LE ARTI E LA GUERRA

Le vicende storiche reali della città di Ilio sono sfocate al confronto delle immagini che l’Iliade ci tramanda da secoli. All’origine della guerra troviamo un evento storico, ma ancor più una narrazione intorno alla quale si costruisce un discorso dotato di senso, che si tramanda nel tempo. Non solo la guerra è un oggetto estetico fin dagli albori della civiltà che definiamo occidentale ed è quindi collegata all’ideale stesso della bellezza, ma produce anche un’etica che arriva fino a noi. In ogni passaggio storico, grandi narrazioni epiche hanno elaborato questo discorso etico/estetico producendo quell’apparato di simboli, suscettibili  di trasmettere valore, e determinare soglie di differenza fra bene e male. Se di volta in volta la guerra affonda le sue radici nelle contingenze storiche è altrettanto vero che alle lontane origini del primo evento bellico significativo, troviamo un patto fra guerra e letteratura, guerra e  narrazione. Nascono così parole che si caricano di un senso particolare e hanno valore discriminante fra virtù e vizio. Termini come coraggio e persino temerarietà sono sinonimi di positività, mentre parole come paura o diserzione, sono esempi di negatività. Penso che una risposta che prenda di petto e non eluda la domanda – perché la guerra oggi? – debba prendere in considerazione la catena virtuosa che si è stabilita nei secoli fra la guerra come modo di risolvere il conflitto da un lato e un discorso etico/estetico con la conseguente catena simbolica. Contribuire a spezzare tale catena, a interromperla, sottoporre al vaglio che non dà nulla per scontato, proprio quel discorso dotato di senso che è stato costruito dalla letteratura intorno all’evento bellico è una delle poche azioni che ci restano nel clima di impotenza generalizzato dal quale non si riesce a venir fuori.

Diserzione e paura nell’immaginario collettivo sono ovviamente una coppia negativa, ma la rottura del patto fra letteratura e guerra passa anche attraverso la possibilità di ridare senso proprio alle parole considerate sospette o da aborrire da parte dell’apparato simbolico guerresco.

Nessuna causa, anche quella più condivisibile, dovrebbe più suscitare una letteratura di omaggio, di esaltazione  o semplicemente di appoggio;  perché l’epica guerresca di oggi non serve alla guerra di oggi, bensì a quella di domani. Un esempio famoso, ricordato anche a proposito delle guerre in corso, è quello di Wilfred Owen, poeta inglese che Virginia Woolf ricorda come eccezione per il genere maschile. Owen combatté la Prima Guerra Mondiale e vi morì; lasciò però, a differenza di moltissimi altri scrittori prima e dopo di lui, versi memorabili ed inequivocabili contro la guerra. Owen scelse il verso più monumentale della letteratura inglese, il blank verse e le strutture chiuse per rovesciare la logica epico/monumentale della lirica di guerra. Ebbene il suo destino di poeta è significativo. Le sue liriche sono scarsamente visibili nelle antologie anglosassoni e i testi più alti di denuncia vengono solitamente trascurati. Questo dovrebbe testimoniare a sufficienza l’importanza dell’apparato simbolico e la sua forza: perché a oltre un secolo da quella guerra l’establishment inglese teme di più le poesie di Owen che non il suo sacrificio. Al polo opposto di Owen colloco invece Ilia Êrenburg: egli scelse di partecipare alla difesa dell’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale – e  tale scelta in quel contesto fu certamente meritoria; ma scrisse poi versi infami nei confronti della popolazione e delle donne tedesche, che non citerò proprio per questo.

British soldier and war poet Wilfred Owen (1893 – 1918) in uniform with a young boy, circa 1917. (Photo by Evening Standard/Getty Images)

Testi di denuncia della guerra e della logica guerresca si trovano nell’Antologia di  Spoon River di Masters, in Christa Wolf che, in Cassandra definisce Achille, l’eroe  per antonomasia, con l’appellativo che si merita: una bestia più che un essere umano. Sono tutti esempi di rottura dell’ordine simbolico, come lo furono le proposte avanzate anni fa da Gunther Grass e Kazumiro Oe di di erigere un monumento ai disertori tedeschi e giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.

A quanto detto fin qui mi si potrebbe facilmente obiettare che non sono più la grande letteratura oppure il cinema a essere veicoli della propaganda guerresca, ma i mass media, l’informazione asservita e quant’altro e che dunque occuparsi della narrativa guerresca come di quella di opposizione è in fondo tempo perso, un atteggiamento che poteva andare bene per il passato ma inservibile oggi. In secondo luogo, l’impotenza che sembra regnare sovrana scoraggia qualsiasi tentativo di discorso, la parola appare fuori gioco rispetto a logiche geopolitiche e di potere troppo più grandi di noi. Sono sentimenti diffusi che quotidianamente verifichiamo, ma sono anche il risultato di una narrazione tossica che può essere smontata e in ogni caso si tratta di due problemi diversi.

L’impotenza è un dato reale, ma è il risultato del fallimento delle élite occidentali e in particolare di quelle europee; tanto è vero che a livello continentale e in percentuali ancor più accentuate in Italia, l’opposizione al continuo invio di armi in Ucraina è molto forte e in alcuni casi maggioritaria, nonostante la propaganda martellante. Più che impotenza è la consapevolezza di non potersi affidare alle forze politiche esistenti a determinare atteggiamenti di disincanto e di indifferenza. Bisogna cercare le parole adatte, ma specialmente continuare a rifiutare il linguaggio bellicista che permea tutti gli aspetti della vita quotidiana, contrastarlo senza cadere però in una spirale reattiva o semplificata. Per questo gli esempi che si possono trovare nella grande letteratura e nel cinema sono quanto mai utili e per concludere questa parte della riflessione suggerisco la visione di 1917, un film di guerra, certo, ma che mette in scena un tipo di comportamento virtuoso che fa emergere tutta la stupidità della guerra: lo stesso si è può dire naturalmente di un classico come Niente di nuovo sul fronte occidentale.     

La propaganda attuale

Una breve nota finale sulla questione della propaganda. Che essa, piuttosto che stare nelle mani di scrittori che sanno usare la parola in modo virtuoso, sia invece in quelle di mediocri giornalisti asserviti nella grande maggioranza dei casi, è un bene e non un male. Tanto più che le vendite di giornali sono in caduta libera come riportato da due diverse fonti citate nella nota: per non appesantire il testo chi voglia verificare i numeri e le percentuali può farlo accedendo ai due siti.1 I dati più eclatanti riguardano proprio Corriere della Sera e Repubblica, in caduta libera, mentre i soli in controtendenza e anche per questo difficili da trovare persino nelle statistiche,  riguardano quotidiani che fanno ancora del serio giornalismo d’inchiesta come Domani. Tutto questo spiega in buona parte perché, nonostante il martellamento costante, la maggioranza della popolazione italiana continua a essere contraria all’invio di nuove armi in Ucraina e ci sono segni che anche nelle opinioni pubbliche europee ci sono incrinatura importanti. Ma è la televisione il guaio peggiore, potrà obiettare qualcuno, e per contrastare le televisioni che cosa su può fare? Anche in questo campo le statistiche dicono che mentre i programmi di intrattenimento e quelli sportivi hanno un seguito come prima, anche perché a volte sono un rifugio alla eccessiva pressione del presente, i telegiornali hanno sempre meno ascolti. Naturalmente esiste un enorme problema che riguarda l’inconsistenza del ceto intellettuale che frequenta giornali e Tv e l’informazione in generale, ma questo è un tema che ci accompagna da molto tempo e che esula dagli intenti di questo scritto che si propone  semplicemente, a un anno dallo scoppio dell’ultima guerra in ordine di tempo, di ricordare che la diserzione dal frastuono mediatico è altrettanto importante quanto la diserzione vera e propria e che i piccoli passi sono in certi momenti storici le sole azioni praticabili.


1 Dati del sindacato autonomo giornalai:

“Sono i principali dati contenuti nell’ultimo Osservatorio sulle comunicazioni (n. 4/2022), l’aggiornamento trimestrale dei settori dei media e delle telecomunicazioni realizzato dall’AGCOM. Nell’editoria quotidiana si conferma dunque l’andamento negativo già rappresentato nei precedenti Osservatori e che ha riflessi diretti negativi sulla rete di vendita della stampa in termini di redditività e sostenibilità dell’attività.”

Da Affari italiani: 11 gen 2023 — A novembre, secondo i dati Ads, c’è stato un calo generale delle vendite dei giornali in edicola. A fare il tonfo più rumoroso è “Il Fatto …

IDA MAGLI

Introduzione

Ida Magli è stata per me una maestra e lo è ancora, nonostante il netto dissenso rispetto alle sue prese di posizione negli ultimi anni. L’antropologa, anche per questo, non ha goduto di grandi attenzioni dopo la sua morte e gli studi su di lei non sono molti. Le ragioni però non sono dovute soltanto alle polemiche suscitate dai suoi interventi: oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: prima di tutto l’essere politicamente molto scorretta, tanto d’avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra; in secondo luogo per essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano. La mia speranza è che il tempo le restituisca quanto a lei è dovuto, senza sconti verso alcune derive del suo pensiero ultimo.

L’antropologia al centro

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco) e ha proposto una lettura antropologica dei Vangeli. Sono due mosse decisive perché solitamente l’antropologia si occupa dei diversi, siano essi i popoli originari ancora presenti in mezzo a noi, oppure i popoli antichi. Nel rivolgersi invece a noi e alla nostra storia, inoltre, Magli non ha dimenticato che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che la costruzione del femminile e del maschile occidentali sono il risultato di un pensiero maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è. Il centro d’irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le incursioni che s’allontanavano da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee e legate a fatti d’attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici. I libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le sue opere più decisive. Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose, sono strettamente legati; in essi Magli si allontana da tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue. Magli legge i testi evangelici e gli altri documenti dell’epoca collocandoli nel contesto degli usi e dei costumi della comunità di appartenenza: sono le strutture che Braudel ha indicato con il termine di lunga durata, espressione che Magli cita nell’introduzione a La Madonna.1 In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte le figure che popolano i vangeli fossero veri uomini e donne situati nel loro contesto culturale e antropologico. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stessa strumentazione teorica la costruzione dell’immagine femminile a partire dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio. Nei libri di Ida Magli, pur non immuni da eccessi di strutturalismo, l’analisi delle strutture non prescinde dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e da un’analisi puntuale delle loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente – fino a dove questo è possibile – e dunque la storia. Questo permette a Magli incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. Il mio studio, esaurite queste premesse, si dedicherà proprio a tali incursioni, a partire tuttavia da una sostanziale condivisione della sua analisi antropologica dei testi cristiani.

Il doppio registro dell’arte occidentale

Nei paragrafi finali de La Madonna, Ida Magli affronta il tema dei rapporti esistenti fra la costruzione teologica del culto mariano e l’arte occidentale, sacra e non. La citazione che segue è un punto di partenza importante:

La storia dell’arte occidentale è una storia contrassegnata dall’emergere di due livelli culturali di simbolismo, quello mariano e quello dell’arte.2

Siamo alle origini della cultura occidentale cristiana, in quel periodo di tempo che più o meno va dalla nascita dei volgari intorno all’anno 1000, per passare poi ai poemi delle origini, al ciclo bretone, alla pittura sacra; infine, all’amor cortese. Volendo indicare più precisamente il periodo, possiamo dire che esso va dall’opera del Venerabile Beda fino alla fine del 1200. Il presupposto implicito dell’affermazione di cui sopra è la coincidenza fra storia dell’occidente e storia del cristianesimo; dunque, almeno in una prima fase, per Ida Magli la cultura classica precedente, i suoi modi e stili di simbolizzazione sembrerebbero esclusi dall’analisi, sebbene ciò non sia poi del tutto vero. Tuttavia, nello spingersi indietro nel tempo rispetto all’arco temporale indicato, Magli si rivolge prevalentemente all’ebraismo. Si può dire dunque, che il suo orizzonte di riferimento sia, principalmente, la cultura ebraico-cristiana, all’interno della quale il Cristianesimo come costruzione successiva alla morte di Gesù di Nazareth, diventa l’elemento centrale, pur senza rompere i legami antropologici con la cultura profonda dell’ebraismo, specialmente per quanto riguarda i tabù legati al femminile. La parte più originale della frase di Magli è laddove afferma che nella cultura occidentale ci sono due diversi simbolismi: quello mariano e quello dell’arte. L’affermazione è problematica perché per un lunghissimo periodo di tempo il soggetto principale dell’arte pittorica è stato di natura esclusivamente sacra e lo stesso vale per la musica mentre maggiore libertà c’è stata nella letteratura e nella poesia. Dunque, in che senso Magli parla di due diversi modi di simbolizzare? Lo afferma subito dopo:

Se la Madonna è un’opera culturale unica, creata dal Cristianesimo, … sviluppatasi soprattutto del XII secolo in poi, l’arte occidentale si è trovata di conseguenza di fronte a una libertà creatrice che a nessun’altra arte è stata concessa. La Madonna ha assorbito la parte “negativa” dell’atteggiamento artistico dell’uomo quella che gli dà la forza di desiderare l’assoluto ma che non permette quasi mai di lasciarlo assoluto.” Nella Madonna, infatti si chiude il cerchio del simbolico-concreto e nella storicizzazione dell’ideale, l’ideale diventa realtà, brutalmente ridotto nei limiti del desiderio. Si trova qui il confine sottilissimo fra psicosi e arte. 3

L’interpretazione di questo passaggio non è facile: tento di darne una pensando in particolare alla tre parole chiave negativo assoluto e desiderio  e ritornando a un mito più antico: Orfeo ed Euridice.  La lettura di questo come di tutti i miti si presta a interpretazioni diverse. Faccio mia quella di Blanchot che è stata ripresa recentemente con maggiore profondità anche in un libro di Alessandro Carrera.4 Secondo tale interpretazione, Euridice rappresenta il desiderio senza limiti, sia che si intenda la parola nel senso greco oppure genericamente, sia che la si intenda in senso psicoanalitico. Il desiderio illimitato e assoluto, però, non produce nulla, oppure una deriva narcisista. Perché l’opera nasca, esso non basta. Nel momento in cui Orfeo, il principio maschile, permette all’opera di esistere, perde Euridice.5 Nel mito classico, dunque, Orfeo ed Euridice sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché esso è in rapporto diretto con la divinità e dunque illimitato come il desiderio, mentre il principio maschile, pur limitato, proprio per questo è il solo produttore di cultura. Questa, peraltro, è anche l’opinione che Magli esprimerà con perentoria chiarezza nelle primissime pagine di Viaggio intorno all’uomo bianco e anche con ben altra articolazione nel libro intitolato La Madonna e che susciterà la diffidenza di larga arte del mondo femminista.6 Nella cultura occidentale e cristiana, invece, avviene – secondo Ida Magli – una scissione. Da un lato la Madonna, grazie all’elaborazione del culto mariano, assolve la funzione di assoluto negativo del desiderio. La parte di Euridice, che nel mito classico si perde definitivamente nell’Ade per permettere che l’opera nasca, viene così trasformata in una figura di tipo nuovo che dal simbolo concreto, diviene un Ideale reale. Magli definisce questo processo come la parte negativa dell’atteggiamento artistico dell’uomo (vale la pena di ricordare che per Magli l’uomo è sempre il maschio e non un universale che comprende entrambi i generi e quando non è così lo specifica sempre) rispetto all’opera. A differenza di quanto avviene nel mito classico, dove ispirazione e opera, pur rappresentati da agenti diversi, hanno lo stesso oggetto in comune e cioè la creazione artistica, la parte di Euridice, con l’elaborazione del culto mariano, viene delegata a un gruppo chiuso di maschi teologi e relegata in un campo che sta sul confine sottilissimo fra psicosi e arte.7 Parafrasando Bion, si potrebbe dire che i teologi medioevali sono per Magli una specie di un gruppo in assunto di base che si carica di un principio assoluto negativo, liberando così le arti e gli artisti da ogni vincolo, affrancando la creazione artistica anche dalla pesantezza dei bisogni simbolici del gruppo. 8

Gli esempi che Magli fa e le citazioni dalle opere dei Padri della Chiesa sono quanto mai probanti. In alcune affermazioni dei teologi dei primi secoli, prevale ancora una forma di concretezza analogica e così la madre di Gesù è un carro che porta il re della luce nella vita, oppure la casa del re. Ambrogio non rimuove ancora del tutto la fisicità di Maria ed esalta il grembo che cresce.9 Passo dopo passo, però, Maria di Nazareth perde tutti gli attributi fisici del femminile e specialmente l’utero. La Madonna diventa così una costruzione del tutto nuova. L’ultimo a lasciarsi andare a un grido che suona angoscioso per come lo dice è Agostino, che riferendosi alla donna, urla: Per foemina mors, per foemina vita. Certo, per lui che il corpo femminile lo conosceva molto bene e per esperienza personale, doveva essere particolarmente doloroso e difficile rimuoverlo! Ida Magli così descrive il compimento di questa prima fase dell’elaborazione del culto mariano. Invece di ricorrere alle molte citazioni disponibili ho scelto questo passaggio perché in esso sono contenute alcune espressioni usate dai padri della Chiesa con le relative fonti originali, per cui lo ritengo esaustivo:

La Madonna finalmente è una donna chiusa, prima durante e dopo il parto, è un muro inespugnabile, una rocca sicura, una trincea da ogni lato fortificata, una torre potente, una montagna mai tagliata, una porta chiusa un giardino sigillato… Sicuri di questo, gli uomini possono lanciarsi ad amarla, ad adorarla, fissando in lei tutte le caratteristiche della non azione, della non-vita. La donna ideale è sempre morta, fissata in un aldilà eterno, che permette la definizione del suo non-essere.”10

La parte devozionale dell’iconografia cristiana che si rivolge alla Madonna diviene per Magli una forma d’arte alimentata dalla teologia mariana ed è questa la prima forma di simbolizzazione: di essa fanno parte le immagini popolari, le statuette votive e le rappresentazioni direttamente legate al culto. L’ipotesi di Magli è suggestiva e quanto mai feconda perché si apre alla verifica sul campo, che lei fa solo per brevissimi tratti, ma che può essere continuata da altri, avendo lei aperto una strada quanto mai importante. Il suo punto di partenza è il soggetto più frequentato per molti secoli dall’arte pittorica occidentale e cioè la Madonna e la Madonna con bambino. Magli osserva che, quanto più cresce l’elaborazione del culto mariano, tanto più cresce intorno ad esso un’iconografia ingenua, che tende sempre di più a uniformarsi ai caratteri salienti della teologia mariana. Tali tratti portano a un’esasperazione del modello, tanto da raggiungere presto una forma consolidata di stereotipia. Le immagini sono sempre uguali. Magli definisce queste opere come appartenenti alla cultura popolare, al folklore, ma anche dettate da chi elabora il culto. Fanno parte in sostanza di quella che definirei un’alfabetizzazione di massa all’iconografia mariana, che traduce in immagini quello che la teologia vuole trasmettere e cioè l’ immagine di una donna che ha perduto tutte le sembianze del femminile concreto, ma ne ha assunte altre stilizzate e sempre uguali: l’inespressività dei volti per esempio, è una costante, ma anche il modo di rappresentare il bambino (che non sempre è presente in queste immagini o sculture); la posizione statica del corpo, l’aureola, la stilizzazione dell’abito e i colori. Il gusto popolare in sostanza viene educato secondo canoni precisi e delimitati. Cosa avviene invece con l’arte secondo Magli? Accade che il soggetto sacro, imprescindibile per tutti, anzi esclusivo per un lungo periodo di tempo, si distanzi per piccoli e grandi scarti dal modello teologico e dia vita a un secondo canale di simbolizzazione che sta alle origini anche della cultura laica europea e occidentale, assumendo dei caratteri che s’allontanano sempre di più dall’iconografia del gruppo psicotico e che riportano in scena un soggetto femminile diverso. Gli esempi che Magli fa sono pochi ma assai significativi. Il primo è l’Annunciazione di Lorenzo Lotto, diversa da tutte perché la donna (in questo caso è proprio una donna e non un’invenzione dei teologi), ha un volto terrificato all’annuncio che darà alla luce un dio: immagine ben più realistica che non quella di volti serafici, come se dare alla luce un dio non spaventasse almeno un po’! In questa divaricazione, sostiene Ida Magli, prende forma un primo esempio di cultura laica. Alla fine del libro Magli indica alcune altre opere che a mio giudizio testimoniano la validità della sua ipotesi. Fra le maglie strette della fedeltà alla tradizione da un lato e le necessità artistiche dall’altro, prende corpo un’arte laica, le cui caratteristiche sono quelle di ritornare a una rappresentazione del femminile in cui la donna prevale sulla teologia. In modi a volte più provocatori – Caravaggio dipinge una Madonna con il volto della sua amante –  altri meno, tale tendenza s’impone e viene sostanzialmente tollerata dalla stessa Chiesa, grazie a Papi che tutto avevano in mente tranne la fedeltà al detto evangelico, ma che almeno hanno aperto le porte alla grande arte occidentale, diventandone i primi mecenati. Lo stesso si può affermare di un’opera come la Pietà Rondanini di Michelangelo, dove la morte e il dolore prevalgono e il mito della Resurrezione è assente.

Musica e poesia

Cosa avviene per le altre arti? Magli sottolinea la dipendenza del linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa. L’esempio più alto è naturalmente quello di Dante. Beatrice è una donna della teologia, anche se sappiamo che si chiamava Portinari di cognome. Dante la rende simile all’immagine iconografica dell’Assunzione al cielo della Madonna perché Beatrice è già in alto, ascesa nell’Empireo e sebbene il dogma sia stato proclamato nel 1950, già nel quinto secolo la devozione popolare lo accoglieva come un atto di fede indiscusso. Che la Beatrice dantesca non sia uno stereotipo del tutto amorfo come nelle immaginette del culto mariano lo si deve a una straordinaria poesia, ma dal punto di vista delle radici del pensiero è a Bernard De Clervaux e all’Aquinate che occorre rivolgersi. Quanto alla musica è fondamentale la lettura dell’intero capitolo intitolato Il tempo interrogativo della musica.11 In esso viene ricostruito il percorso che la musica occidentale, ma prima di tutto europea, ha compiuto dal gregoriano per arrivare fino a noi. Nel gregoriano:

… nessun ostacolo si frappone alla concezione ciclica del tempo … Il gregoriano può permettersi di spaziare in durate infinite perché è sorretto dalla certezza della risposta di Dio.

La contraddizione però è dietro l’angolo, dal momento che proprio il Cristianesimo ha introdotto una variante rispetto al tempo ciclico. Cristo segna un prima e un dopo, la cui presenza scandisce il tempo in altro modo: dal peccato originale a Cristo è il passato da redimere, dopo di lui e fino al giudizio universale è il futuro. La risposta alla domanda di certezza non è più data ma deve essere cercata e inseguita nel tempo. Bach, che componeva musica nel contesto di un mondo matematizzato dalla rivoluzione scientifica e sistematizzato da Cartesio, cambia il registro dell’eterno ritorno su cui si fondava il canto gregoriano:

… In lui la ripetizione diventa un inseguirsi continuo di domande-risposte, uno sforzo immane dell’intelligenza per riempire di un contenuto autosufficiente la forma del tempo assoluto, senza subordinare la ragione alla certezza del tempo già dato.

 Magli pensa in primo luogo all’arte della fuga ma si può dire che già con l’avvento della polifonia, la certezza del tempo già dato era stata infranta. Il paradosso messo in scena da Bach, secondo Magli è che:

… Il tempo della scienza coincide con la struttura interrogativa della musica e con un tempo che da Mozart a, Behetoven, da Debussy, Schönberg, Berg, fino a Bussotti si allontana sempre più dal concetto di durata, di inizio e fine … fino alla dissoluzione della fisicità del suono.

Ci si potrebbe domandare, a questo punto, cosa resta. Le ultime osservazioni Magli le riserva alla danza:

… La danza è in effetti il massimo tentativo che gli uomini hanno fatto per innalzarsi, concretamente e simbolicamente, al di sopra della fisicità, servendosi del proprio corpo come strumento: sublimazione del corpo attraverso la fiducia assoluta del corpo. La danza perciò è esclusa dalle cerimonie liturgiche in quanto nega la subordinazione del corpo a Dio, nega la rinuncia alla sessualità … la danza dunque non può essere che Eva … in lei si riassumono tutte le Maghe, tutte le Sirene, tutte le Calipso, tutte le Silfidi e tutte le Circi …

La conclusione è altrettanto perentoria:

Maria non può danzare.   

Riflessioni conclusive

Le sollecitazioni di Magli contenute negli ultimi capitoli de la Madonna si prestano a un ulteriore approfondimento. I dipinti che lei cita come spostamento da quello che è l’asse devozionale indotto dalla teologia mariana sono pertinenti ma si potrebbe continuare la ricerca per capire meglio in che cosa consiste la doppia simbolizzazione presente nell’arte europea e come essa si sia evoluta nel tempo. Lo stesso si può dire per la poesia: il modello concettuale della courtoisie è sopravvissuto al Dolce stil novo e alle poetiche coeve, reiterando la scissione fra un’immagine del femminile quasi sacrale da un lato e l’emarginazione delle donne reali dalla cultura e dalla storia dall’altro. Nella poesia italiana, tuttavia, la poesia di Cavalcanti si pone come un contraltare quanto mai importante a tale visione.12 Tale scissione cominciò a entrare veramente in crisi dopo la Rivoluzione Francese. Magli, a proposito di Bernadette, nota come sia per la prima volta una donna a essere spettatrice di un’apparizione miracolosa che assume una dimensione pubblica. C’era probabilmente bisogno di rimodulare il femminile dopo lo spavento suscitato dalle donne in armi e in massa apparse improvvisamente sulla scena della storia alle Tuilleries: che una ragazzina senza cultura diventasse il tramite con il trascendente cancellava quell’immagine e ne riproponeva un’altra più consona al ruolo che le donne dovevano mantenere. Bernadette ebbe solo una vita di sofferenze come premio e se ne rese amaramente conto lei stessa. Baudelaire alcuni decenni dopo avrebbe demolito il linguaggio della courtoisie rivelandone il doppio registro, ma specialmente mettendo in scena un’ultima volta – per distruggerla dall’interno – la figura della Musa. Infine, con il femminismo dei primi del ‘900 e poi con la seconda andata dagli anni ’70 in poi, è davvero  cominciata un’altra storia.


1 Ida Magli: La Madonna, Rizzoli, Milano 1987, pag. 10. Gesù di Nazareth è stato pubblicato da Rizzoli, mentre Storia laica delle donne religiose è uscito per Longanesi.

2 Ida Magli, La Madonna pag. 103.

3 Op. cit. pp.103-4.

4 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano, 2011

Nel libro, Carrera compie un ampio excursus storico che va dal mito di Orfeo ed Euridice e – passando attraverso Il Dolce stil novo e poi Leopardi – arriva fino a noi. Carrera, in un capitolo, riassume in poche parole l’interpretazione canonica, che ne fa un mito di fondazione del canto poetico, dove Euridice è l’ispirazione, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, per diventare cantore, deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che vorrebbe possedere contemporaneamente Euridice e l’opera poetica. Delle due figure simboliche, la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera viene alla luce. Fin qui Carrera. Del libro in questione mi sono occupato a lungo nel saggio Amore, morte e … altro, pubblicato sulla rivista online Overleft – www.overleft.it – nella sezione Dopo il diluvio.

5 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché  in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla realizzazione.

6 La questione è talmente controversa che è impossibile trattarla in una nota. Mi limito solo a dire che per Magli l’affermazione che la cultura è stata nell’universo ebraico-cristiano un prodotto eminentemente maschile non è diversa infondo da quello che i femminismi hanno messo in evidenza. Il problema sta nella diffidenza che Magli ebbe comunque sempre nei confronti di questi movimenti come di altri: diffidenza che l’antropologa ha espresso anche in prese diposizioni che hanno suscitato polemiche per la loro parzialità. Credo che in questo caso occorrerebbe farei conti con il pregiudizio strutturalista e con la propensione dell’antropologia a considerare solo le permanenze e la lunga durata, il che  – se portato alle estreme conseguenze – porta allo strabismo nei confronti del presente storico, che l’antropologia, e specialmente quella più ligia ai dettami dello strutturalismo, non riesce a vedere.  

7 Op. cit. pag 103.

8 Op. cit. pag. 104.

9 Entrambe le espressioni si trovano in Ida Magli, La Madonna, Pag. 109 e seguenti.

10 Op.cit. pag.102.

11 Ida Magli La Madonna, dalla pagina 154 fino alla fine.

12 Paolo Rabissi ha compiuto un’analisi assai importante della poesia di Cavalcanti evidenziando l’originalità che egli rappresenta per l’epoca e non solo. Il saggio si trova  sulla rivista online Overleft e s’intitola  Il doppio effetto dell’amore, desiderio e frantumazione dell’io nella poesia di Guido Cavalcanti. Ad esso rimando per approfondire la tematica.   

IL PICARO E IL BURLONE, L’EROE E L’EROS: LA NARRATIVA DI JUAN MANUEL DE PRADA

Introduzione

Juan Manuel De Prada, dopo un periodo di grande effervescenza editoriale e di presenza nella letteratura europea e non solo ispanica è un po’ rientrato nell’oblio. Su alcune sue opere scrissi anni fa una riflessione che uscì sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo oggi perché mi sembra quanto mai attuale.

Ripercorrere la narrativa di Juan Manuel De Prada dagli esordi significa addentrarsi in un universo molteplice, anche se – una volta arrivati alla fine – si riconosce la filigrana di uno stile già precocemente maturo. Come prima approssimazione si potrebbe affermare che De Prada è un narratore che crede nella possibilità di raccontare storie. Potrà sembrare banale una dichiarazione del genere ma se si pensa all’evoluzione del genere narrativo in Europa, a partire dal tormentone sulla morte del romanzo, iniziato negli anni ’60 e periodicamente risorgente, tale constatazione non è affatto generica. Raccontare storie è parso a molta critica e anche a molti autori, impossibile; oppure che tale possibilità appartenesse a una letteratura di intrattenimento e di facile consumo, mentre la narrativa alta perseguiva il culto esasperato della cosiddetta bella pagina, oppure si ingorgava nei meandri di una sperimentazione linguistica ingegnosa ma spesso vuota; oppure ancora si rinchiudeva in un freddo cerebralismo. Sembrava che non si potesse più coniugare il gusto della trama, dell’intreccio, del personaggio memorabile, con l’esigenza di una forte letterarietà, ma che le due cose fossero irrimediabilmente scisse, dalla crisi del romanzo ottocentesco in poi; sia per la concorrenza del mezzo cinematografico e televisivo sia per altre e più complesse ragioni. Naturalmente ciò che sto descrivendo è soltanto una parte del processo di trasformazione che ha investito il romanzo e anche il racconto. Juan Manuel De Prada appartiene alla schiera di chi pensa sia ancora possibile raccontare. In questo saggio mi occuperò di tre libri, i cui titoli sono indicati nella traduzione italiana: Fiche, La tempesta (l’ultimo romanzo pubblicato) e Le maschere dell’eroe, il secondo libro in ordine cronologico.

JuanManueldePrada2007

Il tenero burlone

Fiche, rubricato nella librerie italiane, come libro erotico e addirittura pornografico, non poteva trovare collocazione peggiore e stupida disattenzione presso la nostra critica. Il libro consiste di una raccolta di brevissimi e fulminanti racconti, che hanno per oggetto il sesso femminile, ma sono fecondati da un’immaginazione imprevedibile, a volte di impronta surrealista, a volte capace di tenerissima e struggente delicatezza. Bastano poche citazioni per darne un’idea. Scelgo, riproducendone un’ampia parte, il racconto dal titolo La fica della violoncellista, riservandomi un commento più approfondito sull’intero libro in chiusura del saggio.

Ora che le avanguardie hanno definitivamente smesso di dar fastidio, ora che il cubismo è andato a ingrossare le fila delle scuole classiche … a noi nostalgici dell’arte di inizio secolo resta solo la consolazione di assistere a un concerto d’archi; per vedere la violoncellista in simbiosi con il suo strumento, unica vivente immagine cubista rimasta al mondo … Che compenetrazione fra il violoncello e la donna che strappa alle sue corde gemiti, mormorii e grida d’esultanza! Che intreccio di linee rette e curve, che accoppiamento di carne e legno! … Ecco, la violoncellista stringe fra le ginocchia la concavità dello strumento, la superficie di legno incurvato, ondeggiante, che corrisponde alla linea della vita; poi lo afferra per il collo, gli pizzica le corde vocali, gli strofina il petto con l’archetto fino a ferirgli il cuore e a strappargli un si bemolle. Che coppia, il violoncello e la suonatrice! Che intreccio di gambe e braccia, degno di un ritratto di Juan Gris!

Durante l’intervallo vediamo la violoncellista stringere le chiavette del suo uomo di legno, come una donna che torca le orecchie all’amante un po’ tiepido. Nel secondo tempo, dopo la strigliatina, il violoncello sembra meno remissivo … Invano cerchiamo di immaginare la fica della donna, … desiderosi di assistere alla lotta che si svolge dietro al legno tra le viscere del violoncello e quelle della virtuosa … La fica delle violoncelliste, celata da mutande a cremagliera, deve possedere note di recondita musicalità, crome e semicrome, biscrome e semibiscrome, … o forse è in realtà un metronomo che batte il tempo con clitoride, destra sinistra, sinistra destra, allegro ma non troppo … Le fica della violoncellista, durante il diluvio di applausi che le vengono tributati, bacia le corde del suo amante, e ancora una volta l’estetica cubista resuscita; alla faccia di tanti musei a pagamento.” (pag 23).

Venezia, metafora di una soggettività terminale

Con l’ultimo libro uscito in Italia, La Tempesta, Juan Manuel de Prada scrive un’opera meno vistosa del primo romanzo, di cui mi occuperò successivamente. Tecnicamente, il libro si può definire un giallo, con tanto di assassinio iniziale e una serie di peripezie tipiche del genere. Dietro il teatrino, che peraltro De Prada orchestra con maestria, emergono però i tre protagonisti veri di quest’opera: la città di Venezia, il quadro di Giorgione che dà il titolo al romanzo e i falsari dell’arte.

Alejandro Ballesteros è un giovane docente che si reca nella città lagunare per incontrare Gilberto Gabetti, il direttore dell’Accademia, e per studiare uno dei quadri più misteriosi della tradizione pittorica italiana. Arriva d’inverno, Venezia è sommersa dall’acqua alta e dalla neve, è deserta e spettrale come le maschere del suo carnevale: l’umido e il marcio l’avvolgono completamente. È una città molto lontana dall’iconografia turistica! L’albergo che lo ospita non è da meno, con la sua l’insegna luminosa rossa, in sinistro contrasto con il paesaggio imbiancato. Un senso di morte sospesa alberga fin dalle prime pagine e infatti il delitto arriva puntuale non appena Alejandro si è ritirato in camera. Uno sparo, degli uccelli che volano via, un oggetto che tonfa nell’acqua del canale e un uomo riverso nella calle deserta, che il nostro studioso cerca di soccorrere. Il moribondo si chiama Fabio Valenzin ed è un noto falsario. Da quel momento Alejandro si trova coinvolto in un intreccio sempre più inestricabile, la scena si popola di altri personaggi in un crescendo di vicende che confluiranno, per incrociarsi tutte, nelle sale di un palazzo dove si tiene una festa di carnevale. Le donne, come sempre, sono protagoniste di primo piano nei romanzi di De Prada: dall’inquietante proprietaria dell’albergo, assassina del marito ma salvata dall’ispettore di polizia Nicolussi, con il quale ha stretto una perversa complicità, a Chiara; e poi Giovanna Zanon. Il giovane spagnolo si trova coinvolto in una sorta di pericoloso minuetto, al centro del quale ci sono le due donne e altri personaggi maschili docilmente manovrati. E il quadro di Giorgione? La Tempesta sembra destinato a non essere mai raggiunto né visto: fra interrogatori di polizia e colpi di scena, l’incontro con il dipinto sfuma e si confonde con il mistero della sua interpretazione. Quale sia è Chiara a rivelarlo ad Alejandro, prima ancora che lui possa vederlo:

E questa stessa mancanza di catarsi che ti turba tanto la ritroverai nella Tempesta … Anche nel quadro c’è un avvenimento che non avviene, una minaccia che rimane sospesa per aria, un lampo che non scatena la pioggia. Ma i personaggi della Tempesta non si agitano, niente può scuotere la loro indifferenza, niente li commuove. Nella Tempesta, come a Venezia, i fenomeni non si scatenano, la vita pende appesa a un filo sfidando le leggi della fisica, e questa imminenza che non si definisce è causa di apprensione e turbamento.(Pag.83)

Mancanza di catarsi: è l’espressione chiave usata da Chiara, che pronuncia queste parole mentre sta pulendo il pesce che mangeranno insieme la sera e del quale mostra le interiora con una certa perversa esibizione. Il marcio non abbandona mai i personaggi, li avvolge come avvolge tutta la città. Ma chi è poi Chiara? È la figlia di Gabetti; non riesce a distaccarsi da lui e ne è in un certo senso l’ombra, senza che questo le impedisca di avere relazioni che tuttavia la lasciano prigioniera di un complesso paterno del quale non è capace di liberarsi. Chiara conosceva Valenzin e dalle parole del padre si può pensare che fra loro esistesse qualcosa di più di una semplice conoscenza di lavoro; ma ciò che colpisce di più il giovane studioso spagnolo è un altro particolare:

Fabio le aveva insegnato alcuni trucchi che non s’imparano all’Accademia delle Arti. Pag 66.

Al sospetto avanzato da Ballesteros, Gabetti risponde piccato che si tratta di trucchi di restauro, che nulla hanno a che vedere con la sua attività di falsario, ma il dubbio rimane, il labirinto diventa sempre più inestricabile finché non compare Giovanna Zanon, ex moglie separata di Gilberto Gabetti e collezionista d’arte. Il giovane spagnolo è attratto da Chiara, ma è la Zanon che lo invita a casa sua per mostragli un quadro che teme essere un falso; naturalmente è il defunto Valenzin che glielo aveva venduto! Vuole il parere del giovane studioso spagnolo, ma usa la circostanza per mettere in atto una tragicomica scena di seduzione che finisce nel nulla; o meglio in un invito per la grande festa di carnevale che si svolgerà di lì a pochi giorni.

La galleria di personaggi non è ancora al completo; altri falsari, mercanti, guardia spalle, una misteriosa valigia che Valenzin aveva lasciato nell’albergo dove alloggia anche Ballesteros; e altro, fino allo svelamento finale dell’assassino. Ma non è questo, lo ripeto, il contenuto del libro: più scorrono le pagine e più il tema intorno al quale ruota il tutto è la confusione fra autentico e falso e l’impossibilità di tracciare confini netti: è la metafora, a livello estetico, di una decadenza morale inarrestabile.

Il picaro, gli eroi, gli anti eroi e l’eros

Soltanto in Spagna poteva nascere un’opera epica e corale come Le maschere dell’eroe, scritto in una lingua e proveniente da una terra che diede i natali al romanzo moderno con quel grande affresco picaresco che è El Lazarillo de Tormes.

Lo sfondo del romanzo torrenziale di De Prada è quello tragico e grottesco degli anni ’30, che sfoceranno nella guerra che la Repubblica Democratica eletta dal popolo spagnolo condurrà contro la sedizione fascista del generale Francisco Franco; ma è anche l’epoca dell’utopia anarchica che soltanto in Spagna ebbe il seguito che conosciamo e produsse anche (cosa incredibile a dirsi sotto certi aspetti), una cultura di governo e non soltanto quello che tutti si immaginano dell’anarchia: omoni con i baffi, più o meno bombaroli, slanci ideali poco sostenuti da visioni politiche poco razionali, un destino ineluttabile di sconfitte ecc. ecc.

Il romanzo di De Prada è esagerato come gli eventi che fanno da sfondo a tutta la vicenda e ai personaggi che occupano la trama di quest’opera affascinante. In questo sta la sua verità storica, che sintetizza tutti gli elementi di crudeltà, di eroismo, di  meschinità e tradimenti che hanno costellato una guerra civile fra le più spietate, combattute in un secolo che di crudeltà ne ha prodotta in quantità industriali.

Detto questo va subito aggiunto che Le maschere dell’eroe è un romanzo che ha a che fare con la storia ma che non può essere definito romanzo storico. Cominciamo dunque dalla trama in senso stretto.

Il romanzo prende le mosse da una lettera che Pedro Luis de Gálvez invia al Dottor Francisco Garrote Peral, direttore delle carceri. La missiva porta la data del 1908 e il narratore ci avverte che essa può essere pervenuta al direttore soltanto attraverso canali speciali, dal momento che non porta omissis o cancellature censorie. Quella del manoscritto o della lettera ritrovata, è un espediente narrativo molto antico. In tale lettera il prigioniero cerca di giustificare le proprie azioni perorando la propria causa al fine di ottenere uno sconto di pena. Ma chi è Gálvez? È un eroe bohemien, uno sradicato che abita un demi monde culturale e politico di massa. Repubblicano e scrittore combatte la guerra civile e continua a perseguire la sua carriera artistica. Sarà il suo nemico e alter ego Fernando Navales a diventare il custode delle sue opere, condannandole al silenzio. Egli incarna la figura del nichilista, ma i due si somigliano, le gesta dell’uno si travasano in quelle dell’altro.

Il narratore di larga parte del romanzo è proprio Navales, l’alter ego; è grazie alle sue memorie, infatti, che noi lettori veniamo a conoscere la storia.

Due manoscritti ritrovati stanno dunque alla base del romanzo. Si materializza nella narrazione di De Prada la figura eterna del doppio, del sosia, del perturbante, per dirla con il linguaggio di Freud. I due s’inseguono fino alla fine e anche dopo. Pedro Luis Gálvez viene fucilato il 30 aprile del 1940. Lascia una lettera al suo nemico e alter ego e un sonetto per Teresa, che la guardia civil gli strappa proprio mentre sta andando al patibolo. E quanto a Navales:

… morì senza stile, lui che si era tanto vantato di averne, nel più completo oblio; Pedro Luis de Gálvez appartiene ormai all’intatto cielo delle mitologie, cielo che di tanto in tanto abbandona, col permesso di Dio, per scendere all’inferno dove dimora il suo avversario e fargliene di tutti i colori, di qui all’eternità.

Ma adesso basta, o si scade nel moralismo. Pag. 615.

Dell’uno è anonima la vita, dell’altro le opere; solo nella finzione narrativa di De Prada rivivono entrambi.

Le maschere dell’eroe è pieno di figure perturbanti e di riflessioni al vetriolo sull’arte moderna, che diventeranno più pacate e definitive in La tempesta.

Falsari dell’arte, pittori di croste, poetastri, artisti mancati che la buttano in politica e viceversa; una galleria di personaggi grotteschi e, accanto a loro, autori memorabili e protagonisti della scena culturale di quegli anni: Luis Buñuel, Salvador Dalí, uno stralunato Jorge Luis Borges che si aggira vomitando in un bordello di Madrid, García Lorca, Ramón María del Valle Inclán. Ma sono veramente loro oppure sono il risultato di una miscela esplosiva di elementi biografici reali manipolati da un’invenzione sfrenata? E che differenza c’è fra le loro biografie e quelle degli anonimi che vivono gli stessi drammi e le stesse grottesche situazioni? La lingua sarcastica, truce e corrosiva di De Prada non risparmia niente e nessuno, ma è ponendo la sua lente d’ingrandimento sul degrado delle relazioni amorose che l’autore ci dà un’immagine plastica e dantesca degli anni ’30 spagnoli. Tutti i personaggi maschili e femminili sono coinvolti in relazioni sordide, conducono vite allucinate su uno sfondo di crescente violenza, di slanci ideali, di imprese e tradimenti continui. È una girandola continua e sullo scenario del romanzo aleggia una luce fosca, i personaggi non conoscono sosta né riposo; vivono in una sorta di frenetica eternità infernale. Gálvez e Teresa, Novales e Sara e le altre maschere che compaiono, a volte come semplici comparse disegnano tutte insieme un potente affresco, dove il rapporto sessuale degradato diventa una specie di sintesi o di monade metonimica, all’interno della quale si può vedere in piccolo tutto l’universo. Tutti diventano a turno moralisti e scellerati perché vedono sempre gli altri e mai se stessi. E così quando Navales scopre che Sara è in stanza con Ramón con la scusa di doversi preparare a recitare la commedia di lui ecco che l’uomo decide di coglierli sul fatto. Entra nel Torrione dove avvengono gli incontri clandestini e di cui anche lui ha naturalmente la chiave!:

Sara era ancora distesa sul letto, con il camicione sollevato e le calze abbassate…il suo corpo aveva il biancore misero e scialbo delle defunte messe nella bara senza lenzuolo funebre. – Hai ripassato bene la parte? – le domandò Ramón.

Era ridicolo come amante, si preoccupava della propria immagine anche quando finiva di eiaculare. Affrontava il coito senza spogliarsi, come chi si sottopone a una misura igienica per alleviare la prostata. Il fallo gli fuoriusciva dai pantaloni, incongruente come l’abito scuro della domenica…..- Tu credi che Fernando ce la farà pagare?-….- Tu credi che cercherà di distruggere il nostro amore?-

Utilizzava un linguaggio da feuilleton, parlando di una fuga consentita. Sul cassettone del corridoio c’erano due biglietti ferroviari per la tratta Madrid-Irùn-Parigi.: bisogna esser veramente di cattivo gusto e quasi putrefatti per scegliere Parigi come approdo di un adulterio. Uscii in punta di piedi, per non rovinare i loro piani. (Pag.388-89).

Le maschere del narratore

Vorrei concludere il saggio tornando a Fiche, quel libro così particolare e sorprendente, nel quale però si può leggere una delle filigrane che costituiscono la stoffa della narrativa di De Prada. Se il degrado di un’intera società viene visto attraverso la lente metonimica dei rapporti erotici, come abbiamo visto sia ne Le maschere dell’eroe, sia in La tempesta, tornare a questo libro d’esordio sembra quasi di immergersi in una fresca sorgente vitale. In Fiche non si parla dell’eterno femminino, né di una figura angelicata della donna. Il sesso femminile è esposto, la donna di De Prada è tutt’altro che asessuata; ma, – questa la straordinaria forza del libro – non è violata! Mai! E neppure penetrata; mentre nei due romanzi dove il sesso è presente come atto – sempre più abnorme in Le maschere dell’eroe, in modo più misurato e quasi come citazione del precedente in La tempesta – lo è sempre. Come violati nella loro dignità sono sempre anche i personaggi maschili; siano essi grandi della cultura del tempo o semplici comparse. Tutti sono immersi, uomini e donne, in un grottesco precipitare nell’abisso di una trasgressione coatta. C’è invece una grande innocenza in questo primo libro dal titolo irriverente, una limpidezza che si colora di nostalgia; forse il sogno di una cosa o quello di un rapporto d’amore che sembra irrimediabilmente perduto.

E il narratore come si colloca in tutto questo? C’è una spia che De Prada mette del suo secondo romanzo, Le maschere dell’eroe. È una citazione breve, che compare in una pagina che non fa parte del testo, essendo quella dei ringraziamenti dell’autore a tutti coloro che l’hanno aiutato nella stesura del romanzo. È una breve citazione che riporto integralmente e che chiude la pagina in questione. Scrive De Prada:

Come disse Marcel Schwob (dopodiché basta con le citazioni): Il biografo non deve preoccuparsi di risultare veritiero; deve creare, dal caos, dei tratti umani. E ora caro lettore, non capisco cosa aspetti a tuffarti a capofitto in questo caos. Salamanca- Zamora, maggio 1996. (pag.10).

Compaiono in questa breve citazione il nome di un gigante poco conosciuto della narrativa moderna e una parola chiave, Schwob, l’ispiratore di Borges e del Pavese dei Dialoghi con Leucò, le cui Vite immaginarie sono state ritradotte alcuni anni fa dalla casa editrice Azimut. La parola chiave è naturalmente caos. A partire da questa vorrei allora concludere  tracciando un parallelismo. Se nel Lazarillo de Tormès il vitalismo che vi predomina è quello di una società nascente e il personaggio – che vive certamente di espedienti – è  ancora positivo e volto al futuro, il truce vitalismo che alberga in Le maschere dell’eroe è quello di una soggettività e di una società moribonde, che si agitano e si tingono di belletto, come nella smorfia di un agonizzante. I protagonisti del romanzo per me maggiore di De Prada sono proprio figure grottesche, che mi ricordano – se fossero dipinte – i ritratti spettrali di Egon Schiele e di Otto Dix, ma con i corpi deformi e michelangioleschi di Arcimboldo.

Al tempo stesso, se la Venezia del ‘500-600 non era solo la capitale della Repubblica veneta ma dell’intero Occidente e se il suo sfarzoso carnevale era l’immagine della pienezza di una civiltà, la Venezia dei falsari veri e dei pittori falsi, di quadri veri che diventano falsi e viceversa, della festa carnevalesca dove alle stanche orge si mescola la cocaina, appare come lo scenario mortifero e grottesco della dissoluzione di quella pienezza. Il caos si colloca prima del principio ordinatore che ne fa un cosmo; oppure dopo, successivamente alla fase terminale di un cosmo che è divenuto entropico e si scioglie di nuovo nel caos.

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Terza parte

Un tentativo di bilancio

L’originalità di questo frammento di storia culturale italiana è indubbia, sia per la durata nel tempo, sia perché è sufficiente una rapida indagine per capire che in nessun altro paese occidentale è esistito qualcosa di paragonabile. A valle dei cicli industriali conclusi è nata in Gran Bretagna e nel nord Europa una disciplina come l’archeologia industriale, che si è diffusa in vario modo anche in altri paesi. Il restauro dei docks di Londra, piuttosto che i villaggi minerari sono esempi straordinari di queste nuove discipline, nonché attrazioni turistiche; ma siamo nell’ambito di una cultura museale, seppure profondamente diversa dal museo tradizionale.9

In sede conclusiva mi pongo due interrogativi in particolare: è esistita un’egemonia della cultura di sinistra nell’Italia del secondo dopoguerra? Il particolare rapporto fra cultura, industria e movimento operaio, può essere considerato un segmento importante della traduzione originale in lingua italiana del compromesso fordista fra capitale e lavoro che ha caratterizzato l’intero mondo occidentale post bellico?10 Anticipo le conclusioni dicendo che, pur nel loro intreccio, fra le due domande vi è una notevole asimmetria. Mentre alla seconda mi sentirei di dare una risposta affermativa, sulla prima occorre innanzi tutto scorporare dall’analisi concreta dei processi concreti, la narrazione propagandistica che è stata alimentata, per opposte ragioni, sia da destra sia da sinistra.

Il rapporto virtuoso fra scienza, cultura industriale, capacità manageriali e cultura tout court fu un fattore determinante nella rinascita post bellica, fino al boom economico. La politica petrolifera di Mattei, l’invenzione del Moplen – il padre della plastica – da parte di Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 e che fu prodotto dalla Montedison, sono tappe decisive – insieme a quelle già ricordate in precedenza – per affermare che l’intreccio del tutto particolare fra cultura e industria fu un elemento propulsivo della società italiana. A questo aggiungerei la consulenza dell’economista Federico Caffè ai primissimi governi di centro sinistra. Alcuni capitani d’industria come Olivetti e Luraghi e un banchiere come Raffaele Mattioli hanno giocato un ruolo di primaria importanza che va molto oltre le loro funzioni istituzionali e ha costituito un tessuto intermedio, più che un corpo intermedio vero e proprio; piuttosto una trama trasversale fra impresa, istituzioni culturali e politica che ha permesso la crescita di una cultura laica e in molti casi di sinistra, protetta da interventi censori, che pur non mancarono e furono molto gravi. Valga per tutto la fondazione a Milano, per esempio, della casa della Cultura, un baluardo della sinistra non solo milanese, alla cui nascita contribuirono personaggi di spicco del capitalismo italiano, oltre a quelli già ricordati; lo stesso si può dire della casa editrice Einaudi a Torino. Laici e in qualche caso – Mattioli – in odore di massoneria, ma lontano dagli scandali che sarebbero scoppiati decenni dopo, svolsero insieme a un pezzo consistente di sinistra socialista un ruolo terzo – basato sul rispetto dell’autonomia della cultura e sulla diversità – rispetto sia ai democristiani sia ai comunisti: in molti casi, questo mondo intermedio offrì più di una sponda alla crescita di una cultura democratica e fu assai importante nelle trasformazioni del sindacato. Capitalismo illuminato? Sì, ma con dei limiti molto precisi. Gli imprenditori citati, cui possiamo aggiungere anche Mattei, erano prima di tutto una minoranza anomala rispetto a un mondo imprenditoriale acefalo e reazionario, diretto a bacchetta da un altro banchiere – Enrico Cuccia – e tenuto a balia dalla sua creazione – Mediobanca – che suppliva con le sue acrobazie finanziarie alla storica incapacità del capitalismo italiano di ricapitalizzarsi con le proprie forze. In secondo luogo, non erano di certo gli Olivetti a dirigere Confindustria e a trattare con i sindacati: questo compito era lasciato ai mazzieri come Valletta e Costa, nonché alla Celere di Scelba. Tuttavia, i vari Olivetti, Girotti e alcuni dei managers di stato costituirono un cuscinetto che permise una certa flessibilità e fin quando riuscirono ad avere voce in capitolo, poterono far pesare la loro autorevolezza sia in campo economico, sia ancor più in campo culturale, dove nessuno si permetteva di criticare anche le loro scelte più eccentriche, tenuto conto dell’ignoranza congenita di gran parte del ceto imprenditoriale italiano. Quegli uomini, tuttavia, non avevano eredi e quando la crisi del boom economico portò al pettine molti nodi sociali e politici, già nel 1963, le redini furono prese dai settori più reazionari ed eversivi: cominciava a finire quella tradizione anomala, fatta anche di salotti trasversali – per esempio quello di Giulia Maria Crespi a Milano – e iniziava un’altra storia.

Diverso il discorso sulla cosiddetta egemonia della cultura di sinistra, sebbene s’intrecci con la questione del compromesso fordista. Credo ci sia una prima considerazione da fare: intellettuali come i coniugi Steiner e come Elio Vittorini permisero alla stampa del Pci di avvalersi delle menti migliori e dei progetti grafici più avanzati esistenti in quegli anni. Politecnico rimane un’impresa straordinaria – lo sarà Alfabeta in un contesto diverso anni dopo –  e anche Rinascita, la rivista teorica del Pci, era quanto di più moderno si potesse pensare in quegli anni. Se parliamo di egemonia in senso gramsciano possiamo dire che la pubblicistica comunista si avvalse del meglio e così pure altre istituzioni culturali. Tuttavia, ci sono due problemi di cui tenere conto: prima di tutto la stagione dei rapporti idilliaci fra Pci e intellettuali s’incrinò molto presto, almeno con alcuni di loro. In secondo luogo, la cultura del militante medio del Pci, non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda di chi dirigeva la politica culturale nel partito. L’egemonia che il Pci cercava di esercitare sugli intellettuali come mondo separato era un mondo a se stante. In buona sostanza, l’intellettuale organico del Pci, quello che si occupava della cultura intesa come lavoro di massa da un lato, ma che al tempo stesso teneva i rapporti con i grandi intellettuali dall’altro, parlava ai colti con un linguaggio e agli incliti con un altro, riproducendo al proprio interno una tradizione curiale tutta italiana. Questa contraddizione fu particolarmente visibile rispetto a tre nuovi aspetti della cultura di massa: il fotoromanzo, il cinema e la canzone. 11

Il fotoromanzo come genere nacque infatti nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ne ricostruisce puntualmente la storia.12 L’autrice ricostruisce le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. L’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche della Dc, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni furono immediate. In questa prima fase la diffusione del fotoromanzo si scontrò con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, per i primi, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe, per i secondi. Cosa accadde, però, nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda, accennando a un dibattito assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente, intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che ebbero un ruolo politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero. Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma di Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affrontavano temi come contraccezione e aborto.

La terza fase riguarda il cinema e i cambiamenti che stavano avvenendo nell’ambito della musica cosiddetta leggera. Come mai gli intellettuali vincenti come Zavattini and company, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi venivano bollati da Aristarco – anch’egli intellettuale di punta del partito –  come pornografi dei sentimenti? 13 A mio giudizio  le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura profonda della dirigenza comunista era umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante l’omaggio formale alle avanguardie sovietiche, che avevano aperto sia nel cinema sia nella grafica le maggiori e più importanti trasformazioni novecentesche e proprio nella Russia del primo decennio del secolo e poi nei primi anni successivi la Rivoluzione Bolscevica, Il Pci scelse da subito e molto di più gli interventi censori di Stalin e Zadanov, ben rappresentato da Mario Alicata, il cui furore non era infondo diverso da quello dei sovietici. La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente – anche in Gramsci – di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini, cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo. Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista fu molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual’era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro.

Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica della propaganda fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni – tutt’altro che banali – e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada. Nel mezzo e grazie al cinema, cresceva una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: da quel momento iniziò anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale erano venuto prima, con buona pace del nesso struttura sovrastrutture e riguardava proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa nel contesto del neocapitalismo italiano. Entra in scena anche un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo, cui anche lui aveva dato un contributo all’inizio, riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

Il combinato disposto fra queste spinte e contro spinte contraddittorie, faceva del mondo comunista una società nella società come avrebbe detto anni dopo Pasolini, ma in un’ottica di arroccamento difensivo. Se parliamo dell’insieme della società italiana, non vi è dubbio che l’egemonia culturale clerico-fascista fosse di gran lunga prevalente ed esercitò un plumbeo dominio fino alla metà degli anni ’60. Basti pensare ai processi che subì Pasolini, alla canea reazionaria che travolse Fausto Coppi, a Braibanti, ai casi continui di censura, al sequestro di film e romanzi, alla censura televisiva nei confronti di Dario Fo e Franca Rame. Tale egemonia cominciò a essere messa in discussione non tanto dalla critica comunista, ma dai processi di modernizzazione innescati dal boom economico e dall’irruzione della sociologia statunitense negli atenei italiani. Tale processo non fu affatto compreso dal Pci. Non bisogna infatti dimenticare che i grandi consiglieri politici del partito non erano più gli Steiner e i Vittorini, non erano gli economisti, ma piuttosto esponenti importanti del mondo cattolico come Franco Rodano, oppure uomini come Ambrogio Donini, che guardavano prima di tutto al mondo cattolico, da atei, ma anche ostili alla cultura laica e socialista più progressista; prima di tutto in materia di sessualità e famiglia. I primi movimenti di massa anticapitalistici durante quegli anni, furono certamente tenuti a battesimo anche dal Pci – si pensi al luglio del 1960 – ma furono le riviste eretiche del marxismo italiano, nate da costole socialiste e comuniste, fu l’opera di intellettuali come Fortini, Beccalli, Panzieri, Bellocchio, Morandi, Pirelli, infine il Concilio Vaticano Secondo, a creare quello strano crogiolo, frutto dell’eterogenesi dei fini, che sarebbe esploso nel triennio 1967-69 e che spazzò via per un decennio l’egemonia clerico-fascista.11 Fu una parentesi felice, ma mise anche in evidenza che se egemonia vi fu, essa non venne prevalentemente dalla cultura del Pci, ma da una sinistra più vasta, operaista e antiautoritaria, o dalla teologia della liberazione. Il Pci cercò di cavalcare i movimenti, poi fu costretto a inseguire, come su tutta la materia riguardante i diritti civili, poi a cercare di egemonizzare o reprimere. Le trame eversive criminali, le stragi e la scelta sciagurata della lotta armata posero fine alla parentesi più felice della storia italiana recente e travolsero anche il Pci.


9 Insieme all’archeologia industriale è nata, in particolare in alcuni paesi del nord Europa come Danimarca e Olanda, l’idea del turismo antropologico, cioè rivolto al passato. Ci sono molte agenzie che se ne occupano in quei paesi. Si tratta di trascorrere un periodo di vacanza in villaggi che sono stati ricostruiti in base agli studi etnografici. Si sceglie il periodo storico nel quale si vuole viaggiare e ci si ritrova a vivere nelle condizioni di cinque o diecimila anni fa.  Nel nord Europa questi villaggi sono usati anche per fini didattici.

10 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

11 Questa parte del saggio dedicata al cinema, al fotoromanzo e alle canzoni, è la rielaborazione di un testo già pubblicato sulla rivista online Overleft, nell’ambito di una dibattito della redazione cui parteciparono anche altri.

12 Il fotoromanzo174 pag., Euro 12.00 – Edizioni il Mulino (L’identità italiana n.22) ISBN.

13 A questo proposito mi riferisco all’espressione usata da Adriano Voltolin nel suo intervento su Oveleft.

11 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

MARCEL PROUST

Ci sono tre fuochi che alimentano il grande romanzo di Proust e che funzionano da veri e propri attrattori. Il primo è assai noto: la petite madeleine. Il secondo e il terzo li possiamo rinvenire una volta arrivati alla fine, al Tempo ritrovato, che chiude il cerchio della narrazione e permette uno sguardo retrospettivo anche da parte del lettore.

La madeleine è l’infinitamente piccolo che spalanca le porte su un universo narrativo. L’innesco della memoria soggettiva, potenzialmente senza limiti, appare come una specie di big bang emozionale, l’istante da cui tutto prende avvio e poi acquisisce la sua forma strada facendo, adattandosi plasticamente all’ambiente che si metamorfizza insieme a esso. La madeleine non è dunque una metonimia: essa non rappresenta nella parte il tutto, bensì l’evento che dà vita al tutto, la singolarità irriducibile che anche per i fisici è una barriera che non può essere superata. Cosa c’era prima del Big Bang è una domanda assurda e lo è anche il chiedersi cosa c’era prima della madeleine. Per Proust è l’evento singolare da cui prende vita un cosmo; egli non ha bisogno di alcuna metafora di partenza, solo di un innesco e degli altri due fuochi che incontreremo più avanti. Marcel Proust quell’innesco lo ha cercato più volte e altrettante volte perduto durante tutta la sua vita, sia di narratore sia di uomo; fino a quando incontra l’interazione che fa nascere il suo cosmo interiore. La madeleine è questo. Nel Tempo ritrovato, tale cosmo (che per Proust è finito e non infinito come pensavano certi suoi critici) implode come un universo – appunto – che si riduce alla fine a quel nucleo denso nel quale torna a rinchiudersi. Il Narratore, a quel punto, esce dal teatro che ha costruito e nella parte finale dell’opera ci offre le sue meditazioni sull’arte e sul tempo, che non per caso è proprio l’ultima parola del romanzo.

Nel cosmo tutti i tempi sono presenti e potenzialmente sono tutti contemporanei o addirittura – secondo la descrizione quantistica della materia – è il tempo stesso a non esserci, almeno nelle modalità percettive che ne abbiamo noi esseri umani e le interazioni che accadono fra le particelle possono non portare a niente. Anche i salotti rappresentati dal Narratore non portano a nulla, le orbite intorno ad amori più o meno consumati o immaginati, i meandri di relazioni mai del tutto risolte, cioè tutto quello che costituisce il grande teatro messo in scena nella Recherche, non alludono ad altro se non a se stessi: nel cosmo non ci sono metafore.

La direzionalità e la scelta progettuale sono gli altri attrattori che ancora mancavano. Nel cosmo di Proust avvengono sì delle interazioni per lo più inutili come quelle delle particelle elementari, ma elevando un certo gusto francese per gli eccessi della frivolezza a etica ed estetica della scrittura, alla fine il Narratore trova l’interazione che permette a quel cosmo, prima di esistere e di essere narrato, poi di venire ridotto a un nucleo d’inesistenza e insignificanza. Cos’è allora il tempo ritrovato? Non è il riscatto di quel mondo, ma una liberazione dal medesimo. Ci sono pagine e pagine durante le quali non avviene niente, non perché nei romanzi si cerchino per forza la trama e l’intreccio ottocenteschi (che pure non mancano nella Recherche)1, ma perché il gioco di rimandi, divagazioni, descrizioni, sembra non avere alcun nesso fra ciò che precede e ciò che segue. Poi, improvvisamente la materia s’addensa e allora i flussi di narrazione danno vita a una costellazione e a un sistema di pianeti che girano intorno a soli più o meno grandi che possono essere il salotto dei Guermantes, oppure le estenuanti vicissitudini degli amori di Swann; ma specialmente l’amicizia del Narratore con Robert de Saint-Loup, che occupa una posizione rilevante nel romanzo e nella quale il Narratore condensa molte esperienze reali di amicizie amorose del suo alter ego che vive e non scrive. 2

L’io vivente che il Narratore rappresenta accanto a Robert, è un uomo che perde molto della sua goffaggine, appare persino spontaneo, può abbandonarsi a slanci che con una donna non riesce a concedersi, se non in modo traslato. C’entra l’omosessualità più o meno inconscia? C’entra eccome; tuttavia, e pur non sottovalutando affatto tale questione, scelgo un diverso punto di vista, anche perché la centralità del tema omosessuale riguarderà maggiormente altre parti dell’opera piuttosto che il rapporto con Saint Loup.

Le ultime due pagine de All’ombra delle fanciulle in fiore, dicono molto al proposito. Siamo a Balbec (una località inventata nella quale sono condensate molte di quelle che videro Marcel ospite insieme alla madre), a fine stagione; l’umidità – che Marcel sia il Narratore soffrono in modo particolare a causa della sua grave forma di asma cronica – sarà la ragione della rapida partenza, che lo costringerà a lasciare Albertine Simonet e le sue amiche. Questo è il registro, in parte autobiografico per quel che attiene la malattia. Vi è però una seconda causa di quella repentina partenza e cioè la telefonata grazie alla quale il Narratore si rende conto delle condizioni di salute della nonna. Tuttavia, tale telefonata sarà più importante per un’altra parte del romanzo, proprio quella dedicata al ricordo della nonna defunta, fra le pagine altissime dell’opera.

Quando il filo della memoria comincia a svolgersi risalendo a Balbec, il Narratore non rivive gli incontri mattutini con Albertine e le sue amiche – le fanciulle in fiore – ma il suo ritiro serale, anzi una vera e propria clausura protetta dalla solerzia inattaccabile della governante Francoise. Diretto in modo inflessibile da lei, che spilla le tende della camera affinché il suo addormentamento al buio non sia soggetto a deroghe e nemmeno a spiragli, rimangono i suoni del concerto, le voci delle amiche che – colui che vive e non scrive – non può raggiungere sul molo. Quel mondo femminile gli è precluso in molti modi e per lui rimane un geroglifico; se ricorda le sere in cui non poteva essere con loro, è anche perché il Narratore può accendere meglio l’immaginazione. Al di là della natura del suo rapporto personale con Robert, per il Narratore è il mondo maschile quello in cui si trova a proprio agio. Quando una sera andrà a trovare Robert in caserma, si scopre improvvisamente libero, ha persino l’ardire di chiedergli se può dormire lì. Robert lo accoglie con amorevole amicizia, solo stupendosi un poco che l’amico preferisca passare la notte in una caserma piuttosto che nell’elegante e comodo albergo dove alloggia: non c’è nulla che faccia pensare ad altro. La scelta, infatti, ha una sua logica interna e psicologica, che ha un precedente nella vita reale di Marcel Proust e cioè la scelta di arruolarsi volontario nell’esercito dopo la scuola, periodo di cui serberà un buon ricordo.2 Il Narratore sperimenta, la notte in cui dorme in caserma, il sapore della libertà, ma anche di una relazione che può vivere, non importa di che natura sia; al contrario di quelle con le donne, rispetto alle quali riesce sempre a mettersi in una posizione asimmetrica. La caserma per lui diventa il rovescio di quella stanza totalmente oscurata nella quale stentava ad addormentarsi. Trascorrendo i giorni insieme all’amico, s’interessa persino alle strategie militari, alle tattiche, segue affascinato tutto ciò che riguarda quel mondo maschile nel quale finalmente si sente a proprio agio e libero. Il militarismo e la guerra, però, non c’entrano; anzi Marcel – quando si deciderà finalmente a diventare Proust Narratore, scriverà alcune delle pagine più mirabili e memorabili della Recherche proprio contro la guerra.

Finzione e verità.

Il tempo ritrovato è dunque il suggello e il precipitato dell’intera Recherche. Si tratta di una circostanza del tutto evidente, ma a rendere ancor più concreta tale costatazione, ma specialmente ad attribuire a tale particolare di per sé ovvio, una decisiva importanza, sono state per me le pagine illuminanti scritte da Mariolina Bongiovanni Bertini proprio nelle introduzioni alle diverse parti del romanzo (mi riferisco all’edizione di Einaudi), ma specialmente a quella de Il Tempo ritrovato. Bertini ricostruisce la genesi dell’intera opera, ma nel mettere bene in fila fatti già noti e specialmente dando l’importanza che merita a un intervento polemico di Proust verso i suoi critici, permette di considerare in modo diverso e specialmente con uno spessore diverso, il problema della genesi dell’opera. Partiamo dai fatti e cioè la difficoltà incontrata da Proust nel pubblicare la sua opera. Bertini va subito al nocciolo della questione ricordando che più di un critico la riteneva fatta solo di divagazioni, senza una progettualità o un filo che cucisse insieme quelli che ho definito i pianeti del cosmo proustiano, come se fossero invece frammenti disordinati e caotici, non di un cosmo, ma di un caos. Bertini a quel punto ricorda la perentorietà con cui Proust si decise a tagliar corto con quella polemica rivelando di avere scritto l’ultimo capitolo e anche l’ultima pagina del romanzo subito dopo avere scritto il primo capitolo e di questo offre ampia testimonianza come ricorda Bertini stessa. Di per sé la rivelazione potrebbe non sembrare importante, nel senso che solo il lettore ingenuo può pensare che se sta leggendo un romanzo dall’inizio alla fine esso sia stato anche scritto dall’inizio alla fine. Non è quasi mai vero, ma è diverso il peso specifico di questa circostanza rispetto a un autore piuttosto che un altro. Nel caso di Proust è un dato rilevantissimo, perché dimostra come egli avesse bene in mente che il suo era un cosmo finito e non un caos, prima di tutto; che aveva una conclusione e che le divagazioni erano una scelta stilistica sostenuta però da altrettanto rigore nell’avere in mente fin da subito la conclusione dell’opera. Il progetto c’era eccome! ma questo porta con sé anche qualche altra conseguenza. Nel Tempo ritrovato il Narratore non finge di spiegarci il suo cosmo a posteriori e quindi con il senno di poi, ma lo fa in anticipo nascondendolo al lettore fino alla fine. La direzionalità e la scelta della conclusione permettono al Narratore di distruggere la prigione in cui il vivente s’era trovato rinchiuso e che si decise a rompere dopo la morte di entrambi i genitori, ma specialmente della madre.

Nella seconda parte del tempo ritrovato, quando Marcel Proust si ritrova a una matiné salottiera dopo tanti anni che non vi si recava, rappresenta quel mondo come una sfilata in maschera di personaggi grotteschi; ma mentre noi saremmo condotti a credere che questo sia semplicemente il finale della storia con le sue consapevolezze postume, il Narratore questo finale lo aveva scritto anni prima! Il Narratore è un grande cattivo, nel senso che è consapevole fin dall’inizio che quelle interazioni, quei salotti, quei personaggi, sono maschere grottesche e in molti casi sordide, meschine e persino oscene! La parte essoterica del suo progetto è il teatro, il grande teatro, evocato dalla petite madeleine, e lo fa anche per portare Marcel fuori dalla prigione, che non era costituita solo da quelle interazioni inutili, ma anche dal suo male, dalla sua speciale malattia che non è l’asma e che finalmente il Narratore nomina nel romanzo: la pigrizia, la paresse, così parente dell’ennui baudleriano. Il gioco fra memoria volontaria e memoria involontaria permette a Proust di giostrarsi fra i due registri esoterico ed essoterico, ma è la memoria volontaria indirizzata a un progetto a governare il suo cosmo, un cosmo – per uscire dalla metafora fisica – in cui sono l’intelligenza e la sagacia del Narratore a immettere il soffio di vita che altrimenti non ci sarebbe e la sola madeleine come innesco non sarebbe bastata. Cosa rende possibile questo? Il tempo ovviamente, perché a differenza delle interazioni quantistiche, il tempo della vita ha una dolorosa direzionalità, ma è proprio questa che dà senso alla vita: se il tempo che ci spetta fosse eterno, come pensava inconsciamente il giovane Marcel, che molto ne perdeva, la vita non avrebbe senso.

Ho definito prima il Narratore un grande cattivo: mi domando ora se nell’opera ci sia una forma di pietas, oppure no. I personaggi grotteschi che nel Tempo ritrovato sfilano per l’ultima volta davanti al Narratore, nella loro decadenza già decaduta, possono far pensare a una sorta di giudizio universale, ma è proprio allora che il Narratore abbassa i toni. Lo fa nel solo momento in cui poteva farlo e nel solo modo in cui poteva farlo e cioè riportando per l’ultima volta anche Marcel, il vivente, all’interno dell’opera e di quei salotti. Di quel mondo Proust ha fatto parte nella sua prima vita e non può e non vuole ergersi a giudice, tratta se stesso come loro, vede con ironia, nella loro vecchiaia, la sua incipiente: solo nell’arte e nel linguaggio può diventare giudice, perché è quella per lui la sola misura etica che può esplicitare anche nell’opera. Il suo grande teatro è ottocentesco e anche precedente; forse per un francese la questione della fuoriuscita dell’aristocrazia dalla porta della storia e dei molti rientri dalla finestra, ha un peso specifico diverso che non per altre culture, visto che lì una rivoluzione c’è stata. La finzione di un tempo che è sia contemporaneo sia rivolto all’indietro è presente dall’inizio alla fine nel romanzo, ma il tempo ritrovato può esserlo solo nell’arte e nella scrittura. Infatti, dopo essersi congedato per l’ultima volta dal grande teatro, il Narratore, nella parte finale dell’ultimo libro, ci offre un’ampia meditazione sulle ragioni dell’arte e sul tempo. In questo la sua finzione è del tutto moderna e consapevole perché la sua poetica entra come riflessione nell’opera stessa. Quanto alla pietas, essa compare qui e là nel testo, verso un personaggio o l’altro, una situazione o l’altra, ma essa non può svolgere alcuna funzione redentrice e su questo il Narratore è inflessibile: alla fine non salva nessuno di quei personaggi, neppure Robert de Saint Loup. Addirittura nella parte iniziale del tempo ritrovato rappresenta quasi tutti i personaggi nelle situazioni più sordide che si possono immaginare, visto che il tempo non è solo tiranno ma anche veritiero, nel senso che accentua i tratti di ciascuno per quello che è e vuole essere: dunque siamo lontani da una pietas cristiana, se mai vicini a un atteggiamento che può ricordare l’esortazione che Virgilio rivolge a Dante alla fine del quarto canto dell’Inferno: Non ragioniam di lor ma guarda e passa. Se c’è una pietas, come io penso, essa sta nell’atteggiamento finalmente umile di chi si pone di fronte alla propria vita in modo etico e consapevole, decidendo di affrontare il proprio male di vivere. La Recherche, sia nel titolo sia nelle sue modalità è proprio questo. Alla fine il Narratore, lo abbiamo visto, nomina il tarlo che aveva roso il vivente Marcel: la pigrizia, una malattia della volontà che si traduce in un atteggiamento di apparente noncuranza, che lo ha rinchiuso per anni nell’insensatezza delle abitudini, che gli ha fatto fare le scelte più astruse e tutte inconcludenti, scrivere tante pagine inutili di quel romanzo – Jean Santeuil – lasciato incompleto al suo destino, dal momento che era soltanto uno dei molti modi di sfuggire all’opera che gli urgeva. Alla fine si arrende e da quel momento e non senza qualche apprensione, che ci rivela proprio nel tempo ritrovato (Sono ancora in tempo?), comincia una delle più grandi avventure del secolo: un romanzo che è anche, aldilà dei suoi grandi meriti letterari, una straordinaria esperienza di autoanalisi, diversa da quella del fondatore della psicoanalisi per gli strumenti che usa, ma non meno decisiva.

L’arte, lo stile, il tempo.

La parte finale del Tempo ritrovato è dedicata alla meditazione sull’opera stessa, che Proust autore riporta nella partitura del romanzo, mentre sull’arte come forma più alta di verità vi è poco da aggiungere alle sue parole, se non per constatare la classicità di tale espressione. Il suo pensiero si rifà a un canone che verrà messo in crisi dalle avanguardie storiche, dall’avvento della cultura di massa, dalla riflessione di filosofi e critici: per esempio la caduta del dogma dell’autorialità, posta da Benjamin nel suo saggio sulla Riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Il Narratore non ignora affatto tutto ciò e di questo vi è traccia nel grande teatro che mette in scena. Sono brevi incursioni, flash, ma quanto basta per comprendere che l’idea di un Marcel Proust (metto insieme il narratore al vivente in questo caso), lontano e avulso dalla storia del suo tempo sia da abbandonare: basti ricordare quanto spazio ha sia nell’opera sia nella sua vita l’affaire Dreyfus, che Proust seguì personalmente anche nelle sue fasi processuali con una partecipazione emotiva non tanto diversa – in definitiva – da quella di Zola; non manca persino un pensiero sulla Rivoluzione Bolscevica. Lo stesso vale per i giudizi sulla guerra e il nazionalismo. Tuttavia, rispetto a quella che sarà la revisione novecentesca dei canoni letterari e artistici, egli si mantiene fedele a una sensibilità precedente. Giova tuttavia ricordare quanto la sua convinzione che l’arte avesse un valore conoscitivo e non solo estetico, fosse lontana anni luce da quello slogan così in voga in quegli anni: l’art pour l’art. Proust si allontana dal canone realista e dalla verosimiglianza in tutte le sue forme, ma salva un nucleo centrale di quella grande poetica e cioè proprio il valore conoscitivo e non solo estetico dell’arte. Alla crisi del romanzo realista, egli non oppone uno scivolamento nel decadentismo e nelle forme estetizzanti dell’art pour l’art, pur risentendo come tutti del clima culturale in cui vive. Il contesto decadente è per lui un punto di partenza e non di arrivo e certe descrizioni di alcuni personaggi, nel loro impasto di comicità e tragicità (Charlus nel bordello di una Parigi in guerra per esempio), non sono poi così lontane dal Balzac.

Sul suo stile sontuoso è difficile aggiungere qualcosa rispetto a ciò che hanno scritto illustri critici come Giovanni Macchia e altri: la capacità di mantenere dall’inizio alla fine un registro alto, in qualche caso altissimo, ma che non scade nell’estetismo fine a se stesso. Su tali passaggi dell’opera non c’è molto da dire. Vorrei allora affrontare da un punto di vista che già è stato posto da altri, cui ho accennato io stesso qui e là, ma forse non del tutto elaborato: la strategia compositiva, che è cosa diversa sia dallo stile, sia dalla progettualità consapevole di cui si è già detto – e dei referenti filosofici e scientifici eventuali della medesima. Torniamo sia alla formazione di Proust, sia al contesto culturale e scientifico in cui l’opera è stata scritta. L’unico debito che Proust riconosce per iscritto è verso il suo docente filosofia del liceo Condorcet, Darlu, ma solo per dire che la sua influenza fu negativa. Poi ci sono i giudizi espliciti e impliciti che si trovano a profusione nel romanzo. E allora ecco Niestche, Wagner, ma anche Bergotte e Vinteuil figure chiave e maschere dietro le quali si nascondono illustri poeti e narratori. A tutto questo va aggiunta la sua assidua frequentazione dei corsi di Bergson alla Sorbona, una frequentazione non estemporanea e indice, di un vivo interesse. Proust, nelle poche interviste rilasciate e interventi, ha sempre negato l’influenza di Bergson sulla scrittura del romanzo e non si può davvero credergli in questo caso; ma forse quello che lui intende con la negazione è qualcosa di diverso. È difficile pensare che il concetto di memoria involontaria, per esempio, così centrale nella riflessione di Bergson, sia estraneo all’opera di Proust e che dunque un qualche debito nei suoi confronti andrebbe riconosciuto; ma a ben vedere si tratta di un’influenza esterna, che lo ha aiutato a distinguere le funzioni diverse della memoria volontaria da quella involontaria e di giostrarsi così fra i due diversi registri: il grande teatro lasciato alla memoria involontaria, la direzionalità del progetto a quella volontaria. Tutto questo a ben vedere fa parte dell’impalcatura che serve a costruire l’opera. Poi c’è lo stile di cui si è già detto, infine c’è la tessitura di tutto questo nel farsi dell’opera; infine il tempo, il grande convitato di pietra e proprio intorno alla questione del tempo erano accadute cose non da poco all’inizio del secolo. Con la relatività ristretta di Einstein (1905) e poi quella generale, era venuta meno la concezione tradizionale del tempo, in particolare rispetto a due concetti chiave: l’essere da un lato lo sfondo neutro seppure direzionato dal passato al futuro delle azioni umane (Kant), poi il concetto di simultaneità, forse la cosa più sconvolgente e cioè che osservatori diversi a velocità diverse non solo vedono cose diverse ma non abitano lo stesso tempo ma due tempi diversi. Proust ne tiene conto e il suo romanzo ne risente? La mia risposta tende a essere affermativa; ma più in generale la strategia compositiva sembra essere influenzata proprio da una riflessione sul tempo che non era affatto estranea alla filosofia francese di quel momento storico e cito tre nomi importanti: Bergson, Roupnel e Bachelard. Si aprono qui due ipotesi entrambe affascinanti: Proust si è avvalso di queste fonti? Oppure è giunto per strade sue a una strategia compositiva in cui la concezione del tempo viene sconvolta fino a risultare assai prossima a quella proposta dalla nuova fisica? Vediamo di districare la matassa, partendo dalla filosofia.

I tre che ho citato in precedenza hanno in comune il fatto che sono tornati a porsi dei problemi filosofici in relazione alle scoperte scientifiche. Si può dire che con loro torna la filosofia naturalistica, che dopo Newton, Kant, Leibnitz e Cartesio, era finita un po’ in secondo piano, potendo contare su epigoni o continuatori dei quattro grandi che ho citato; oppure nel caso di Leopardi, per sottolineare l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane. Durante tutto l’ottocento, ma anche per gran parte del ‘900 sono i filosofi della storia  o dell’etica a dominare il campo con poche eccezioni e un discorso a se stante per quanto riguarda Nietsche. Con Wittgenstein siamo in un altro universo che ha a che fare con il linguaggio. I tre filosofi francesi sono  i primi (Heidegger verrà dopo), a porsi un interrogativo che è fondamentale per una filosofia naturalistica e cioè che cos’è il tempo. Tale interrogativo, dimenticato di fatto dopo Kant, torna invece in primo piano dopo la relatività ristretta di Einstein e Bergson, Roupnel e Bachelard sono i primi a porsi la domanda, forse non tutti e tre con la stessa pregnanza. Cominciamo da Roupnel e Bergson perché nel loro caso è facile, dal momento che le due tesi non potrebbero essere più estreme e contrarie e dunque chiarissime. Per il primo il tempo è l’istante per il secondo la durata. Bachelard, nel saggio dal titolo La filosofia dell’istante, tenterà una sintesi che tiene conto proprio della relatività, anche se si apre su un orizzonte più vasto che ci riporterà proprio a Proust e al suo romanzo. Il tentativo di Bachelard è importante perché non si tratta di una conciliazione fra Bergson e Roupnel. Bacherlard sta dalla parte del secondo, anche per lui il tempo è l’istante, ma cerca di dedurre quello che per Bergson è la durata, partendo dalle proposizioni di Roupnel e giungendo alla definizione di durata come abitudine.

Cosa c’entra Proust in tutto questo? Proviamo a porci alcune domande.  Che cosa è il tempo nella Recherche? Se pensiamo agli attrattori, a che cosa li possiamo avvicinare? La petite madeleine, per analogia, è un istante o una durata? I flussi narrativi, ricorrenti, che in certi momenti addensano la narrazione e innalzano di colpo lo stile come vanno come vanno considerati? La progettualità cosciente che gli fa scrivere l’ultimo capitolo subito dopo il primo c’entra o non con il tempo o si tratta solo di un brillante artificio letterario? E nella strategia compositiva interna, nella tessitura, dove finisce il tempo? L’istante, quello che all’inizio di questo saggio ho indicato con il termine di big bang emozionale, costituisce l’innesco e la petite madeleine come infinitamente piccolo può essere paragonata all’istante; ma essa come abbiamo visto è solo l’innesco. Se pensiamo invece ai flussi narrativi, li possiamo suddividere in diverse tipologie. Alcuni di essi si possono rapportare a quello che Bachelard indica come abitudine, ma anche alla coazione a ripetere, in altri casi no e questi sono forse i più interessanti. Torno allora a quelle due pagine finali de All’ombra delle fanciulle in fiore di  cui si è già detto. In esse la memoria involontaria torna alle serate di clausura a Balbec, durante le quali il protagonista poteva solo udire i suoni di ciò che accadeva all’esterno e immaginarsi persino di udire le voci delle sue amiche sul molo. Prima, in tutta la parte precedente, del romanzo e a dispetto del titolo, è la relazione con Robert de Saint Loup a tenere banco. Sappiamo, tuttavia, che vi era una seconda ragione di quella partenza. Invitato dall’amico Robert a servirsi di una delle mirabili invenzioni della tecnologia del momento e cioè il telefono, aveva chiamato la nonna e aveva capito che qualcosa di grave stava accadendo. La nonna stava male e ciò lo spinse a un rapido ritorno. Tuttavia, quando alla fine del volume, la memoria lo riporta a Balbec sono le serate di clausura al centro del suo ricordo. Non c’è niente di male che siano due le cause di quella improvvisa partenza, ma si tratta – per come vengono trattate nel romanzo – di due memorie diverse e che danno vita a flussi di narrazione assai diversi che corrispondono anche a tempi diversi. A leggerli sembra di rivivere in altro modo le pagine in cui Bachelard sostiene che non vi è in realtà nessuna continuità fra l’io che si muove in certi momenti con le azioni che lo stesso io compie in altri. In sostanza il tempo non è un continuum che si possa sommare: si possono sommare solo quei tempi che appartengono a una medesima tipologia di azioni. Su questa ipotesi, che farebbe la felicità di Borges, oggi possiamo sorridere perché – pur riconoscendo che sono speculazioni importanti nate dalle scoperte della fisica novecentesca – abbiamo ormai a disposizione molti testi di ottima divulgazione che ci aiutano a capire come la descrizione quantistica della materia non ci aiuti a capire meglio cosa sia il tempo umano. Nelle interazioni fra le particelle elementari il tempo è reversibile o addirittura non esiste per come lo viviamo e quelle interazioni non sortiscono in nulla. La vita è una singolarità eccezionale ed è in quel momento che nasce tutto, dal tempo umano alla sua direzionalità. Allora, tornando all’inizio di questo saggio, inutile domandarsi cosa esistesse prima del Big Bang o prima della madeleine. Entrambi nella loro enorme diversità sono due singolarità che danno vita a interazioni sensate. Credo che per lungo tempo si sia cercato inconsciamente se nei meandri della nuova fisica vi fosse una strada verso l’immortalità, oppure verso dio: siamo sempre lì! Invece tali interazioni quantistiche portano al niente, neppure al nulla che è pur sempre un significante filosofico, ma al niente, come è stato rappresentato in modo involontariamente straordinario in un testo teatrale come La classe è morta di Kantor.

Quello di Proust, volendo trovare una conclusione a questo scritto sulla sua opera è un universo parallelo, un organismo simile a quello in cui il vivente vive, ma nel quale non scrive o viceversa, per parafrasare il celebre detto di Proust medesimo. Nel realismo, la pretesa è quella della verosimiglianza e cioè – sempre parafrasando Proust – un mondo in cui vivere e scrivere possono marciare insieme. Questa fu l’unità ottocentesca durante la quale si consolidò la grande arte borghese, ma tale unità entrò in crisi nei decenni finali del secolo quando altri soggetti sociali, prima di tutto, posero fine all’illusione universalistica del pensiero borghese. Proust come altri – Huysman e Zola per esempio – reagirono alla crisi, che era anche una crisi del romanzo, in modi diversi: il primo fuggendo in un estetismo decomposto ancor più che decadente, il secondo accentuando ed estremizzando alcune caratteristiche del realismo medesimo. La Recherche si muove da un contesto estetico più vicino al decadentismo che a Zola, ma poi vira in una direzione diversa anche se forse non ancora del tutto compresa ed esplorata. Il disagio psichico, la malattia, la perversione, non sono nella Recherche soltanto un segno di decadenza, ma anche l’espressione di un allargamento della coscienza all’esplorazione del sé: la psicoanalisi è sullo sfondo anche se non entra direttamente nel testo e Freud non viene mai citato, mentre è del tutto assente in Zola, la cui illeggibilità (specialmente in certi romanzi), è data fra l’altro anche dalla disperante meccanicità dei personaggi. Essi non rappresentano più neppure certe tipologie umane, come avviene nel grande romanzo realista o nelle distorsioni caricaturali di Daumier, ma sono marionette senz’anima, unidimensionali fino ad apparire del tutto irrealistiche.


1 Alberto Beretta Anguissola, nella sua puntuale ricostruzione del romanzo, riconduce ai suoi termini reali una leggenda che è circolata da subito sulla Recherche: che in essa non sarebbe rintracciabile alcuna trama, per usare un termine tradizionale della narrativa ottocentesca. È possibile invece sfatare tale convinzione, anche se tale trama costituisce una specie di sottotesto che non sempre segue un andamento lineare, ma essa esiste eccome, ma non bisogna intenderla pensando ai canoni del realismo ottocentesco. In:  Proust guida alla Rcherche. Carocci editore, Bologna 2018.

2 Questa espressione la troviamo in forme diverse anche in Proust medesimo, per il quale le due azioni di vivere e di scrivere sono sostanzialmente in alternativa. Il tema viene ripreso anche da Giovanni Macchia.

2 La biografia di Marcel Proust è costellata di aneddoti ed episodi su cui lui stesso si è diffuso più volte. Parlarne è necessario perché essa è strettamente collegata all’opera. Il giovane Marcel teneva un po’ in ansia suo padre perché era difficile capire bene cosa volesse fare nella vita.  Oggetto di cure e protezioni per via della sua grave forma di asma, alcune sue scelte sembrano segnate da una forma di ribellione verso quel’eccesso di attenzioni da parte della madre. Come considerare per esempio la scelta inopinata dell’arruolamento volontario subito dopo gli studi? Dopo la carriera militare finita nel nulla è la volta degli studi giuridici, poi improvvisamente, Marcel scopre la borsa e la finanza e vi si butta a capofitto. Il giudizio comico e lapidario del suo consulente, può bastare a chiudere anche quella strada: “Marcel Proust appartiene a quella categoria d’investitori che comprano i titoli quando il loro prezzo sale e li vendono quando il loro prezzo scende.” Tuttavia e a dispetto dal titolo del suo romanzo che ci rivela fra le altre cose, quanto tempo il giovane Marcel abbia effettivamente perso, si sbaglierebbe a ritenere tutto questo legato semplicemente a certe caratteristiche di ceto o di classe – se vogliamo: a un atteggiamento tipico dei rampolli dell’alta società, per cui in fin dei conti, comportarsi da flaneur non metteva a repentaglio più di tanto le loro vite e i loro patrimoni. C’è una sofferenza reale nella sua inadeguatezza al mondo, una difficoltà nel potere e nel saper scegliere che lo accompagnerà fino alla decisione di scrivere l’opera che non si decideva a scrivere, auto imponendosi come scelta volontaria la clausura che aveva segnato come obbligo esterno la sua vita. Fu allora che il brutto anatroccolo (perché si può esser brutti anatroccoli anche se circondati di cure, soldi e benessere), decise di trasformarsi in un cigno.