di Blake è particolarmente adatta a un testo come Il grande codice di Northorp Frye. Con questa espressione il critico intende la Bibbia, considerata come uno degli archetipi dell’intera letteratura occidentale.

3 Il giudizio di Sanesi, ripreso più volte,  si trova nel saggio introduttivo ai Libri proftici Guanda 1984. La citzione  si trova in W.Blake, Complete  writings, pag. 751. Le traduzione dei testi delle Canzoni sono mie. Il criterio che ho cercato di seguire nella traduzione privilegia il mantenimento del ritmo e del tono, sacrificando quasi sempre la rima, assai difficile da rispettare a causa di alcune caratteristiche oggettive della lingua inglese, per esempio l’esistenza di rime grafiche che tuttavia non sono rime sonore, oppure il contrario. Quanto all’uso delle miuscole ho deciso di rispettare l’uso che ne fa il poeta, nonostante più di un critico abbia notato come Blake sia piuttosto disinvolto in materia.

6 Il libro da cui ho tratto l’originale è W. Blake Canzoni dell’innocenza e dell’esperienza, Edizioni Studio Tesi, contiene un’importante introduzione di Gerald Parks. L’ho scelto per l’importanza del saggio introduttivo. Il secondo testo è tratto da W. Blake Libri profetici, The marriage of Heven and Hell, a cura e traduzione di Roberto Sanesi,  Biblioteca della Fenice, Guanda, 1980 pag.18.  

7 In origine Blake diede all’opera anche un sottotitolo: Songs of Innocence and Songs of Experience: Shewing the Two Contrary States of the Human Soul. Canzoni dell’innocenza e canzone dell’Esperienza: Che mostrano i due stati contrari dell’animo umano. Il sottotitolo è assai importante perché in esso il poeta definisce in termini chiari  quale fosse il suo intento.

8 Op. cit. pp.28 e 118.

9 L’affermazione può sembrare troppo forte se si considera che Blake frequentò per un certo periodo il circolo radicale e anarchico di William Godwin e Mary Wollstonecraft. In certe dichiarazioni, in effetti, Blake sembra comprendere la dimensione sociale e di massa dell’impoverimento collettivo causato dalla Rivoluzione Industriale, ma la sua vicinanza ai deboli e agli umili non uscirà mai del tutto dalla dimensione morale per abbracciarne una politica e sociale. In ogni caso rinvio alle conclusioni per una più attenta riflessione su questa tematica. 

10 Il testo in inglese è tratto da W. Blake Canti dell’innocenza e dell’esperienza, introduzione di Gerald Parks, Edizioni Studio tesi, Pordenone 1995,  pag. 6.

11 Gerald Parks si sofferma su questo problema nel saggio introduttivo di cui sopra.

12 Questo passaggio dal bambino all’Angelo ha fatto scrivere a una parte della critica, che le Canzoni preparano i Libri Profetici.  Tale affermazione mi sembra ingiustificata sotto due aspetti. La cronologia la smentisce perché alcuni dei Libri furono scritti in contemporanea alle Canzoni e quindi le differenze di stile e linguaggio sono una scelta ben consapevole compiuta da Blake. In secondo luogo, la decisione di indirizzare la propria ricerca verso un linguaggio esoterico sempre più oscuro, avverrà più tardi e fu determinata anche da fattori extra letterari, come vedremo.

13 Le leggende intorno al pettirosso sono diffuse in tutto il mondo. Nel folklore francese e britannico era associato nientemeno che al dio del tuono Thor; più simpaticamente era l’uccellino che indicava come l’inverno fosse alle porte e infatti tutti i riferimenti all’uccellino si richiamano al solstizio d’inverno. Nelle campagne inglesi e scozzesi era assai diffusa – non so se lo sia ancora – una filastrocca che cantavano i bambini, dal titolo Who killed Cock Robin? Chi ha ucciso il pettirosso (Robin in inglese). Secondo la leggenda era Primavera a ucciderlo con una freccia e questo significava che l’inverno era finito. Anche Frazer, ne Il ramo d’oro,  si sofferma su molti aspetti diversi dei culti celtici e anglosassoni legati al passaggio dall’inverno all primavera, ma in lui troviamo anche qualcosa di più che ci riporta a Blake. Nel capitolo intitolato Il culto degli alberi nell’Europa moderna, vine ricordata una maschera molto diffusa per la festività del Primo di maggio, o Cantar maggio, cerimonie diffuse anche in Italia. La maschera ricordata da Frazer è quella di Jack-in-the-green (Gianni nel verde), uno spazzacamino che gira per la festa dentro una struttura di vimini ricoperta di foglie.  In James. G. Frazer, Il Ramo d’oro, volume primo, Euroclub, su licenza Boringhieri, Cartiere del Garda, pag. 205. 

14 William Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, Edizioni Studio Tesi,  Pordenone 1984, pp. 88-9, 108-9 e 114-15.

15 C’è una parola che ricorrre spesso negli aneddoti su Blake, facilmente reperibili anche in rete: eccentricità. In qualche caso ci si spinge più in là, parlando di bizzarrie e anche di momenti di diffidenza paradossale che sconfinano in atteggiamenti che possono far pensare alla mania di persecuzione.

IL LIBRO CONTRO LA MORTE

Premessa

Il saggio qui di seguito è stato pubblicato la prima volta sulla rivista online Overleft nel 2021, nella Rubrica Dopo il diluvio: www.overleft.it.

L’ultimo libro di Elias Canetti pubblicato in Italia ha un titolo ovvio se si pensa a gran parte della sua opera: un incessante lavorio attraverso miti, aforismi, sentenze fulminanti, narrazioni, tutti rivolti a una non accettazione della morte. Questo tema è presente anche nei momenti più apparentemente leggeri dell’Autobiografia. Ciò non toglie che di fronte a tale perentorietà non si rimanga ugualmente sconcertati e la critica, forse per imbarazzo, ha trovato diversi modi per aggirare il problema o tenerlo sullo sfondo senza renderlo troppo minaccioso. Il merito dell’edizione italiana, curata da Ada Vigliani, è invece proprio quello di prendere il toro per le corna. Il saggio di Pater von Matt, postfazione al testo, colma una lacuna e apre nuove prospettive alla critica canettiana. Il suo merito sta nel prendere l’autore sul serio e alla lettera, accettando il confronto con questo apparente assurdo che è il proposito di non cedere alla morte, di non accettarla, anzi di avanzare l’utopia di un’umanità che prima o poi riuscirà a liberarsene. Matt evita di parlare di metafora, parola che ormai serve spesso come passpartout quando si vuole scansare un argomento spinoso. Canetti, peraltro, è impregnato di cultura ebraica, pur essendo critico di molti suoi aspetti; in quella cultura il ruolo della metafora non ha la preminenza che ha in altre. La predilezione di Canetti per l’aforisma, la sentenza breve che ha alle volte anche forti connotati narrativi, pesca a piene mani proprio in quella tradizione: dalla storiella più o meno comica, alla parabola. Se mai a volte compare la similitudine.

L’idea di un libro dedicato interamente a questa tematica, peraltro, accompagnò Canetti per l’intera vita. Peter von Matt scrive di taccuini pieni di appunti e centinaia di matite consumate, tanto che l’inedito di Canetti sembra assumere le dimensioni del famoso baule di Pessoa dal quale continuano a uscire scritti, come peraltro conferma la figlia Johanna in una recente intervista dove parla del rapporto del padre con la religione:

«Elias Canetti non era credente, ma dedicò alla religione molte delle sue riflessioni, circa 1.500 pagine. Nel 2019 verrà pubblicato un libro con le più importanti». Ma a quante pagine ammontano in totale gli appunti canettiani mai pubblicati? «Tra le dodici e le quindicimila»

In realtà, poi, Canetti lo ha lasciato incompiuto il suo libro sulla morte, probabilmente volutamente e anche in questo paradosso occorre andare a leggere.

Il saggio di von Matt cerca di collocare l’opera e l’intento di Canetti accennando ad altre imprese letterarie altrettanto ardue, ma a un certo punto della sua disamina, consiglia il lettore di non seguire oltre un certo limite lo scrittore nel suo proposito e di dedicarsi piuttosto alla ricchezza del testo. Si tratta di un consiglio ragionevole, ma solo in ultima istanza perché la curiosità rimane per quello che sembra un vero e proprio enigma. Una domanda ovvia si pone: perché un progetto così radicale e apparentemente irricevibile nella sua concretezza fattuale? Siamo di fronte alla reincarnazione di un Orfeo impazzito che vuole sbarrare le porte dell’Ade e farli ritornare tutti in vita? Oppure Canetti pensa forse alla scienza (non dimentichiamoci che fu pur sempre un chimico mancato), oppure bisogna cambiare radicalmente il tipo di domanda se si vuole tentare di capire? Von Matt stesso dice che forse occorre allontanarsi dal perché ed è quello che ho tentato di fare, abbandonando io stesso la domanda che mi sono posto per prima.

Una grande scrittura contiene sempre in sé anche la scelta felice di un punto di vista particolare sul mondo o su di sé o su qualsivoglia cosa, cioè un luogo da cui lo scrittore parla e scrive  e che in qualche caso è stato addirittura il primo a scoprire.

Mi è venuto in mente, allora, un gioco molto semplice: proviamo a pensare a qualche grande autore, per esempio i primi che sono venuti in mente a me, ma ognuno può metterci quelli che crede. Da dove parla e scrive Baudelaire? Facile dirlo: dalle viscere di Parigi, da una città notturna o raramente albeggiante, dalle sue strade più malfamate o dal camerino dove scrive al lume di una lampada a petrolio, più o meno in compagnia dell’oppio. Insomma se abbiamo bisogno di dialogare con lui, perderemmo un po’ di tempo ma sapremmo dove trovarlo ed è stato il primo a scoprire la poeticità della grande città tentacolare. Quanto a Jane Austen non può che essere nel salotto di casa o in quello di un’amica con cui si intrattiene bevendo il te. Per non parlare di Hegel: anche quando dorme non può che essere alla sua scrivania, oppure in strada, lungo le poche centinaia di metri che lo separano dall’aula universitaria.

Da dove parla e scrive Canetti?

Qui il pensiero si blocca e anche le risposte più semplici che si affacciano (i caffè di Vienna, quelli di Berlino, il mitico tram delle scorribande serali verso il Grinzig), svaniscono subito ricordando come Canetti, presente ovunque, sembra non venga mai notato da qualcuno. È lui a dirci che frequenta quei luoghi, ma era proprio vero? E che dire della sera in cui ritornando a casa dal Grinzig s’imbatte in un delinquente comune, un ladro e riesce a intrattenerlo, con la sua conversazione; anzi a irretirlo, tanto che alla fine potremmo persino pensare che gli abbia rubato lui il portafoglio piuttosto che il contrario? Su Brecht ne dice di tutti i colori ma in Brecht non vi è alcun cenno ai loro incontri. E nel caffè di Vienna dove si scaglia una volta in modo veemente contro la pulsione di morte freudiana è proprio lui a parlare, oppure quella strana figura silenziosa e cupa  – una sorta di Sarastro piombato in mezzo a noi – che se ne sta solitario, seduto a un tavolo di fronte a quello dove avviene la conversazione? Se non avessimo le fotografie che lo ritraggono un po’ ingessato mentre ritira il Nobel all’Accademia di Svezia si sarebbe tentati di dire che Canetti è un’invenzione della letteratura europea novecentesca, una specie di parto spontaneo della medesima, piuttosto che un autore in carne ed ossa. Alla reiterazione della domanda – da dove parla e scrive Canetti? – si sarebbe allora tentati di rispondere che la sua presenza nel mondo letterario e nel mondo tout court sembra governata dal principio di indeterminazione di Heisenberg e da tutto quella che la fisica einsteiniana e post einsteiniana e quantistica ha scoperto. Lo stesso può dirsi della sua morte, che sembra essere un’ovvia conseguenza del suo grande progetto di lotta contro la medesima. Canetti morì nel sonno e dunque in un certo senso ha vinto la sua battaglia perché la morte stessa ha dovuto sorprenderlo per poterlo afferrare e si potrebbe persino arrivare a dire che se si fosse accorto della sua presenza avrebbe trovato il modo di sgattaiolare via. Allora, forse il suo incredibile progetto va visto non tanto alla luce del perché ma del da dove. Solo ponendosi in un luogo introvabile se non dalla morte medesima, Canetti poteva cogliere l’orizzontalità della sua scandalosa presenza e rivolgersi orizzontalmente a tutti e a ciascuno con il suo dono: perché pensare di sconfiggere la morte è un grande atto d’amore nei confronti dell’umanità e degli animali, che Canetti abbraccia nel suo sguardo riservando loro alcuni fra i suoi più memorabili aforismi:

Nel riguardo degli animali ciascuno di noi  è un nazista. (pag. 47.)

L’umanità di Canetti, però, non è intesa come un aggregato generico (un morto e un altro un morto non fanno due morti egli scrive) ma un tutti e un ciascuno. La matematica non ha per lui alcun valore e la conta dei morti, da cui comincia il libro, è uno dei suoi atti d’accusa più severi. Non si contano i morti e già il farlo è un tradimento e un cedimento, perché trasforma il defunto in una statistica. ed è questo il senso della frase apparentemente incomprensibile che chiude il primo brano del libro, dove i numeri sono scelti a caso per dire che se si cominciano a contare i morti, non c’è più limite fino  alle centinaia di migliaia e ai milioni; la mancanza del limite porta all’indifferenza. 

La guerra come pretesto e la natura

Gli appunti che compongono il libro partono dal 1942 e c’è da domandarsi quale ruolo abbia giocato la guerra nel proposito di scriverlo. Certamente tanto, ma meno di quanto si possa credere. L’inizio di Massa e potere, cioè il libro che può essere accostato a questo per molti aspetti, Canetti cominciò a scriverlo nel 1920 e lo pubblicò con scarso successo nel 1960. Lo scrittore era rimasto affascinato dalla trasformazioni che avvengono negli individui quando fanno parte di una massa: siamo nella Vienna degli anni ’20, uno dei centri europei del movimento operaio, anche se quella storia è meno conosciuta di quella tedesca o della repubblica dei Consigli di Bela Kun in Ungheria. L’atteggiamento di Canetti, non ostile alle lotte operaie, è tuttavia catturato da altro, ma anche dalla necessità di rispondere al convitato di pietra che sta alle spalle di Massa e potere: Sigmund Freud. La sua irriducibile non accettazione della pulsione di morte è uno dei motori del libro ma si sbaglierebbe leggendo in tale atteggiamento una sorta di formazione reattiva nei confronti del concittadino, un atteggiamento peraltro comune a molti nella Vienna del tempo. Lo scenario che Canetti apre con la sua ricerca antropologica, infatti, travalica del tutto l’intento polemico iniziale, così come toglie di mezzo la guerra come spunto superficiale e ispiratore del Libro contro la morte. Il sentimento bellico occupa una parte rilevante del libro, ma lo occupa altrettanto in tutti gli altri libri di Canetti, risultando così del tutto sganciato dalla contingenza storica per affondare le sue radici nelle costanti antropologiche e nella loro lunga durata. Basta una citazione come quella che segue a certificarlo:

Le guerre si fanno per amore della guerra. Finché non si ammetterà questo non si riuscirà mai a combattere veramente contro le guerre.

Se mai è un altro l’aspetto sconvolgente di questo libro: in nessuna parte viene attestato che la morte sia un evento naturale. Non che Canetti lo neghi, ma neppure lo sottoscrive, piuttosto ne tace. Se pensiamo invece ai momenti di vera e propria invettiva, a volte veemente, non è la natura a essere chiamata in causa, ma altro. Prima di tutto chi uccide, in primis in guerra, in secondo luogo dio stesso e le religioni:

La promessa d’immortalità basta a mettere in piedi una religione. Il puro e semplice ordine di uccidere basta a sterminare tre quarti dell’umanità. Che vogliono gli uomini’ vivere o morire’? Vogliono vivere e uccidere  e finché lo vorranno dovranno accontentarsi delle varie promesse di immortalità.

Tutti i morenti sono martiri di una futura religione universale.

Infine a pag. 46:

Dio, il paranoico che annienta gli uomini perché dagli uomini si sente perseguitato. D’improvviso i risorti in tutte le lingue accusano dio, il vero giudizio universale.

Oppure è direttamente la morte cui si rivolge come se fosse un personaggio e seppure parlando in terza persona. La natura in quanto tale rimane un altro enigma al centro di quest’opera. Cosa pensa davvero Canetti?

Ritenere che la morte faccia parte del ciclo organico di ricambio della vita (come viene mirabilmente espresso in una poesia dell’Antologia di Spoon River intitolata Paul Nitze) di certo egli non lo può accettare, ma non parlandone direttamente, ci lascia in una zona sospesa: la morte è o non è un evento naturale? Una risposta definitiva su questo nel libro non c’è, sebbene in un passaggio, ma del tutto incidentalmente, Canetti affermi cautamente la non naturalità della morte. Forse la risposta sta in questo. Egli tace su questo tema perché in realtà le morti naturali sono pochissime rispetto alle altre morti. Come si può parlare di morte naturale per un bambino che dalla nascita ha conosciuto solo bombe e guerre? Come si può parlare di morte naturale quando i tassi di inquinamento da polveri sottili ammazzano centinaia di migliaia di persone ogni anno?

A quest’ultimo proposito viene in mente ancora una volta Canetti con la sua prolusione del 1935 sull’opera di Broch, dove immagina che nel mondo futuro sarà sempre più difficile respirare. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Per tutte queste ragioni forse noi non sappiamo più bene che cosa sia una morte naturale e potremo saperlo solo alla fine di quel percorso in cui tutte le altre cause di saranno eliminate a cominciare dalle guerre. Solo allora potremo metterci di fronte alla natura ponendole il quesito, ma fino a quel momento non abbiamo più il diritto di farlo.

DA UN ANNO ALL’ALTRO

Fernando Pessoa ortonimo

Viaggiare! Perdere paesi!

Essere un altro continuamente,

affinché l’anima non s’inchiodi

a vivere e a vedere e basta!

Non essere neppure mio!

Sempre avanti perseguendo

La mancanza di ogni scopo

E la smania che lo accompagna!

Questo sì che è viaggiare.

Ma io viaggio senz’altro bagaglio

Che il sogno del viaggio.

Il resto è solo cielo e terra.

                   ***

Onda che, arrotolata ritorni,

piccola, al mare che ti ha portato,

e nell’indietreggiare ti frastorni

come se il mare nulla fosse,

perche porti con te

solo il tuo cessare,

e nel tornare al mare antico

non ti porti il mio cuore?

Ce l‘ho da così tanto tempo

Che mi pesa di sentirlo.

Portalo nel rumore che ha misura

Con cui ti sento fuggire!

              ***

Gatto che giochi per la via

come se fosse il tuo letto,

invidio la sorte che è tua,

ché neppur sorte si chiama.

Buon servo di leggi fatali

Che reggono i sassi e le genti,

che hai istinti generali,

e senti solo quel che senti;

sei felice perché sei come sei,

tutto il niente che sei è tuo.

Io mi vedo e non sono mio,

mi conosco e non sono io.

Fine d’anno

Jorge Luis Borges

Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.

          

Dall’antologia di Spoon river:

 Knowolt Hoheimer

Io fui il primo frutto della battaglia di Missionary Ridge.

Quando sentii la pallottola entrarmi nel cuore

mi augurai di esser rimasto a casa e finito in prigione

per quel furto di porci di Curl Trenary,

invece di fuggire e arruolarmi.

Mille volte meglio il penitenziario

che avere addosso questa statua di marmo alata,

e il piedistallo di granito

con le parole “Pro Patria”.

Tanto, che vogliono dire?

               ***

Sarah Brown

Maurizio, non piangere, non sono qui sotto il pino.

L’aria profumata della primavera bisbiglia nell’erba dolce,

le stelle scintillano, la civetta chiama,

ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia

nel nirvana beato della luce eterna!

Va’da cuore buono che è mio marito,

che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d’amore: –

digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui,

hanno foggiato il mio destino – che attraverso la carne

raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace.

Non ci sono matrimoni in cielo,

ma c’è l’amore. 

            ***

Edmund Pollard

Vorrei aver immerso le mie mani di carne

Nei fiori tondeggianti pieni di api,

nello specchiante cuore di fiamma

della luce vitale,un solo d’estasi.

A che servono petali o antere

O le aureole? Larve, illusioni

Del cuor profondo, la fiamma centrale!

Tutto è tuo o giovane che passi;

entra nella sala del banchetto pensandoci;

non sgattaiolarci come reso dal dubbio

se tu sia il benvenuto – il festino è per te!

E non prendere solo un poco, rifiutando il resto

Con un timido “grazie” quando sei affamato.

E’viva la tua anima? Allora, che possa nutrirsi!

Non lasciare balconi che tu non abbia scalato.

Né seni nivei che tu non abbia premuto;

Né teste d’oro di cui dividere il guanciale;  

né coppe di vino, quando il vino sia dolce;

né delizie del corpo o dell’anima.

Tu morrai, non c’è dubbio, ma morrai vivendo

In profondità azzurre, rapito e accoppiato,

baciando l’ape regina, la Vita!

LA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINI

Introduzione

La produzione poetica di Pasolini copre l’intero arco della sua vita ed è vastissima. La prima parte è dominata dalle opere in dialetto friulano: da Poesie a Casarsa, che è del 1942 fino a La meglio gioventù del 1954. È il Pasolini che tutti amano e quello su cui la critica sembra unanime, fino ad attribuirgli il merito di avere rilanciato la poesia dialettale in Italia. Che Pasolini le abbia ridato rango e valore è vero e non va dimenticato che la poesia dialettale è stata un oggetto di attento studio critico da parte del poeta: dalla fondazione, insieme a Nico Naldini e altri dell’Academiuta de lengua furlana, fino alla pubblicazione, nel 52, di un libro sulla poesia dialettale del 900.

Senza nulla togliere al valore poetico di queste raccolte, ritengo che tale incondizionato elogio sia anche un modo per mettere la sordina alla poesia successiva. La poetica in cui sono immerse le due opere citate è ancora quella dell’ermetismo; ma l’uso del friulano a ovest del Tagliamento, un lingua che era solo orale, conferisce all’opera un valore altamente sperimentale. Quanto ai temi e all’atmosfera di queste liriche si può dire che il Pasolini di Casarsa non ha ancora conosciuto il male del mondo, l’ombra; la poesia riflette perciò uno stato di innocenza vera, pura, non letteraria, la stessa che si avverte anche in Sandro Penna. Solo successivamente il mondo di Casarsa diventerà una sorta di mitologia e al tempo stesso stimolo per la ricerca di un universo arcaico dentro la maglie della modernità: è un mondo che Pasolini cercherà e penserà di trovare (quasi sempre deluso), nelle borgate romane, poi alle Mura di Sanaa, in Africa e in India, infine nell’immaginario dei suoi film, specialmente in quelli più rivolti al passato: a cominciare dalla Trilogia dell’amore, ma anche nel Vangelo secondo Matteo. L’incanto che pervade le poesie di Casarsa è quello della fiducia primaria, quella che si ha per la madre.

Il darsi del male proprio nel luogo dell’Eden, prima con la tragica morte del fratello, poi con l’accusa di omosessualità e l’espulsione dal PCI, sarà il trauma che segnerà tutta la vita di Pasolini e una ferita che non si rimarginerà, ma verrà rielaborata in mille modi.

In lingua italiana

Il Pasolini in lingua italiana esordisce nel pieno del dibattito letterario del tempo, in un momento cruciale del dopoguerra. Il neorealismo, che peraltro aveva dato poco in poesia, si era ormai esaurito anche in narrativa. Pasolini non rifiuta del realismo gli elementi popolari e la tensione etica e civile; rifiuta invece la sua angustia ideologica, ma se si legge Scherzo Shakespeariano, in cui almeno nella parte iniziale rifà il verso al discorso di Marco Antonio in morte di Giulio Cesare, si potrà constatare come egli non rifiutasse i contenuti drammatici ed epici di quell’esperienza, ma rimproverasse semmai una certa acquiescenza successiva da parte di alcuni suoi protagonisti all’andazzo dei tempi; anzi, in quel testo, sembra proprio attribuire a questo accomodamento la fine del neorealismo.

Quando Pasolini sta per esordire in lingua italiana i poeti dominanti sono Quasimodo, Ungaretti e Montale; ma è la poetica dell’ermetismo a occupare ancora la scena. Altri protagonisti come Bertolucci, Caproni e Luzi sono più defilati, mentre la nascente Linea Lombarda non sarà mai vista da Pasolini come un’alternativa credibile alla poetica ermetica. Egli entra nell’agone con idee molto chiare per quanto riguarda la pars destruens: la necessità di superare l’ermetismo, ma anche il petrarchismo, di cui peraltro l’ermetismo è espressione. Pasolini è il primo a parlare di plurilinguismo, di contaminazioni fra registri alti e bassi, guarda al Dante dell’invettiva, alle commistioni fra lingua letteraria e lingua popolare. Sulla rivista Officina, da lui diretta insieme a Fortini, Roversi, Romanò e Leonetti, esordiscono Sanguineti e Pagliarani e altri che daranno poi vita al Gruppo 63, la neo avanguardia da cui Pasolini prenderà aspramente le distanze. Tuttavia, sarà un rapporto mai del tutto risolto né nel Pasolini poeta, né nel critico, anche perché fu proprio lui il primo a parlare della necessità di un neo avanguardismo, espressione che successivamente sentirà ritorcersi contro di lui. Questo rapporto conflittuale, complesso e non risolto, è a mio avviso anche un limite che influenzerà negativamente la sua ricerca poetica.

Il problema è che le ragioni che spingevano Pasolini a superare l’ermetismo erano diverse da quelle che ispiravano Sanguineti e tutto il Gruppo 63. Lo testimoniano sia gli scritti teorici, La libertà stilistica, per esempio, un saggio pubblicato proprio su Officina, ma anche la sua prima opera pubblicata in lingua italiana, proprio Le ceneri di Gramsci, (1957), che resta uno dei vertici dell’opera poetica, insieme a La religione del mio tempo e in parte anche Poesia in forma di rosa, che è del 1961.

Nel saggio ricordato, l’idea di sperimentalismo che viene avanzata è quella di una lotta innovatrice nella cultura e nello spirito. È un nuovo orizzonte culturale quello che Pasolini auspica e non semplicemente il rinnovamento della lingua della poesia; nel dire questo, egli pone per primo la necessità di uscire dal Novecento. Questo a me pare un punto d’irriducibile differenza con la neo avanguardia.   

Quanto a Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo, anch’essi sono esempi della distanza che separava Pasolini dalla sperimentazione neo avanguardista. Gli elementi salienti di differenziazione mi paiono tre: la scelta poematica, la materia epica seppure spuria, il corto circuito fra scelta metrico stilistica improntata a un forte legame con la tradizione (la terzina dantesca, l’endecasillabo) e un lessico popolare che recupera tutto il meglio dello stesso realismo; l’assenza in Pasolini di ogni intento volto allo scardinamento sintattico della lingua e ad un’esaltazione pirotecnica del significante. La valenza sperimentale, invece, si colloca proprio al livello in cui Pasolini la voleva: un rinnovamento dello spirito che indicasse un orizzonte culturale nuovo rispetto a quello in cui erano nati l’ermetismo in periodo fascista e il neorealismo del dopoguerra.

Nonostante gli elementi spuri a me pare che le due opere e in parte anche Poesia in  forma di rosa siano da riportare proprio al genere epico, sia per la materia (la storia, la società, la condizione della comunità e non importa, a questo proposito, che Pasolini sentisse la fine di questa storia e ne vivesse la tragicità), sia per le scelte metriche; spuri perché segnati in contro canto da una memoria soggettiva interiore, quasi intimista (quello che è stato definito un canzoniere intimo alla Machado), estranea al genere epico per come lo conosciamo, se manteniamo ferma nel tempo la definizione stessa di epica. Chi ha detto però che il genere epico non possa, nel tempo, assumere al proprio interno contenuti e forme che non gli appartenevano all’origine? La stessa poesia lirica si è rivolta a temi che non le erano tradizionali. Non bisogna poi dimenticare che per Pasolini ciò che altri potevano leggere come elementi di un canzoniere intimo, venivano da lui considerati in ben altro modo. Per lui la condizione di omosessuale escluso non è l’irruzione nella partitura della grande storia di un elemento di biografismo, o non è semplicemente questo (se mai lo diventa nei momenti di caduta della poesia); bensì la metafora di una più generale emarginazione dei popoli del terzo mondo, dei borgatari romani, dei sotto proletari ecc. ecc. Discutibile o meno che sia tale convinzione, il punto di vista soggettivo che Pasolini introduce in contro canto non ha nulla a che vedere a mio avviso con un recupero dell’io biografico dell’artista.

Antimoderno

C’è infine un ultimo elemento da considerare poiché in questo Pasolini è stato davvero un caso unico nel secondo dopoguerra, per gli artisti della sua generazione: parlo della sua irriducibile anti modernità e della ricerca di mondi arcaici che lo portavano sempre più lontano dall’Occidente. Per anti modernità costituzionale intendo anche il fatto che Pasolini non ha mai introiettato l’idea della fine del mandato, cioè la convinzione che nella società moderna al poeta non spettasse più il compito di rappresentare la voce profonda di un’epoca o di un popolo. Questo mandato Pasolini lo ha conservato e praticato in pieno, si è posto senza remore e vergogne come un maître à penser in quanto artista. Un altro aspetto altrettanto importante della sua anti modernità è l’avere inseguito un’idea di opera totale, attraversando tutti i mezzi espressivi per approdare anche al cinema, certamente il più moderno di tutti, ma sempre in un’ottica che definirei leonardesca, piuttosto che a valorizzare l’apporto della tecnica nel senso della riflessione di Benjamin. La sua non accettazione del moderno, che in alcuni momenti può essere certo viziata da un volontarismo ingenuo, ne fa un autore lontano da un altro cliché che gli è stato indebitamente attaccato addosso: quello di essere un maledetto. C’è in lui troppo senso di colpa da un lato e troppo scandalo per la tragicità della secolarizzazione per presupporlo. Nel maledetto, almeno in quello moderno che ha in Rimbaud il padre (Rimbaud che – sia detto fra parentesi – Pasolini non amava), c’è sempre il disincanto, mentre in Pasolini c’è il dolore mai risolto, la ferita aperta che non si chiude mai. Di questo risentirà sempre la sua poesia, anche come limite; ma l’estetica del disincanto che poi finirà di passo in passo nel nichilismo non lo attirerà mai, neppure nei momenti più narcisisti che pure non mancano.

Il maledetto moderno è un dandy disincantato che fa della scissione della personalità non una materia di problematica sofferenza, bensì il suo punto d’onore. I grandi maledetti della contemporaneità sono i tecnocrati, gli gnomi della finanza, quelli che si travestono dal giovedì sera alla domenica da maledetti, ma che rientrano nell’ordine (anzi ne sono le colonne portanti) ogni lunedì mattina.

Rispetto a questa irriducibile anti modernità è pur vero che nella parte finale della sua vita Pasolini si sentiva sconfitto ed era giunto alla convinzione che la sua disperata vitalità non bastasse più. Vedeva i suoi amici intellettuali e gli altri poeti in preda a una deriva inarrestabile, vedeva l’omologazione venire avanti senza contrasti. È il periodo più oscuro per me della sua produzione poetica, quello in cui sembra arrendersi alle ragioni della neo avanguardia che pure aveva così aspramente combattuto. Trasumanar e organizzar è un’opera in cui Pasolini sembra rinnegare molto della sua opera poetica precedente in lingua italiana. Nella parte finale c’è una cesura (che comincia di già in Poesia in forma di rosa), che del resto Pasolini aveva anche chiaramente indicato. Nel motivare la sua scelta quasi esclusiva per il cinema Pasolini aveva affermato che riteneva la lingua della poesia e la poesia stessa fossero state sconfitte dalla modernità. Per questo parlo di una resa per Trasumar e organizzar. In quest’opera l’impoetico, l’estetica del brutto, il verso libero senza misura, quasi con un’esibizione, come se stesse dicendo alla neo avanguardia, vedete che se voglio queste cose le so fare anch’io, l’andare verso quella poesia in prosa, ecco tutto questo mi sembra una sorta di resa. Così come un’altra forma di resa mi sembra il suo ritorno tardivo al dialetto friulano; La nuova gioventù, pubblicata nel ’75 pochi mesi prima della morte, è un ricamo manierista intorno alle due opere del suo esordio. Era convinto che la sua fosse stata una battaglia perduta, ma se si guarda a quello che aveva fatto in così pochi anni, c’è da rimanere ammirati. Forse era vero che all’interno di quella vicenda del dopoguerra Pasolini avesse dato fondo a tutte le risorse a sua disposizione per contrastare la logica dei tempi; anche se tutto questo è comprensibile, tuttavia vi è un fondo oscuro nella parte finale della sua vita artistica, quasi una metafora, il presentimento di una fine tragica fine.