DUBBIO E VERITÀ

Premessa

Anni fa fui invitato al festival della letteratura di Alessandria. Partecipai con qualche perplessità dal momento che il tema era di carattere filosofico. Alla fine decisi di farlo. Quella che segue è la trascrizione scritta del mio intervento. Non ho cambiato nulla, anche se oggi il finale meriterebbe ulteriori riflessioni alla luce di quanto sta succedendo a Gaza.

Filosofia e poesia

Il tema che avete proposto è filosofico e la filosofia è stata per migliaia di anni la scienza della verità secondo una nota definizione aristotelica. Sempre Aristotele diceva che: verità è dire le cose come stanno. La frase, o meglio la sentenza, non lascia margini al dubbio: è apodittica, come è nel suo stile dogmatico. Non vi è alcuno spazio, in essa, per il dubbio nel senso moderno, cartesiano e post illuministico che noi diamo a questa parola: qualora esso fosse espresso, lo sarebbe in modo tale da essere un altro darsi della verità.

Per la nostra civiltà occidentale la filosofia è stata per oltre due millenni la lingua in cui la verità poteva essere detta. Tanto è vero che la religione cristiana ha dovuto inventare la teologia, cioè la filosofia applicata alla divinità, per parlare della propria verità; il che è una limitazione in sé e un’involontaria ammissione che il solo modo di parlarne nel contesto occidentale fosse proprio quello, nato peraltro in un contesto pagano.

Perché, allora, mi sono chiesto, una domanda filosofica rivolta a poeti, scrittori e critici, per di più in un tempo in cui la filosofia non è più la scienza della verità?

Pensando ai rapporti fra filosofia e poesia un nome che mi è subito balzato alla mente è ovviamente quello di Giacomo Leopardi. Se apriamo lo Zibaldone, anche a caso, non passeranno molte pagine prima di trovare spunti filosofici, frasi fulminanti e aforismi. La modernità secondo Leopardi porta con sé come effetto inevitabile un processo di razionalizzazione del mondo che tende a cancellarne il mistero: anche la filosofia ne è travolta, diventa frammentaria. Dalla rivoluzione scientifica del 1600 e con le matematiche sempre più sofisticate, poi con Marx e con la fine del 1800 e gli inizi del secolo scorso, con l’opera di Nietzsche, e specialmente con l’irruzione della psicanalisi, i pretendenti a dire la verità sono diventati molti in Occidente, ma specialmente è venuta meno la possibilità di definire la filosofia come scienza della verità. Allora mi sono interrogato, volendo tenere fede il meglio possibile al vostro cortese invito a partecipare a questo convegno, su che tipo di percorso scegliere.

Naturalmente la morte della filosofia come scienza della verità, sancita da Nietzsche che in fondo della filosofia sistematica fu il curatore fallimentare, non significa di per sé né la morte della verità né il venir meno della necessità di cercarla; ma il punto è proprio questo. Dubbio e verità appartengono entrambi a un contesto culturale: come parlarne al di fuori di quel contesto? Da persona che ha a che fare da sempre con la scrittura poetica, narrativa, letteraria in genere, cosa posso dire su un tema come questo? Ma forse c’è una domanda ancora prima di questa, che occorre porsi anche se si dovesse ritenere positiva la riposta: non è una forma di presunzione tornare a parlare di verità?

Tutto il percorso compiuto dalla cultura occidentale durante il secolo scorso si potrebbe leggere come un cammino dall’andamento schizofrenico, che passa bruscamente dalle certezze assolute all’impossibilità del darsi di una qualunque verità. Se immaginiamo una specie di bilancio del ‘900 scritto secondo i dettami di un bilancio aziendale potremmo mettere sulla colonna delle certezze assolute i totalitarismi politici e nell’ultima parte del secolo, che sconfina nell’oggi, quelli religiosi, scaturiti tutti dall’alveo delle religioni monoteiste e che si definiscono, con un termine per me sempre più ambiguo e inquietante, positive. Sempre dal lato delle certezze assolute possiamo annoverare la tecnologia, ma anche un certo modo di concepire l’economia.

D’altro canto, se mettiamo dall’altra parte della colonna tutti i momenti di incrinatura di queste certezze, avremo un elenco altrettanto ricco. È curioso, per esempio, che il secolo dell’onnipotenza tecnologica e scientifica sia stato inaugurato dal principio di indeterminazione di Heisemberg e, nel 1931 dal teorema di Gödel. La filosofia, caduti i totalitarismi, sembra diffidare di qualsiasi pensiero forte. Il pensiero comune d’altro canto, ha spesso esteso, talvolta equivocandole, alle teorie scientifiche – trasformandole in pure metafore – lo statuto veritativo perso dalla filosofia. Così, per esempio, la Teoria della Relatività (cui peraltro Einstein aveva dato il nome molto meno evocativo di Teoria delle Invarianti), è diventata uno dei secchi per portare l’acqua al mulino del relativismo. Tuttavia, anche il relativismo assoluto è una forma di totalitarismo. Il pensiero debole non ci risparmia dal dominio: solo che invece di essere dominati dalle idee forti siamo dominati dalle sciocchezze, dal mercato, dalle opinioni.

La poesia è stata un altro modo di dire la verità nel senso che veniva delegata ad essa una funzione equilibratrice, di cui i poeti erano il tramite. Alla poesia e anche agli sciamani e poi ai sacerdoti competeva di rappresentare le sentinelle delle paure o delle gioie collettive, oppure di vigilare sulla soglia che separa l’umano dal sacro e anche dal divino. In tempi molto lontani dai nostri, la poesia ha rappresentato la voce più profonda della comunità. La poesia nasce rituale e orale, ma nella modernità essa diviene una specializzazione fra le tante; si è verificata in sostanza la previsione di Leopardi. Oggi, almeno in Occidente, la poesia, ma potremmo parlare dell’arte in generale, è diventata una disciplina, oppure un business nelle mani dei galleristi, dei critici, dei poteri editoriali, dell’industria culturale, di lobbies di varia natura.

Di tutto questo io cerco di darmi una ipotesi di spiegazione che ha poco a che vedere con la poesia o l’arte in senso stretto. Penso che questo fenomeno sia un deja vu e che appartenga per necessità a tutte le civiltà in decadenza. Mi sembra di assistere a un film che ho visto a scuola quando mi parlavano della caduta dell’Impero Romano: tutte le grandi civiltà passano da alcune certezze incrollabili (non molto diverse dai postulati della matematica o della geometria), sulle quali costruiscono il loro edificio storico, e finiscono in un’equivalente di quello che la seconda legge della termodinamica definisce con il termine di entropia. Se così fosse, quale strade si aprono davanti a chi, pur intuendo l’ineluttabilità di questo processo (così come lo intuiva Leopardi), non vuole tuttavia arrendersi al nichilismo o a una rassegnata e passiva accettazione della fine?

Alcuni grandi poeti che appartengono alla nostra cultura, credo si siano cimentatati più di altri con questo nodo gordiano e pur dando risposte fra loro diverse, non hanno cessato di rappresentare un’alterità, minoritaria finché si vuole, ma omeopaticamente resistente nel tempo. Petronio e Rutilio Namaziano sono stati, nella tarda romanità, i maestri di questa resistenza passiva, sebbene al secondo mancasse la consapevolezza che sono sempre i barbari a rifondare le civiltà. Nei nostri tempi moderni Leopardi ha rappresentato e rappresenta ancora un esempio di resistenza di lunga durata. Ripercorrere i suoi grandi idilli e specialmente alcuni di essi (il Canto del pastore errante, per esempio), significa essere di nuovo posti di fronte al limite dell’umano e all’irriducibilità del mistero.

Nel secolo appena trascorso alcuni grandi poeti hanno saputo attraversare la modernità, aprendo orizzonti di superamento: l’Eliot più mistico, non quello minimalista che va di moda in Italia, Wallace Stevens, Wislawa Symborska. Ce ne sono altri, ne cito solo alcuni che conosco meglio per lunga frequentazione e anche per la possibilità (per i primi due), di frequentarli nella loro lingua originale. Ciò che questi grandi della poesia contemporanea hanno in comune è una visione che cerca di andare oltre l’occidente. La fine di una civiltà, o la sua decadenza, non è mai la fine di tutto, ma il compiersi di un ciclo.

I barbari, dicevo, sono sempre stati i rifondatori delle civiltà. Credo che sia vero anche oggi, sebbene sembri che di barbari in senso storico non ne esistano più. Storicamente il barbaro veniva da un altrove sconosciuto. Oggi i luoghi sconosciuti non esistono più e quando l’occidente è invaso da flussi migratori imponenti come accade oggi, chi arriva ha già largamente assorbito valori occidentali, è già occidentale; oppure, come una parte del mondo islamico, reagisce violentemente ma in modo subalterno a un modello culturale verso il quale prova un’inestricabile ambivalenza. Chi sono allora i barbari contemporanei? Mi verrebbe da dire che sono prima di tutto i disertori dalle certezze dell’occidente e gli eterodossi passati attraverso il maglio delle ortodossie. Ciò che mi stupisce di una poeta come la Symborska ogni volta che la leggo, è proprio il suo avere raggiunto una cifra gnostica e sapienziale dopo essere passata attraverso niente meno che l’estetica del realismo socialista. Proprio per avere attraversato questo momento dell’arte europea la sua testimonianza diventa decisiva. E allora uno dei modi per tornare a ragionare sulla verità ci potrebbe riportare, dopo avere percorso strade tortuose, proprio a quella definizione aristotelica così perentoria e autoritaria: la verità è dire le cose come stanno; con una differenza cruciale, tuttavia. Per il filosofo greco equivaleva a dirla in modo filosofico. Per noi potrebbe voler dire testimoniare, raccontare le cose come stanno, riportando il pensiero dentro la testimonianza e non facendone un’entità separata deputata a dire verità assolute inesistenti. È il coro delle testimonianze a dire la verità di un’epoca e forse allora anche la poesia, se la intendiamo in questo modo, può essere di nuovo un modo di testimoniare dove, in un’epoca come la nostra, si colloca il limite che è bene non superare, l’assenza che genera il vuoto che deriva dalla mancanza di senso. Il coro delle testimonianze, tuttavia, implica anche che un percorso di verità, visto come un andare verso, debba a mio avviso liberarsi della gabbia del pensiero unico, che non è superficialmente quello che noi intendiamo oggi, ma che viene da lontano, da una visione della verità che poteva essere detta in un solo modo. E non è un caso che Aristotele fosse scelto come filosofo d’elezione dal cristianesimo: è la reductio ad unum delle religioni monoteiste il primo pensiero unico che va messo in questione. E allora vorrei concludere citando un grande poeta che questa volta, tuttavia, vi proporrò come pensatore. Non è un poeta occidentale, anche se la sua cultura vasta lo porta spesso verso il confronto con la nostra cultura. Parlo del poeta siro libanese Adonis. Quello che egli dice in questo brano si riferisce al Mediterraneo, ma può essere, a mio giudizio, esteso all’intera Europa che cerca oggi in modo alquanto disorientato la propria identità. Dice Adonis:

… la visione monoteista è una dismisura della divinazione. Così il monoteismo si pone agli antipodi della presenza mediterranea: sole, amore, amicizia, vino, carne, piacere, tavola, ospitalità ed è agli antipodi della vita come festa perpetua. Separando dio dalla natura e dall’umano la vicenda monoteista ha separato l’uomo dalla sua natura, dalla natura. Questa separazione esprime il disprezzo della materia per meglio glorificare l’astrazione … Accade oggi che questa visione è essa stessa sulla via di distruggere lo spirito mediterraneo e l’unità fra le due rive. Noi ci ricordiamo bene che l’Europa ha preso il suo nome dalla dea fenicia Europa e che questo nome dipende da un fatto puramente culturale. Cadmo, il fratello d’Europa, andando alla sua ricerca nel paese di Zeus che l’aveva rapita, non era accompagnato dai soldati o da una qualunque armata. Aveva l’alfabeto come solo compagno … La cultura delle due rive del Mediterraneo è oggi antimediterranea, e io non prenderei che un solo esempio per illustrare la mia tesi: Gerusalemme, la città più sacra del monoteismo istituzionalizzato, è ormai una sorta di vai e vieni tra una preghiera quasi cieca e una spada totalmente cieca …

DEL SILENZIO E DEL RISO

Chiamato a pronunciarsi sul paradosso di Zenone, il cinico Diogene di Sinope non disse nulla, si alzò in piedi e si mise a camminare.

Le fonti non dicono se i presenti scoppiarono a ridere, oppure se considerarono imbarazzante o addirittura irriverente il suo comportamento; fatto sta che, nonostante la grande popolarità di cui Diogene godeva, non credo che i presenti  considerassero il camminare una confutazione del famoso paradosso. Del resto Diogene era noto per essere lui medesimo un paradosso vivente, per le sue stranezze (viveva in una botte e non giudicava disdicevole masturbarsi in pubblico) e anche per le sue battute fulminanti.

I paradossi logici svolgevano un ruolo essenziale nella cultura greca pre filosofica, così come – in epoca ancora precedente – lo scioglimento dell’enigma. Il paradosso di Zenone continuò a essere ritenuto inconfutabile da un punto di vista logico fino ai nostri giorni più o meno e secondo alcuni i paradossi logici (non solo questo ma anche gli altri di Zenone, meno famosi ma altrettanto importanti) sono inconfutabili e basta. Secondo altri, non lo sono perché scritti in modo tale da non esserlo, dal momento che la loro formulazione serviva ad altro e cioè ad allenare la mente a ragionare. In rete si trovano molti siti che discutono sui molti tentativi di confutazione ma anche di adesione all’idea della inconfutabilità.

Personalmente trovo suggestivo e geniale il ragionamento di Bertrand Russell (è una confutazione oppure no?), che sostiene la seguente tesi che riporto nella sua enunciazione e non nelle sue formule matematiche (calcolo infinitesimale) che peraltro si trovano facilmente in rete. Due insiemi possono essere divisibili in infinite parti ma questo non esclude che uno dei due sia più grande dell’altro. Abbandoniamo momentaneamente il filosofo inglese.

De Ruggiero, nella sua monumentale Storia della filosofia, prende invece sul serio il gesto compiuto da Diogene e lo considera come una vera e propria confutazione.

Il primo a cimentarsi, in epoca filosofica, con il paradosso di Zenone fu nientemeno che Aristotele. La sua argomentazione è la seguente: esiste uno stato potenziale del movimento ed esiste il movimento in atto. Sul piano potenziale il ragionamento di Zenone era inconfutabile e quindi la distanza fra Achille e la tartaruga poteva essere suddivisa in segmenti sempre più piccoli all’infinito; ma questo non era più valido se dallo stato potenziale si passava al movimento in atto. In apparenza, tale ragionamento sembra avere tutti i crismi del buon senso, ma apre almeno tanti problemi quanti ne risolve. La sua argomentazione potrebbe essere considerata come la spiegazione logica e argomentata del comportamento di Diogene di Sinope: camminare è movimento in atto. Aristotele dunque, nella sua confutazione, introduce surrettiziamente il concetto di esperienza o di potenza in atto per confutare un’argomentazione di tipo logico, il che era considerato da molti un trucco, almeno ai tempi suoi. Personalmente ritengo che la scienza sperimentale abbia radicalmente mutato le cose, ma so altrettanto che molti filosofi non sarebbero d’accordo e mi tirerebbero le orecchie. Tuttavia, se stiamo parlando di Aristotele e cioè di un tempo in cui il metodo sperimentale era di là da venire, la confutazione del nostro appare inconsistente. Perché allora Aristotele usa tale argomento piuttosto grossolano? Lasciamo per il momento la domanda in sospeso e rivolgiamoci di nuovo al contesto del paradosso di Zenone e anche di Diogene di Sinope.

Uno dei nodi del problema sta nella possibilità o meno di considerare il paradosso di Zenone un’argomentazione di tipo sofistico. Lui e altri proprio a quella corrente filosofica vengono di solito ascritti, ma Giorgio Colli, per esempio, avanza dei dubbi che sono venuti anche ad altri. Il contesto è quel momento assai fertile ma anche avvolto più di altri in una sottile nebbia, nella storia del pensiero greco. Gorgia, molto probabilmente, non era un sofista, ma un uomo sgomento di fronte a un’evidenza sconvolgente. Come gli antichi che si dedicavano allo scioglimento dell’enigma, egli riteneva che la verità fosse alla portata degli esseri umani, ma che essa non andasse cercata per quella via (l’enigma e la sua decifrazione), ma tramite la dialettica, che per lui era l’arte di condurre il discorso e non ciò che viene subito in mente a noi che siamo post hegeliani. Di fronte ai paradossi del linguaggio e constatato come con esso si può sostenere qualsiasi cosa e anche il suo contrario, Gorgia comprese che neppure per quella via e forse per nessun’altra la verità fosse alla portata degli umani. Non solo: quanto più si era abili nel condurre il discorso, tanto più si correva il rischio di finire in argomentazioni e paradossi che allontanavano dalla verità altro che raggiungerla! La sofistica è l’arte del paradosso, ma non credo che Gorgia lo fosse e infatti recenti studi affermano proprio questo: manca in lui il compiacimento (tipico dei sofisti) di rivoltare la frittata a proprio piacimento. In Gorgia e nei sui amici è lo sgomento a prevalere. Partiti lancia in resta alla ricerca della verità, scoprono la menzogna! Con Gorgia svanisce definitivamente l’illusione di possedere la Sofia, cioè la Sapienza: da quello scacco nacque un lavorio intermedio del pensiero che sfocerà nella filo-sofia e darà vita alla setta degli amanti di Sofia: i filosofi.

Con Aristotele siamo già nel pieno dell’epoca filosofica, ma la filosofia è ancora giovane e come tutti i giovani è anche un po’ arrogante. Non mi riferisco qui all’età anagrafica di Aristotele e alla sua personale arroganza, che tuttavia un po’ emerge nella confutazione del paradosso di Zenone. Il nostro non se ne cura perché pensa che si tratta di argomentazioni che non vanno resuscitate. Mi pare persino di sentirlo parlare e dire in sostanza a suoi discepoli: Ancora con queste sciocchezze della Sofia, degli enigmi e dei paradossi? La sua argomentazione infatti è un po’ tirata via, come quando non si dedica troppa importanza a una cosa, altrimenti si sarebbe accorto di avere introdotto in una confutazione logica un argomento esperienziale che non poteva essere usato: e infatti non mi risulta che qualcuno abbia preso sul serio la sua confutazione, probabilmente neppure lui stesso, così rigoroso nel porre limiti e barriere alle enunciazioni.

Torniamo a Diogene di Sinope. Di fronte all’aneddoto che lo riguarda, così come di fronte agli altri, alcuni dei quali notissimi (oltre al vivere in una botte, la lanterna con cui cercava l’uomo, ma anche la sua risposta fulminante a chi gli chiedeva dove abitasse “sono un cittadino del mondo” risposta assai sorprendente per quell’epoca) mi sono chiesto più volte per quale motivo siano giunti fino a noi. Può essere che il buon Diogene sia stato così sfortunato da vedere distrutte tutte le sue opere, ma se anche così fosse e se potessimo dunque ipotizzare, come in un romanzo fantastorico, che il nostro Diogene fosse in realtà un gigante del pensiero le cui opere si sono perse, tranne poche battute qui e là, rimarrebbe comunque il mistero di capire per quale motivo qualcuno ha ritenuto tali aneddoti da conservare. Le fonti sono incerte anche sulla scrittura: dei presocratici rimangono dei frammenti scritti, alcuni anche assai estesi e dunque di per sé non può essere questo il motivo della scarsità di fonti, anche perché sappiamo che il nostro godeva di grande popolarità. Se qualcosa ci arriva da quei tempi così remoti, dobbiamo sempre venerare con commozione colui o colei che si sono presi cura di quel frammento o di quel libro perché lo hanno ritenuto significativo, senza ulteriore speculazione sulle loro ragioni. Arrivati così fino a noi possiamo leggere gli aneddoti e le citazioni con i nostri occhi e domandarci se non ci sia sfuggito qualcosa. Eccome se andava trasportato nei millenni fino a noi l’aneddoto! La portata del gesto compiuto da Diogene mi sembra assai rilevante, ma la sua grandezza non va cercata a mio avviso nel camminare, ma nel “non disse nulla.” Rimanendo in silenzio, Diogene ha compiuto un gesto filosofico di enorme portata: da un lato ha reso evidente l’inconsistenza del paradosso sul piano fattuale, dall’altro ha indicato il limite del linguaggio. Solo nel silenzio poteva essere mostrata la confutazione; e con un gesto allusivo, non verbale. La Sofia non era del tutto scomparsa, ma poteva mostrarsi e risuonare solo così. 

L’aneddoto riguardante Diogene di Sinope me ne ricorda un altro, analogo e precedente. Siamo nel settimo secolo e Talete, mentre guarda il cielo, cade in un fosso. Una fanciulla tracia, che assiste alla scena, scoppia a ridere e lo prende in giro. Il riso svolge in questo aneddoto la stessa funzione del silenzio nell’altro. Ridere è un gesto che sta ai confini del linguaggio, come ci sta il silenzio. Al di qua il linguaggio esiste come codice e casa dell’umano, al di là si affaccia come allusione a ciò che esisterebbe anche senza di noi. L’umano abita una soglia e un precario confine, in equilibrio precario ed esposto a cadere fuori di esso, o al suo interno vivendolo però come codice. Forse l’eterna diatriba fra il linguaggio come codice o il linguaggio come eco di qualcosa che lo trascende ha una spiegazione logica nell’essere gli umani sulla soglia e dunque destinati a cadere da una parte o dall’altra, oppure a tenersi in equilibrio, come un pendolo. Non abitiamo il mondo (ci stiamo troppo poco), così come non abitiamo il linguaggio, ma stiamo sul confine.

La genialità di Bertrand Russell, con il quale concludo  questo discorso forse un po’ strampalato, sta però nell’esempio che sceglie per dimostrare la sua ipotesi matematica che ripeto qui: due insiemi possono essere divisibili in infinite parti ma questo non esclude che uno dei due sia più grande dell’altro. Dopo essersi servito della matematica e del calcolo infinitesimale per dimostrare la sua tesi, Russell per renderla comprensibile e alla portata di tutti, sceglie un esempio letterario da un romanzo inglese assai noto e sperimentale per l’epoca in cui fu scritto:

Tristran Shandy vuole scrivere la propria biografia. La sua vita e la sua biografia sono due insiemi distinti e divisibili ciascuno in parti, infinitesime. Shandy comincia il suo lavoro e dopo un anno di tempo ha descritto i primi due giorni della sua vita …