Il doppio effetto dell’amore, desiderio e frantumazione dell’io nella poesia di Guido Cavalcanti. Di Paolo Rabissi

Il messaggio di un poeta ducentesco in una sorta di autocoscienza maschile. Pubblicato sulla rivista Overleft.it.

Noi siàn le triste penne isbigottite…

Bastano i versi del sonetto XVIII delle ‘Rime’[1] per venire a conoscenza di buona parte del mondo poetico cavalcantiano. A sorpresa, con una tecnica compositiva non insolita nel Dolce Stil Novo, scopriamo che a parlare sono gli strumenti antichi della scrittura, la penna d’oca, le forbici per farle la punta, il coltellino per raschiare la pergamena, gli oggetti che, per scrivere, l’autore ha maneggiato. Come suoi sostituti si presentano a noi (nel senso di lettori gentili, dotati di ‘intelletto d’amore’) ci pregano di ‘tenerli’, di accoglierli con pietà nella loro misera condizione, riflesso di quella cui appartiene il cuore dell’autore distrutto dall’amore.

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