BORGES

Premessa

Una prima versione di questo saggio si trova anche nella rivista A-verare, diretta da Eva Gerace.

Impossibile evitarlo se si vuole parlare di Argentina e di Buenos Aires e non solo da un punto di vista letterario. A una prima ricognizione superficiale, Borges esprime in un modo diverso rispetto a Ernesto Sabato, l’immobilità argentina e il suo mistero. Sabato ha espresso tutto ciò in un capitolo fondamentale del suo gran romanzo Sopra eroi e tombe. Il capitolo s’intitola I Ciechi. Borges esprime la medesima sensazione usando la metafora del labirinto.

Il narratore

La definizione che Borges dà della tradizione e dei modi in cui un argentino può viverla e servirsene, trova in Finzioni una rappresentazione particolarmente coerente. Lo scrittore sostiene che un argentino, non avendo una tradizione propria (ma vedremo anche come in parte si contraddirà lui stesso su questo punto), può avvalersi di tutte le tradizioni, a patto però che sappia trovare un punto di vista non canonico e canonizzato all’interno di quelle diverse tradizioni. A furia di cercare un punto di vista spiazzante, però, diventa in alcuni casi ripetitivo, tranne in quei racconti in cui non si affida solo alla ingegnosità delle concatenazioni: capolavori come Il giardino dei sentieri che si biforcano I due teologi, La lotteria di Babilonia, La casa di Asteriore, I due re e il labirinto, o Biografia di Taddeo Isidoro Cruz, L’Aleph, appartengono a quella raccolta ideale di opere del secolo scorso che avranno davanti a sé una lunga vita. In altri il gioco dell’ingegnosità finisce per diventare manieristico. C’è poi un racconto su cui occorre soffermarsi a lungo e non solo per ragioni strettamente letterarie e stilistiche: Deutsches requiem.

Il racconto non si discosta dai cliché borgesiani: un misterioso narratore racconta la storia della sua vita la notte prima di essere fucilato. Comprendiamo subito che si tratta di un nazista, tuttavia, prima di arrivare al momento in cui egli stesso lo rivela, il narratore ci fa conoscere i suoi antenati e costruisce una genealogia del tutto inventata da Borges, che gioca abilmente come sempre, mescolando dati di realtà con invenzioni, nomi che sembrano veri ma che poi  trovano solo parziali riscontri perché le date di nascita e morte risultano false. Questo il gioco. Deutsches requiem è un canto funebre, ma il titolo è spiazzante. Requiem tedesco, come se fosse la nazione stessa, attraverso le parole del protagonista, Otto Dietrich zur Linde, a pronunciare il proprio requiem; ma l’espressione significa pure che si tratta sì di un requiem dalle caratteristiche tedesche. Infine il titolo è anche quello del requiem di Brahmas e quindi con tale scelta Borges costruisce una genealogia ancor più complessa.  Seguendo passo dopo passo la storia personale del protagonista e narratore, non troviamo in realtà nulla di veramente eclatante. Si è iscritto al partito nel 1929, ha creduto che il  nazismo fosse una ribellione morale, ha creduto alla propaganda sul cosiddetto uomo nuovo, nonostante disprezzasse i suoi camerati, ha seguito tutto il cursus honorum, compresa una ferita poco eroica; finché non è stato nominato vicedirettore di un campo di concentramento ed è probabilmente questa la ragione della sua condanna a morte. Otto è dunque un funzionario medio, uno di quegli uomini che Annah Arendt avrebbe posto nella categoria della banalità del male. Tuttavia, nel crescendo che Borges abilmente imprime al testo, Otto Ditriech zur Linde assume una statura diversa, non da uomo medio, ma da agente di un destino storico: è dunque una personificazione di Hitler? No, il gioco è più sottile. Il salto di qualità inizia a compiersi dal momento in cui egli smette di parlare dei suoi antenati ed entra perentoriamente in scena: “Sono nato a Marienburg nel 1908.” Poi ci parla dei suoi interessi per la musica e la metafisica e comincia a disseminare il suo racconto di alcuni grandi nomi che hanno concorso alla sua formazione: Brahms, Shakespeare e specialmente Schopenhauer, un filosofo che torna spesso anche negli scritti di Borges. Otto prende su di sé un lembo dello scrittore, o – al contrario – è Borges a identificarsi con lui, con un sorriso sarcastico e sinistro quando gli fa dire: “Sappia, chi indugia meravigliato, …. davanti a un qualunque luogo dell’opera di quei beati, che anch’io, l’abominevole, vi indugiai.”

Chi parla è il narratore oppure è Borges stesso? Fatto sta che il ritratto di Otto assume aspetti molteplici e sinistri. Due altri nomi sono alle porte: il primo è scontato (anche per gli equivoci che si porta dietro), e si tratta di Nietsche, il secondo un po’ meno: Spengler e subito dopo Goethe, ma in modo ellittico, come vedremo. Alla fine di questo percorso di formazione Otto, all’età di 21 anni, entra nel partito nazista. Appartiene dunque a quella generazione giovane che più ha creduto, che ha vissuto la fase della irresistibile ascesa del movimento dopo la crisi del ’29.  La descrizione dei primi anni nel partito è opaca, finché nel ’39 viene ferito in modo causale e questo gli costa l’amputazione di una gamba. In ospedale legge ancora Schopenhauer, Parerga und paralipomena e accoglie la teoria della predestinazione (“… tutti i fatti che possono accadere a un uomo dall’istante della sua nascita a quello della sua morte, sono stati preordinati da lui…”), tanto cara infondo anche a Borges, così che Otto viene ad assumere sempre di più le fattezze di alter ego dello scrittore, ma anche i tratti di un’entità funesta e oscura. Otto si domanda che cosa gli ha fatto scegliere le pallottole che l’hanno ferito e quella mutilazione. Crede di trovare la risposta in uno strano discorso che per ora lasciamo in sospeso perché sarà meglio chiarito più avanti, ma le cui conseguenze sono decisive, perché è proprio alla fine di questo percorso di individuazione di sé che Otto viene nominato vice direttore del campo di concentramento: siamo nel 1941. In esso incontra un ebreo, un poeta dal nome fin troppo ovvio – David Jerusalem – tanto ovvio da sospettare che si tratti dell’ennesima invenzione di Borges. È così, ma come sempre il gioco di specchi e la macchina che travolge il lettore con la stessa logica con cui Otto dirige il campo di concentramento, richiede un passaggio ulteriore. In una nota, Borges ci avverte che nel campo di Tarnovitz, in effetti, venivano radunati e torturati molti artisti, per cui non si può escludere che in mezzo a loro ci fosse anche un David Jesusalem e che il suo nome sia stato cancellato e non trovato negli elenchi. Otto si sofferma su di lui parlandoci delle sue opere come se niente fosse, ma il suo vero intento è quello di cancellare dentro di sé qualsiasi forma di connivenza con un sentimento come la pietà. Riuscirà così a spingere Jerusalem al suicidio. Alla fine, quando questo si compie, Otto si domanda se David abbia compreso che “lo distruggevo perché … avevo capito che si era trasformato nel simbolo di una detestata zona della mia anima. Agonizzai con lui, morii con lui, in qualche modo mi sono perduto con lui; perciò fui implacabile.”

Il racconto di Borges si muove come un dispositivo a orologeria che riflette nel suo  andamento il funzionamento del campo di concentramento. A ogni dente del meccanismo che fa girare ruota dell’ingranaggio corrisponde un avanzamento del crimine ma anche della consapevolezza; finché si giunge all’epilogo, il Terzo Reich che muore. La narrazione subisce una nuova svolta che sembra in prima istanza imprevedibile, ma che lo sarà di meno quando, arrivati alla fine, saremo di nuovo costretti a ripercorre l’intero racconto dall’inizio: come sempre Borges ci ha portati dentro un labirinto, che è fatto a sua volta di molti labirinti. Improvvisamente, Otto avverte un sapore misterioso e terribile di felicità, anche se sa benissimo che la sconfitta del Reich sarà la causa della sua morte. In una escalation di grande efficacia, egli cerca nella sua coscienza le ragioni di questa felicità, ma le vive come tentazioni e questo mi ricorda un altro grande testo della seconda metà del ‘900: Assassinio nella cattedrale di Eliot. In quell’opera, l’Arcivescovo Beckett, prima di prendere la decisone che gli costerà il martirio, si domanda se nel suo atteggiamento ci sia per caso un residuo di rispetto umano; per esempio, se oltre l’amore per la verità e per il suo Dio, ci sia anche la vanità di chi cerca la gloria. Un sentimento analogo spinge ora Otto a domandarsi se nella sua improvvisa felicità ci sia qualcosa di umano troppo umano. Il primo dubbio e più ovvio è di sentirsi colpevole e quindi meritevole di una punizione che presto arriverà: è il senso di colpa cristiano. Otto va oltre: forse semplicemente è contento che la guerra stia finendo perché è stanco e prova un sentimento volgarmente umano di debolezza. Va oltre anche questo e arriva alla terza motivazione, la più elevata di tutte, ma pur sempre una tentazione: è contento della sconfitta perché è accaduta e bestemmiare contro un fatto reale è come bestemmiare contro l’universo, mentre invece di fronte a ciò che accade bisogna solo chiedersi perché e quale anello nella catena della predestinazione esso rappresenta. Otto scarta anche quella ipotesi e afferma subito dopo di avere individuato in altro la causa della sua felicità. Prende le cose da una certa distanza e cioè da una diceria – probabilmente inventata – che classifica gli uomini secondo categorie antagoniste e irriducibili entrambe destinate a seguire nei secoli la loro strada: “… gli esseri umani sono aristotelici o platonici …” La Germania incarna una delle catene di questi destini, la seconda la scopriremo dopo, anche se a pensarci bene, essa è già evidente; ma seguiamo la prima. Troviamo così che Arminio, il vincitore di Varo, non sospettava di essere il precursore di un impero germanico, ma lo fu; Lutero, traduttore della Bibbia, non sospettava che con la sua Riforma stava forgiando un popolo che avrebbe distrutto la Bibbia, ma lo fece. Fino a Hitler; ma anche a lui, Otto zur Linde, che una pallottola poco eroica tolse dalla guerra, cioè dal combattimento che porta alla gloria e che lo aveva portato a servire la causa da direttore di un campo di concentramento, diventando come “… un mago che tesse un labirinto ed è costretto a errarvi fino alla fine dei suoi giorni, o a David che giudica uno conosciuto e lo condanna a morte e poi ode la rivelazione: Tu sei quell’uomo.”

Otto è dunque il narratore segreto, colui che dice la verità su una Germania di cui Hitler è solo l’ultimo anello di una delle due catene destinali? E qual è la seconda catena? Il finale del racconto, nella sua parte più ovvia, lo dice, ma è nulla rispetto alla forza dell’invettiva e della visione terribile che pronuncia: “… Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto. Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora ne siamo le vittime. Che importa che l’Inghilterra sia il martello e noi l’incudine? Quel che importa è che domini la violenza, non la servile viltà cristiana. Se la vittoria e l’ingiustizia e la felicità non sono la Germania, siano per altri popoli. Che il cielo esista, anche se il nostro luogo è l’inferno.” Ma il cielo evocato da Otto non è quello dei cristiani ma il luogo in cui domina la violenza, l’epoca implacabile che sorgerà dalle rovine e l’inferno è solo per la Germania, ma quel cielo sarà per tutti.

Il racconto però non è finito. Fin qui il narratore ci ha raccontato la sua verità dei fatti, ma lui chi è? Le ultime quattro righe del racconto suggeriscono qualche ipotesi, ma lo sappiamo bene: da labirinto non si esce facilmente.

“Guardo il mio volto nello specchio per sapere chi sono, per sapere come mi comporterò fra qualche ora, quando mi troverò di fronte alla fine. La mia carne può avere paura; io no.”

Otto è un Cristo rovesciato, più che un Anticristo. Se, per il mito cristiano, Gesù di Nazareth si sacrifica sulla croce per salvare l’umanità intera, Otto si sacrifica per dannarla tutta e potrebbe persino pronunciare davanti al plotone d’esecuzione la fatica frase “tutto si è compiuto.” Otto ghigna ai suoi fucilatori dicendo loro che ha vinto perché ha imposto loro, per distruggere la Germania, di usare la stessa implacabilità e ferocia che ormai li ha infettati e che segnerà il destino delle epoche future: pensando all’oggi più di un brivido viene.

Dicevo in precedenza che i labirinti sono a loro volta fatti di altri labirinti, tanto più in questo racconto, costruito secondo la logica di un campo di concentramento, in cui di volta in volta, un elemento elide l’altro togliendolo di mezzo, finché alla fine non rimane nulla e nessuno, soltanto la morte, oppure il ritornare su se stesso del labirinto. E Borges dov’è finito in tutto questo? Possiamo dare diverse risposte e pensare che la frase che attribuisce a Otto quando afferma che ha spinto Jerusalaem al suicidio morendo con lui, siano riferite anche a se stesso, ma forse ripercorrendo un altro labirinto dentro quello più grande e che potrebbe essere definito anche un sottotesto o uno dei molti sottotesti di questo racconto, potremo trovare qualche risposta in più e anche riprendere qualche questione lasciata in sospeso.

Il sottotesto è la nomenclatura che costella il racconto ai suoi bordi e di cui ci siamo già un poco occupati. Anche questa non è una novità assoluta: in Borges le citazioni e la comparsa di nomi veri e inventati è costante, sia nei racconti sia nei saggi e svolge quasi sempre una funzione che non è solo stilistica, cioè il modo con cui Borges cattura l’interesse del lettore, ma anche di vera e propria narrazione altra. Alcuni di questi nomi li abbiamo già visti, altri non ancora, ma è proprio ritornando a essi a cose fatte, che alcuni di loro più di altri acquistano un significato importante. Dei primi tre e cioè Brahms, Shakespeare e Shoperhauer solo il terzo merita qualche riflessione in più. Borges delinea una cornice di appartenenze che sono anche sue, ma che hanno un peso diverso: il Bardo fa parte di un Pantheon che nessuno scrittore può ignorare, il filosofo e quel filosofo, no.

Se c’è un’antinomia nella filosofia tedesca di quegli anni è proprio quella fra Shopenhauer ed Hegel, sia perché erano contemporanei e docenti nella medesima università, sia perché la loro alterità ne fa idealmente i rappresentanti delle due catene destinali che Borges metterà in bocca al suo personaggio; e non vi è dubbio da che parte si collochi lo scrittore argentino. Dunque con questo primo nome egli allude a un pensiero e a una tradizione che sono anche sue e che si precisa meglio non tanto con il nome di Nietsche, che nel contesto mi sembra un depistaggio, ma con quello di Spengler che viene subito dopo e che è la premessa di una digressione che continua anche in una nota: abbiamo lasciato in sospeso proprio questo passaggio. Dopo avere citato il filosofo della storia e scrittore, Otto cambia discorso e riferendosi a un autore del diciottesimo secolo che si comprenderà essere Goethe, afferma che “… nessuno vuol essere debitore dei suoi contemporanei; io, per liberarmi di un’influenza che sentivo opprimente, scrissi un articolo intitolato Abrechnung mit Spengler…” Spengler era un autore molto celebrato e discusso in tutta Europa agli inizi del ‘900 e poi relativamente dimenticato. Borges lo resuscita e lo mette al centro del racconto, ma l’anomalia sta nel titolo dell’articolo scritto che attribuisce a Otto e il cui significato è fare i conti con Spengler o addirittura resa dei conti con Spengler. Il libro più famoso di quest’ultimo è Il tramonto dell’Occidente, al centro del quale c’è un concezione della storia che applica alle civiltà la stessa dinamica che appartiene ai corpi umani: nascono, invecchiano, muoiono. Spengler ritiene tuttavia che sia anche possibile individuare i segni che indicano lo stato in cui si trova una civiltà e per quanto riguarda l’Occidente, l’ultima delle civiltà che prende in considerazione, essa sarebbe ormai destinata all’estinzione, visto che secondo lui, fin dal diciannovesimo secolo, si affida ormai a modelli culturali che per Spengler sono già morti. Qualcosa di analogo trova in poesia anche nell’opera di William Butler Yeats. Sono tutti autori che fanno parte di un Pantheon ideale di Borges, ma poiché quelle di Spengler non sono metafore ma una concezione della storia, ecco che il suo libro può essere inteso in un senso destinale e dunque assai prossimo alle concezioni di Shopenhauer. Rimane da capire perché il probabile alter ego di Borges e cioè Otto Dietrich zur Linde voglia una resa dei conti con Spengler: in che senso lo dice? Borges risponde a modo suo e cioè disseminando di indizi la scena del crimine e obbligando il lettore a improvvisarsi detective. Spengler aveva definito quella occidentale una società faustiana, riferendosi evidentemente a Goethe, solo che per Otto-Borges “… il monumento in cui appaiono più chiari i tratti che l’autore (Spengler) definisce faustiani, non è il composito dramma di Goethe, ma … il De rerum natura …”

La perfida nota che Borges inserisce a questo punto del testo, chiude il  cerchio e chiarisce. La resa dei conti con Spengler consiste in questo. Goethe è ancora il prototipo di una comprensione ecumenica e dunque cristiana, mentre l’uomo veramente faustiano è quello di Lucrezio, che scopre il mondo solo nel momento in cui si è liberato di tutti gli dei; ma il compimento destinale dell’uomo faustiano è quello di trascinare nella sua morte il mondo intero. Il filosofo della storia Spengler andava dunque portato alle estreme conseguenze, cosa che Spengler uomo non seppe fare perché, nazista della prima ora, si tirò poi indietro, a differenza di Otto Dietrich zur Linde.  E Borges? In quest’ultima frase ho rotto di nuovo il legame fra lui e il suo alter ego e mi sono domandato se lo scrittore argentino sia andato o no fino in fondo oppure abbia trovato il modo di uscire dal proprio labirinto. Credo di avere trovato la risposta che consentirà anche a me – finalmente – di uscire dal labirinto, in un saggio di Borges dal titolo Emmanuel Swedenborg, ma anche in una presa di posizione chiara in cui lo scrittore dichiarava di essersi sempre augurato la sconfitta di Hitler e del nazismo. Il pretesto per scrivere del filosofo svedese glielo fornisce Voltaire, che esalta Carlo XII come uno degli uomini più eccezionali della storia. Borges obietta che non lui, ma un suo illustre suddito merita un giudizio di eccezionalità e costui è proprio Swedenborg.

Il ritratto che Borges ne fa è assai interessante e del resto che si tratti di una figura eccezionale è del tutto vero in questo caso. Lo si potrebbe definire il Leonardo da Vinci del nord Europa, sia per la vastità degli interessi sia per il tipo di cultura olistico-rinascimentale che nel 1600 e tanto più nel 1700 era già tramontato nell’Europa occidentale e meridionale. Forse proprio per questo da noi è poco conosciuto, perché fuori tempo. Swedenborg appartiene a quella schiera di umanisti che in Italia e in Europa si chiamano Pico della Mirandola, Leonardo, Marsilio Ficino, Paracelso. Sono tutti grandi figure di eruditi che mantenevano però una concezione olistica del pensiero e del mondo e che spesso si trovavano sul crinale fra scienza, magia ed esoterismo, fra chimica e alchimia, a parte Leonardo, il più moderno fra loro. Sono tutti uomini travolti e superati dalla rivoluzione scientifica e dalla grande sistematizzazione di Cartesio, che li ha relegati in un tempo anteriore, ma anche in un filone della cultura europea che di solito si raccoglie nella definizione di irrazionalismo, della cui congruenza o meno non intendo qui occuparmi. Nel nord Europa, la loro influenza durò più a lungo, ma non bisogna dimenticare neppure che il più grande scienziato della prima modernità e cioè Newton, fu per molti anni sullo stesso crinale. L’uomo che con i suoi calcoli, le sue parabole, la legge della gravitazione universale contribuiva a demolire definitivamente l’universo tolemaico, l’uomo che giocava in borsa, era lo stesso che per lunghi anni si dedicò ad esperimenti  alchemici e che vagheggiava una riforma religiosa che non aveva le sue radici in quella protestante ma in una visone esoterica del cristianesimo. Di questo retaggio umanistico-rinascimentale Swedenborg fu certo l’esponente più importante e inaugurò un filone di pensiero europeo minoritario ma sempre presente, che avrebbe avuto in William Blake e i suoi Libri profetici il suo ultimo e più importante esponente. E cosa c’entra allora Borges con tutto questo e per quale ragione sceglie proprio Swedenborg ripercorrendo le tappe della sua formazione e della sua opera in Svezia e poi a Londra e un po’ dappertutto in Europa? Più leggevo il saggio e più mi rendevo conto che forse parlare di lui era un modo traslato per parlare di sé. Fino che punto regge un’eventuale identificazione di Borges con Swedenborg e fino a che punto può costituire un altro nome di quel pantheon ideale di Borges che comprende la nomenclatura che abbiamo visto nel racconto Deutsches Requiem? Swedenborg di quella nomenclatura fa parte anche se Borges non lo cita nel racconto, ma il panegirico che ne fa nel saggio ci aiuta a capire meglio i suoi riferimenti.  I punti di contatto ci sono eccome anche se lo scrittore argentino non ha mai avuto l’ambizione del riformatore religioso; ma se pensiamo agli aspetti pre moderni in lui, al suo enciclopedismo erudito, alla vastità dei suoi interessi e anche a un certo stile personale aristocratico, Borges assomiglia assai di più a un umanista europeo, anche se i suoi riferimenti filosofici sembrano andare in una direzione diversa. Trascurando momentaneamente questo aspetto, i lati umanistici nella sua opera e nel suo stile ci sono eccome e del resto. Borges, pur essendo venuto in contatto con l’avanguardia europea negli anni ruggenti (era a Parigi e a Madrid negli anni ’20 e ’30), se ne allontanò subito ritornando in Argentina. Il suo circolo e non solo lui, pur continuando a guardare all’Europa e specialmente alla Francia, era ben determinato a fondare in Argentina una tradizione autoctona, a cominciare dalla madrina di Borges e del gruppo che si radunò intorno a lui e cioè Victoria Ocampo, fondatrice della rivista Sur e mecenate, oltre che grande intellettuale del suo tempo. Borges, all’interno del gruppo era di certo il più pre moderno e dunque una certa identificazione con Swedenborg è realistica e forse almeno in lui c’era l’ambizione di fondarla sul serio una tradizione argentina e questo poteva essere fatto solo abbandonando l’avanguardia europea: la parodia e la dissacrazione sono utili dove una tradizione c’è già stata e non dove deve invece formarsi. Esiste però un legame fra questo modello umanistico e il racconto? Esso va visto a mio avviso nella convinzione latente in Borges che il destino dell’Occidente non coinvolgesse l’America latina e l’Argentina in particolare. C’è infatti un’ultima battuta di Otto Dietrich zur Linde di cui non ci siamo ancora occupati e cioè quando nel finale afferma: “… che importa se l’Inghilterra è il martello e noi l’incudine…” Borges mette sulle labbra di Otto una frase vistosamente parziale che sicuramente è più sua che non del suo personaggio. Nonostante il ruolo che l’Inghilterra ebbe nella prima  parte della Seconda Guerra Mondiale, Borges fa finta di non sapere che senza il contributo di Stati Uniti e specialmente dell’Unione Sovietica con il suoi 70 milioni di morti, la guerra sarebbe durata ancora a lungo e non è neppure detto che i nazisti l’avrebbero persa! Nel binomio Inghilterra Germania Borges vede consumarsi una tragedia da cui spera di salvare l’America Latina e di salvarsi lui stesso, conservando di quel mondo solo alcuni riferimenti filosofici: Swedenborg come modello di umanista, Hume e Berkeley come filosofi e cioè lo scetticismo assoluto dell’empirismo britannico. Questo è il sogno che Borges attribuisce ai suoi dei, al centro del quale mette se stesso come via di mezzo fra un aristocratico inglese del 1700 e un anarchico di destra di primo ‘900, un po’ gaucho. Quel sogno, tuttavia, aveva al suo centro il buco nero di un colossale rimozione: gli Stati Uniti d’America e i troppi esuli fuggiti dall’Europa, vittime dei peggiori cattivi maestri. I guai cominciarono negli anni ’60 e ancor più ’70. Fino a quel tempo, infatti, l’eccentricità del continente latino americano e il suo decentramento rispetto alla tragedie immani del ‘900 europeo, lo avevano preservato e poco importa se qualche reggimento di quei paesi si era schierato con questo o quell’altro esercito dei vecchi colonizzatori. L’America Latina restava ai margini della grande storia, in una specie di limbo, fatto anche di eccellenze. Tutto questo cominciò a finire con Peron ma ancor più con la rivoluzione cubana del 1959. Borges se ne accorse eccome e per questo fu violentemente antiperonista più che anti castrista, ma il limbo era destinato per forza di cose a finire e l’intera America Latina sarebbe stata trascinata al centro dello scontro fra est ed ovest. Finiva la sua eccentricità e con essa finiva il sogno aristocratico di Borges e cominciarono anche certe sue dichiarazioni che possono essere lette in tanti modi, ma prima di tutto e aldilà del loro contenuto direttamente politico, proprio come un sentimento struggente di perdita, la nostalgia irriducibile per un sogno svanito nel nulla.         

LA SCUOLA CATTOLICA DI EDOARDO ALBINATI: TERZA PARTE

Cronaca del delitto del Circeo

In alcune interviste, Albinati ha corretto leggermente il tiro rispetto allo spunto iniziale del suo libro, dichiarando che in realtà a spingerlo a intraprendere quest’avventura narrativa, era stato il secondo delitto compiuto da Angelo Izzo, molti anni dopo il primo. Le ragioni le spiega lui stesso. Avendo avuto per compagni di scuola gli autori del delitto del Circeo e altri più o meno legati allo stesso ambiente, Albinati afferma che un sentimento legittimo di rimozione aveva lasciato nel fondo della sua memoria la vicenda, ma che al riproporsi anni dopo di un secondo delitto altrettanto efferato, tacere (prima di tutto a se stesso), non era più possibile: l’etica e la necessità di una scrittura si capiscono anche da questo e allora vorrei dire subito che il romanzo di Albinati è profondamente etico e anti moralista. Nella quarta di copertina, infatti, sta scritta una frase lapidaria e cioè che il problema riguardante la verità è se dirla o non dirla e la verità secolarmente negata che è al centro di questo romanzo, è proprio la trasversalità della violenza maschile sulle donne, la sua impermeabilità ai cambiamenti, persino a quelli della lunga durata per dirla con Braudel. Qui sta una delle novità del romanzo che, ricostruendo l’educazione al maschile, va a mettere in discussione un luogo comune e cioè che, sebbene non tutti stuprino, l’infezione del linguaggio e degli stereotipi maschili è comune anche a chi non arriva alla violenza pura e semplice. Sulla necessità di questa presa di coscienza etica ritorneremo in sede conclusiva.   

Per ritornare al delitto in senso stretto Albinati sceglie la via maestra del romanzo saggio: cita i documenti ufficiali, persino la cronaca giornalistica. Il capitolo in questione è il decimo. Consiglio di leggerlo attentamente quel capitolo perché io stesso pensavo di ricordarmi tutto e invece la nuda narrazione oggettiva di Albinati svela, a distanza di anni, uno degli aspetti più sorprendenti del delitto: la casualità delle azioni dei protagonisti, l’interscambiabilità fra l’uno e l’altro di loro e dei ruoli, la mancanza di una vera premeditazione e al contempo l’automatismo dei gesti, scissi da una narrazione immaginaria, folle e lucida al tempo stesso, da parte di Angelo Izzo. Ci sono almeno altre due donne che avrebbero potuto essere vittime dei tre e che hanno schivato quella fine solo per puro caso, così come ci sono almeno altri due o tre uomini che potevano essere al posto di altri due o sommarsi a essi; il solo protagonista non intercambiabile è Angelo Izzo.

Il mix di serialità, casualità, automatismo, che rimanda a un film come Arancia Meccanica, fanno di quel delitto qualcosa di nuovo.

Apro una parentesi personale. Ho avuto per anni una frequentazione di Roma non occasionale, tanto da poter dire che in essa ci ho vissuto, ho amicizie durature e importanti come quelle che ho a Milano. C’è un’espressione che ho sentito usare più volte da amici e amiche romane a proposito del delitto del Circeo e che mi è ritornata in mente proprio leggendo il romanzo di Albinati: fu la perdita della nostra innocenza. La medesima espressione molti milanesi della mia generazione la usarono per definire il sentimento di sgomento dopo la strage di Piazza Fontana. Cosa può giustificare l’uso di un’espressione così forte per due crimini apparentemente così diversi? Perché hanno in realtà molti tratti in comune, non tanto per una superficiale appartenenza politica dei soggetti in questione, fra l’altro assai labile,10 ma per ragioni assai più profonde e che soltanto pochi anni prima sarebbero state invisibili per la coscienza collettiva.

Sebbene la rottura fra il nascente femminismo e i movimenti nati nel 1968, ha una possibile data ufficiale nel 6 dicembre del 1975 11 ed è quindi successiva al delitto del Circeo, ciò che il femminismo aveva iniziato a significare era visibile ben da prima, la pregnanza di uno slogan come il personale è politico non poteva essere elusa (se mai rimosso allora come oggi dalla coscienza di molti uomini) e dunque il delitto del Circeo non poteva essere derubricato, come sarebbe accaduto soltanto una decina d’anni prima e forse meno, come un delitto qualunque, un episodio estremo come ce ne sono stati tanti prima e dopo di esso.

Dirò di più: forse, solo dieci anni prima un delitto di tale efferatezza nelle sue modalità non sarebbe stato neppure possibile per le menti stesse dei suoi autori. In esso, infatti, si concentra una vendetta che è al tempo stesso di classe e di genere, (Donatella Colasanti e Rosaria Lopez erano due giovani donne proletarie) tanto efferata da far pensare a una punizione e a una reazione, non semplicemente a un atto di stupro come da millenni ne esistono. Riflettendo allora sul Törless di Musil, che peraltro Albinati cita espressamente in un capitolo del suo romanzo, ho pensato che non è tanto quel romanzo a lambire come riferimento letterario quello di Albinati, ma che – al contrario – è quest’ultimo romanzo a permetterci di allargare il campo delle interpretazioni possibili e delle valenze del romanzo di Musil medesimo. L’iniziazione al maschile, nel Törless, era dettata da regole che sconfinavano nella violenza pura e nel sadismo; ma per molta critica l’opera era lo squarcio di una società che manifestava gli scricchiolii sinistri e che anticipavano, come certe pitture di Egon Schiele o di Otto Dix, l’avvento del nazismo. Ho sempre diffidato di queste interpretazioni fondate sul senno di poi, ma rileggere oggi il romanzo di Musil, alla luce di quello di Albinati, suggerisce che anche quell’opera rivela aspetti che la critica non ha affatto colto, o solo in parte, e cioè nel senso di vedere solo nella cultura nazista incipiente i germi di una violenza che sarebbe esplosa come un fattore puramente irrazionale nel cuore della civile Europa del ‘900, ma da cui la gran parte della cultura europea era infondo estranea.

Gli atti di sadismo compiuti nei confronti di Basini, hanno invec una radice esplicita nel suo essere effeminato, cioè un non maschio. La sua omosessualità è quindi una colpa che va punita, aldilà dell’occasione che provoca gli atti di sadismo, culminati nello stupro ripetuto, di cui Basini diventa oggetto. Il furto che egli ha commesso e che i suoi compagni d’arme conoscono, è l’occasione che fa scattare un ricatto cui Basini è predestinato più di altri proprio a causa della su omosessualità. La mancata denuncia alle autorità superiori del furto medesimo, che sarebbe costata l’espulsione del ragazzo, è parte integrante dell’educazione militare e forse non lo era di meno anche nei collegi religiosi, dove il rispetto della regola formale entra sempre in contraddizione con una regola maggiore che sovrasta l’istituzione e cioè che la titolarità dei cosiddetti valori che l’ispirano è di ogni singolo e non solo dell’autorità; tanto che molti dei cosiddetti abusi vengono incentivati dall’autorità stessa. Chi ha fatto il militare sa bene che una buona dose di bullismo è sollecitata dagli ufficiali e basta ricordare Full metal jacket di Stanley Kubrik. Proprio la vicenda di Basini e il suo stupro ripetuto in quanto ritenuto non maschio dai suoi aguzzini, ci fa capire qual è l’oggetto primario sul quale si esercita la sopraffazione: le donne.

Gli anni ’70.

Affermavo, all’inizio, che il romanzo di Albinati è anche sugli anni ’70, prima di tutto a Roma, anche se le sue osservazioni allargano la visuale e offrono spunti di riflessione che riguardano un contesto più vasto. Nel farlo, lo scrittore torna a porre una questione: che cosa è il fascismo in rapporto alla cultura borghese che lui conosce? Egli smonta prima di tutto la facile narrazione che gli autori del delitto del Circeo fossero dei pariolini: se mai erano dei pariolini acquisiti, ma appartenenti a un milieu più anonimo, più consono all’origine sociale di molti di loro – Angelo Izzo per tutti – e con l’eccezione di Andrea Ghira, il solo appartenente a una famiglia alto borghese. La precisazione è importante perché gli autori del delitto del Circeo appartengono piuttosto alla dissoluzione di un ceto e di una cultura borghesi, piuttosto che rappresentarne una versione alta o almeno saldamente egemone. In realtà, il milieu reale è una sotto cultura piccolo borghese, che disprezza prima di tutto la complessità dei problemi e il cui odio represso s’intreccia con il rancore di classe e di genere della parte più retriva di un ceto e di una popolazione maschile intaccate entrambe, sia dall’insubordinazione operaia al nord, sia dalla ventata libertaria e anti autoritaria dei movimenti nati alla fine degli anni ’60. Una crisi dentro la quale i ceti colpiti, ma anche gli individui, coltiveranno la propria rivincita in varie forme: dalle violenze fasciste con le complicità statali e internazionali della stagione stragista, a un più lento processo di coagulo che oggi – per esempio – si esprime nel leghismo e nella reazione del cattolicesimo più retrivo che vede in Bergoglio addirittura  un nemico da abbattere.  

Quale immagine degli anni ’70 ci restituisce il romanzo? Per chi ha vissuto quegli anni prevalentemente a Milano e nel Nord, la prima sensazione che l’affresco di Albinati suggerisce è l’assenza della classe operaia nel contesto romano: le due sole proletarie presenti nel suo libro sono le vittime del Circeo. Tale constatazione mi rimanda a una serata del festival dell’Unità di Milano del 1975, anno quanto mai fatidico, dove Pasolini tenne un memorabile intervento: memorabile nel duplice senso dei contenuti di quel discorso e perché fu forse l’ultimo grande suo intervento pubblico prima della tragica morte. Lo scrittore disse molte cose durante quella serata, fra queste ricordò – come aveva già fatto altre volte – la sua difficoltà nel comprendere la cultura operaia e cosa essa rappresentasse. In realtà, se si pensa all’intensa rubrica di corrispondenza che tenne per oltre un anno sulla rivista Vie nuove, dialogando in particolare con i minatori toscani, non si deve credergli del tutto, ma aveva ragione su un punto capitale e cioè che la presenza operaia, troppo esigua nella realtà romana, faceva sì che fra certe istanze politiche rivoluzionarie – fasulle – di quegli anni e il potere inteso come istituzioni e apparati, non ci fosse niente in mezzo. A Milano e nel nord, invece, il monolite operaio costituiva immediatamente un termometro per capire se una certa azione, un’idea di sciopero, una manifestazione, una certa forma di lotta che usciva dai termini della legalità, passava o non passava. Non mi riferisco al plauso o al consenso di partiti e sindacati, perché le lotte di quegli anni travalicavano assai i confini che il Pci e la Cgil intendevano costruire loro intorno; parlo proprio della presenza operaia, del suo peso specifico in ogni momento e su ogni questione della vita sociale, a cominciare dai funerali dei morti per mano fascista del 12 dicembre. Lo stesso si può dire dei momenti più significativi e tragici sia della stagione stragista sia di quella successiva (mai dimenticarlo che venne dopo), in cui una parte del movimento scelse sciaguratamente la lotta armata. La seconda immagine – strettamente legata alla prima – che il romanzo mi rimanda, è la paradossale lontananza del potere, la sua indeterminatezza. In quelli che definirei due capitoli metafora, Albinati riesce a rappresentare tutto questo in modo assai efficace. Nel primo si descrive un episodio che sembra piuttosto il mimo di un’azione reale, sebbene ricalchi – purtroppo – fatti accaduti. Due attentatori su una motocicletta presidiano il quartiere: solo che i due sono armati di una pistola ad acqua, in uno scenario che oscilla fra l’onirico e lo sberleffo, che ricorda molto di più la stilizzazione dei balletti di West side story piuttosto che la lotta politica. Gli attori di quelle azioni sembrano muoversi dentro un vuoto penumatico in cui esistono solo loro, su un territorio che si contendono con altri di un colore diverso. La scena dei due con pistola ad acqua finisce in modo tragicomico, mentre lontano dal quartiere di Roma dove il tutto si svolge e cioè dentro i Palazzi del potere costituito – che non vediamo – si muovevano le fila che tiravano entrambe le schiere come burattini, da un polo all’altro dentro la dinamica della narrazione tossica degli opposti estremismi. In primo piano rimane solo quel milieu ambientale appartenente alla medesima classe sociale e cultura in decomposizione, perché infondo entrambe le schiere che si affrontano – almeno nel contesto romano – sembrano provenire dallo stesso tessuto sociale. A lettura ultimata ci si domanda: era solo una questione romana? Lo sguardo decentrato e grottesco di Albinati è certamente estremo, sarebbe facile obiettare che anche a Roma c’era dell’altro, che le forze democratiche e sindacali che alimentavano una dialettica diversa e che riequilibravano le punte più estreme di quello scontro esistevano anche lì; ma stiamo parlando di un romanzo e non di una riflessione saggistica e sono proprio gli sguardi estremi – a volte – a mettere in luce aspetti che altrimenti non si vedrebbero. La scelta felice, da un punto di vista narrativo, di armare i suoi due improvvisati terroristi di una pistola ad acqua e le reazioni che tuttavia la loro azione suscita nelle due improvvisate vittime, diventa così la metafora di una lotta armata che fu al tempo stesso tragica e insulsa, del tutto fuori dalla storia, condannata prima di tutto alla sua tragica irrilevanza e dalle conseguenze devastanti sul piano sociale e politico.


10 Certamente il milieu dei tre assassini del Circeo è di tipo fascista, ma essi non erano dei militanti in specifiche organizzazioni o gruppi. Anni dopo, Angelo Izzo sarà interrogato in merito alla strage di Bologna e altri eventi, ma solo perché aveva ricevuto (o millantato di avere ricevuto), confidenze da altri detenuti durante la carcerazione.    

11 Mi riferisco all’assemblea in cui ci fu una vera e propria rissa fra uomini del servizio d’ordine di Lotta Continua e donne della stessa organizzazione.

SU LA SCUOLA CATTOLICA DI EDOARDO ALBINATI: SECONDA PARTE

L’identità maschile, lo stereotipo e la violenza

La scuola cattolica ci parla di una tragedia moderna che ha le sue radici in un passato mai superato, quello che Lea Melandri, citando il titolo di un suo libro, definisce L’infamia originaria.3 Se mai c’è da chiedersi se ci sia una possibile catarsi alla fine del romanzo se Albinati sia riuscito a raggiungerla. Per introdurre  la tematica centrale del romanzo, parto dal capitolo quinto, dove il Narratore affronta il mito della virilità maschile in crisi, messa in discussione da cambiamenti di costume che si erano affacciati già a metà degli anni ’60: i capelloni, per esempio, un primo passo verso la femminilizzazione del maschile che proseguirà negli anni successivi.

Tale processo, che avvenne prima di tutto nel costume, influirà su tutti i comportamenti sociali, ma susciterà anche processi reattivi che riguarderanno sia la cultura di destra sia quella di sinistra. Pasolini non amava i capelli lunghi, ma specialmente non li amava la cultura comunista profonda del Pci che rispetto a tali cambiamenti di costume si troverà spesso in difficoltà quando i movimenti di quegli anni e poi il femminismo porteranno in primo piano nel dibattito politico la riforma del diritto di famiglia e la contestazione dell’assolutezza della patria potestà, il divorzio, l’autodeterminazione sul proprio corpo, l’interruzione della gravidanza. Proprio rispetto all’identità maschile in crisi il romanzo di Albinati pone diverse domande in modo a volte più drammatico in altre più leggero, interrogandosi prima di tutto rispetto all’oggetto emblema di tale identità, cioè il pene:   

È infatti l’identità sessuale maschile a risultare goffamente sovrabbondante piuttosto che quella femminile manchevole. Il pene non è qualcosa di cui le donne sono mutilate, ma che gli uomini si ritrovano in più, e che li accompagnerà tutta la vita, come un saprofita, un inquilino niente affatto segreto che si comporta in modo stravagante vivendo un’esistenza parassitari e parallela a quella del suo vero ospite.

La contro teoria letteraria di Albinati, rispetto a una vulgata freudiana che andrebbe a dir poco ridimensionata e messa in relazione con quanto Freud stesso dirà e scriverà nell’ultima parte della sua vita a proposito del godimento femminile e altro, non si limita a sottolineare alcuni aspetti ridicoli della mitologia intorno al pene, ma ne ricorda la fisiologia stravagante di cui gli uomini sono ben coscienti ma di cui non amano parlare. Proprio il discuterne, invece e in modo esplicito, è uno dei meriti del romanzo di Albinati, che diventa ancor più crudo nel brano che segue:

Il cazzo è duro finché, dopo il rapporto sessuale, si ammoscia. In verità lo era anche prima del rapporto… ma quello che colpisce è sempre il dopo, come la domanda su cosa ci sarà dopo al morte spaventa sempre di più di quella su cosa ci fosse prima della vita. Comunque lo si metta il sesso è svigorente. …. Tutto ciò ha un’evidenza plastica: con l’amore da rigido e robusto, il corpo si fa languido tenero, rilasciato, molle, come appunto quello di una donna.

Il sesso sarebbe allora nient’altro che una trappola tesa dalla donna all’uomo per svilirlo. … Insieme all’attrazione, i maschi provano sempre un vago terrore o ripugnanza per l’intimità, temono quella con le femmine e di desiderarla nei confronti di altri maschi, una pulsione scandalosa che va repressa. Pag 153.

In questo passaggio, lo scrittore sovrappone un dato tanto ovvio da apparire ridicolo – che il pene è normalmente non eretto e non solo dopo il coito – collegandolo alla paura della morte con un accostamento che è al tempo stesso irritante quanto altrettanto ovvio, perché è proprio questo il nesso occulto ma non troppo che si cela dietro le paure e i miti. Albinati crea un corto circuito che va al cuore del problema: la paura della fragilità che, come vedremo nei passaggi successivi, fa scattare la molla della violenza:   

Anche se non lo confesseranno mai, i maschi hanno una paura atavica del sesso, del contatto con l’altro sesso; il timore originario che ne hanno è almeno pari alla curiosità e al desiderio. 164… Eppure l’invidia verso il femminile resta fortissima, e non si trova modo di porvi rimedio. L’unica è ricorrere a una brutale compensazione… E una legge già vista: quando l’angelo di Dio si prende l’anima allora il diavolo s’impadronirà del corpo. Siccome è sempre la donna a dare inizio, l’uomo per ripicca si usurpa il diritto di porre fine, ponendosi così all’estremità opposta della vita, dove gli antichi immaginavano vegliassero comunque divinità femminili. Pag 166. https://maschileplurale.it/

Questa è anche la ragione per cui spesso i maschi giovani cercavano in una donna esperta (a volte semplicemente immaginandolo), un’iniziazione sessuale che altrimenti li impaurisce. È così nel capitolo ottavo del libro dove entra in scena il personaggio della signora Arbus. Bella e affascinante quarantenne, seduttiva quanto basta e consapevole di esserlo – ma forse soltanto nell’immaginazione dell’alter ego di Albinati – incarna nel romanzo un archetipo che ancora in quegli anni poteva conservare una funzione che oggi sembra sfumata perché, con l’emancipazione femminile diffusa, è diventata troppo reale e possibile per essere solo immaginata. Più che non il complesso edipico era proprio la rassicurazione che una figura simile poteva rappresentare, in cui si annidava la ragione profonda del fascino: era pur sempre il modo immaginario di ricongiungersi alla madre, da un lato, ma dall’altro la possibilità di essere iniziati al sesso da una donna adulta, di sicura esperienza, ma anche protettiva, capace di affrontare eventuale defaillances. Prevaleva l’edipo, oppure l’altra prerogativa, affidata in tempi ancora anteriori alle visite ai bordelli?    

Il cerchio si chiude quando dallo stereotipo linguistico alla violenza il passo diventa più breve di quanto non si pensi. Del resto, se andiamo ai primordi della filosofia greca, è facile constatare come l’invidia del femminile e di ciò che, secondo una narrazione in buona parte fantasmatica, esso rappresenta, si trovano nelle parole di Platone, ma anche in una certa mitologia ed esaltazione astratta del femminile, che è il rovescio della medaglia di una reale squalificazione nel mondo reale, come vedremo meglio in altre parti del romanzo.   

Pag 313. È dunque con lo stupro che ci si libera di colpo di questa ipoteca. Il rapporto forzato ha tutte altre finalità, ….  quello che ci si assicura usando violenza a una donna di sicuro esorbita dal piano sessuale, avrà forse una porzione minima in comune con un rapporto consenziente, il resto deve essere diverso, specifico, connesso piuttosto all’esercizio della forza in quanto tale, sottomissione della volontà altrui alla propria, all’umiliazione di chi la subisce, insomma il piacere specifico che deriva dal potere.

La violenza ha un rapporto assai labile con il soddisfacimento sessuale perché il suo punto nevralgico sta nella volontà di sopraffazione, nell’esercizio di un potere di sottomissione.

Il delitto del Circeo fu tutto questo e lo fu in modo emblematico perché i tempi erano già cambiati: perciò esso divenne lo specchio nel quale era possibile vedere la questione della violenza sulle donne nella sua profondità storica e antropologia e al tempo stesso sulla superficie dei tempi. Che nesso c’è fra il terminale estremo, la violenza pura e semplice nelle sue forme più efferate e la trama di stereotipi linguistici e non che la precedono? Un passaggio assai efficace Albinati lo dedica alla fraternità che il senso comune ascrive facilmente dalla parte dei cosiddetti valori:

Peraltro, nell’affermare il principio della fraternità ci si è scordati di notare la sua origine di alleanza difensiva e offensiva, cioè, fondamentalmente, di distinzione fra un “noi “ e un “loro”. La fraternità universale è un ossimoro o un’astrazione … nel mondo reale di fraternità ce ne sono molte e in permanente conflitto fra loro, dato che sono sorte proprio per questo; per difendere i propri fratelli. Non per niente il sentimento di fraternità, poeti e scrittori ci hanno insegnato che nasce perlopiù in stato di guerra, al fronte, in trincea … tra le fazioni maschili che si combattono a sangue (poniamo gli hooligans a seguito delle squadre di calcio), passa comunque cento volte più somiglianza che differenza. E infatti spesso ci si riconosce reciprocamente … quando muore un ultra quelli delle altre squadre gli rendono onore. Il vero scarto è fra una banda di uomini e di donne, più ancora accentuata quella fra una banda di uomini e una donna. Pag. 771.

Un modo assai noto del mondo maschile di contenere le pulsioni più violente e disordinate sono gli sport e la palestra. Il Narratore ne frequenta una insieme ad Arbus. L’incontro con l’istruttore è emblematico. L’uomo, alle prese con un manipolo di giovani maschi da istruire, esordisce in questo modo:

L’uomo è una bestia, la donna un’opera d’arte.  Pag. 215.

L’ars retorica contenuta in questa sentenza è ben nota: l’esaltazione astratta e iperbolica del femminile è presente in tutta la letteratura occidentale fin dai primordi, tanto da essere a sua volta uno stereotipo che allontana, piuttosto che avvicinare, la donna. Porre qualcuno o qualcosa su un piedestallo così elevato significa infatti, prima di tutto, distanziare l’oggetto da sé e farlo diventare una sorta di idolo: niente altro che un’operazione di difesa, cui segue quasi spontaneamente il desiderio di volerlo abbattere, come prima o poi accade con tutti gl’idoli. L’idolatria del femminile è uno degli ingredienti che nutrono la misoginia e una rappresentazione particolarmente drammatica di questa ambivalenza, ma forse sarebbe meglio dire corto circuito, si trova nella poesia di Baudelaire. Drammatica perché, pur appartenendo alla tradizione misogina, il poeta demolisce prima di tutto la falsità del linguaggio della courtoisie rivelandone il suo rovescio.

Nel romanzo di Albinati l’ironia leggera svolge la stessa funzione, ma i tempi sono cambiati, ci vuole poco a mettere alla berlina una falsità ormai conclamata e infatti, in fin dei conti, è un istruttore di palestra a farsi portavoce di una forma ideologica cui non crede più nessuno. Tuttavia, all’ars retorica dell’esaltazione astratta del femminile ha fatto sempre da contrappeso, anche in letteratura, il suo opposto reale:

Un uomo può disporre del corpo femminile in quattro modi: pagando le donne per le loro prestazioni, visionando la loro immagine nuda o abbigliata in  foto e filmati, seducendole, sequestrandole. Tra queste quattro modalità che sembrano in alternativa fra loro, ci sono in realtà sottili legami …. Pag. 805….quando viene ritrovato il cadavere di un uomo, quasi sempre è vestito, quando ne viene ritrovato uno di donna , il più delle volte è nudo. … pag. 807.  


3 L’infamia originaria (1977), è uno dei primi e dei più importanti testi teorici del femminismo italiano. Il lavoro di Lea Melandri, che nasce dall’esperienza della rivista L’Erba Voglio, è una critica che investe al tempo stesso l’ordine economico e quello sessuale che, “si implicano e si sostengono reciprocamente”.

RIFLESSIONI INTORNO AL ROMANZO DI EDOARDO ALBINATI LA SCUOLA CATTOLICA. PRIMA PARTE

Premessa

Una prima versione di questo intervento è stata letta al seminario organizzato dalla Società di Psicoanalisi Critica sul tema della menzogna nella clinica analitica. Alla relazione seguì un dibattito con Edoardo Albinati, poi le domande del pubblico. Il video dell’incontro si trova nel sito della SPC. La versione pubblicata una prima volta sulla A.Verare, è molto più ampia della relazione poiché le valenze del romanzo di Albinati sono molteplici e rileggendolo in alcune parti mi sono reso conto che vi erano aspetti del libro che erano rimasti in ombra.  Data la lunghezza della riflessione ho pensato di riproporla per parti.  

Il romanzo nel contesto della tradizione italiana.

La scuola cattolica è un caso unico nella storia recente della narrativa contemporanea italiana, sia per l’ampiezza inusuale del romanzo, sia per il modo in cui lo scrittore padroneggia, all’interno dello stesso testo, i vettori del romanzo storico, la tradizione del romanzo saggio, con punte – specialmente nel finale – da romanzo filosofico. Sono elementi che appartengono a tradizioni illustri, italiane ed europee, ma che raramente si trovano plasmati in una singola opera.

     Anche le voci narranti sono diverse e s’integrano dando vita a una polifonia cui partecipano i personaggi stessi, che entrano, escono e ritornano in scena con l’esattezza dei tempi teatrali, dando vita a un sottotesto di narrazioni laterali, mai marginali.

     Definirlo un affresco mi è parso naturale e come in tutti gli affreschi, i fili delle diverse vicende s’intrecciano in nodi assai complessi. Ci sono gli anni ’70 in Italia e prima di tutto a Roma, c’è la vita da collegio in un prestigioso istituto cattolico che sta a Roma come il Gonzaga sta a Milano, c’è un repertorio di film e di suggestioni a cavallo di più generazioni, ci sono le caratteristiche di un’educazione borghese e tante altre cose ancora. Tuttavia, il filo che conferisce unità e unicità a tale affresco e che giustifica l’uso della parola medesima, è che a narrare il nucleo centrale dell’opera e cioè l’iniziazione di un giovane maschio italiano al linguaggio, alla cultura e alla vita, è un uomo che la racconta dall’interno, partendo cioè dalla propria esperienza con impietosa severità e drammaticità, ma che in alcuni casi scivolano in situazioni grottesche e persino comiche; sulle compresenza di questi elementi in apparenza dissonanti, si gioca un altro degli aspetti qualitativi di quest’opera originale.

     Il profilo educativo scelto dall’autore non è neutro: Albinati parte da sé e dalla sua esperienza, tuttavia essa sconfina fino ad abbracciare un sostrato antropologico che appartiene al gruppo maschile qualunque sia la sua appartenenza sociale o identità culturale. L’iniziazione di cui ci parla lo scrittore travalica dunque la storicità e ci mette a contatto con il problema atavico e patriarcale della violenza maschile sulle donne, trasversale a società diverse, a diverse dominazioni classiste, a modi sociali di produzione e culture diverse.

     Albinati lo fa alternando riflessione a narrazione di esperienze, ma prima di tutto repertando, come un annalista cinese, tutti i passaggi linguistici che portano allo stereotipo sessista e discriminatorio: sono espressioni a volte volgari a volte semplicemente idiote, che s’impongono nella loro serialità ossessiva, uguale a se stessa nel tempo e nello spazio, fino alla noia. Albinati le dissemina tutte in ogni parte del romanzo, centellinandole in modo disturbante e imbarazzante, perché mette di fronte il lettore maschile all’uso comune di espressioni che tutti conoscono (anche perché sono talmente stereotipate che sono le stesse di quando andavo a scuola io in un ambiente completamente diverso da quello descritto da Albinati), che tutti bene o male hanno usato con minore o maggiore propensione misogina, ma che segnano un’identità linguistica maschile, una koiné che diventa parte costitutiva di un atteggiamento discriminatorio che finisce per diventare tanto acritico da essere accolto come naturale. Questo repertorio linguistico, che scorre come un dissonante refrain per l’intero romanzo, diviene il vocabolario che contiene un lessico che sottintende una cultura e un’antropologia inconsce. Albinati non critica le espressioni repertate, ma semplicemente le mostra e le riporta alla superficie visibile e consapevole, mettendole così a disposizione di chi legge. Delineati a grandi linee alcune caratteristiche stilistiche del romanzo, che verranno riprese anche successivamente, veniamo al contesto sociale e ambientale dell’opera.

Il san Leone Magno

La scuola cattolica di cui scrive Albinati è un prestigioso istituto religioso privato: un fiore all’occhiello che doveva formare i giovani provenienti da famiglie borghesi benestanti di tradizione cattolica, abitanti in un elegante quartiere residenziale a nord di Roma. Più che la futura classe dirigente, Albinati ci descrive un ceto medio delle professioni, con qualche punta verso l’alto. Il loro impegno sociale e religioso si esprimeva in poche e scontate cose e prima di tutto – se non esclusivamente – proprio nella scelta di quella scuola, solo maschile e in cui i docenti sono sacerdoti. Nelle prime 400 pagine, il romanzo ricostruisce puntualmente il tipo di educazione e lo stile degli educatori. Trattandosi di un collegio cattolico e pensando ad altre istituzioni totali, nonché a c­­elebri film o romanzi, scattano nella mente di chi legge dei riferimenti molteplici, letterari e non, ma ecco in arrivo la prima sorpresa. Il clima non è greve e repressivo, sebbene la repressione non manchi e non manchi neppure qualche episodio di piccola violenza fisica da parte di qualcuno che poi commetterà ben altri delitti; ma nel complesso il clima è diverso:

Non ci arrivavano. Non lo capivano. Non capivano che i loro precetti liberali ci davano il voltastomaco, concepiti com’erano per farci stare buoni. Certo, ne approfittavamo, ne approfittavamo e basta, ma li disprezzavamo manifestando questo disprezzo quasi come una sfida che loro certo vedevano con chiarezza ma erano costretti a fingere di non vedere. Fino all’ultima goccia succhiavamo il miele di un’educazione permissiva. Quel miele spremuto dalle dottrine moderne e mescolato alla tradizionale bontà. Disprezzavamo chiunque cercasse o pretendesse di “capirci.” Quelli di noi che hanno commesso dei delitti, credo che ci siano arrivati per il gusto di vedere fino a che punto potevano spingersi, continuando a essere “capiti.” Nella comprensione il coltello affonda come nel burro.

Essendo noi stessi il prodotto di quelle balle progressiste sull’educazione, sapevamo benissimo come smentirle, o meglio, eravamo noi la smentita; la prova che funzionavano al contrario. La prima generazione ad avere goduto di una quasi illimitata libertà ne ha fatto il peggiore uso possibile: che del resto è l’unico uso possibile, il più significativo perché eccezionale, estremo. La libertà pura non consiste che in questo. Ed è la sua purezza a fare paura.”1

Siamo lontani da un atteggiamento intimidatorio, abbiamo a che fare con un mix particolare, fra un cattolicesimo che, senza rinunciare ad alcuna delle sue prerogative storiche ben note, si sforza di essere a la page con i tempi: operazione quanto mai rischiosa per chiunque e quasi sempre votata al fallimento, ma specialmente per chi pensa di dover custodire una verità assoluta da millenni! Già da questo passaggio si può intuire come una drammatica ambivalenza corra lungo l’intero romanzo: il nodo di questa educazione non viene del tutto sciolto dal suo autore perché – forse – è impossibile. Tuttavia, lo specifico cattolico occupa una parte importante del romanzo. Al brano di cui sopra, infatti, accosto subito una riflessione di alcune pagine più avanti che sposta lo sguardo rispetto al precedente:

Avere come modello Gesù, è stato sempre il contrario di tutto. Forse è proprio da lui che nasce questa fissazione di volere rovesciare, …. Le gerarchie rovesciate, rovesciare i banchetti dei mercanti… E poi Gesù ha rovesciato l’ultima e unica certezza degli uomini, la morte, resuscitando Lazzaro, probabilmente la più grande ingiustizia mai commessa. Vallo a spiegarlo agli altri morti rimasti sottoterra, ai loro parenti. …. Il sacerdote che volesse seguire l’esempio di Cristo nella sua interezza, sarebbe paralizzato dal compito….2

Queste parole possono suonare irritanti per il cattolico, ma risuonano anche in chi si sente lontano da quella cultura. Anche i rivoluzionari vogliono rivoluzionare e rovesciare tutto e nel prosieguo dell’opera vedremo come questo dover essere assumerà valenze e toni tragicamente grotteschi. Nel mezzo, fra questi due sguardi, quello di chi vuole rovesciare tutto e l’altro, di un cattolicesimo che cerca di seguire i tempi, c’è un vuoto che il narratore non colmerà del tutto, ma tornerà più volte sul tema con variazioni che lo renderanno di volta in volta più complesso senza scioglierlo. Da un lato un modello quasi impossibile da raggiungere persino dai ministri del culto, dall’altro un adattamento che, durante il ‘900 e proprio nell’Italia degli anni ’70 assumerà colorazioni grottesche e persino – mi si perdoni l’ossimoro – tragicamente comiche come in questo brano dove lo sguardo viene portato sulla propensione cattolica al perdono del reo: 

Questa regola santa mi stupiva allora come adesso e va nel novero delle cose di cui riconosco la grandezza spirituale, ma è appunto questa grandezza a sgomentarmi e a irritarmi …. Mi accadrà in seguito molte volte quando vedrò uomini di chiesa così appassionati di peccatori da farli diventare i loro cocchi, quasi i loro beniamini … Pensai una volta a come vincere il Nobel per la Pace: un metodo sicuro è quello di fare il terrorista, mettere bombe e far saltare aeroplani eccetera poi a un certo punto decidere di non esserlo più e deporre le armi e appunto in questo modo diventare a tutti gli effetti un pacificatore, un uomo di pace. Le vittime non scatenano tanta passione quanto il reo redento, è ovvio.

Albinati ci mette spesso di fronte al paradosso e non so se avesse in mente qualcun altro che andasse oltre il perimetro degli anni ’70. Questo passaggio del romanzo mi ha ricordato la storia di Celeste Di Porto, di molto precedente e di certo più tragica delle tragicommedie del pentitismo brigatista, che destano pure il sospetto che certi provvedimenti favorevoli nei loro confronti fossero indirizzati a ottenere il silenzio su molte questioni spinose.3 Il modo apparentemente leggero di questo brano solleva un problema che ha percorso la storia italiana di quegli anni: la sovrapposizione fra una visione del perdono che appartiene del tutto legittimamente al pensiero cattolico e l’impunità di stato, che è altra cosa: ci ritorneremo. Tuttavia, la violenza, anche quella più cruda, fa parte a tutti gli effetti della strategia educativa, senza che questo susciti alcuna reazione:

La violenza è nel mito e nella storia. A grattare sotto la crosta degli insegnamenti che ricevevamo usciva tutta un’altra versione, un’altra religione, una morale rovesciata. Bastava andare un dito sotto o qualche pagina più in là, tra gli episodi meno raccontati, … come quando Achille sgozza un po’ di prigionieri troiani, per celebrare il funerale di Patroclo. E già, li sgozza! Mentre quelli avevano le mani legate dietro la schiena. È roba che si insegna a scuola … a ragazzini di tredici e quattordici anni, come esempi di eroismo, modelli da imitare, voglio dire sì Achille il grande Achille, un mito, un eroe! Non un criminale nazista!…4

La storia, nella letteratura; a volte fa da controcanto all’esaltazione del femminile come un mondo altro che è al tempo stesso inaccessibile perché fuori, oltre e altrove. Proprio alcune autrici contemporanee, peraltro, hanno riscritto la storia di alcuni miti, attingendo a fonti peraltro esistenti ma trascurate e dalle quali emerge una narrazione del tutto diversa: penso a Christa Woolf e a Marguerite Yourncenar in particolare. 

Famiglia, morale cattolica e morale borghese https://www.youtube.com/watch?v=k8O30wPbjHc

Alla relazione fra cultura cattolica e borghese, dentro e fuori la famiglia, il romanziere dedica molti capitoli e passaggi nel libro, alternando come sempre la riflessione al caso emblematico, alla narrazione.  

La famiglia è per eccellenza il luogo del compromesso, essendo prima di tutto un territorio di scambio tra sessi ed età diverse. Da tempo non pensabile una assoluta rigidità educativa, che però non viene quasi mai abbandonata del tutto …. I genitori talvolta sono tentati dalla controriforma, minacciano di tornare indietro di decenni anzi di secoli, ripristinando castighi, correzioni severissime eccetera. … I modelli delle epoche trascorse forniscono di membra e organi la famiglia contemporanea: una testa borghese, un cuore romantico, uno stomaco medioevale animano un corpo che cammina sulle gambe del rispetto arcaico verso i genitori. Quelle gambe spesso vacillano. …. Pp- 411-12.

La convivenza fra elementi diversi e spinte contraddittorie fra di loro ha segnato profondamente le famiglie italiane, anche perché il processo di modernizzazione capitalistica degli anni ’60, in una società ancora largamente contadina, fu impetuoso e disordinato, ma veicolò anche comportamenti che probabilmente non erano previsti sia dall’establishment cattolico e democristiano, ma neppure dalla cultura comunista: non è un mistero che la Dc fosse convinta, ancora a metà degli anni ’70 e con tutto quello che era accaduto, di vincere il referendum sul divorzio, ma la stessa cosa in campo opposto lo pensava anche parte del Pci, sostanzialmente altrettanto estraneo a quei cambiamenti culturali che furono gestiti caso per caso all’interno delle famiglie italiane e tutto sommato con grande buon senso. Il maggiore accesso alla cultura psicoanalitica, almeno a partire dal ’68 in poi, costituì un supporto prezioso, ma successivamente ai cambiamenti più tumultuosi.

Nel brano successivo, Albinati allarga di nuovo il campo della riflessione:

L’identità virtuale fra la morale borghese e quella cristiana, si spezza in questo punto. La morale borghese sembrava solo un doppione di quella cristiana, ma si rivela autonoma laddove difende con puntiglio le scelte di facciata, il fariseismo, contro l’adesione totale dell’anima che Cristo esige.  Pag 495….

E poi c’è una clausola del contrato con cui il cristianesimo si è consegnato allo spirito borghese …. che si rivela alla lunga svantaggiosa: voglio dire quel baratto in cui per conquistare il resto del mondo sulla scia delle flotte imperialiste, si perdeva l’Europa, … Bene il contratto è stato onorato, l’Europa perduta,… prova ne è che i suoi legislatori hanno vergogna a nominare il cristianesimo nei suoi principi ispiratori: la Grecia sì, i Romani sì, gli illuministi pure, ma Cristo che per primo ha detto che tutti gli uomini sono uguali, no. Pag. 514.

In effetti, c’è qualcosa di paradossale nella determinazione con cui i legislatori europei hanno escluso qualsiasi accenno al Cristianesimo nei principi costitutivi della comunità. Paradossale, tuttavia, non vuol dire ingiustificato, ma che, forse, sono le motivazioni reali che vanno cercate. Albinati solleva a mio avviso questo problema: perché l’Europa può essere tutto fuorché il richiamo al Cristianesimo? La motivazione non è chiara perché alle sue spalle ci sono sensi di colpa, non detti e in definitiva non dicibili. Come è possibile accennare a una religione della fratellanza e all’eguaglianza dopo le imprese imperialiste e due guerre mondiali in cui i popoli cristiani si sono scannati fra loro? Meglio tacere, ma nel silenzio opera la rimozione. La storia dell’Europa è quella che è e cinquant’anni e più di pace, sbandierata a sproposito (il Congresso di Vienna del 1815 garantì un periodo di pace ancor più lungo e poi la Jugoslavia non fa parte dell’Europa? Ci siamo già dimenticati di Srebrenica e di Serajevo?) è una coperta tropo corta per coprire tutto il resto; per non parlare dei rischi di implosione dell’Unione europea.   

E veniamo alla famiglia borghese, di cui tratta questo libro: contestata sul piano ideologico e svuotata sul piano pratico, allargata, decimata sul piano demografico, privata delle sue canoniche appendici (servitù), villeggiature, frequentazioni del parentado, cerimonie di iniziazione). Certo che a prima vista sembra il luogo della conservazione piuttosto che quello del rinnovamento. Basti pensare alla implacabile monotonia su cui si incardinano le consuetudini domestiche… polpettone e zucchine ripiene …  la pasta ripassata  … 416

Possono cambiare gli ingredienti ma penso che ciascuno possa stilare la propria lista. Poi la conclusione lapidaria:

L’unica cosa da cui la famiglia non può proteggere è da se stessa. Quando al suo interno è il non – famigliare a manifestarsi. 417-

FINE DELLA PRIMA PARTE


1 Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli editore, Milano 2016 pag.

2 Op.cit. pag. 32.

3 Op.cit. Pag.65. Celeste di Porto, una giovane donna di origine ebraiche, abitante del ghetto di Roma, fu amica e forse amante del gerarca fascista Antonelli. Tale relazione la salvò ma ne fece pure una delatrice, tanto che ebbe un ruolo tragico nel rastrellamento del ghetto. Nel dopoguerra fu sottoposta a diversi processi, finché non decise di convertirsi al cattolicesimo, dichiarando addirittura che avrebbe preso i voti e si sarebbe di ritirata in convento. Tale proposito non ebbe seguito, ma la conversione pose termine ai suoi guai giudiziari.

4 Op.cit pp. 403-4

MARCEL PROUST

Ci sono tre fuochi che alimentano il grande romanzo di Proust e che funzionano da veri e propri attrattori. Il primo è assai noto: la petite madeleine. Il secondo e il terzo li possiamo rinvenire una volta arrivati alla fine, al Tempo ritrovato, che chiude il cerchio della narrazione e permette uno sguardo retrospettivo anche da parte del lettore.

La madeleine è l’infinitamente piccolo che spalanca le porte su un universo narrativo. L’innesco della memoria soggettiva, potenzialmente senza limiti, appare come una specie di big bang emozionale, l’istante da cui tutto prende avvio e poi acquisisce la sua forma strada facendo, adattandosi plasticamente all’ambiente che si metamorfizza insieme a esso. La madeleine non è dunque una metonimia: essa non rappresenta nella parte il tutto, bensì l’evento che dà vita al tutto, la singolarità irriducibile che anche per i fisici è una barriera che non può essere superata. Cosa c’era prima del Big Bang è una domanda assurda e lo è anche il chiedersi cosa c’era prima della madeleine. Per Proust è l’evento singolare da cui prende vita un cosmo; egli non ha bisogno di alcuna metafora di partenza, solo di un innesco e degli altri due fuochi che incontreremo più avanti. Marcel Proust quell’innesco lo ha cercato più volte e altrettante volte perduto durante tutta la sua vita, sia di narratore sia di uomo; fino a quando incontra l’interazione che fa nascere il suo cosmo interiore. La madeleine è questo. Nel Tempo ritrovato, tale cosmo (che per Proust è finito e non infinito come pensavano certi suoi critici) implode come un universo – appunto – che si riduce alla fine a quel nucleo denso nel quale torna a rinchiudersi. Il Narratore, a quel punto, esce dal teatro che ha costruito e nella parte finale dell’opera ci offre le sue meditazioni sull’arte e sul tempo, che non per caso è proprio l’ultima parola del romanzo.

Nel cosmo tutti i tempi sono presenti e potenzialmente sono tutti contemporanei o addirittura – secondo la descrizione quantistica della materia – è il tempo stesso a non esserci, almeno nelle modalità percettive che ne abbiamo noi esseri umani e le interazioni che accadono fra le particelle possono non portare a niente. Anche i salotti rappresentati dal Narratore non portano a nulla, le orbite intorno ad amori più o meno consumati o immaginati, i meandri di relazioni mai del tutto risolte, cioè tutto quello che costituisce il grande teatro messo in scena nella Recherche, non alludono ad altro se non a se stessi: nel cosmo non ci sono metafore.

La direzionalità e la scelta progettuale sono gli altri attrattori che ancora mancavano. Nel cosmo di Proust avvengono sì delle interazioni per lo più inutili come quelle delle particelle elementari, ma elevando un certo gusto francese per gli eccessi della frivolezza a etica ed estetica della scrittura, alla fine il Narratore trova l’interazione che permette a quel cosmo, prima di esistere e di essere narrato, poi di venire ridotto a un nucleo d’inesistenza e insignificanza. Cos’è allora il tempo ritrovato? Non è il riscatto di quel mondo, ma una liberazione dal medesimo. Ci sono pagine e pagine durante le quali non avviene niente, non perché nei romanzi si cerchino per forza la trama e l’intreccio ottocenteschi (che pure non mancano nella Recherche)1, ma perché il gioco di rimandi, divagazioni, descrizioni, sembra non avere alcun nesso fra ciò che precede e ciò che segue. Poi, improvvisamente la materia s’addensa e allora i flussi di narrazione danno vita a una costellazione e a un sistema di pianeti che girano intorno a soli più o meno grandi che possono essere il salotto dei Guermantes, oppure le estenuanti vicissitudini degli amori di Swann; ma specialmente l’amicizia del Narratore con Robert de Saint-Loup, che occupa una posizione rilevante nel romanzo e nella quale il Narratore condensa molte esperienze reali di amicizie amorose del suo alter ego che vive e non scrive. 2

L’io vivente che il Narratore rappresenta accanto a Robert, è un uomo che perde molto della sua goffaggine, appare persino spontaneo, può abbandonarsi a slanci che con una donna non riesce a concedersi, se non in modo traslato. C’entra l’omosessualità più o meno inconscia? C’entra eccome; tuttavia, e pur non sottovalutando affatto tale questione, scelgo un diverso punto di vista, anche perché la centralità del tema omosessuale riguarderà maggiormente altre parti dell’opera piuttosto che il rapporto con Saint Loup.

Le ultime due pagine de All’ombra delle fanciulle in fiore, dicono molto al proposito. Siamo a Balbec (una località inventata nella quale sono condensate molte di quelle che videro Marcel ospite insieme alla madre), a fine stagione; l’umidità – che Marcel sia il Narratore soffrono in modo particolare a causa della sua grave forma di asma cronica – sarà la ragione della rapida partenza, che lo costringerà a lasciare Albertine Simonet e le sue amiche. Questo è il registro, in parte autobiografico per quel che attiene la malattia. Vi è però una seconda causa di quella repentina partenza e cioè la telefonata grazie alla quale il Narratore si rende conto delle condizioni di salute della nonna. Tuttavia, tale telefonata sarà più importante per un’altra parte del romanzo, proprio quella dedicata al ricordo della nonna defunta, fra le pagine altissime dell’opera.

Quando il filo della memoria comincia a svolgersi risalendo a Balbec, il Narratore non rivive gli incontri mattutini con Albertine e le sue amiche – le fanciulle in fiore – ma il suo ritiro serale, anzi una vera e propria clausura protetta dalla solerzia inattaccabile della governante Francoise. Diretto in modo inflessibile da lei, che spilla le tende della camera affinché il suo addormentamento al buio non sia soggetto a deroghe e nemmeno a spiragli, rimangono i suoni del concerto, le voci delle amiche che – colui che vive e non scrive – non può raggiungere sul molo. Quel mondo femminile gli è precluso in molti modi e per lui rimane un geroglifico; se ricorda le sere in cui non poteva essere con loro, è anche perché il Narratore può accendere meglio l’immaginazione. Al di là della natura del suo rapporto personale con Robert, per il Narratore è il mondo maschile quello in cui si trova a proprio agio. Quando una sera andrà a trovare Robert in caserma, si scopre improvvisamente libero, ha persino l’ardire di chiedergli se può dormire lì. Robert lo accoglie con amorevole amicizia, solo stupendosi un poco che l’amico preferisca passare la notte in una caserma piuttosto che nell’elegante e comodo albergo dove alloggia: non c’è nulla che faccia pensare ad altro. La scelta, infatti, ha una sua logica interna e psicologica, che ha un precedente nella vita reale di Marcel Proust e cioè la scelta di arruolarsi volontario nell’esercito dopo la scuola, periodo di cui serberà un buon ricordo.2 Il Narratore sperimenta, la notte in cui dorme in caserma, il sapore della libertà, ma anche di una relazione che può vivere, non importa di che natura sia; al contrario di quelle con le donne, rispetto alle quali riesce sempre a mettersi in una posizione asimmetrica. La caserma per lui diventa il rovescio di quella stanza totalmente oscurata nella quale stentava ad addormentarsi. Trascorrendo i giorni insieme all’amico, s’interessa persino alle strategie militari, alle tattiche, segue affascinato tutto ciò che riguarda quel mondo maschile nel quale finalmente si sente a proprio agio e libero. Il militarismo e la guerra, però, non c’entrano; anzi Marcel – quando si deciderà finalmente a diventare Proust Narratore, scriverà alcune delle pagine più mirabili e memorabili della Recherche proprio contro la guerra.

Finzione e verità.

Il tempo ritrovato è dunque il suggello e il precipitato dell’intera Recherche. Si tratta di una circostanza del tutto evidente, ma a rendere ancor più concreta tale costatazione, ma specialmente ad attribuire a tale particolare di per sé ovvio, una decisiva importanza, sono state per me le pagine illuminanti scritte da Mariolina Bongiovanni Bertini proprio nelle introduzioni alle diverse parti del romanzo (mi riferisco all’edizione di Einaudi), ma specialmente a quella de Il Tempo ritrovato. Bertini ricostruisce la genesi dell’intera opera, ma nel mettere bene in fila fatti già noti e specialmente dando l’importanza che merita a un intervento polemico di Proust verso i suoi critici, permette di considerare in modo diverso e specialmente con uno spessore diverso, il problema della genesi dell’opera. Partiamo dai fatti e cioè la difficoltà incontrata da Proust nel pubblicare la sua opera. Bertini va subito al nocciolo della questione ricordando che più di un critico la riteneva fatta solo di divagazioni, senza una progettualità o un filo che cucisse insieme quelli che ho definito i pianeti del cosmo proustiano, come se fossero invece frammenti disordinati e caotici, non di un cosmo, ma di un caos. Bertini a quel punto ricorda la perentorietà con cui Proust si decise a tagliar corto con quella polemica rivelando di avere scritto l’ultimo capitolo e anche l’ultima pagina del romanzo subito dopo avere scritto il primo capitolo e di questo offre ampia testimonianza come ricorda Bertini stessa. Di per sé la rivelazione potrebbe non sembrare importante, nel senso che solo il lettore ingenuo può pensare che se sta leggendo un romanzo dall’inizio alla fine esso sia stato anche scritto dall’inizio alla fine. Non è quasi mai vero, ma è diverso il peso specifico di questa circostanza rispetto a un autore piuttosto che un altro. Nel caso di Proust è un dato rilevantissimo, perché dimostra come egli avesse bene in mente che il suo era un cosmo finito e non un caos, prima di tutto; che aveva una conclusione e che le divagazioni erano una scelta stilistica sostenuta però da altrettanto rigore nell’avere in mente fin da subito la conclusione dell’opera. Il progetto c’era eccome! ma questo porta con sé anche qualche altra conseguenza. Nel Tempo ritrovato il Narratore non finge di spiegarci il suo cosmo a posteriori e quindi con il senno di poi, ma lo fa in anticipo nascondendolo al lettore fino alla fine. La direzionalità e la scelta della conclusione permettono al Narratore di distruggere la prigione in cui il vivente s’era trovato rinchiuso e che si decise a rompere dopo la morte di entrambi i genitori, ma specialmente della madre.

Nella seconda parte del tempo ritrovato, quando Marcel Proust si ritrova a una matiné salottiera dopo tanti anni che non vi si recava, rappresenta quel mondo come una sfilata in maschera di personaggi grotteschi; ma mentre noi saremmo condotti a credere che questo sia semplicemente il finale della storia con le sue consapevolezze postume, il Narratore questo finale lo aveva scritto anni prima! Il Narratore è un grande cattivo, nel senso che è consapevole fin dall’inizio che quelle interazioni, quei salotti, quei personaggi, sono maschere grottesche e in molti casi sordide, meschine e persino oscene! La parte essoterica del suo progetto è il teatro, il grande teatro, evocato dalla petite madeleine, e lo fa anche per portare Marcel fuori dalla prigione, che non era costituita solo da quelle interazioni inutili, ma anche dal suo male, dalla sua speciale malattia che non è l’asma e che finalmente il Narratore nomina nel romanzo: la pigrizia, la paresse, così parente dell’ennui baudleriano. Il gioco fra memoria volontaria e memoria involontaria permette a Proust di giostrarsi fra i due registri esoterico ed essoterico, ma è la memoria volontaria indirizzata a un progetto a governare il suo cosmo, un cosmo – per uscire dalla metafora fisica – in cui sono l’intelligenza e la sagacia del Narratore a immettere il soffio di vita che altrimenti non ci sarebbe e la sola madeleine come innesco non sarebbe bastata. Cosa rende possibile questo? Il tempo ovviamente, perché a differenza delle interazioni quantistiche, il tempo della vita ha una dolorosa direzionalità, ma è proprio questa che dà senso alla vita: se il tempo che ci spetta fosse eterno, come pensava inconsciamente il giovane Marcel, che molto ne perdeva, la vita non avrebbe senso.

Ho definito prima il Narratore un grande cattivo: mi domando ora se nell’opera ci sia una forma di pietas, oppure no. I personaggi grotteschi che nel Tempo ritrovato sfilano per l’ultima volta davanti al Narratore, nella loro decadenza già decaduta, possono far pensare a una sorta di giudizio universale, ma è proprio allora che il Narratore abbassa i toni. Lo fa nel solo momento in cui poteva farlo e nel solo modo in cui poteva farlo e cioè riportando per l’ultima volta anche Marcel, il vivente, all’interno dell’opera e di quei salotti. Di quel mondo Proust ha fatto parte nella sua prima vita e non può e non vuole ergersi a giudice, tratta se stesso come loro, vede con ironia, nella loro vecchiaia, la sua incipiente: solo nell’arte e nel linguaggio può diventare giudice, perché è quella per lui la sola misura etica che può esplicitare anche nell’opera. Il suo grande teatro è ottocentesco e anche precedente; forse per un francese la questione della fuoriuscita dell’aristocrazia dalla porta della storia e dei molti rientri dalla finestra, ha un peso specifico diverso che non per altre culture, visto che lì una rivoluzione c’è stata. La finzione di un tempo che è sia contemporaneo sia rivolto all’indietro è presente dall’inizio alla fine nel romanzo, ma il tempo ritrovato può esserlo solo nell’arte e nella scrittura. Infatti, dopo essersi congedato per l’ultima volta dal grande teatro, il Narratore, nella parte finale dell’ultimo libro, ci offre un’ampia meditazione sulle ragioni dell’arte e sul tempo. In questo la sua finzione è del tutto moderna e consapevole perché la sua poetica entra come riflessione nell’opera stessa. Quanto alla pietas, essa compare qui e là nel testo, verso un personaggio o l’altro, una situazione o l’altra, ma essa non può svolgere alcuna funzione redentrice e su questo il Narratore è inflessibile: alla fine non salva nessuno di quei personaggi, neppure Robert de Saint Loup. Addirittura nella parte iniziale del tempo ritrovato rappresenta quasi tutti i personaggi nelle situazioni più sordide che si possono immaginare, visto che il tempo non è solo tiranno ma anche veritiero, nel senso che accentua i tratti di ciascuno per quello che è e vuole essere: dunque siamo lontani da una pietas cristiana, se mai vicini a un atteggiamento che può ricordare l’esortazione che Virgilio rivolge a Dante alla fine del quarto canto dell’Inferno: Non ragioniam di lor ma guarda e passa. Se c’è una pietas, come io penso, essa sta nell’atteggiamento finalmente umile di chi si pone di fronte alla propria vita in modo etico e consapevole, decidendo di affrontare il proprio male di vivere. La Recherche, sia nel titolo sia nelle sue modalità è proprio questo. Alla fine il Narratore, lo abbiamo visto, nomina il tarlo che aveva roso il vivente Marcel: la pigrizia, una malattia della volontà che si traduce in un atteggiamento di apparente noncuranza, che lo ha rinchiuso per anni nell’insensatezza delle abitudini, che gli ha fatto fare le scelte più astruse e tutte inconcludenti, scrivere tante pagine inutili di quel romanzo – Jean Santeuil – lasciato incompleto al suo destino, dal momento che era soltanto uno dei molti modi di sfuggire all’opera che gli urgeva. Alla fine si arrende e da quel momento e non senza qualche apprensione, che ci rivela proprio nel tempo ritrovato (Sono ancora in tempo?), comincia una delle più grandi avventure del secolo: un romanzo che è anche, aldilà dei suoi grandi meriti letterari, una straordinaria esperienza di autoanalisi, diversa da quella del fondatore della psicoanalisi per gli strumenti che usa, ma non meno decisiva.

L’arte, lo stile, il tempo.

La parte finale del Tempo ritrovato è dedicata alla meditazione sull’opera stessa, che Proust autore riporta nella partitura del romanzo, mentre sull’arte come forma più alta di verità vi è poco da aggiungere alle sue parole, se non per constatare la classicità di tale espressione. Il suo pensiero si rifà a un canone che verrà messo in crisi dalle avanguardie storiche, dall’avvento della cultura di massa, dalla riflessione di filosofi e critici: per esempio la caduta del dogma dell’autorialità, posta da Benjamin nel suo saggio sulla Riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Il Narratore non ignora affatto tutto ciò e di questo vi è traccia nel grande teatro che mette in scena. Sono brevi incursioni, flash, ma quanto basta per comprendere che l’idea di un Marcel Proust (metto insieme il narratore al vivente in questo caso), lontano e avulso dalla storia del suo tempo sia da abbandonare: basti ricordare quanto spazio ha sia nell’opera sia nella sua vita l’affaire Dreyfus, che Proust seguì personalmente anche nelle sue fasi processuali con una partecipazione emotiva non tanto diversa – in definitiva – da quella di Zola; non manca persino un pensiero sulla Rivoluzione Bolscevica. Lo stesso vale per i giudizi sulla guerra e il nazionalismo. Tuttavia, rispetto a quella che sarà la revisione novecentesca dei canoni letterari e artistici, egli si mantiene fedele a una sensibilità precedente. Giova tuttavia ricordare quanto la sua convinzione che l’arte avesse un valore conoscitivo e non solo estetico, fosse lontana anni luce da quello slogan così in voga in quegli anni: l’art pour l’art. Proust si allontana dal canone realista e dalla verosimiglianza in tutte le sue forme, ma salva un nucleo centrale di quella grande poetica e cioè proprio il valore conoscitivo e non solo estetico dell’arte. Alla crisi del romanzo realista, egli non oppone uno scivolamento nel decadentismo e nelle forme estetizzanti dell’art pour l’art, pur risentendo come tutti del clima culturale in cui vive. Il contesto decadente è per lui un punto di partenza e non di arrivo e certe descrizioni di alcuni personaggi, nel loro impasto di comicità e tragicità (Charlus nel bordello di una Parigi in guerra per esempio), non sono poi così lontane dal Balzac.

Sul suo stile sontuoso è difficile aggiungere qualcosa rispetto a ciò che hanno scritto illustri critici come Giovanni Macchia e altri: la capacità di mantenere dall’inizio alla fine un registro alto, in qualche caso altissimo, ma che non scade nell’estetismo fine a se stesso. Su tali passaggi dell’opera non c’è molto da dire. Vorrei allora affrontare da un punto di vista che già è stato posto da altri, cui ho accennato io stesso qui e là, ma forse non del tutto elaborato: la strategia compositiva, che è cosa diversa sia dallo stile, sia dalla progettualità consapevole di cui si è già detto – e dei referenti filosofici e scientifici eventuali della medesima. Torniamo sia alla formazione di Proust, sia al contesto culturale e scientifico in cui l’opera è stata scritta. L’unico debito che Proust riconosce per iscritto è verso il suo docente filosofia del liceo Condorcet, Darlu, ma solo per dire che la sua influenza fu negativa. Poi ci sono i giudizi espliciti e impliciti che si trovano a profusione nel romanzo. E allora ecco Niestche, Wagner, ma anche Bergotte e Vinteuil figure chiave e maschere dietro le quali si nascondono illustri poeti e narratori. A tutto questo va aggiunta la sua assidua frequentazione dei corsi di Bergson alla Sorbona, una frequentazione non estemporanea e indice, di un vivo interesse. Proust, nelle poche interviste rilasciate e interventi, ha sempre negato l’influenza di Bergson sulla scrittura del romanzo e non si può davvero credergli in questo caso; ma forse quello che lui intende con la negazione è qualcosa di diverso. È difficile pensare che il concetto di memoria involontaria, per esempio, così centrale nella riflessione di Bergson, sia estraneo all’opera di Proust e che dunque un qualche debito nei suoi confronti andrebbe riconosciuto; ma a ben vedere si tratta di un’influenza esterna, che lo ha aiutato a distinguere le funzioni diverse della memoria volontaria da quella involontaria e di giostrarsi così fra i due diversi registri: il grande teatro lasciato alla memoria involontaria, la direzionalità del progetto a quella volontaria. Tutto questo a ben vedere fa parte dell’impalcatura che serve a costruire l’opera. Poi c’è lo stile di cui si è già detto, infine c’è la tessitura di tutto questo nel farsi dell’opera; infine il tempo, il grande convitato di pietra e proprio intorno alla questione del tempo erano accadute cose non da poco all’inizio del secolo. Con la relatività ristretta di Einstein (1905) e poi quella generale, era venuta meno la concezione tradizionale del tempo, in particolare rispetto a due concetti chiave: l’essere da un lato lo sfondo neutro seppure direzionato dal passato al futuro delle azioni umane (Kant), poi il concetto di simultaneità, forse la cosa più sconvolgente e cioè che osservatori diversi a velocità diverse non solo vedono cose diverse ma non abitano lo stesso tempo ma due tempi diversi. Proust ne tiene conto e il suo romanzo ne risente? La mia risposta tende a essere affermativa; ma più in generale la strategia compositiva sembra essere influenzata proprio da una riflessione sul tempo che non era affatto estranea alla filosofia francese di quel momento storico e cito tre nomi importanti: Bergson, Roupnel e Bachelard. Si aprono qui due ipotesi entrambe affascinanti: Proust si è avvalso di queste fonti? Oppure è giunto per strade sue a una strategia compositiva in cui la concezione del tempo viene sconvolta fino a risultare assai prossima a quella proposta dalla nuova fisica? Vediamo di districare la matassa, partendo dalla filosofia.

I tre che ho citato in precedenza hanno in comune il fatto che sono tornati a porsi dei problemi filosofici in relazione alle scoperte scientifiche. Si può dire che con loro torna la filosofia naturalistica, che dopo Newton, Kant, Leibnitz e Cartesio, era finita un po’ in secondo piano, potendo contare su epigoni o continuatori dei quattro grandi che ho citato; oppure nel caso di Leopardi, per sottolineare l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane. Durante tutto l’ottocento, ma anche per gran parte del ‘900 sono i filosofi della storia  o dell’etica a dominare il campo con poche eccezioni e un discorso a se stante per quanto riguarda Nietsche. Con Wittgenstein siamo in un altro universo che ha a che fare con il linguaggio. I tre filosofi francesi sono  i primi (Heidegger verrà dopo), a porsi un interrogativo che è fondamentale per una filosofia naturalistica e cioè che cos’è il tempo. Tale interrogativo, dimenticato di fatto dopo Kant, torna invece in primo piano dopo la relatività ristretta di Einstein e Bergson, Roupnel e Bachelard sono i primi a porsi la domanda, forse non tutti e tre con la stessa pregnanza. Cominciamo da Roupnel e Bergson perché nel loro caso è facile, dal momento che le due tesi non potrebbero essere più estreme e contrarie e dunque chiarissime. Per il primo il tempo è l’istante per il secondo la durata. Bachelard, nel saggio dal titolo La filosofia dell’istante, tenterà una sintesi che tiene conto proprio della relatività, anche se si apre su un orizzonte più vasto che ci riporterà proprio a Proust e al suo romanzo. Il tentativo di Bachelard è importante perché non si tratta di una conciliazione fra Bergson e Roupnel. Bacherlard sta dalla parte del secondo, anche per lui il tempo è l’istante, ma cerca di dedurre quello che per Bergson è la durata, partendo dalle proposizioni di Roupnel e giungendo alla definizione di durata come abitudine.

Cosa c’entra Proust in tutto questo? Proviamo a porci alcune domande.  Che cosa è il tempo nella Recherche? Se pensiamo agli attrattori, a che cosa li possiamo avvicinare? La petite madeleine, per analogia, è un istante o una durata? I flussi narrativi, ricorrenti, che in certi momenti addensano la narrazione e innalzano di colpo lo stile come vanno come vanno considerati? La progettualità cosciente che gli fa scrivere l’ultimo capitolo subito dopo il primo c’entra o non con il tempo o si tratta solo di un brillante artificio letterario? E nella strategia compositiva interna, nella tessitura, dove finisce il tempo? L’istante, quello che all’inizio di questo saggio ho indicato con il termine di big bang emozionale, costituisce l’innesco e la petite madeleine come infinitamente piccolo può essere paragonata all’istante; ma essa come abbiamo visto è solo l’innesco. Se pensiamo invece ai flussi narrativi, li possiamo suddividere in diverse tipologie. Alcuni di essi si possono rapportare a quello che Bachelard indica come abitudine, ma anche alla coazione a ripetere, in altri casi no e questi sono forse i più interessanti. Torno allora a quelle due pagine finali de All’ombra delle fanciulle in fiore di  cui si è già detto. In esse la memoria involontaria torna alle serate di clausura a Balbec, durante le quali il protagonista poteva solo udire i suoni di ciò che accadeva all’esterno e immaginarsi persino di udire le voci delle sue amiche sul molo. Prima, in tutta la parte precedente, del romanzo e a dispetto del titolo, è la relazione con Robert de Saint Loup a tenere banco. Sappiamo, tuttavia, che vi era una seconda ragione di quella partenza. Invitato dall’amico Robert a servirsi di una delle mirabili invenzioni della tecnologia del momento e cioè il telefono, aveva chiamato la nonna e aveva capito che qualcosa di grave stava accadendo. La nonna stava male e ciò lo spinse a un rapido ritorno. Tuttavia, quando alla fine del volume, la memoria lo riporta a Balbec sono le serate di clausura al centro del suo ricordo. Non c’è niente di male che siano due le cause di quella improvvisa partenza, ma si tratta – per come vengono trattate nel romanzo – di due memorie diverse e che danno vita a flussi di narrazione assai diversi che corrispondono anche a tempi diversi. A leggerli sembra di rivivere in altro modo le pagine in cui Bachelard sostiene che non vi è in realtà nessuna continuità fra l’io che si muove in certi momenti con le azioni che lo stesso io compie in altri. In sostanza il tempo non è un continuum che si possa sommare: si possono sommare solo quei tempi che appartengono a una medesima tipologia di azioni. Su questa ipotesi, che farebbe la felicità di Borges, oggi possiamo sorridere perché – pur riconoscendo che sono speculazioni importanti nate dalle scoperte della fisica novecentesca – abbiamo ormai a disposizione molti testi di ottima divulgazione che ci aiutano a capire come la descrizione quantistica della materia non ci aiuti a capire meglio cosa sia il tempo umano. Nelle interazioni fra le particelle elementari il tempo è reversibile o addirittura non esiste per come lo viviamo e quelle interazioni non sortiscono in nulla. La vita è una singolarità eccezionale ed è in quel momento che nasce tutto, dal tempo umano alla sua direzionalità. Allora, tornando all’inizio di questo saggio, inutile domandarsi cosa esistesse prima del Big Bang o prima della madeleine. Entrambi nella loro enorme diversità sono due singolarità che danno vita a interazioni sensate. Credo che per lungo tempo si sia cercato inconsciamente se nei meandri della nuova fisica vi fosse una strada verso l’immortalità, oppure verso dio: siamo sempre lì! Invece tali interazioni quantistiche portano al niente, neppure al nulla che è pur sempre un significante filosofico, ma al niente, come è stato rappresentato in modo involontariamente straordinario in un testo teatrale come La classe è morta di Kantor.

Quello di Proust, volendo trovare una conclusione a questo scritto sulla sua opera è un universo parallelo, un organismo simile a quello in cui il vivente vive, ma nel quale non scrive o viceversa, per parafrasare il celebre detto di Proust medesimo. Nel realismo, la pretesa è quella della verosimiglianza e cioè – sempre parafrasando Proust – un mondo in cui vivere e scrivere possono marciare insieme. Questa fu l’unità ottocentesca durante la quale si consolidò la grande arte borghese, ma tale unità entrò in crisi nei decenni finali del secolo quando altri soggetti sociali, prima di tutto, posero fine all’illusione universalistica del pensiero borghese. Proust come altri – Huysman e Zola per esempio – reagirono alla crisi, che era anche una crisi del romanzo, in modi diversi: il primo fuggendo in un estetismo decomposto ancor più che decadente, il secondo accentuando ed estremizzando alcune caratteristiche del realismo medesimo. La Recherche si muove da un contesto estetico più vicino al decadentismo che a Zola, ma poi vira in una direzione diversa anche se forse non ancora del tutto compresa ed esplorata. Il disagio psichico, la malattia, la perversione, non sono nella Recherche soltanto un segno di decadenza, ma anche l’espressione di un allargamento della coscienza all’esplorazione del sé: la psicoanalisi è sullo sfondo anche se non entra direttamente nel testo e Freud non viene mai citato, mentre è del tutto assente in Zola, la cui illeggibilità (specialmente in certi romanzi), è data fra l’altro anche dalla disperante meccanicità dei personaggi. Essi non rappresentano più neppure certe tipologie umane, come avviene nel grande romanzo realista o nelle distorsioni caricaturali di Daumier, ma sono marionette senz’anima, unidimensionali fino ad apparire del tutto irrealistiche.


1 Alberto Beretta Anguissola, nella sua puntuale ricostruzione del romanzo, riconduce ai suoi termini reali una leggenda che è circolata da subito sulla Recherche: che in essa non sarebbe rintracciabile alcuna trama, per usare un termine tradizionale della narrativa ottocentesca. È possibile invece sfatare tale convinzione, anche se tale trama costituisce una specie di sottotesto che non sempre segue un andamento lineare, ma essa esiste eccome, ma non bisogna intenderla pensando ai canoni del realismo ottocentesco. In:  Proust guida alla Rcherche. Carocci editore, Bologna 2018.

2 Questa espressione la troviamo in forme diverse anche in Proust medesimo, per il quale le due azioni di vivere e di scrivere sono sostanzialmente in alternativa. Il tema viene ripreso anche da Giovanni Macchia.

2 La biografia di Marcel Proust è costellata di aneddoti ed episodi su cui lui stesso si è diffuso più volte. Parlarne è necessario perché essa è strettamente collegata all’opera. Il giovane Marcel teneva un po’ in ansia suo padre perché era difficile capire bene cosa volesse fare nella vita.  Oggetto di cure e protezioni per via della sua grave forma di asma, alcune sue scelte sembrano segnate da una forma di ribellione verso quel’eccesso di attenzioni da parte della madre. Come considerare per esempio la scelta inopinata dell’arruolamento volontario subito dopo gli studi? Dopo la carriera militare finita nel nulla è la volta degli studi giuridici, poi improvvisamente, Marcel scopre la borsa e la finanza e vi si butta a capofitto. Il giudizio comico e lapidario del suo consulente, può bastare a chiudere anche quella strada: “Marcel Proust appartiene a quella categoria d’investitori che comprano i titoli quando il loro prezzo sale e li vendono quando il loro prezzo scende.” Tuttavia e a dispetto dal titolo del suo romanzo che ci rivela fra le altre cose, quanto tempo il giovane Marcel abbia effettivamente perso, si sbaglierebbe a ritenere tutto questo legato semplicemente a certe caratteristiche di ceto o di classe – se vogliamo: a un atteggiamento tipico dei rampolli dell’alta società, per cui in fin dei conti, comportarsi da flaneur non metteva a repentaglio più di tanto le loro vite e i loro patrimoni. C’è una sofferenza reale nella sua inadeguatezza al mondo, una difficoltà nel potere e nel saper scegliere che lo accompagnerà fino alla decisione di scrivere l’opera che non si decideva a scrivere, auto imponendosi come scelta volontaria la clausura che aveva segnato come obbligo esterno la sua vita. Fu allora che il brutto anatroccolo (perché si può esser brutti anatroccoli anche se circondati di cure, soldi e benessere), decise di trasformarsi in un cigno. 

UMBERTO BELLINTANI: ANOMALO LOMBARDO

Premessa. Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Monte Analogo.

Si comprende meglio la poesia di Bellintani se si parte da un dato estrinseco. Il poeta mantovano studiò all’Istituto d’Arte di Monza, presso la scuola di Marino Marini, dove si diplomò nel 1937 in scultura. Proprio quest’arte fu la sua prima grande passione. Richiamato alle armi nel 1940, quando ritornerà a casa nel 45, l’abbandonerà per dedicarsi alla poesia; ma il gesto dello scolpire entrerà prepotentemente nella sua versificazione. Alcuni suoi testi e a volte semplici versi come questo: /e come alta la giraffa monolito di silenzio/1sono sbalzi poetici che sembrano scritti sulla dura pietra piuttosto che sulla carta, con tutta la forza arcaica di un altro scultore che Bellintani citò in una lirica: Auguste Rodin.2

Come poeta egli esordisce nel 1953 con Forse un viso fra mille, per l’editore Vallecchi. Del 55 è Paria, una plaquette per le edizioni della Meridiana. Nel 1963 approda a Mondadori con E tu che mi ascolti.

È un poeta riconosciuto, dalla voce originalissima e difficile da classificare, ma che sembra avere davanti a sé un futuro editoriale facile. Invece Bellintani compie la mossa del cavallo: decide di non pubblicare più e si chiude in un ostinato isolamento che durerà fino al 1998 quando, sempre per Mondadori, pubblicherà il volume Nella grande pianura, che raccoglie molta della sua opera conosciuta fino al 1992. Un’altra parziale rottura di tale isolamento era già avvenuto nel 1995, grazie al suo inserimento nell’antologia sul secondo ‘900, curata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, sempre per Mondadori.3

È fin troppo evidente che, al di là delle intenzioni dichiarate o meno, la data del 1963 non può essere considerata casuale da chi guarda decenni dopo alla storia della poesia italiana del secondo ‘900.

Bellintani pubblica la sua prima opera nel momento in cui si comincia a discutere sulla necessità di superare l’ermetismo.4

L’ispirazione del poeta mantovano, pur lontana da quella poetica, non poteva però accogliere lo sperimentalismo avanzante e ancor meno, poteva trovare il proprio alveo negli abiti studiatamente dimessi e nei colori tenui della nascente Linea Lombarda, tenuta a battesimo da Luciano Anceschi nel 1952. 

Consideriamo due poesie, dalle quali è possibile capire molto del suo modo di procedere; il titolo della prima è Notte incantata:

/Bocca di balena dai centomila denti d’oro/ per ingoiare stanotte la terra,/ io sono un pescatore d’anguille sulla barca/ per lasciarle poi libere ondulare/ nella corrente del fiume sino al mare.//  Bocca di balena dai centomila denti d’oro/ il tuo occhio di luna mi ha seguito quando scesi/ a sciogliere la barca questa sera/ dalla riva e abbandonarmi alla corrente/ della vita notturna e poi solare./5

L’ambientazione di questa lirica è riconoscibile: si parla di anguille, di barche da pesca e di un pescatore. Potrebbe trattarsi dei laghi del Mincio intorno a Mantova, oppure del delta del Po. L’immagine iniziale della balena dai denti d’oro e l’occhio di luna, introducono però un elemento magico, addirittura mitologico. Il tempo notturno, vivificato da questa presenza visionaria ed estraniante, crea una tensione fra immaginazione e realtà; il paesaggio così noto della campagna lombarda e del Polesine si trasforma in un ambiente ignoto e misterioso.

Nel secondo testo, Notturno sul mare, tale procedimento si accentua ancora di più. La scena è marina e notturna come la precedente; un personaggio solitario, indicato con il pronome personale Io, è seduto ad ascoltare il rumore del mare. In un crescendo di slittamenti progressivi fra osservazione quasi naturalistica e accenti sempre più espressionisti, accade questo:

/E quando – alle tre di notte – una barca raggiunse un vicino scoglio/ e vi salirono i tre scheletri giganti di una razza sepolta/  e cantando con gli occhi al firmamento si inzupparono di luna/ io vidi non lungi un veliero navigare/ e un uomo si teneva ritto ed estasiato sulla tolda./6

La confluenza di elementi realistici (le tre di notte) ed altri visionari e potentemente evocativi (da Caronte al vascello fantasma, alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, fino all’accenno alla razza sepolta, tema ricorrente nella poesia di Bellintani, che parla di ominidi e risale spesso a un’immagine arcaica della specie umana), conferiscono al testo una potenza di trasfigurazione che trova pochi altri riscontri nella poesia italiana del ‘900.      

Un altro poeta nato in ambiente contadino, Cesare Pavese, aveva cercato molti anni prima di Bellintani una via d’uscita dall’ermetismo che ha qualche somiglianza con il percorso del poeta mantovano. I testi di cui parlo, a cominciare da Mari del sud che risale addirittura al 1930, confluiranno poi in Lavorare stanca.

Li distingue il diverso approccio al mito, che in Pavese è voluto e consapevole; la visionarietà appartiene invece a pieno titolo soltanto a Bellintani. Quest’ultimo più che rifarsi al mito, crea una vera e propria mitologia, nella quale compaiono animali comuni delle terre mantovane o altri esotici per lo più africani; oppure scenari sempre sospesi fra visione e precisione realistica; come accade nella bellissima Oltre l’orizzonte portami.7

In questo modo egli raggiunge effetti di grande suggestione molto vicini a quelli ottenuti da un suo quasi conterraneo: il pittore Antonio Ligabue.

Un punto in comune con Pavese, tuttavia esiste e riguarda l’epica. In alcuni dei maggiori testi di Bellintani, a cominciare da Io cara mi espando nella grande pianura, i principali ingredienti della sua poesia confluiscono in una versificazione epica. Citerò solo alcuni versi del testo, data la sua lunghezza:

/Io cara mi espando nella grande pianura/ ed estasiato l’ammiro e questo vento…/ che qui mi batte sopra il petto è tutto il vento/ che quelle rupi d’alti monti ha valicato/ col suo fragore.//  Popoli e popoli di mucche raduno e spingo a un mare/ che lungi alto biancheggia, più lontano/ dell’aldilà dell’aldilà da dove gira/ per il ritorno splendente la cometa./8

Altri momenti forti dell’ispirazione di Bellintani, sono il sacro naturale e una religiosità per nulla convenzionale, sempre pronta all’invettiva, sospesa, come dice bene il curatore dell’opera mondadoriana, fra preghiera e bestemmia;9 come si può cogliere leggendo due testi emblematici come Poi fu una luce luminosa e Ho preso una mosca.10. Questo sentimento religioso, fortemente incline all’indignazione, è il tratto distintivo di un poeta consapevole della presenza del male, a volte descritto in termini crudi, come per esempio in Non solo per un baby:

/Quando il fetore raggiunse il guardiafili/ che poco lungi passava, da quell’orrida/ morte di bimbo riportata dai giornali/ s’alzò un colombo e leggero volò via.//  Ma non solo per il Baby rapito e ritrovato/ cadaverino già in sfacelo in quella cava,/ ma pur pel ragno che s’avventa sulla mosca/ per lo sparviero che s’abbatte sul fringuello,/da questo bacio di sole un uomo può/qui farsi schermo con un colpo di coltello./11

Per Bellintani la violenza è intrinseca alla natura, a cominciare dall’istinto a predare. La presenza del male è dunque radicale e non sembra potere essere redenta da un dio antropomorfo.

Non sempre gli esiti della sua ispirazione religiosa sono altrettanto potenti e originali; il Bellintani maggiore è quello capace di farci udire le voci del passato fino all’urlo del dinosauro e altrettanto pronto a lasciarsi confondere nella natura che comprende l’umano e lo travalica; oppure quando si abbandona all’eros, alla presenza femminile, come avviene in testi quali Angela e Antonia; oppure nei rari momenti di contemplazione, come in Sera di Gorgo, e Aprile.12

Percorso originale quello di Bellintani, per il quale è lecito parlare di espressionismo visionario o di realismo magico e di un ritmo della versificazione che passa dalle contrazioni improvvise alle grandiose espansioni del verso, come in una sorta di movimento di sistole e diastole.

Il testo poetico appare a volte slabbrato, irto e segnato da ruvidezze; è ancora una volta la scultura che può aiutarci a capire. Anche nell’opera scultorea più levigata, il materiale non si lascia mai del tutto piegare dalla volontà dell’artefice, ma combatte in un corpo a corpo estenuante con l’autore. Forse si affaccia qui un’altra ipotesi: che la scultura fosse per Bellintani una metafora della irriducibilità stessa della natura alla volontà umana. La forza originaria del gesto dello scultore, che ha in sé qualcosa dell’ominide che dipingeva i suoi graffiti nelle caverne, ritorna nella sua poesia. Tuttavia il poeta mantovano non teorizza né un’attualizzazione del mito, né un primato dell’immagine come aveva tentato di fare Pavese nei suoi scritti teorici e neppure una mitologia del passato o dell’arcaico come avviene in Pasolini.

Bellintani attraversa il suo tempo, non lo ignora; ma sa tenersi a distanza dall’attualità. È per questo che il suo rimane un percorso decisivo, solitario, che ha saputo trovare la propria strada di rinnovamento della poesia italiana al di fuori di percorsi più canonici. In questo senso, egli può essere considerato un difficile ma sicuro maestro.      


1 Il verso citato è tratto dalla poesia Lamento d’Africa, in Nella grande pianura, Mondadori, Milano 1998, pag.65. Tutte le citazioni successive di versi poesie intere o altro sono tratte da quest’opera.

2 Il verso che si riferisce allo sculture francese – /e abbarbicata alla vita/ come la mano di Rodin/ al sasso/  si trova nella poesia  intitolata Fu quella la mia gente, cit. p. 76.

3 Bellintani si trova  sotto la voce Quarta generazione, accanto a Erba, Risi, Cattafi, Orelli, Scotellaro, Spaziani e Merini, in Poeti italiani del secondo Novecento, Meridiani Mondadori, Milano, 1996. La scelta antologia e il saggio introduttivo alla sua poesia sono di Maurizio Cucchi.

4 La rivista Officina, nel 1956, ospitò un dibattito, aperto da Pasolini, sulla necessità di svecchiare la lingua poetica, allontanandola dalle rarefazioni ermetiche in nome della riscoperta del plurilinguismo e della contaminazione fra stili alto e basso. La stessa rivista terrà a battesimo autori che confluiranno nella Neoavanguardia, a cominciare da Sanguineti. Bellintani teneva in quegli anni una fitta corrispondenza con Parronchi. Il gruppo fiorentino (di cui facevano parte anche Luzi, Bigongiari e Betocchi), tuttavia, non giocava un ruolo significativo nelle polemiche in corso.

5 Op.cit.pag.146.

6 Op.cit.pag. 62.

7 Op. cit. pag.19.

8 Op.cit.pag. 111.

9 Tale osservazione del curatore si trova nella quarta di copertina.

10. Op.cit. pp. 63 e 148.

11 Op.cit.pag 105.

12 Le poesie citate si trovano alle pagine 50, 106, 14 e 130.

PASOLINI E LA CRISI DELLA LINGUA

Premessa. Il testo qui pubblicato è la rielaborazione scritta di una conferenza su Pasolini che si tenne a La Spezia nel 2005 e a cui ero stato invitato come relatore. La ripropongo in occasione del centenario della nascita dello scrittore.

La propensione di Pasolini per modi espressivi diversi dalla poesia prende forma e maggiore consapevolezza in un momento di crisi, di passaggio e confine; siamo alla fine degli anni ’50, la società italiana sta cambiando profondamente. Il poeta è convinto che la lingua della poesia italiana si sia irrimediabilmente deteriorata; lo dice qui e là in versi (In morte del realismo è del 1960)1 e in diverse interviste di quel periodo. In breve tempo, tale denuncia divenne il primo passo di una riflessione che sarebbe andata ben oltre la lingua di poesia per investire l’italiano come idioma nazionale.

L’Italia si stava trasformando in un paese industriale, la cultura stava per diventare di massa grazie alla scuola media unificata; infine la televisione, che occuperà un ampio  spazio nella polemica del poeta.

Pasolini visse il cambiamento in modo drammatico; ma anche, probabilmente, come il reiterato presentarsi, nella vita sociale, del trauma dell’innocenza violata che aveva segnato profondamente la sua giovinezza. Prima l’uccisione del fratello Guido e poi lo scandalo del processo per omosessualità lo avevano allontanato da quel luogo materno e protetto che era la Casarsa delle sue prime poesie dialettali.2

Il romanesco divenne la lingua di un esiliato, ma anche un modo di ripararsi da un italiano che si andava corrodendo: rivolgersi al romanzo e poi al cinema fu il suo modo di resistere.

Pasolini e la tradizione del romanzo

In che rapporto si pone la narrativa pasoliniana rispetto alla tradizione del romanzo italiano, che si forma intorno a Manzoni e Verga, cui aggiungerei Fogazzaro e Nievo? Ciò che rende diversi gli autori citati, al di là del diverso valore delle loro opere, è la strategia linguistica. Manzoni, come sappiamo, inseguiva la purezza dell’italiano e si rivolgeva al fiorentino, la lingua che con la Commedia di Dante s’era imposta nel ‘300 come lingua nazionale. Il curioso, sta nel fatto che Dante, nel De vulgari eloquentia, affermava che la lingua italiana poteva nascere solo cogliendo fior da fiore le espressioni e il lessico migliori di ciascuna delle tradizioni dialettali: un programma ben diverso da quello di Manzoni.

Verga, grazie alla lezione preziosissima degli Scapigliati, con i quali entrò in contatto durante il suo periodo milanese, scelse invece di portare la ricchezza del dialetto a contatto con la lingua italiana. Fogazzaro e Nievo lavorarono sull’appartenenza regionale (quanto alle tematiche), oppure anticipando le inquietudini della soggettività novecentesca (Fogazzaro), stando però dalla parte di Manzoni per quanto riguarda la lingua. La narrativa successiva ha seguito più o meno questi grandi modelli e Pasolini appartiene alla schiera di coloro che hanno nutrito la lingua italiana degli umori dialettali, ma con due peculiarità. Prima di tutto egli lesse Dante come il poeta del discorso libero indiretto, della contaminazione fra registro alto e basso; in una parola, il Dante più espressivo.

In secondo luogo, Pasolini era convinto che la lingua dei borgatari romani (ma il discorso vale per tutti gli idiomi regionali o locali), potesse essere conservata in quanto tale con tutta la sua ricchezza, come unica traccia d’innocenza resistente al dilagare della modernità. Lui stesso dovette rendersi amaramente conto che questo non era possibile. Il neocapitalismo italiano negli anni del boom economico e in quelli successivi, avrebbe al tempo stesso integrato parzialmente e disaggregato le culture regionali e locali, incidendo profondamente nel tessuto agricolo e distruggendo la piccola proprietà a favore di un’agricoltura intensiva. I borgatari romani come altri esponenti storici di una malavita povera e tutto sommato innocua (la ligera milanese non era molto diversa), diventavano i manovali del grande crimine organizzato, oppure venivano relegati ed emarginati nel ventre della grande città, perdendo quell’alone romantico che Pasolini vide in loro.

Cosa cercava Pasolini nella narrativa e poi nel cinema? In primo luogo, una maggiore aderenza alla realtà sociale in trasformazione. Gli sembrava che tali strumenti espressivi fossero più adatti della poesia sia per rappresentare i cambiamenti sociali che stavano avvenendo, sia per conservare la memoria di un mondo che stava finendo. Infondo, Pasolini inseguiva lo stile più consono a esprimere un realismo che definirei arcaico, teso a cercare ovunque le tracce delle civiltà sostanzialmente rurali che vedeva tramontare qui dove noi viviamo e che lo portava sempre più lontano dal cuore del mondo occidentale, sia nello spazio, sia indietro nel tempo. L’odore dell’India, un diario di viaggio che lo scrittore fece insieme con Moravia, lo stesso poema La Guinea in Poesia in forma di rosa, sono altrettante tracce di questo percorso che diventerà più esplicito e compiuto nella cinematografia, per esempio con Le mura di Sanaa, il film documentario che il regista girò nella capitale dello Yemen nel 1971.

Ci sono due momenti distinti nella narrativa pasoliniana, mentre una valutazione a sé meritano due romanzi postumi: Atti impuri e Amado mio, di cui però non mi occuperò in quanto li ritengo marginali rispetto al problema della lingua ma anche della svolta che lo scrittore imprimerà al suo lavoro con Petrolio.

Ragazzi di vita e Una vita violenta sono i romanzi che nascono dalla convinzione, rivelatasi poi fallace, che il mondo linguistico delle borgate romane fosse destinato a conservarsi nel tempo con la sua innocenza. Le due opere non hanno una vera e propria trama nel senso tradizionale del termine. Lo sviluppo della narrazione, infatti, focalizza in presa diretta la vita di un gruppo di giovani che abitano nelle borgate romane. Sono esistenze che non hanno chiari punti di riferimento; frammentarie per definizione, fra un fatto e un altro, un incontro e un altro, che costellano le loro giornate, non vi è spesso alcun nesso. È lo scorrere del tempo sempre uguale a scandire una struttura narrativa che in realtà si sfalda nell’inconsistenza. Tommasino, il Cagone, anche Accattone, oppure il memorabile Stracci del film La ricotta e tutti gli altri personaggi dei romanzi, non sono però dei romantici deracinés o degli arrabbiati da bohème piccolo borghese come nelle commedie o nei drammi coevi di Osborne e Wesker, né assomigliano al prototipo ben rappresentato da James Dean nei film che avevano per protagonista la cosiddetta gioventù bruciata; tanto meno sono dei beatniks mediterranei. Tutti questi che ho ricordato erano integrati nella grande città, da cui a volte sognavano di fuggire, ma che non smetteva di essere il loro habitat naturale, di cui erano il volto innocuo e trasgressivo dei ribelli senza causa. I borgatari di Pasolini sono dei sottoproletari, la cui condanna all’emarginazione sociale è data per definizione, come un fato. Essi  furono l’ultima generazione sottoproletaria italiana; dopo di loro saranno gli immigrati o i tradizionali popoli nomadi a rappresentare questa parte della società, anche se oggi assistiamo a un fenomeno di regressione e di emarginazione progressiva che coinvolge di nuovo fasce sociali indigene.

I protagonisti dei romanzi di Pasolini sono dunque gli esclusi dal boom, l’esubero di una società che integrava ancora la maggior parte di coloro che si affacciavano alla vita e al lavoro. Oggi l’emarginazione sociale si ripropone in tutta la sua crudezza, che la pandemia ha solo accentuato, ma che ha le sue origini anche nella sconfitta dei movimenti nati durante gli anni ’60 e ’70.

La struttura dei due romanzi di borgata e anche di un film come Accattone, aderendo alle loro vite, è aperta e frammentaria e dunque  nei canoni della narrativa novecentesca europea, che aveva, per altre ragioni, inflitto un colpo decisivo alla saldezza della trama. Tuttavia, Pasolini non sembra del tutto consapevole di inserirsi nell’alveo di questa tradizione; la sua non è una scelta che nasce dalla riflessione sul romanzo europeo del ‘900, ma aderisce a un’esigenza interiore e ambientale.

Quanto al linguaggio esso è fortemente espressionista, pieno di irruzioni del dialetto; i dialoghi sono in presa diretta la parlata è quella povera delle borgate, ma anche quando scendono in città e si avvicinano a sedi istituzionali (un cinema, la sede del MSI o del PCI e altro), questi personaggi mantengono la loro totale estraneità rispetto alla città degli altri, tanto che quando s’imbattono in qualche persona che s’aggira nel centro di Roma e capita loro di parlare, la lingua cambia perché cercano di esprimersi in italiano stentoreo, hanno nei confronti dell’interlocutore un atteggiamento di imbarazzata deferenza, che tradisce la sudditanza culturale. Come nella successiva metafora del Palazzo, l’urbe rimane per loro una specie di geroglifico incomprensibile. Pasolini si renderà amaramente conto (e pagherà di persona questa trasformazione) di come in poco tempo quel mondo diventerà corrotto e preda della grande criminalità: la banda della Magliana non nasce forse in quegli anni a ridosso della sua stessa morte?

Petrolio

Prima di entrare nel merito dell’opera vorrei dedicare qualche parola sul finto mistero delle 600 pagine trafugate, oppure (secondo un’altra versione del medesimo mistero), del capitolo smarrito. Graziella Chiarcossi ha definitivamente chiarito la questione. Questo capitolo semplicemente non esiste e il bottino dei furti a casa Pasolini,  due e regolarmente denunciati, consistono di gioielli e denaro rubato, ma non manoscritti. Chiarcossi chiarisce in modo limpido anche il perché del suo lungo silenzio. L’intervista in questione risale al 2014, ed è stata ripubblicato dalla rivista online Doppiozero.

Questo non significa che tutti i misteri intorno alla morte del poeta siano chiariti, ma penso sia necessario lasciare alla magistratura la possibilità (se ancora esiste) di arrivare più vicino alla verità dell’accaduto e dare la priorità al Pasolini scrittore e intellettuale. Del resto Petrolio, anche senza la favola del capitolo mancante, rimane pur sempre un testo contundente e drammatico, che non ha bisogno di ulteriori aloni.

Nelle intenzioni di Pasolini, l’opera avrebbe dovuto aprire una fase nuova della sua narrativa e che probabilmente l’avrebbe addirittura esaurita in questa sola opera. Lo afferma lui stesso nella lettera a Moravia (un frammento della quale sta scritto anche sulla quarta di copertina del libro), in cui annuncia al suo sodale tale intenzione. Ancor più, mi sembra che proprio in questa pagina e mezza, Pasolini imprima una svolta decisiva alla propria consapevolezza di autore.

Ora io a questo punto, potrei riscrivere daccapo tutto il romanzo, oggettivandolo … e assumendo le vesti del narratore convenzionale … Potrei farlo …ma se lo facessi avrei davanti a me una sola strada: quella della rievocazione del romanzo ...3 

Petrolio è certamente un romanzo incompiuto, ma lo sarebbe stato probabilmente anche dopo le revisioni e le seconde o terze stesure perché è programmaticamente incompiuto; o meglio, la sua voluta frammentarietà è la cifra stilistica che il suo autore ha scelto per rappresentare un affresco della dissoluzione. Del resto, sarebbe bastato prendere sul serio l’incipit della prima pagina, che è al tempo stesso una dichiarazione di poetica e una parte dell’opera:

Tutto Petrolio (dalla seconda stesura) dovrà presentarsi sotto forma di edizione critica di un testo inedito (considerato opera monumentale, un Satyricon moderno.) Di tale testo sopravvivono quattro o cinque manoscritti, concordanti e discordanti, di cui alcuni contengono dei fatti, altri no ecc. La ricostruzione si vale dunque del confronto dei vari manoscritti conservati (di cui per esempio due apocrifi, con varianti curiose, caricaturali, ingenue o ‘rifatte alla maniera’)…”4

La dichiarazione di cui sopra e quelle che seguono, sempre dalla prima pagina, sono ancora più importanti della lettera a Moravia, dove Pasolini aveva scritto che, se avesse scelto di rimanere legato ai canoni della trama, dell’intreccio e della definizione chiara del personaggio avrebbe potuto solo rievocare il romanzo. Nelle opere precedenti, però, questa rottura non era così radicale, tranne che in Teorema, che non è solo un film ma anche una scrittura narrativa che si avvicina allo stile di Petrolio. Il romanzo raccoglie la sfida novecentesca del pastiche, ma la complica ulteriormente in un gioco di specchi e di rimandi, tali da farne un’opera meta letteraria, intenzionalmente stratificata su più livelli.

Il primo è costituito dall’edizione critica di un  testo inedito, cioè di un’introduzione che guida il lettore in un labirinto di manoscritti e versioni in cui il vero, il verosimile e l’apocrifo si mescolano. Il richiamo al Satyricon non è una semplice citazione, perché anche il romanzo attribuito a Petronio Arbitro è un libro composito e frammentario, di cui si hanno titoli e versioni diverse. Mentre l’opera classica ha un intento satirico più marcato, Petrolio è un libro più drammatico perché  il gioco di specchi e versioni diverse ha un intento differente da quello del romanzo classico; inoltre, bisogna pure tenere conto che nel caso del Satyricon la frammentarietà è dovuta a ragioni obiettive perché gran parte del testo è andata persa, oppure è stata censurata e probabilmente distrutta dai cristiani che giudicavano l’opera troppo licenziosa.

Pasolini ha di fronte a sé una realtà mutante, camaleontica, che si scompone e ricompone in una serie di figure e situazioni grottesche, al cui centro c’è sempre lo stesso tipo di potere, ma che si manifesta in forme continuamente mutevoli, quasi liquide. L’esempio più importante di questa strategia compositiva sono i due Carli. La doppiezza dei personaggi e delle situazioni che li vede coinvolti, è rappresentata anche nelle loro fattezze fisiche, nella mutazione dei loro corpi, abnormi come un quadro di Arcimboldo; oppure contraddistinti da oggetti-segno, come il borsello del Merda, oppure altri apparentemente insignificanti, ma inscritti in quel misero mare magnum consumista e straccione. 

Sempre nella prima pagina già citata, lo scrittore così prosegue:

“… Esistono anche delle illustrazioni del libro… di grande aiuto nella ricostruzione di scene o passi mancanti… accanto alla ricostruzione letteraria ci sarà una ricostruzione figurativa. Per riempire poi le vaste lacune del libro, e per informazione del lettore, verrà adoperato un enorme quantitativo di documenti storici che hanno attinenza con i fatti del libro: specialmente per quel che riguarda la politica, e ancor più, la storia dell’Eni.5

Dopo un elenco sommario di altre fonti, ecco un altro passaggio importante. Faranno parte del romanzo anche:

“ … documentari cinematografici rari (e qui ci sarà una ricostruzione critica analoga a quella figurativa e letteraria  – non solo filologica ma anche stilistica  e attribuzionistica – … L’autore dell’edizione critica ‘riassumerà’ dunque sulla base di tali documenti … lunghi brani di storia generale, per legare fra loro i ‘frammenti’ dell’opera ricostruita …”6

Queste ulteriori citazioni ci portano nel cuore del tentativo di Pasolini: un’opera totale dalla forma originale, che sappia intrecciare livelli diversi di linguaggi e scrittura, alla fine forse più teatrale che semplicemente narrativa e comunque di nuovo assai prossima al cinema, se pensiamo anche alle riflessioni contenute in Empirismo eretico e in particolare il capitolo dal titolo Il cinema di poesia.7

La pagina introduttiva si conclude nel modo seguente:

“… Il carattere frammentario dell’insieme del libro, fa sì per esempio che certi ‘pezzi narrativi’ siano in sé perfetti, ma non si possa capire, per esempio, se si tratta di fatti reali, di sogni o di congetture fatte da qualche personaggio.”8

Potenzialmente si tratta di una scrittura senza soluzione di continuità. Gli appunti 36-40, per esempio, che hanno per oggetto un libro dal titolo Gli Argonauti, è del tutto incompiuto, ma gli spunti che suggerisce sono assai suggestivi e indicano l’intenzione di scrivere un capitolo allegorico che trova nella vicenda classica e mitologica una chiave per interpretare il presente. Tali appunti sono sufficientemente estesi per tentare un’analisi di queste intenzioni.

Il caos e la mutazione

Nell’appunto 3d Pasolini descrive l’allontanamento del primo Carlo (di Tetis), dal secondo: è un viaggio in autobus che lo porterà a una stazione, poi su un treno dentro una nave. L’attraversamento di Roma ci presenta un paesaggio che evita accuratamente le bellezze della città, ma sceglie un percorso di periferie ancora non inquinate dalla plastica, ma solo dai rifiuti organici: “cartacce e merda...”

La meta ultima di Carlo Tetis sarà Torino. La biografia di Carlo è significativa per quegli anni e la troviamo all’appunto 5:

Carlo è nato a Torino il 6 Marzo del 1932. Ha frequentato le scuole medie a Ravenna; ha studiato poi ingegneria all’Università di Bologna dove si è laureato nel 1956 ... “9

La sua formazione è cattolica, ma in senso molto generico, all’inizio. Carlo si orienta verso le ricerche petrolifere: quella in cui cresce e diviene adulto, è l’Italia di Mattei e del sogno d’autonomia energetica e di un ruolo da media potenza mediterranea. La Bologna in cui vive, però, è anche fortemente permeata dalla cultura comunista, di cui fanno a parte anche i dissidenti che usciranno dal Pci. Carlo scopre la sociologia statunitense, il cattolicesimo sociale e la psicoanalisi.

Fu quello il momento in cui Carlo divenne un cattolico di sinistra e questo gli consentì da una parte di differenziarsi o distinguersi dal potere e nel tempo stesso attraverso il suo lavoro specifico e specialistico in quella punta avanzata che era l’Eni di inserirsi quasi con spavalderia nello ‘spazio’ dove si trova il potere reale.”10

Questa descrizione è assai importante se la mettiamo in relazione con quella di Carlo secondo:

Se un uomo è uguale a un altro uomo, tanto uguale da essere lo stesso, quale dei due è quello vero? Qual è l’altro a cui l’altro assomiglia, o meglio, con cui l’altro si identifica? … Chiamare Carlo secondo la persona che è praticamente il ‘doppio’ di Carlo primo è ingiusto:… Probabilmente l’ingiustizia di questa gerarchia è un’ingiustizia di carattere sociale...”11

Il tema del doppio, evocato esplicitamente – seppure virgolettato – da Pasolini, così come quello del sosia, è uno dei più cari al romanzo moderno ed è presente in opere diverse e autori diversi: basti pensare agli eteronimi di Pessoa, oppure a Il fu Mattia Pascal.  Pasolini, però, con quell’accenno finale alle ragioni di questa gerarchia fra i due Carli, ci guida per un sentiero che s’allontana dal cliché, puramente psicologico, della scissione o moltiplicazione dell’io.

Il secondo Carlo diventa Karl e dopo una serie di approssimazioni ecco come si arriva a un primo momento di snodo:

Karl, il secondo Carlo, è così nella gerarchia sociale, inferiore a Carlo pur essendone identico, … ma la sua inferiorità non è controllata da Carlo primo. Il secondo Carlo, come tutti gli umili, (…) privi di autorità sociale, (…) – un po’ come i cani – è buono. Inferiorità sociale e bontà coincidono. Tuttavia, è in Karl che si concentrano i caratteri cattivi di Carlo, mentre è in Carlo che si concentrano i caratteri buoni di Karl.

Karl è servo, Carlo è padrone . Ma come racconterò in seguito Karl (forse) è libero, mentre Carlo sicuramente non lo è ...”12

A un primo livello di lettura, la scissione della personalità con il suo lato d’ombra è messa in primo piano, ma l’accenno finale alla dialettica servo padrone e tutta la descrizione ambientale che precede e seguirà ci portano alla situazione sociale in cui si muovono i due Carli. Pasolini è consapevole della scissione dell’io, ma non possiamo isolare i due personaggi dalla loro collocazione politica e lavorativa. Carlo sceglierà infatti di lavorare all’Eni, una parte dell’impero del Troya, un personaggio chiave nel quale è facile cogliere la biografia di Eugenio Cefis. La sua Eni era diversa da quella di Mattei, anche se perseguiva la stessa politica petrolifera. Cefis è l’esponente più tipico e autorevole del grand commis dell’industria di stato, un’invenzione della sinistra democristiana. Mattei, di questo tipo di boiardo di stato, era solo il prototipo ancora grezzo e aveva troppe ambizioni politiche per non entrare in collisione con i poteri forti nazionali e internazionali; cosa che Cefis, invece, saprà evitare benissimo, servendosi spregiudicatamente anche di apparati di sicurezza e alleanze trasversali, che lo tenevano in ombra – dietro le quinte – come un sapiente burattinaio. Carlo è scisso in due perché è il contesto sociale che si sta scindendo.

Nell’appunto 34 bis, apparentemente, Pasolini s’allontana dai due personaggi e racconta una fiaba sul Potere (dal Progetto).

Il tema è la Nevrosi, il protagonista un intellettuale, un uomo di piccola statura grasso, insignificante ma capace di muoversi nella giungla di un sotto potere non meglio definito:

“Non essendo ancora un personaggio in vista, nessuno se ne accorgeva; ma in realtà egli era un repellente mostro di passionale servilismo. Sarebbe stato capace delle azioni più abbiette pur di ottenere il (favore) di una persona. Nel tempo stesso coltivava anche il mito della propria innocenza. Il fatto è che il suo desiderio di affermarsi e di avanzare, apparteneva all’ordine dei desideri clinicamente ansiosi: ed era dunque la ‘malattia’ che provvedeva a preservarne l’innocenza, come primitiva condizione di grazia, giustificando contemporaneamente tutte le povere infrazioni di essa …”13

Una notte, il personaggio si sveglia e avverte nella sua stanza una Presenza, una Forza Oscura, con la quale inizia un dialogo:

Che c’è?”

“Lo sai qual è lo scopo della tua vita?”

“Farmi come tutti una posizione nella società in cui vivo …

“Va bene, va bene, ma questa è una parte o una fase della tu avita. Interrogati meglio, va più a fondo della tua coscienza.”

“E’ il massimo sforzo che posso fare, sinceramente…”

“Allora se  non vuoi dirlo te lo dirò io: lo scopo della tua vita è il Potere…”

Man mano che il dialogo prosegue, l’intellettuale capisce che davanti a lui ci sta il Diavolo in persona.  Il suo atteggiamento diviene agghiacciato ma anche remissivo, perché è ben consapevole che il Diavolo gli ha detto la verità.

Se lo dici tu…

“Io sono qui per aiutarti.”

“E come?”

“Chiedimi attraverso che cosa vuoi raggiungere il Potere e io te lo darò.”14

La risposta dell’intellettuale è singolare è spiazzante: vuole raggiungere il Potere tramite la Santità. Il Diavolo non si scompone e risponde da par suo: si può fare. Ironizzando sulla circostanza Pasolini attribuisce al Demonio una certa superficialità, ma poi si ritorna nel cuore della contraddizione. Raggiungere il Potere tramite la Santità è il tentativo impossibile da parte del nostro intellettuale di non accettare la scissione, di salvare capra e cavoli, di volere Mammona (in  linguaggio ecclesiastico) e la Santità al tempo medesimo. In questa insanabile contraddizione Pasolini vede una metafora non solo del potere democristiano ma del tipo umano democristiano.

Il primo Carlo è un cattolico generico, che diviene di sinistra a contatto con il mondo bolognese, ma che si nutre anche della sociologia progressista. La sinistra democristiana aveva un culto per la sociologia tanto che la famosa facoltà di Trento, nella quale si formeranno anche alcuni dirigenti delle future Brigate Rosse, era proprio un fiore all’occhiello di questa corrente del cattolicesimo italiano (e non solo della Dc), che attingeva al progressismo liberal statunitense qualche strumento (non tutti naturalmente, specialmente in tema di libertà civili) per contrapporsi all’egemonia culturale del Partito Comunista e della sinistra più in generale. Il progressismo era un’arma però a doppio taglio. Nel momento in cui il cattolico generico Carlo entra all’Eni, la punta di diamante dell’industria di stato, si trova al centro di quella trasformazione radicale che insieme al mondo contadino relegherà in un angolo anche l’innocenza più o meno presunta del cattolicesimo generico, ancora rurale di Carlo. Il demone del Potere, con le sue regole, i suoi riti di modernizzazione, toglieva gli ultimi orpelli alla buona coscienza del cattolicesimo sociale di Carlo: il tentativo disperato del nostro intellettuale della fiaba è la favola allegorica dei due Carli e della loro necessaria scissione. Essi sono al tempo medesimo il servo e il padrone nella medesima persona. Che cosa è stata la Democrazia Cristiana se non questo? Un partito ossimoro, la cui falsa coscienza era il tenere insieme un vago cristianesimo sociale ispirato dalle encicliche papali, con un progetto di trasformazione neocapitalista che avrebbe portato alla dissoluzione dello stesso cattolicesimo sociale e a una inarrestabile secolarizzazione. Il radicalismo di Pasolini non ammette repliche e su questo qualche considerazione in sede conclusiva sarà necessaria, ma come dargli torto? Cosa rimane a decenni di distanza da quel tentativo della tradizione rappresentata dai Dossetti, dai Mattei, dai La Pira, dai Moro? Nulla, come era ovvio che fosse; ma cosa rimane anche della tradizione comunista e della sua opposizione morale e politica a quel modello? Altrettanto un nulla e questo ci riporta al cuore delle considerazioni di Pasolini su quegli anni.

Tornando alla fiaba pasoliniana essa non riflette solo la parabola dei due Carli portandola sul piano allegorico, ma va a toccare il tema nevralgico per un cattolico:  le nuove forme del potere temporale.

Il nostro intellettuale si avvia verso la santità con una serie di pratiche:

“… Parlò quindi Fede e di Speranza: e ciò non poteva che esser pubblico. In privato, invece, applicò la Carità … Egli si guardò  bene dall’interrompere la tradizionale dissociazione della Chiesa  fra fede e Speranza da una parte e Carità dall’altra. Abbandonò in nome di quest’ultima i beni del mondo (il suo impiego statale)…attirati dall’odore di santità un gruppo di giovani cattolici erano intorno al nostro intellettuale, nel cortile di un convento  (che era nuovo in stile neo-liberty costruito con i soldi di una grande industria; …”15

Il nostro intellettuale scopre di essere al centro del convegno; pur non essendo ancora “decollato” s’accorge che intorno a lui sta crescendo un’aura di popolarità, ma questa circostanza lo precipita in un gelo progressivo e in un vuoto esistenziale. Non si possono scindere Fede e Speranza da un lato e Carità dall’altro. Fuor di metafora e  traducendo il linguaggio cristiano, se la cosiddetta Carità non è un bene pubblico e cioè un’etica comunitaria ma solo la privata rinuncia ai propri beni, non può modificare in alcun modo i rapporti sociali. Il nostro intellettuale continua però per la sua strada e così:

Vide passare il Diavolo che lo guardava ridendo con complicità, facendogli quasi l’occhietto…

Finché il nostro intellettuale non lanciò un grido cadendo a terra e allora:

“Il Diavolo ne approfittò per aprirgli sulle palme della mano due lunghe sanguinose stimmate…”

Fin qui siamo nel mito ma anche nel teatrino delle varie apparizioni di madonne. Le sorprese però non sono finite, perché nel nuovo colloquio con la Presenza Oscura essa diviene improvvisamente Luminosa.

Ti pare che il Diavolo possa averti condotto alla Santità, quella vera? Il Male non è che un’esperienza transitoria, non sta né al principio né alla fine. Bisogna passarci in mezzo, ecco tutto. Se dunque l’iniziativa non è partita dal Diavolo, che non è che un incidente, da chi è partita? .

“Tu!”

È stato uno scherzo, il Diavolo non è una persona è un semplice aspetto. Io me la sono messa sul viso e ti sono apparso … devo usare il peggiore  per farlo diventare il migliore, … Adesso , va torna sulla terra; vai a testimoniare tutto questo. C’è solo un patto che ti pongo…”
“Dimmi
disse umilmente il santo.

Nell’allontanarti da qui devo andare diritto, senza più voltarti indietro per riguardarmi.”

“Lo faròdisse il santo.

Ma non aveva fatto che una ventina di passi che una curiosità irresistibile si impadronì di lui… Il rigurgito di bassi sentimenti …. fu come una legge di natura: ed egli si voltò indietro un attimo, solo un attimo. La Forza Luminosa era là ma non aveva più la faccia di Dio. Aveva la faccia del Diavolo … Subito a quella vista, come già Lot, il nostro intellettuale santo si pietrificò. Diventò un pesante masso  e precipitò a piombo giù dal Terzo Cielo.”16

Un’epica contemporanea

Petrolio, pubblicato postumo nel 1992, è senz’altro ascrivibile a una forma originale e contemporanea di scrittura epico-picaresca e non manca di qualche aspetto che lo lega alla tradizione: non solo il  Satyricon, ma anche quella moderna del romanzo saggio. Anche Petrolio descrive una piccola o grande epopea: quella che trasformò l’Italia ancora rurale degli anni dell’immediato dopoguerra nella settima potenza industriale del mondo. Per Pasolini i pilastri di tale trasformazione, che egli giudica catastrofica, sono due: l’industria di stato e i suoi legami con la politica democristiana da un lato e dall’altro l’acculturazione di massa che travolgerà le culture locali e contadine, omologando anche il linguaggio dell’italiano medio a uno standard sempre più impoverito. La torsione che imprime anche ai suoi personaggi è una metafora della torsione cui tutta la società italiana fu sottoposta nel giro di poco più di un decennio. A decenni di distanza ci si può domandare se quest’opera magmatica e programmaticamente incompiuta, parli in qualche modo alla nostra contemporaneità o sia datata. La questione è aperta e la pongo come tale sperando che l’occasione fornita dal centenario della nascita, susciti qualche dibattito.  


1 Il testo si trova all’interno de La religione del mio tempo e ne chiude la seconda parte. Imitando il famoso monologo di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare, Pasolini pronuncia l’orazione funebre della stagione neorealista. In: Pier Paolo Pasolini, Le Poesie, Garzanti, Milano 1976, p.283-89.

2 Mi riferisco a La meglio gioventù, pubblicata nel 1954.

3 P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, lettera a Moravia, pp. 544-5

4 Op.cit. pag.3.

5 Ivi.

6 Ivi.

7 P:P: Pasolini, Empirismo eretico, saggi Garzanti editore, edizione maggio 81, Milano pp.167-72

8 P.P. Pasolini, Petrolio pag.3

9 Op.cit. psg.34.

10 Ivi.

11 Op. cit. pag. 34.

12 Ivi.

13 Op.cit. Appunto 6, pp. 128-36.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Ivi.

Anno nuovo

Drummond De Andrade, Il mattino dell’anno nuovo

Sorge il mattino di un nuovo anno.
Le cose sono lustre, a posto.
Il corpo liso si rinnova di spuma.
Tutti i sensi svegli funzionano
La bocca sta masticando la vita.

Fine anno

Jorge Luis Borges

Fine d’anno

Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.