PENSARE CON I PIEDI
Premessa
Una versione di questo articolo fu pubblicato sulla rubrica culturale del Wall Street Journal Italia nel 2014. Ho modificato il testo in alcune parti troppo datate e aggiunte altre riflessioni più contemporanee.
Ho rubato il titolo di questa riflessione rapsodica ed estiva sul calcio e nel pieno del mondiale femminile che si sta concludendo a uno degli scrittori più grandi che di questo gioco hanno scritto: Osvaldo Soriano, una perdita gravissima per la letteratura mondiale, tanto più dolorosa perché avvenuta in età giovane e nel pieno della sua creatività, il 29 gennaio del 1997. Un ricordo personale mi lega alla sua morte. Nel 1996, pochi mesi prima del suo decesso, partecipai insieme a mio figlio Ulisse al primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo che si tenne nelle zone della guerriglia zapatista del Messico. A quell’incontro parteciparono anche molti artisti, pittori, scrittori e mi colpì l’atteggiamento di rispetto che quelle popolazioni avevano, con tutti i loro problemi, nei confronti delle arti. La musica, in particolare, essenziale in qualunque momento della vita e a qualunque prezzo. Ci raccontarono delle fughe notturne, mentre erano inseguiti dall’esercito, ma sempre trascinandosi dietro la marimba, lo strumento prediletto dalle popolazione indigene del centro America: e non è come dire fuggire nella giungla con una marimba in spalla, che assomiglia a un piccolo pianoforte! Che anche la letteratura godesse dello stesso credito e rispetto non lo sospettavo, però: fra tutte le arti, è la meno avvicinabile per popolazioni con un tasso scarso di alfabetizzazione. Certo, il sub comandante Marcos era ed è anche uno scrittore, pubblicava racconti con lo pseudonimo da tutti conosciuto di Don Durito della Lacandona, ma sembrava più un suo vezzo che altro. Mi accorsi che non era così quando morì Soriano: ero tornato da mesi dal Messico e la notizia del suo decesso fu un fulmine a cielo sereno. Quello che più mi colpì fu il lutto dell’intera America Latina e quello delle comunità zapatiste. La guerriglia si era fermata, tutti si erano fermati e Marcos aveva parlato dello scrittore argentino nel cordoglio unanime di una comunità di indios, esclusi da tutto, ma che piangevano la morte di uno degli ultimi cantori dell’America latina. Avendoli conosciuti, la vista di quelle donne e di quegli uomini immobili, raccolti in un silenzio teso, mi commosse quanto mai. Nessuno scrittore europeo potrà avere un cordoglio così unanime e sentito. Lo ebbero in passato i grandi maestri della narrativa (i funerali di Victor Hugo per esempio), oppure i jazzisti statunitensi di colore (Charlie Parker), ma sempre più raramente possono più averlo da noi dove da tempo non interpretano più i sentimenti profondi di un popolo: forse sono certi cantautori o interpreti a poter suscitare un’emozione così forte. Le ragioni sono tante e non è il caso di parlarne in questa sede, se non per due di esse che mi riportano anche al tema di queste riflessioni. L’America Latina, pur con tutti i contrasti fra i diversi popoli, ha, fra gli altri, due fortissimi legami comuni, la lingua e l’identità india, riscoperta di recente ma fondamentale quanto mai. Nel vivere collettivamente, in una grande cerimonia corale, il lutto per la morte di Soriano, c’era tutto questo.
Il calcio e i suoi miti
Pensare con i piedi è il titolo della sua raccolta di racconti più famosa, con una sezione finale interamente dedicata al calcio. Inizio però da un altro racconto, contenuto in un’opera meno nota, dal titolo Artisti, pazzi e criminali. Il libro raccoglie una miscellanea di scritti che stanno sul crinale fra giornalismo e narrazione. Si tratta di testimonianze in diretta, pubblicate nel supplemento del quotidiano l’Opinion, che si chiamava La Historia de vida. Come s’intuisce dal titolo dell’inserto, il materiale era costituito da testimonianze di vita, raccolte con il registratore. Soriano le trasformava in racconto, cercando il più possibile di rimanere fedele al personaggio intervistato. È un genere che lo scrittore medesimo definisce assai difficile perché, come nel caso in questione, i testimoni non sempre hanno capacità linguistiche e narrative tali da interessare un lettore; ma nello stesso tempo, lo scrittore non può manipolarle più di tanto, ma deve piuttosto lavorare di cesello sul materiale che ha. Il racconto in questione s’intitola Il riposo del re del centrocampo e il personaggio che rende la sua testimonianza, è Obdulio Varela, un nome che starebbe benissimo in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Anche chi, come il sottoscritto, è un grande appassionato di calcio, forse non lo ricorderà, ma sicuramente non gli saranno estranei altri suoi due connazionali, Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino, gli autori dei due gol che diedero all’Uruguay il titolo mondiale nel 1950 e che hanno ispirato anche una famosa canzone di Paolo Conte: Sudamerica. Obdulio Varela era il capitano di quella squadra, un gigante buono del centrocampo, abituato alla fatica e condannato a Una vita da mediano, come recita la canzone che Ligabue ha dedicato al centrocampista dell’Inter e della nazionale Lele Oriali. In quella memorabile finale del 1950, Obdulio fu cattivo e lucido quanto bastava per mettere paura ai brasiliani. Non si può raccontare con altre parole un brano struggente e perfetto come questo, se non segnalandolo.
A parte qualche incursione poetica (Saba e Pasolini), anche in Italia sono stati i romanzieri a dedicarsi al calcio e direttamente sulla stampa sportiva. Memorabili le cronache di Luciano Bianciardi sul Guerin sportivo diretto da Gianni Brera e altrettanto memorabili quelle di Brera medesimo. Il fuorigioco mi sta antipatico, il titolo con cui da Stampa Alternativa, ha ripubblicato di recente le risposte di Bianciardi alle lettere dei lettori, dimostra una volta di più che il calcio non è l’ultima delle lenti attraverso le quali si può guardare a una società intera. Partendo dal gioco e dalle sue tattiche, Bianciardi metteva alla berlina i vizi nazionali, lo faceva da grande istrione provocatorio qual era, ma sempre documentato, anche in materia calcistica. Un capitolo a parte, meritano poi le radiocronache. Quelle di Niccolò Carosio erano esempi di narrazione orale, talvolta vere e proprio invenzioni che con la partita in oggetto avevano un relazione assai complessa. Carosio veniva dalla retorica fascista, che, seppure depurata, ancora si avvertiva nel tono che usava e nelle cadenze. A lui mi lega un altro ricordo personale. Chi per primo mi avvicinò al calcio e me ne fece appassionare fu mio padre. Proprio con lui, nel 1962, ascoltai la radiocronaca della partita Cile Italia, ai mondiali che si tenevano nel paese sudamericano. La radiocronaca fu un esempio di linguaggio epico moderno. L’Italia, bistrattata da un arbitraggio scandaloso e menata niente male dai cileni, perse due a uno, fra gli alti lai del cronista. Purtroppo per Carosio, di quella partita il film esisteva e molti anni dopo, incuriosito, volli vederlo: l’esito fu grottesco. Carosio aveva trasformato una partita combattuta e che l’Italia aveva giustamente perso, in una battaglia campale, nel racconto della quale confluivano frustrazioni che con il calcio avevano poco a che vedere! Oggi le cronache come quella di cui sopra non sarebbero più possibili: la televisione non permette voli pindarici, le immagini smascherano facilmente la retorica e tutto sommato non è un male. Tuttavia, ogni nuova tecnologia e linguaggio ha la sua retorica e quella di oggi consiste in interminabili chiacchiere sul calcio, ma senza le invenzioni linguistiche che tenevano incollati i lettori agli articoli scritti dai grandi narratori o giornalisti di un tempo. Questo mi riporta al Soriano di Pensare con i piedi. È un libro complesso, che ci offre uno spaccato dell’Argentina con tutti i suoi immaginari: dal mito di Buenos Aires, al tango e naturalmente al calcio. Il nomadismo è un altro tema di fondo di questo romanzo picaresco, insieme alla particolarità della natura argentina, specialmente a sud, dove finisce il mondo, per parafrasare Bergoglio. Proprio nella valle del Rio Negro e in Patagonia, sono ambientati i capitoli finali che danno poi il titolo all’intero libro. Sono tre i racconti più importanti: Il rigore più lungo del mondo, Il figlio di Butch Cassidy e Finale con i rossi a Ushuaia, il capoluogo della provincia argentina della Terra del Fuoco. Difficile capire dove finisce la testimonianza e comincia il sogno, quando i personaggi sono inventati, oppure talmente realistici da superare ogni fantasia. Nei tre racconti succede di tutto, ma sull’ultimo in particolare mi soffermo: è la storia di un mondiale di calcio che si sarebbe svolto nel 1942, nella Patagonia argentina, giocato da fuoriusciti dai paesi in guerra e da chi si trovava in Argentina per motivi di lavoro. Secondo la ricostruzione di Soriano, pare che gli indiani mapuche, partecipanti anche loro al torneo, approfittando di una pausa, rubassero le porte dal campo di calcio per impedire la sconfitta della loro squadra! Tutto inventato? Forse no, perché la Fifa ha dichiarato di avere avuto notizia di quello strano torneo, ma di non essere in grado di dire chi lo vinse.
Il calcio oggi
Mi sono chiesto molte volte in che cosa consista il fascino del calcio e perché è diventato lo sport della globalizzazione come nessun altro, tanto da coinvolgere persino gli Stati Uniti. La domanda si ripropone oggi ancora di più perché siamo arrivati a un punto critico: il calcio maschile è in una crisi profonda e rischia di fare la fine della rana cinese di un famoso racconto, che a furia d’ingrassare finì per esplodere. Tenendo sullo sfondo questo scenario che riprenderò nelle conclusioni, provo a suggerire qualche risposta sul perché del fascino di questo gioco, come è nato e come si è evoluto nel tempo. Il football è lo sport moderno, democratico e di massa per eccellenza, legato alla fisicità del corpo, ma senza protesi: anche i casi di doping documentati dimostrano che non portano a nulla, nel senso che in un gioco collettivo con così tanti giocatori in campo, le dinamiche sono troppo complesse.1 La parola democratico forse stupirà, ma proverò a dimostrarlo. Altri due sport condividono lo stesso appeal, il ciclismo e un tempo anche il pugilato, ma il secondo è caduto molto rispetto a decenni fa nella popolarità. Il ciclismo è fatica e mantiene la sua capacità di mobilitare le folle, ma solo in certi momenti. Il calcio è stato lo sport della classe operaia, degli oratori nei paesi cattolici e dei campetti di periferia e sulle spiagge ovunque: per quella strada e nel tempo ha radunato intorno a sé masse di spettatori impensabili per qualunque altro sport: non stupisce che stia avvenendo anche per il calcio femminile, nonostante la scarsa copertura mediatica in Italia, ma non altrove. Quanto alle altre discipline, il paragone con le Olimpiadi della Grecia antica è proponibile solo per l’atletica leggera, perché la distanza fra gli atleti e l’uomo o la donna comuni è tanto grande quanto lo era allora. Vedendo correre Usein Bolt e Marcel Jacobs, assistere ai lanci di una giavellottista come Kelsey Lee Roberts, oppure vedere la campionessa di salto con l’asta Isimbaeva, la sensazione è di guardare delle statue in movimento: si può rimanere stupefatti, ma la distanza che ci separa da loro è incommensurabile: assomigliano di più agli dei di un moderno Olimpo che non a umani come noi. Chi gioca a calcio è diverso dagli altri, anche oggi che è cresciuto il tono atletico e questo vale anche per le donne. Abituati anche per via della pubblicità, ad ammirare i bicipiti di Cristiano Ronaldo, ci sfugge che il calciatore e la calciatrice media sono uomini e donne comuni, a volte persino bruttin*: è sufficiente guardare le formazioni quando le riprese televisive le inquadrano durante l’esecuzione degli inni nazionali. Il caso storico più eclatante, dolce e tragico al tempo medesimo, è quello di uno dei più grandi calciatori di sempre: il brasiliano Manoel Francisco dos Santos, detto Manè Garrincha. Nato nello stato di Pau, egli era un bambino della giungla, che viveva fra fiumi e foresta tropicale. Ingenuo fino poter sospettare una psicologia mai divenuta veramente adulta, fin da bambino fu afflitto da diversi difetti congeniti dovuti alla malnutrizione e addirittura – secondo alcune fonti – a una leggera forma di poliomielite. Oltre allo strabismo, Garrincha aveva la spina dorsale deformata da uno sbilanciamento del bacino, le ginocchia afflitte da disturbi congeniti e operate più volte. Infine, l’ultimo problema, addirittura stupefacente per un calciatore: una gamba sei centimetri più corta dell’altra, a causa di un’operazione! In quale altro sport avrebbe potuto eccellere? Eppure Garrincha fu fra i più grandi di sempre. Il soprannome gli viene proprio dal suo corpo gracile e gli fu dato dalla sorella: la garrincha è un piccolo uccello minuto e simpatico. Al campione brasiliano ha dedicato un racconto assai bello Ugo Riccarelli, lo scrittore romano purtroppo scomparso, nella sua più bella raccolta, intitolata L’angelo di Coppi. La sua storia è costellata di aneddoti che tutti brasiliani conoscono. Uno assai divertente accadde durante la cerimonia di premiazione nei mondiali del ’58 in Svezia. Mentre sfilavano sul palco d’onore Garrincha, del tutto estraneo a quanto stava accadendo e perso nel suo mondo, si rivolse al capitano della squadra chiedendogli:
“Ma cosa sta succedendo?”
“Manè, abbiamo vinto il mondiale” rispose il compagno sorpreso e lui di rimando:
“Sì, ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”
Per concludere
Ciò che ingrassa troppo il calcio maschile è notorio: il denaro, ma anche la pretesa che sia uno spettacolo a ciclo continuo, distribuito praticamente su tutti i giorni della settimana per poter alimentare il circo mediatico delle piattaforme. L’anno calcistico scorso e quanto accaduto in questa sessione estiva del mercato costituiscono una ulteriore accelerazione di questo fenomeno. Tuttavia, potrebbe non essere un male che l’Arabia Saudita diventi un cimitero degli elefanti sia per ex calciatori, sia per teleutenti che hanno voglia di spendere soldi per assistere a un finto campionato. Gli altri continueranno a guardare il calcio europeo, che tuttavia perde pubblico in continuazione. Il calcio femminile potrà rilanciare l’interesse verso il gioco? In Italia sembra di no, ma nel nostro caso abbiamo a che fare con lo stereotipo sessista che ha ben altre e più gravi manifestazioni in altri ambiti: dalla violenza maschile sulle donne, alla misoginia diffusa. Solo la rete televisiva LA7 trasmette la domenica una partita del campionato femminile di serie A. Il pregiudizio, poi, che non si tratti di vero calcio, pur non espresso, è largamente pensato. Eppure chi ha assistito all’ultima finale del mondiale femminile fra Inghilterra e Spagna dovrebbe convincersi che di calcio si tratta. Una partita bellissima e avvincente, meritatamente vinta dalla spagnole anche contro il loro allenatore e calciatrici spettacolari come Olga Carmona e specialmente Aitana Bonmatì. Brave anche le inglesi campionesse d’Europa, con una portiera straordinaria come Earps.
Come andrà a finire? È possibile che il calcio maschile esploda per i suoi debiti e gli stipendi esorbitanti, ma non sarà la fine del calcio. Anche in Italia le squadre con i conti a posto e che fanno campionati brillanti senza spendere molto ci sono già, specialmente in provincia. Qualche tonfo clamoroso ci sarà e c’è già stato: altri ne verranno e non sarà un male.
1 Vi è un altro aspetto della modernità nello sport e cioè le discipline motoristiche, che sono un altro mondo a se stante. Quanto al doping c’è una distinzione da fare fra il doping vero e proprio,i cui casi nel calcio sono molto limitati e l’uso di integratori che probabilmente è causa di patologie anche gravi ma che non erano e non sono considerati doping e sono largamente usati anche da chi fa sport dilettantistico.