WALLACE STEVENS: LE LEZIONI DI POETICA

Gaston Bachelard

Introduzione

Con questa parte, la settima,  si conclude il saggio sull’opera di Wallace Stevens. Il prossimo autore di cui mi occuperò in questa rubrica sarà T. S. Eliot e con lui terminerà il percorso di anglistica e americanistica che comprende anche Marianne Moore e William Blake. Su quest’ultimo non aggiungerò nulla mentre sugli altri tre e su alcuni convitati di pietra pubblicherò un saggio conclusivo sui modi di attingere alle diverse tradizioni letterarie. 

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Esiste una tematica centrale negli scritti di poetica di Stevens, che funga da attrattore? Ce ne sono a mio avviso quattro di cui una però preminente: il rapporto fra realtà e immaginazione, il vero rovello della poetica stevensiana. La seconda è il rapporto fra poesia e pittura; la terza, che si avvicina alla speculazione filosofica, è l’idea del mondo come meditazione. L’ultima emerge con chiarezza da uno solo di questi saggi dal titolo Effetti dell’analogia ed è l’importanza che il poeta assegna alla similitudine come figura retorica. 

Lo stile di questi saggi è ellittico, la divagazione vi regna sovrana, ma alla fine, quando con le sue sintesi egli stringe le fila del discorso, ecco che si ritorna all’uno o all’altro degli attrattori.

In quanto lettore, Stevens era una spugna, ma anche svagato. Quando sembra che le sue letture siano approfondite per l’acutezza di certi giudizi, si scopre poi che tutto questo è assai vivo nel testo poetico, ma se si va oltre non si trova nulla o poco; oppure che il poeta è riuscito a dissimulare molto bene.

Vi sono a mio giudizio due filosofi e pensatori europei contemporanei a lui che Stevens aveva ben presenti: Henry Bergson e Gaston Bachelard. Al primo dedica anche una citazione in uno dei saggi de L’angelo necessario,83 il secondo è più sotto traccia ma altrettanto importante.

Per entrambi i filosofi e per Stevens, la realtà fisica è la base imprescindibile di ogni forma di conoscenza e quando Bergson afferma che la percezione non aggiunge nulla all’immagine percepita, riscontriamo un’assonanza con l’affermazione di Stevens che l’immaginazione non aggiunge nulla all’oggetto, ma lo intensifica. In Bachelard, addirittura, è la realtà fisica a suggerire le metafore più ardite e illuminanti, a questo proposito, sono le pagine che egli dedica alla scoperta del fuoco.84

Un’altra assonanza con Bergson possiamo riscontrarla nel modo di trattare la memoria da parte di entrambi e nel concetto di flusso che in parte si sovrappone a quello di durata. Abbiamo visto come in Stevens il processo decreativo non sia un passaggio da ciò che è creato al nulla, ma a ciò che creato non è o non lo è ancora. Il flusso, in secondo luogo, porta all’endless poem, cioè al poema senza fine, che non significa incompiuto e neppure senza una conclusione, ma che allude alla tendenziale inarrestabilità del flusso. Vale forse la pena di notare come la parola morte compaia pochissimo nei testi di Stevens; anzi, ricordo una sola forte presenza nella sezione finale di Peter Quince at the clavier, oppure indirettamente in Omone rosso che legge e in alcuni testi dedicati al soldati defunti in guerra. Sia Bergson, sia Bachelard, sia Stevens, sono diffidenti quando non ostili nei confronti dell’invenzione e della fantasia, mentre considerano la scoperta e l’immaginazione veramente importanti. Nel caso dei due filosofi farò riferimento solo ai testi e a un saggio pubblicato sul Wallace Stevens Journal e che ritengo esaustivo (specialmente per quanto riguarda i rapporti con Bergson).85 Quanto a Stevens, per capire cosa lui intende nel contesto della poesia e della critica letteraria, mi servirò di due citazioni in momenti e situazioni diverse, accostandole. La prima è tratta da una conferenza compresa nella raccolta L’Angelo necessario e suona in questo modo:

… Una delle caratteristiche dell’arte moderna è la sua intransigenza. In questo, essa assomiglia alla politica moderna … Un’altra caratteristica dell’arte moderna è che essa è plausibile. Ha una spiegazione per ogni cosa. Anche l’assenza di spiegazioni diventa una spiegazione. Picasso rimane sorpreso quando gli chiedono cosa significhi un quadro  e dice che i quadri non sono concepiti per avere un senso. Questo spiega tutto. Un’altra caratteristica dell’arte moderna è il suo settarismo … Anche nella poesia moderna abbiamo la stessa incapacità di scendere a compromessi … Per illustrare questo punto dividerò la poesia moderna in due categorie: la prima categoria è moderna per ciò che dice, la seconda lo è per la sua forma. La forma non interessa particolarmente i poeti del primo gruppo. … Oggi si vede moltissima poesia, grazie forse a Un coup de dès di Mallarmé, in cui l’interesse per la forma si risolve solo nell’uso di lettere minuscole al posto delle maiuscole, su originali chiusure di verso, di troppa o troppo poca punteggiatura … Per la prima categoria che si concede una forma ordinaria, è persino dannoso suggerire che i suoi poeti sono meno artificiali di quelli della seconda … Ognuna delle due categorie, mostra una totale intransigenza nei confronti dell’altra.86

La seconda citazione è una sentenza, pubblicata per la prima volta insieme ad altre e ad alcuni aforismi, sulla rivista View nel 1940, cui ne seguirono altri nel ’42:

L’errore fondamentale del surrealismo è che inventa e non scopre. Un mollusco che suona la fisarmonica è un’invenzione non una scoperta. L’osservazione dell’inconscio, per quanto sia possibile osservarlo, dovrebbe svelare cose di cui prima eravamo inconsapevoli, non le cose famigliari di cui siamo ben consapevoli, più la fantasia. 87

Ancora una volta Bergson può soccorrerci. Anche per lui la metafisica intuizionale è fondamentale nella scoperta scientifica, ma niente è più nefasto alla scienza dell’invenzione. La scienza non inventa, scopre: sebbene nel formulare una teoria o un’ipotesi possa partire da una metafora o da un’intuizione matematica, essa deve poi trovare una concretizzazione nella realtà fisica, altrimenti rimane una congettura priva di sostanza. 

Cosa rimprovera Stevens, allora, alle avanguardie europee? In primo luogo gli eccessi e la mancanza di misura; in secondo luogo, nella sentenza di cui sopra, che la mancanza di misura impedisce di distinguere fra invenzione e scoperta, perché l’invenzione, in sostanza, non tiene conto della realtà fisica dell’oggetto e lo manipola. Su quanto afferma sull’inconscio si dovrebbe rimanere più a lungo, ma mi sembrano queste le distinzioni prima di tutto decisive. L’immaginazione ha una funzione di scoperta, mentre la fantasia è arbitraria, sebbene possa essere un punto di partenza. Da quanto detto sopra si può capire meglio la distanza che separa Stevens dal postmodernismo, che in fondo non è altro che un’accentuazione di tutti gli aspetti deteriori delle avanguardie storiche, senza conservare quelli virtuosi. Si può comprendere forse meglio, allora, la predilezione di Stevens per la similitudine e l’analogia, ma anche lo stile paratattico del suo linguaggio. L’accostamento, che porta all’analogia e alla similitudine piuttosto che alla metafora, lascia i diversi elementi accostati in uno stato di fluidità maggiore, di oscillazione del senso, ma anche di maggiore libertà di ciascun elemento di ritornare a essere quello che è al di fuori della connessione e dell’accostamento. Il procedimento paratattico di Stevens va allora messo in relazione con il suo concetto di decreazione che è appunto un passaggio da ciò che è creato all’increato o al non ancora creato. Lo abbiamo visto sempre in alcuni snodi della sua poesia: nell’ottava sezione di Sunday Morning, ma anche nel passaggio dalle figure dei due leoni poi al canonico Aspirina per approdare all’Angelo necessario: l’accostamento paratattico può essere sciolto per creare di nuovo le condizioni di una successiva ricreazione, alla quale però nuovi apporti non cancellano del tutto gli apporti precedenti. Accostamento paratattico, analogia e decreazione sono gli elementi combinati di un processo metamorfico continuo. L’analogia, peraltro, ci riporta anche a Bachelard che ne fa largo uso. Non per caso, dunque, uno dei saggio più importanti di Stevens s’intitola proprio Effetti dell’analogia.88

Conclusioni in divenire

Per Stevens, lo abbiamo visto, le tradizioni cui attingere sono molte, anche se alcune sono prevalenti; esse non sono un peso, né una fonte ingenua di scoperta, ma un oggetto di riflessione e di meditazione. Il procedimento decreativo, la metamorfosi, la rinuncia alle antinomie – per dirla con le sue parole non o, o (aut aut) ma e, e, la scelta del che ripete più volte dando a questa espressione il valore di un’adesione senza tentennamenti alla nuda vita, sono le architravi della sua poetica e da questo scaturisce il suo rifiuto a vivere la storia del ‘900 come un cultore dell’abisso. Allora vale forse la pena di domandarsi non quanto della tradizione occidentale Stevens conservi, ma dove si affaccia alla fine la sua ricerca. Da parte della critica che si è occupata di lui affiora qui e là la parola zen, seppure per ridimensionarne la portata. Guido Carboni nella sua ricognizione sui possibili referenti della poesia stevensiana, si esprime così:

Quando Stevens inizia la sua meditazione pensare il paradosso doveva essere ancor più difficile perché non c’erano molti strumenti a disposizione. Non c’erano le speculazioni di Bateson sul rapporto mente e natura, non le riflessioni sul metodo di Cartesio … né quella di Maturana sull’autopoiesi … C’era naturalmente lo zen, cui molti scrittori contemporanei o appena più giovani di Stevens si andavano avvicinando, ma non se ne trova traccia diretta in lui, il suo orientalismo è un fatto degli inizi della sua carriera poetica e appare come assolutamente estetico.92

Non concordo con l’ultima parte perché la grande poesia ha sempre un valore conoscitivo e non la si può ridurre a un valore puramente estetico. Se Carboni, dopo avere evocato lo zen, pare metterci una pietra sopra, il dubbio sembra venire anche a Massimo Bacigalupo che nell’introduzione all’Opus Posthumus, a proposito della poesia dal titolo The course of the particular, di cui ci siamo occupati afferma:

L’eroe di Stevens è la mente umana alla ricerca di un modus vivendi anche minimo, e questo non può darsi se non attraverso il superamento dell’inimicizia fra mente e materia … ma non si tratta di riesumare l’organicismo deistico dei romantici … bensì di preparare l’uomo alla sua cancellazione escludendo rigorosamente ogni protezione antropomorfica … cancellazione che si compie … e si fonda sulla convinzione che solo attraverso la disperazione, un azzeramento quasi zen del significato, passi la vita di ciò che è sufficiente.93

Questa affermazione mi sembra assai interessante e a mio modesto parere bisogna imboccare con maggiore coraggio questa strada, senza fare per questo del poeta un antesignano delle mode degli anni ‘60 o di quelle attuali. Il secondo spunto viene dal titolo stesso di una delle sue opere finali: Il mondo come meditazione. Le parole che un poeta sceglie non sono casuali e la parola meditazione ha un peso e una consistenza particolari. La sua poesia è stata spesso definita una poesia di ossimori. Questa costatazione, quasi ovvia, va tuttavia precisata meglio perché se prendiamo questi versi:

… Fra origine e ritorno//C’è un’assenza in realtà/ Le cose come sono. O così pare/,94

ci rendiamo subito conto di essere in presenza non di una semplice figura retorica. Quello di Stevens è un vero e proprio ossimoro concettuale, cioè un paradosso, e proprio il ricorso ai paradossi, poco comune nella poesia occidentale, si presta a un accostamento a certi modi orientali di manifestare il pensiero: i koan giapponesi ne sono l’esempio più illustre. Stevens era un profondo conoscitore del teatro e della cultura giapponesi e lo è rimasto per tutta la vita. Infine, in certi passaggi da un verso all’altro vi sono allusioni al concetto di vuoto come lo intende il buddismo e cioè in modo assai diverso da quello che la parola potrebbe evocare per noi occidentali. Il vuoto, anche nella concezione del Tao, per esempio, non è il nulla ma uno spazio libero dove si forma qualcosa: pensato in questi termini è un concetto assai prossimo a quello di decreazione in Stevens, cioè il passaggio dal creato all’increato ma anche al non ancora creato. Lo si potrebbe descrivere anche come il silenzio che circonda la parola poetica prima del suo sorgere e dopo.

Infine in rapporto alle cose, il suo mondo irreligioso non è ostile al mistero, ma non porta sulle tracce del divino, almeno nel senso che questa espressione ha assunto, dopo Heidegger. Come va intesa allora questa sua non ostilità al mistero e forse anche sacro? Nel senso che tutto ciò che abita il mondo è per Stevens animato, possiede una sua propria musica, persino la roccia, metafora di una durezza che resiste all’immaginazione. C’è un alone che circonda le cose ed esso può essere inteso anche come una sorta di danza dionisiaca della materia, senza che questo ricada in un credo di tipo panteistico, poiché anche per i panteisti ciò che si manifesta nella natura rimane pur sempre il dio personale, dalle sembianze alla fine antropomorfe, seppure immanenti.

Il canto della terra è per Stevens una qualità fine della materia che l’immaginazione sa cogliere perché entrambe sono parti di uno stesso cosmo non più scindibile in una neutra realtà oggettiva e nello sguardo esterno del cogito che la osserva e la manipola. Siamo dunque distanti da Cartesio, che Stevens tuttavia conosce bene, tanto da farne spesso l’oggetto di versi ironici anche se non sempre appropriati e fondati in parte sull’equivoco di considerare Cartesio come il primo degli illuministi. Cartesio, invece, dedicò l’intera sua vita alla res extensa, più che al cogito e cioè, paradossalmente, proprio a quella realtà fisica e organica dalla quale anche per Stevens non si può prescindere. Tornando allora con una breve parentesi ai suoi referenti filosofici, oltre ai nomi già citati, alcune sue descrizioni entusiastiche di fenomeni naturali ricordano da vicino proprio un filosofo e poeta dell’antichità: Lucrezio. 

Ci sono due terre promesse alla fine del poema infinito di Stevens: una è quella stessa raggiunta da lui nel suo approdo a New Haven e nell’Opus Posthumus; la seconda più nebulosa, la intravvediamo arrampicandoci sulle sue spalle ed è una zona di confine. Perché è indubbio che Stevens arriva in un punto dove, parafrasando un verso delle sue Note, il pensiero non può più progredire in quanto tale. L’abbandono delle antinomie ci avvicina a un modo diverso di sentire anche se mi rendo conto che parlare contemporaneamente di zen e di un alone quasi animistico intorno alle cose significa accennare a due modalità molto differenti. Mi fermerò allora alla considerazione che l’endless poem di Wallace Stevens sembra alludere alla necessità di fuoriuscita dal pensiero occidentale, piuttosto che ritornare ai suoi miti originari, ignorando la modernità, che invece Stevens non ha mai smesso di attraversare. I grandi spiriti artistici, vedono i tempi nuovi con grande anticipo e forse la presunta difficoltà della sua poesia sta proprio in questo annuncio. Se è così il tempo lo rischiarirà.

Henry Bergson

83 Op. cit. pp. 113-4

84 Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante, la Psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1973.

85 Mi riferisco al numero 1 della primavera del 2002 che contiene un saggio di Temenuga Trifonova dal titolo The poetry of matter: Stevens and Bergson: pp-41-69.

86 I rapporti fra la poesia e la pittura . Tutte le citazione sono tratte dal capitoletto intitolato  Terzo, pp.239-42.

87 Materia poetica, in Aurore d’autunno, a cura e traduzione di Nadia Fusini, Adelphi Milano 2014, pp.27. Naturalmente, questa sentenza lapidaria di Stevens, non può essere adoperata per una critica di fondo al Surrealismo, ma per certi suoi aspetti certamente sì. Del resto, se si considera un autore come Walter Benjamin – che certamente Stevens non conosce – che del Surrealismo è stato un grande estimatore tanto da scrivere sul movimento uno dei suoi saggi più importanti, alcune sue critiche molto severe rivolte a Breton hanno delle assonanze con l’affermazione di Stevens. Anche Benjamin non amava le invenzioni gratuite, specialmente quando sconfinavano nell’esoterismo. Le assonanze, in ogni caso, si fermano qui: Stevens avrebbe considerato aberrante quello che Benjamin amava di più del surrealismo e cioè il suo rapporto con le politiche rivoluzionarie.     

88 Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum, 1988, pp. 181-206

92 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, Postfazione di Guido Carboni, Einaudi 1982, pag.170

93 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo,  saggio introduttivo. Suggerisco la lettura dell’intera introduzione di Bacigalupo. Einaudi, collana i Millenni,  Torino 1994.  

94 La frase è una delle più comuni, ripetuta in varie forme sia in conferenze sia in versi come in questo caso.

MARCEL PROUST

Ci sono tre fuochi che alimentano il grande romanzo di Proust e che funzionano da veri e propri attrattori. Il primo è assai noto: la petite madeleine. Il secondo e il terzo li possiamo rinvenire una volta arrivati alla fine, al Tempo ritrovato, che chiude il cerchio della narrazione e permette uno sguardo retrospettivo anche da parte del lettore.

La madeleine è l’infinitamente piccolo che spalanca le porte su un universo narrativo. L’innesco della memoria soggettiva, potenzialmente senza limiti, appare come una specie di big bang emozionale, l’istante da cui tutto prende avvio e poi acquisisce la sua forma strada facendo, adattandosi plasticamente all’ambiente che si metamorfizza insieme a esso. La madeleine non è dunque una metonimia: essa non rappresenta nella parte il tutto, bensì l’evento che dà vita al tutto, la singolarità irriducibile che anche per i fisici è una barriera che non può essere superata. Cosa c’era prima del Big Bang è una domanda assurda e lo è anche il chiedersi cosa c’era prima della madeleine. Per Proust è l’evento singolare da cui prende vita un cosmo; egli non ha bisogno di alcuna metafora di partenza, solo di un innesco e degli altri due fuochi che incontreremo più avanti. Marcel Proust quell’innesco lo ha cercato più volte e altrettante volte perduto durante tutta la sua vita, sia di narratore sia di uomo; fino a quando incontra l’interazione che fa nascere il suo cosmo interiore. La madeleine è questo. Nel Tempo ritrovato, tale cosmo (che per Proust è finito e non infinito come pensavano certi suoi critici) implode come un universo – appunto – che si riduce alla fine a quel nucleo denso nel quale torna a rinchiudersi. Il Narratore, a quel punto, esce dal teatro che ha costruito e nella parte finale dell’opera ci offre le sue meditazioni sull’arte e sul tempo, che non per caso è proprio l’ultima parola del romanzo.

Nel cosmo tutti i tempi sono presenti e potenzialmente sono tutti contemporanei o addirittura – secondo la descrizione quantistica della materia – è il tempo stesso a non esserci, almeno nelle modalità percettive che ne abbiamo noi esseri umani e le interazioni che accadono fra le particelle possono non portare a niente. Anche i salotti rappresentati dal Narratore non portano a nulla, le orbite intorno ad amori più o meno consumati o immaginati, i meandri di relazioni mai del tutto risolte, cioè tutto quello che costituisce il grande teatro messo in scena nella Recherche, non alludono ad altro se non a se stessi: nel cosmo non ci sono metafore.

La direzionalità e la scelta progettuale sono gli altri attrattori che ancora mancavano. Nel cosmo di Proust avvengono sì delle interazioni per lo più inutili come quelle delle particelle elementari, ma elevando un certo gusto francese per gli eccessi della frivolezza a etica ed estetica della scrittura, alla fine il Narratore trova l’interazione che permette a quel cosmo, prima di esistere e di essere narrato, poi di venire ridotto a un nucleo d’inesistenza e insignificanza. Cos’è allora il tempo ritrovato? Non è il riscatto di quel mondo, ma una liberazione dal medesimo. Ci sono pagine e pagine durante le quali non avviene niente, non perché nei romanzi si cerchino per forza la trama e l’intreccio ottocenteschi (che pure non mancano nella Recherche)1, ma perché il gioco di rimandi, divagazioni, descrizioni, sembra non avere alcun nesso fra ciò che precede e ciò che segue. Poi, improvvisamente la materia s’addensa e allora i flussi di narrazione danno vita a una costellazione e a un sistema di pianeti che girano intorno a soli più o meno grandi che possono essere il salotto dei Guermantes, oppure le estenuanti vicissitudini degli amori di Swann; ma specialmente l’amicizia del Narratore con Robert de Saint-Loup, che occupa una posizione rilevante nel romanzo e nella quale il Narratore condensa molte esperienze reali di amicizie amorose del suo alter ego che vive e non scrive. 2

L’io vivente che il Narratore rappresenta accanto a Robert, è un uomo che perde molto della sua goffaggine, appare persino spontaneo, può abbandonarsi a slanci che con una donna non riesce a concedersi, se non in modo traslato. C’entra l’omosessualità più o meno inconscia? C’entra eccome; tuttavia, e pur non sottovalutando affatto tale questione, scelgo un diverso punto di vista, anche perché la centralità del tema omosessuale riguarderà maggiormente altre parti dell’opera piuttosto che il rapporto con Saint Loup.

Le ultime due pagine de All’ombra delle fanciulle in fiore, dicono molto al proposito. Siamo a Balbec (una località inventata nella quale sono condensate molte di quelle che videro Marcel ospite insieme alla madre), a fine stagione; l’umidità – che Marcel sia il Narratore soffrono in modo particolare a causa della sua grave forma di asma cronica – sarà la ragione della rapida partenza, che lo costringerà a lasciare Albertine Simonet e le sue amiche. Questo è il registro, in parte autobiografico per quel che attiene la malattia. Vi è però una seconda causa di quella repentina partenza e cioè la telefonata grazie alla quale il Narratore si rende conto delle condizioni di salute della nonna. Tuttavia, tale telefonata sarà più importante per un’altra parte del romanzo, proprio quella dedicata al ricordo della nonna defunta, fra le pagine altissime dell’opera.

Quando il filo della memoria comincia a svolgersi risalendo a Balbec, il Narratore non rivive gli incontri mattutini con Albertine e le sue amiche – le fanciulle in fiore – ma il suo ritiro serale, anzi una vera e propria clausura protetta dalla solerzia inattaccabile della governante Francoise. Diretto in modo inflessibile da lei, che spilla le tende della camera affinché il suo addormentamento al buio non sia soggetto a deroghe e nemmeno a spiragli, rimangono i suoni del concerto, le voci delle amiche che – colui che vive e non scrive – non può raggiungere sul molo. Quel mondo femminile gli è precluso in molti modi e per lui rimane un geroglifico; se ricorda le sere in cui non poteva essere con loro, è anche perché il Narratore può accendere meglio l’immaginazione. Al di là della natura del suo rapporto personale con Robert, per il Narratore è il mondo maschile quello in cui si trova a proprio agio. Quando una sera andrà a trovare Robert in caserma, si scopre improvvisamente libero, ha persino l’ardire di chiedergli se può dormire lì. Robert lo accoglie con amorevole amicizia, solo stupendosi un poco che l’amico preferisca passare la notte in una caserma piuttosto che nell’elegante e comodo albergo dove alloggia: non c’è nulla che faccia pensare ad altro. La scelta, infatti, ha una sua logica interna e psicologica, che ha un precedente nella vita reale di Marcel Proust e cioè la scelta di arruolarsi volontario nell’esercito dopo la scuola, periodo di cui serberà un buon ricordo.2 Il Narratore sperimenta, la notte in cui dorme in caserma, il sapore della libertà, ma anche di una relazione che può vivere, non importa di che natura sia; al contrario di quelle con le donne, rispetto alle quali riesce sempre a mettersi in una posizione asimmetrica. La caserma per lui diventa il rovescio di quella stanza totalmente oscurata nella quale stentava ad addormentarsi. Trascorrendo i giorni insieme all’amico, s’interessa persino alle strategie militari, alle tattiche, segue affascinato tutto ciò che riguarda quel mondo maschile nel quale finalmente si sente a proprio agio e libero. Il militarismo e la guerra, però, non c’entrano; anzi Marcel – quando si deciderà finalmente a diventare Proust Narratore, scriverà alcune delle pagine più mirabili e memorabili della Recherche proprio contro la guerra.

Finzione e verità.

Il tempo ritrovato è dunque il suggello e il precipitato dell’intera Recherche. Si tratta di una circostanza del tutto evidente, ma a rendere ancor più concreta tale costatazione, ma specialmente ad attribuire a tale particolare di per sé ovvio, una decisiva importanza, sono state per me le pagine illuminanti scritte da Mariolina Bongiovanni Bertini proprio nelle introduzioni alle diverse parti del romanzo (mi riferisco all’edizione di Einaudi), ma specialmente a quella de Il Tempo ritrovato. Bertini ricostruisce la genesi dell’intera opera, ma nel mettere bene in fila fatti già noti e specialmente dando l’importanza che merita a un intervento polemico di Proust verso i suoi critici, permette di considerare in modo diverso e specialmente con uno spessore diverso, il problema della genesi dell’opera. Partiamo dai fatti e cioè la difficoltà incontrata da Proust nel pubblicare la sua opera. Bertini va subito al nocciolo della questione ricordando che più di un critico la riteneva fatta solo di divagazioni, senza una progettualità o un filo che cucisse insieme quelli che ho definito i pianeti del cosmo proustiano, come se fossero invece frammenti disordinati e caotici, non di un cosmo, ma di un caos. Bertini a quel punto ricorda la perentorietà con cui Proust si decise a tagliar corto con quella polemica rivelando di avere scritto l’ultimo capitolo e anche l’ultima pagina del romanzo subito dopo avere scritto il primo capitolo e di questo offre ampia testimonianza come ricorda Bertini stessa. Di per sé la rivelazione potrebbe non sembrare importante, nel senso che solo il lettore ingenuo può pensare che se sta leggendo un romanzo dall’inizio alla fine esso sia stato anche scritto dall’inizio alla fine. Non è quasi mai vero, ma è diverso il peso specifico di questa circostanza rispetto a un autore piuttosto che un altro. Nel caso di Proust è un dato rilevantissimo, perché dimostra come egli avesse bene in mente che il suo era un cosmo finito e non un caos, prima di tutto; che aveva una conclusione e che le divagazioni erano una scelta stilistica sostenuta però da altrettanto rigore nell’avere in mente fin da subito la conclusione dell’opera. Il progetto c’era eccome! ma questo porta con sé anche qualche altra conseguenza. Nel Tempo ritrovato il Narratore non finge di spiegarci il suo cosmo a posteriori e quindi con il senno di poi, ma lo fa in anticipo nascondendolo al lettore fino alla fine. La direzionalità e la scelta della conclusione permettono al Narratore di distruggere la prigione in cui il vivente s’era trovato rinchiuso e che si decise a rompere dopo la morte di entrambi i genitori, ma specialmente della madre.

Nella seconda parte del tempo ritrovato, quando Marcel Proust si ritrova a una matiné salottiera dopo tanti anni che non vi si recava, rappresenta quel mondo come una sfilata in maschera di personaggi grotteschi; ma mentre noi saremmo condotti a credere che questo sia semplicemente il finale della storia con le sue consapevolezze postume, il Narratore questo finale lo aveva scritto anni prima! Il Narratore è un grande cattivo, nel senso che è consapevole fin dall’inizio che quelle interazioni, quei salotti, quei personaggi, sono maschere grottesche e in molti casi sordide, meschine e persino oscene! La parte essoterica del suo progetto è il teatro, il grande teatro, evocato dalla petite madeleine, e lo fa anche per portare Marcel fuori dalla prigione, che non era costituita solo da quelle interazioni inutili, ma anche dal suo male, dalla sua speciale malattia che non è l’asma e che finalmente il Narratore nomina nel romanzo: la pigrizia, la paresse, così parente dell’ennui baudleriano. Il gioco fra memoria volontaria e memoria involontaria permette a Proust di giostrarsi fra i due registri esoterico ed essoterico, ma è la memoria volontaria indirizzata a un progetto a governare il suo cosmo, un cosmo – per uscire dalla metafora fisica – in cui sono l’intelligenza e la sagacia del Narratore a immettere il soffio di vita che altrimenti non ci sarebbe e la sola madeleine come innesco non sarebbe bastata. Cosa rende possibile questo? Il tempo ovviamente, perché a differenza delle interazioni quantistiche, il tempo della vita ha una dolorosa direzionalità, ma è proprio questa che dà senso alla vita: se il tempo che ci spetta fosse eterno, come pensava inconsciamente il giovane Marcel, che molto ne perdeva, la vita non avrebbe senso.

Ho definito prima il Narratore un grande cattivo: mi domando ora se nell’opera ci sia una forma di pietas, oppure no. I personaggi grotteschi che nel Tempo ritrovato sfilano per l’ultima volta davanti al Narratore, nella loro decadenza già decaduta, possono far pensare a una sorta di giudizio universale, ma è proprio allora che il Narratore abbassa i toni. Lo fa nel solo momento in cui poteva farlo e nel solo modo in cui poteva farlo e cioè riportando per l’ultima volta anche Marcel, il vivente, all’interno dell’opera e di quei salotti. Di quel mondo Proust ha fatto parte nella sua prima vita e non può e non vuole ergersi a giudice, tratta se stesso come loro, vede con ironia, nella loro vecchiaia, la sua incipiente: solo nell’arte e nel linguaggio può diventare giudice, perché è quella per lui la sola misura etica che può esplicitare anche nell’opera. Il suo grande teatro è ottocentesco e anche precedente; forse per un francese la questione della fuoriuscita dell’aristocrazia dalla porta della storia e dei molti rientri dalla finestra, ha un peso specifico diverso che non per altre culture, visto che lì una rivoluzione c’è stata. La finzione di un tempo che è sia contemporaneo sia rivolto all’indietro è presente dall’inizio alla fine nel romanzo, ma il tempo ritrovato può esserlo solo nell’arte e nella scrittura. Infatti, dopo essersi congedato per l’ultima volta dal grande teatro, il Narratore, nella parte finale dell’ultimo libro, ci offre un’ampia meditazione sulle ragioni dell’arte e sul tempo. In questo la sua finzione è del tutto moderna e consapevole perché la sua poetica entra come riflessione nell’opera stessa. Quanto alla pietas, essa compare qui e là nel testo, verso un personaggio o l’altro, una situazione o l’altra, ma essa non può svolgere alcuna funzione redentrice e su questo il Narratore è inflessibile: alla fine non salva nessuno di quei personaggi, neppure Robert de Saint Loup. Addirittura nella parte iniziale del tempo ritrovato rappresenta quasi tutti i personaggi nelle situazioni più sordide che si possono immaginare, visto che il tempo non è solo tiranno ma anche veritiero, nel senso che accentua i tratti di ciascuno per quello che è e vuole essere: dunque siamo lontani da una pietas cristiana, se mai vicini a un atteggiamento che può ricordare l’esortazione che Virgilio rivolge a Dante alla fine del quarto canto dell’Inferno: Non ragioniam di lor ma guarda e passa. Se c’è una pietas, come io penso, essa sta nell’atteggiamento finalmente umile di chi si pone di fronte alla propria vita in modo etico e consapevole, decidendo di affrontare il proprio male di vivere. La Recherche, sia nel titolo sia nelle sue modalità è proprio questo. Alla fine il Narratore, lo abbiamo visto, nomina il tarlo che aveva roso il vivente Marcel: la pigrizia, una malattia della volontà che si traduce in un atteggiamento di apparente noncuranza, che lo ha rinchiuso per anni nell’insensatezza delle abitudini, che gli ha fatto fare le scelte più astruse e tutte inconcludenti, scrivere tante pagine inutili di quel romanzo – Jean Santeuil – lasciato incompleto al suo destino, dal momento che era soltanto uno dei molti modi di sfuggire all’opera che gli urgeva. Alla fine si arrende e da quel momento e non senza qualche apprensione, che ci rivela proprio nel tempo ritrovato (Sono ancora in tempo?), comincia una delle più grandi avventure del secolo: un romanzo che è anche, aldilà dei suoi grandi meriti letterari, una straordinaria esperienza di autoanalisi, diversa da quella del fondatore della psicoanalisi per gli strumenti che usa, ma non meno decisiva.

L’arte, lo stile, il tempo.

La parte finale del Tempo ritrovato è dedicata alla meditazione sull’opera stessa, che Proust autore riporta nella partitura del romanzo, mentre sull’arte come forma più alta di verità vi è poco da aggiungere alle sue parole, se non per constatare la classicità di tale espressione. Il suo pensiero si rifà a un canone che verrà messo in crisi dalle avanguardie storiche, dall’avvento della cultura di massa, dalla riflessione di filosofi e critici: per esempio la caduta del dogma dell’autorialità, posta da Benjamin nel suo saggio sulla Riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Il Narratore non ignora affatto tutto ciò e di questo vi è traccia nel grande teatro che mette in scena. Sono brevi incursioni, flash, ma quanto basta per comprendere che l’idea di un Marcel Proust (metto insieme il narratore al vivente in questo caso), lontano e avulso dalla storia del suo tempo sia da abbandonare: basti ricordare quanto spazio ha sia nell’opera sia nella sua vita l’affaire Dreyfus, che Proust seguì personalmente anche nelle sue fasi processuali con una partecipazione emotiva non tanto diversa – in definitiva – da quella di Zola; non manca persino un pensiero sulla Rivoluzione Bolscevica. Lo stesso vale per i giudizi sulla guerra e il nazionalismo. Tuttavia, rispetto a quella che sarà la revisione novecentesca dei canoni letterari e artistici, egli si mantiene fedele a una sensibilità precedente. Giova tuttavia ricordare quanto la sua convinzione che l’arte avesse un valore conoscitivo e non solo estetico, fosse lontana anni luce da quello slogan così in voga in quegli anni: l’art pour l’art. Proust si allontana dal canone realista e dalla verosimiglianza in tutte le sue forme, ma salva un nucleo centrale di quella grande poetica e cioè proprio il valore conoscitivo e non solo estetico dell’arte. Alla crisi del romanzo realista, egli non oppone uno scivolamento nel decadentismo e nelle forme estetizzanti dell’art pour l’art, pur risentendo come tutti del clima culturale in cui vive. Il contesto decadente è per lui un punto di partenza e non di arrivo e certe descrizioni di alcuni personaggi, nel loro impasto di comicità e tragicità (Charlus nel bordello di una Parigi in guerra per esempio), non sono poi così lontane dal Balzac.

Sul suo stile sontuoso è difficile aggiungere qualcosa rispetto a ciò che hanno scritto illustri critici come Giovanni Macchia e altri: la capacità di mantenere dall’inizio alla fine un registro alto, in qualche caso altissimo, ma che non scade nell’estetismo fine a se stesso. Su tali passaggi dell’opera non c’è molto da dire. Vorrei allora affrontare da un punto di vista che già è stato posto da altri, cui ho accennato io stesso qui e là, ma forse non del tutto elaborato: la strategia compositiva, che è cosa diversa sia dallo stile, sia dalla progettualità consapevole di cui si è già detto – e dei referenti filosofici e scientifici eventuali della medesima. Torniamo sia alla formazione di Proust, sia al contesto culturale e scientifico in cui l’opera è stata scritta. L’unico debito che Proust riconosce per iscritto è verso il suo docente filosofia del liceo Condorcet, Darlu, ma solo per dire che la sua influenza fu negativa. Poi ci sono i giudizi espliciti e impliciti che si trovano a profusione nel romanzo. E allora ecco Niestche, Wagner, ma anche Bergotte e Vinteuil figure chiave e maschere dietro le quali si nascondono illustri poeti e narratori. A tutto questo va aggiunta la sua assidua frequentazione dei corsi di Bergson alla Sorbona, una frequentazione non estemporanea e indice, di un vivo interesse. Proust, nelle poche interviste rilasciate e interventi, ha sempre negato l’influenza di Bergson sulla scrittura del romanzo e non si può davvero credergli in questo caso; ma forse quello che lui intende con la negazione è qualcosa di diverso. È difficile pensare che il concetto di memoria involontaria, per esempio, così centrale nella riflessione di Bergson, sia estraneo all’opera di Proust e che dunque un qualche debito nei suoi confronti andrebbe riconosciuto; ma a ben vedere si tratta di un’influenza esterna, che lo ha aiutato a distinguere le funzioni diverse della memoria volontaria da quella involontaria e di giostrarsi così fra i due diversi registri: il grande teatro lasciato alla memoria involontaria, la direzionalità del progetto a quella volontaria. Tutto questo a ben vedere fa parte dell’impalcatura che serve a costruire l’opera. Poi c’è lo stile di cui si è già detto, infine c’è la tessitura di tutto questo nel farsi dell’opera; infine il tempo, il grande convitato di pietra e proprio intorno alla questione del tempo erano accadute cose non da poco all’inizio del secolo. Con la relatività ristretta di Einstein (1905) e poi quella generale, era venuta meno la concezione tradizionale del tempo, in particolare rispetto a due concetti chiave: l’essere da un lato lo sfondo neutro seppure direzionato dal passato al futuro delle azioni umane (Kant), poi il concetto di simultaneità, forse la cosa più sconvolgente e cioè che osservatori diversi a velocità diverse non solo vedono cose diverse ma non abitano lo stesso tempo ma due tempi diversi. Proust ne tiene conto e il suo romanzo ne risente? La mia risposta tende a essere affermativa; ma più in generale la strategia compositiva sembra essere influenzata proprio da una riflessione sul tempo che non era affatto estranea alla filosofia francese di quel momento storico e cito tre nomi importanti: Bergson, Roupnel e Bachelard. Si aprono qui due ipotesi entrambe affascinanti: Proust si è avvalso di queste fonti? Oppure è giunto per strade sue a una strategia compositiva in cui la concezione del tempo viene sconvolta fino a risultare assai prossima a quella proposta dalla nuova fisica? Vediamo di districare la matassa, partendo dalla filosofia.

I tre che ho citato in precedenza hanno in comune il fatto che sono tornati a porsi dei problemi filosofici in relazione alle scoperte scientifiche. Si può dire che con loro torna la filosofia naturalistica, che dopo Newton, Kant, Leibnitz e Cartesio, era finita un po’ in secondo piano, potendo contare su epigoni o continuatori dei quattro grandi che ho citato; oppure nel caso di Leopardi, per sottolineare l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane. Durante tutto l’ottocento, ma anche per gran parte del ‘900 sono i filosofi della storia  o dell’etica a dominare il campo con poche eccezioni e un discorso a se stante per quanto riguarda Nietsche. Con Wittgenstein siamo in un altro universo che ha a che fare con il linguaggio. I tre filosofi francesi sono  i primi (Heidegger verrà dopo), a porsi un interrogativo che è fondamentale per una filosofia naturalistica e cioè che cos’è il tempo. Tale interrogativo, dimenticato di fatto dopo Kant, torna invece in primo piano dopo la relatività ristretta di Einstein e Bergson, Roupnel e Bachelard sono i primi a porsi la domanda, forse non tutti e tre con la stessa pregnanza. Cominciamo da Roupnel e Bergson perché nel loro caso è facile, dal momento che le due tesi non potrebbero essere più estreme e contrarie e dunque chiarissime. Per il primo il tempo è l’istante per il secondo la durata. Bachelard, nel saggio dal titolo La filosofia dell’istante, tenterà una sintesi che tiene conto proprio della relatività, anche se si apre su un orizzonte più vasto che ci riporterà proprio a Proust e al suo romanzo. Il tentativo di Bachelard è importante perché non si tratta di una conciliazione fra Bergson e Roupnel. Bacherlard sta dalla parte del secondo, anche per lui il tempo è l’istante, ma cerca di dedurre quello che per Bergson è la durata, partendo dalle proposizioni di Roupnel e giungendo alla definizione di durata come abitudine.

Cosa c’entra Proust in tutto questo? Proviamo a porci alcune domande.  Che cosa è il tempo nella Recherche? Se pensiamo agli attrattori, a che cosa li possiamo avvicinare? La petite madeleine, per analogia, è un istante o una durata? I flussi narrativi, ricorrenti, che in certi momenti addensano la narrazione e innalzano di colpo lo stile come vanno come vanno considerati? La progettualità cosciente che gli fa scrivere l’ultimo capitolo subito dopo il primo c’entra o non con il tempo o si tratta solo di un brillante artificio letterario? E nella strategia compositiva interna, nella tessitura, dove finisce il tempo? L’istante, quello che all’inizio di questo saggio ho indicato con il termine di big bang emozionale, costituisce l’innesco e la petite madeleine come infinitamente piccolo può essere paragonata all’istante; ma essa come abbiamo visto è solo l’innesco. Se pensiamo invece ai flussi narrativi, li possiamo suddividere in diverse tipologie. Alcuni di essi si possono rapportare a quello che Bachelard indica come abitudine, ma anche alla coazione a ripetere, in altri casi no e questi sono forse i più interessanti. Torno allora a quelle due pagine finali de All’ombra delle fanciulle in fiore di  cui si è già detto. In esse la memoria involontaria torna alle serate di clausura a Balbec, durante le quali il protagonista poteva solo udire i suoni di ciò che accadeva all’esterno e immaginarsi persino di udire le voci delle sue amiche sul molo. Prima, in tutta la parte precedente, del romanzo e a dispetto del titolo, è la relazione con Robert de Saint Loup a tenere banco. Sappiamo, tuttavia, che vi era una seconda ragione di quella partenza. Invitato dall’amico Robert a servirsi di una delle mirabili invenzioni della tecnologia del momento e cioè il telefono, aveva chiamato la nonna e aveva capito che qualcosa di grave stava accadendo. La nonna stava male e ciò lo spinse a un rapido ritorno. Tuttavia, quando alla fine del volume, la memoria lo riporta a Balbec sono le serate di clausura al centro del suo ricordo. Non c’è niente di male che siano due le cause di quella improvvisa partenza, ma si tratta – per come vengono trattate nel romanzo – di due memorie diverse e che danno vita a flussi di narrazione assai diversi che corrispondono anche a tempi diversi. A leggerli sembra di rivivere in altro modo le pagine in cui Bachelard sostiene che non vi è in realtà nessuna continuità fra l’io che si muove in certi momenti con le azioni che lo stesso io compie in altri. In sostanza il tempo non è un continuum che si possa sommare: si possono sommare solo quei tempi che appartengono a una medesima tipologia di azioni. Su questa ipotesi, che farebbe la felicità di Borges, oggi possiamo sorridere perché – pur riconoscendo che sono speculazioni importanti nate dalle scoperte della fisica novecentesca – abbiamo ormai a disposizione molti testi di ottima divulgazione che ci aiutano a capire come la descrizione quantistica della materia non ci aiuti a capire meglio cosa sia il tempo umano. Nelle interazioni fra le particelle elementari il tempo è reversibile o addirittura non esiste per come lo viviamo e quelle interazioni non sortiscono in nulla. La vita è una singolarità eccezionale ed è in quel momento che nasce tutto, dal tempo umano alla sua direzionalità. Allora, tornando all’inizio di questo saggio, inutile domandarsi cosa esistesse prima del Big Bang o prima della madeleine. Entrambi nella loro enorme diversità sono due singolarità che danno vita a interazioni sensate. Credo che per lungo tempo si sia cercato inconsciamente se nei meandri della nuova fisica vi fosse una strada verso l’immortalità, oppure verso dio: siamo sempre lì! Invece tali interazioni quantistiche portano al niente, neppure al nulla che è pur sempre un significante filosofico, ma al niente, come è stato rappresentato in modo involontariamente straordinario in un testo teatrale come La classe è morta di Kantor.

Quello di Proust, volendo trovare una conclusione a questo scritto sulla sua opera è un universo parallelo, un organismo simile a quello in cui il vivente vive, ma nel quale non scrive o viceversa, per parafrasare il celebre detto di Proust medesimo. Nel realismo, la pretesa è quella della verosimiglianza e cioè – sempre parafrasando Proust – un mondo in cui vivere e scrivere possono marciare insieme. Questa fu l’unità ottocentesca durante la quale si consolidò la grande arte borghese, ma tale unità entrò in crisi nei decenni finali del secolo quando altri soggetti sociali, prima di tutto, posero fine all’illusione universalistica del pensiero borghese. Proust come altri – Huysman e Zola per esempio – reagirono alla crisi, che era anche una crisi del romanzo, in modi diversi: il primo fuggendo in un estetismo decomposto ancor più che decadente, il secondo accentuando ed estremizzando alcune caratteristiche del realismo medesimo. La Recherche si muove da un contesto estetico più vicino al decadentismo che a Zola, ma poi vira in una direzione diversa anche se forse non ancora del tutto compresa ed esplorata. Il disagio psichico, la malattia, la perversione, non sono nella Recherche soltanto un segno di decadenza, ma anche l’espressione di un allargamento della coscienza all’esplorazione del sé: la psicoanalisi è sullo sfondo anche se non entra direttamente nel testo e Freud non viene mai citato, mentre è del tutto assente in Zola, la cui illeggibilità (specialmente in certi romanzi), è data fra l’altro anche dalla disperante meccanicità dei personaggi. Essi non rappresentano più neppure certe tipologie umane, come avviene nel grande romanzo realista o nelle distorsioni caricaturali di Daumier, ma sono marionette senz’anima, unidimensionali fino ad apparire del tutto irrealistiche.


1 Alberto Beretta Anguissola, nella sua puntuale ricostruzione del romanzo, riconduce ai suoi termini reali una leggenda che è circolata da subito sulla Recherche: che in essa non sarebbe rintracciabile alcuna trama, per usare un termine tradizionale della narrativa ottocentesca. È possibile invece sfatare tale convinzione, anche se tale trama costituisce una specie di sottotesto che non sempre segue un andamento lineare, ma essa esiste eccome, ma non bisogna intenderla pensando ai canoni del realismo ottocentesco. In:  Proust guida alla Rcherche. Carocci editore, Bologna 2018.

2 Questa espressione la troviamo in forme diverse anche in Proust medesimo, per il quale le due azioni di vivere e di scrivere sono sostanzialmente in alternativa. Il tema viene ripreso anche da Giovanni Macchia.

2 La biografia di Marcel Proust è costellata di aneddoti ed episodi su cui lui stesso si è diffuso più volte. Parlarne è necessario perché essa è strettamente collegata all’opera. Il giovane Marcel teneva un po’ in ansia suo padre perché era difficile capire bene cosa volesse fare nella vita.  Oggetto di cure e protezioni per via della sua grave forma di asma, alcune sue scelte sembrano segnate da una forma di ribellione verso quel’eccesso di attenzioni da parte della madre. Come considerare per esempio la scelta inopinata dell’arruolamento volontario subito dopo gli studi? Dopo la carriera militare finita nel nulla è la volta degli studi giuridici, poi improvvisamente, Marcel scopre la borsa e la finanza e vi si butta a capofitto. Il giudizio comico e lapidario del suo consulente, può bastare a chiudere anche quella strada: “Marcel Proust appartiene a quella categoria d’investitori che comprano i titoli quando il loro prezzo sale e li vendono quando il loro prezzo scende.” Tuttavia e a dispetto dal titolo del suo romanzo che ci rivela fra le altre cose, quanto tempo il giovane Marcel abbia effettivamente perso, si sbaglierebbe a ritenere tutto questo legato semplicemente a certe caratteristiche di ceto o di classe – se vogliamo: a un atteggiamento tipico dei rampolli dell’alta società, per cui in fin dei conti, comportarsi da flaneur non metteva a repentaglio più di tanto le loro vite e i loro patrimoni. C’è una sofferenza reale nella sua inadeguatezza al mondo, una difficoltà nel potere e nel saper scegliere che lo accompagnerà fino alla decisione di scrivere l’opera che non si decideva a scrivere, auto imponendosi come scelta volontaria la clausura che aveva segnato come obbligo esterno la sua vita. Fu allora che il brutto anatroccolo (perché si può esser brutti anatroccoli anche se circondati di cure, soldi e benessere), decise di trasformarsi in un cigno.