GRAND TOUR: TRA FALISCHI E CIVITONICI

Civita Castellana. Forte Sangallo

All’ingresso di Civita Castellana si rimane colpiti dalla sua toponomastica: un richiamo continuo alla lotta antifascista e alla Repubblica romana del 1849. Targhe, vie e piazze; ma colpisce anche la storica insegna di una delle prime sezioni del Partito Socialista Italiano. Sono simboli presenti anche in altre città e paesi, ma qui l’occhio li registra in continuazione, segno di una densità che da altre parti non appare così evidente e se alcune intitolazioni sono canoniche (via Antonio Gramsci, per esempio), altre lo sono assai meno: Via Don Minzoni, via Martiri delle Fosse Ardeatine, Via Ugo Bassi, Via Anita Garibaldi. Non si tratta però solo di un culto rétro della memoria storica perché due vie sono intitolate a Salvador Allende e a Peppino Impastato. Nonostante il buon numero di chiese e le usuali vie dedicate a santi famosi o locali, si percepisce un sottofondo anticlericale che si avverte anche nei Castelli Romani, a Rocca di Papa, per esempio. La Repubblica del ‘49 non riguardò solo Roma città ma coinvolse una parte del territorio laziale; a differenza di Viterbo, molto più papalina per evidenti ragioni storiche. Una seconda vistosa caratteristica è che la città è orientata secondo l’asse est ovest e questo significa che il sole e la luce la dominano in tutte le ore del giorno. Infine, non manca di monumentalità, grazie al Forte Sangallo, che contiene fra l’altro un bellissimo museo etrusco che – insieme  a quello di Nepi forma un complesso di grande pregio; infine il Palazzo Falisco, con i suoi arredi preziosi e cinquecenteschi, oggi sede alberghiera di pregio. Civita è piena di altre sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. A ricordare tutto questo c’è un museo fra i più sorprendenti e degni di grande attenzione. A un’attenta osservazione, sembra di poter dire che si sono confrontate qui, come in altre parti d’Italia, due utopie. La prima è quella rivoluzionaria operaia, nelle sue diverse declinazioni – e relative concordanze e discordanze – che ha percorso l’Europa intera dalla metà del 1800 in poi. In Italia – e non saprei dire se ciò è accaduto anche altrove – ne è esistita un’altra, un’utopia del capitale incarnata a volte da figure che sembrano scambiarsi i ruoli: per esempio Casimiro Marcantoni, socialista della prima ora, poi imprenditore, attento al sociale, fondatore di cooperative e ispiratore di un modello gestionale dell’impresa basato sulla partecipazione dei lavoratori, sia in qualità di soci dell’azienda sia in altre forme cooperativistiche. Il nome di Marcantoni non è noto come altri, ma egli fu fra i primi di una stirpe che ha incarnato l’utopia del capitale di dar vita a una società organica legata al valore della produzione, naturalmente rigidamente divisa in classi, che dovevano tuttavia trovarsi a contatto e a una distanza stabilita e non arbitrariamente proiettata verso una sguaiata enormità senza limiti, legata alla pulsione più distruttiva e all’avidità, come è oggi sotto gli occhi di tutti nell’epoca del turbo capitalismo post borghese e post proletario. Fu l’utopia di Crespi (coevo più o meno di Marcantoni) che è ben visibile ancora oggi nell’idea costruttiva del villaggio omonimo alle porte di Milano. Poi fu l’utopia di Luisa Sargentini Spagnoli, anche lei quasi coeva; poi di Adriano Olivetti, Giovanni Pirelli e Giuseppe Luraghi, l’ultimo degno rappresentante di questa stirpe di imprenditori e imprenditrici. Fu un’utopia guardata con sospetto e in questo ostracismo si ritrovano uniti sia i perenni rivoluzionari senza rivoluzione, perché naturalmente si tratta di un’utopia del capitale, sia gli attuali piloti automatici del capitale che nulla ne sanno né vogliono sapere. Ovvio, quasi banale che fosse un’utopia padronale; eppure fu un intellettuale critico e anomalo come Franco Fortini a ricordare a noi ragazzi delle scuole superiori l’importanza di Adriano Olivetti, senza che questo gli impedisse, un paio di anni dopo, di essere uno fra i pochi intellettuali militanti degni di questo nome che seppe capire l’importanza dei movimenti nati intorno al ’68 e a parteciparvi direttamente e non dalla sua scrivania; persino con una radicalità che molti ventenni non avevano.1

Mi avvio verso il centro e l’occhio corre di nuovo ai nomi delle strade. La storia qui non è semplicemente passata; no, questa città ne è stata protagonista per un arco di tempo assai lungo, alla fine del quale la memoria non è un culto astratto, ma un indice della cura con cui una comunità custodisce se stessa. Le stesse lapidi, i nomi delle vie, superata la sorpresa del primo giorno, si offrono al mio sguardo in modo diverso, a cominciare da quella celebrativa di un famoso discorso che Ugo Bassi tenne nel 1848 dal balcone dell’attuale piazza Matteotti. Bassi fu un protagonista della Repubblica Romana insieme a Garibaldi e fu fucilato dagli austriaci nel 1849; fino alla targa dedicata a Giuseppe Di Vittorio e voluta dai lavoratori e dalle lavoratrici della ceramica iscritti alla CGIL. La storia non è acqua per chi la sa conservare e la fama di questa piccola città italiana ne fece una meta obbligata del Grand Tour. Goethe la visitò nel 1786, Corot vi dipinse paesaggi maestosi, Mozart fu ospite nel 1770 e suonò per i civitesi.

Nepi

Alla città si arriva con un bus di linea che da Civita ci mette poco meno di mezzora e ciò che mi colpisce di più arrivando è il contrasto fra le piccole dimensioni dell’abitato e la sua monumentalità, peraltro conservata in modo egregio, tanto che il pensiero corre per un istante a Viterbo e al suo centro storico. Proseguendo nella visita però mi rendo conto che lo scenario è differente perché alla potenza severa di alcune costruzioni se ne aggiungono altre in cui prevale l’esibizione di una forza e anche di un certo sfarzo che rimandano piuttosto ai Castelli Romani. Nepi mi sembra stare nel mezzo, sospesa fra due tempi storici diversi, ma la direzione verso cui guarda è quella delle lotte rinascimentali fra diverse casate, dalle quali emergeranno un buon numero di Papi: Vico e Colonna, Orsini e infine Borgia, cui si deve la possente Rocca fondata nel 1499, opera disegnata da  Sangallo II il vecchio. Anche il Forte Sangallo di Civita fu fondato dal Borgia e allora si comprende che Viterbo è lontana, nonostante i pochi chilometri che la separano da qui. L’esorbitante numero di chiese in un territorio piccolo la distanzia da Civita, pur così vicina: è il paradosso della terra italiana, dove tutto si mescola caoticamente, dove le linee divisorie passano da sentieri impervi che rompono e ricreano il tessuto sociale per faglie, come se la geografica sismica di tutte queste terre appenniniche avesse un’influenza diretta sulla storia e le vicende umane.

Ritorno a Roma

Campagna romana by Thomas Cole

Il bus finalmente arriva, siamo in pochi a salirvi e questa è una buona notizia. Un’altra sorpresa è il percorso diverso da quello che mi aspettavo: attraversiamo nuovi piccoli paesi, fino a Campagnano, che già conoscevo perché Michele e Francesca hanno proprio lì una casa. La campagna romana finisce bruscamente più volte e più volte si ha la sensazione di essere finalmente arrivati a Roma, ma poi, svoltato un angolo, ecco che di nuovo ci si perde in mezzo a casolari e sterpaglie. Al nuovo addensarsi di case compare finalmente anche il cartello: Roma. C’ero già stato da queste parti durante una delle tante incursioni periferiche. Ora percorro la Cassia al contrario e la città fa tutto un altro effetto. Roma è una metropoli continuamente interrotta da larghi spazi verdi, a volte brulli a volte boscosi: terre di nessuno che hanno una somiglianza con gli spazi vuoti di Berlino … Berlino e Roma: le due città sono gemellate. È normale che due capitali così importanti lo siano, ma la combinazione non è affatto scontata anche perché nell’esperienza europea dei gemellaggi, l’enfasi è solitamente posta sulle problematiche comuni, siano esse di carattere amministrativo e territoriale. La domanda, allora, si pone naturale: cosa possono avere in comune la metropoli più moderna d’Europa, dove l’edificio più antico risale alla metà del 1700, con la città eterna, la cui storia millenaria e stratificata si respira in ogni strada? Nulla sembrerebbe, a parte il fatto puramente formale di essere entrambe città che occupano un territorio vastissimo rispetto al numero di abitanti. A Roma la modernità – pure assai significativa – è tutta concentrata nelle geometrie dei palazzi dell’Eur, nell’ufficio della posta alla Piramide, nella ex Centrale Elettrica Montemartini, oggi trasformata in uno straordinario Museo e nel Gasometro. Se si vuole viaggiare molto indietro nel tempo, a Berlino, bisogna per forza varcare le porte di un Museo. Soltanto vivendole entrambe queste due metropoli, si arriva a comprendere, invece, che le ragioni del gemellaggio ci sono eccome, anche a prescindere dal loro essere due capitali! Provo a dirne alcune, naturalmente del tutto basate su un’esperienza puramente soggettiva, seppure fondata su una lunga frequentazione che anche il percorso del mio bus ripropone puntualmente. La prima. Nonostante la ricchezza di musei, teatri, auditorium, chiese, monumenti, offerta culturale di alto livello, Roma e Berlino vanno vissute open air. Passeggiare per le loro strade, scoprirne angoli, piazze, scorci di fiume e canali (Berlino ha più ponti di Venezia), è un’esperienza eccitante, anche quando può risultare estraniante: come, per esempio, quando capita di trovarsi, improvvisamente, in una periferia pasoliniana, oppure – a Berlino – nel mitico agglomerato urbano di Marzan, all’estrema periferia orientale dalla città. Diverse anche nel loro modo di essere estranianti, Roma e Berlino, tuttavia, si comprendono a distanza anche in questo.

Berlin. Treptower Park

La luce e il bosco. Ecco due altre affinità profonde e forse imprevedibili. In entrambe, i lampioni hanno qualcosa di antico e la luce che emanano è intima. A Berlino vi è una sola vistosa eccezione: la zona di K’Damm, dove prevale il gusto tutto statunitense del neon, uno sfavillio da luna park che contrasta con la luce soffusa di altre aree della città. K’Damm era la vetrina ricca e presuntuosa dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Oggi è rimasto il neon, per il resto la via è costellata di negozi delle maggiori e più rinomate case di moda, design e altro: ma sono vuoti a tutte le ore! Quanto alla luce naturale, pur agli antipodi, ancora una volta Roma e Berlino si comprendono, perché entrambe le città sono luoghi di luce estrema, abbacinante. La controra romana, i riflessi di certi soli sui monumenti, il riverbero di luce su paesaggi che oscillano fra rovine e natura, come al Parco degli Acquedotti, con i suoi monoliti di pietra cariati dal tempo, sono esperienze uniche: ma lo sono pure la luce del nord che penetra dentro la notte in estate e sembra non finire mai, oppure il buio che scende presto di pomeriggio durante il lungo inverno: e, ancora, il chiarore di certe albe estive alle quattro del mattino, immerse nel silenzio del sonno in piena luce sono  un’esperienza altrettanto grandiosa, come pure passeggiare in riva della Spree alle 21 di una sera di luglio, con il sole ancora alto e caldissimo, come mi capitò spesso, durante l’indimenticabile estate del 2010. Il bosco, poi, non il giardino! Non mancano quelli classici all’italiana o alla francese, ma gli spazi verdi che affascinano maggiormente hanno, in entrambe le città, un elemento irriducibile di selvatico, di presenza di una natura non domata. A Roma, questa caratteristica si coniuga spesso con la rovina archeologica, oppure il bosco è popolato da grotte che sono la continuazione di costruzioni che continuano a decadere da secoli, ma che, tuttavia, rimangono sempre in piedi. Parchi come quello della Caffarella, oppure il già citato degli Acquedotti o Appio Claudio, che ne sono quasi la continuazione, occupano una parte consistente del territorio urbano, tanto che della città si perdono un po’ le tracce quando ci si trova proprio nel mezzo; lo stesso per quello dell’Appia Antica che occupa un territorio ben più grande di quello più conosciuto ai lati della strada consolare, ma si insinua nel cuore della città come un bosco fatto di sentieri bellissimi e rovine. Non è diversa l’esperienza quando ci si aggira nel Tiergarten o a Treptower Park. Ci sono le strade sterrate e i sentieri, ampi, dove si cammina benissimo; ma tutto intorno, la natura è lasciata a se stessa, al suo naturale ricambio e gli interventi umani sono pochi e manutentivi. L’acqua dei canali scorre lenta sotto alberi secolari e salici e gli animali, scoiattoli, in primo luogo, si sentono a casa loro. A Berlino manca la rovina come siamo abituati a vederla anche nei dipinti ottocenteschi, ma in alcuni casi, come nel parco di Treptow, essa assume sembianze moderne, imprevedibili e a volte estranianti. Dal carro armato sovietico a un vecchio parco giochi con strutture che sembrano resti di astronavi, fino alla grande spianata dedicata ai soldati russi che contribuirono alla liberazione della città dal nazismo.

Intanto ho raggiunto la grande stazione di Saxa Rubra e salgo rapidamente su un autobus diretto nel centro. La giornata è bellissima e il bus che mi sta riportando nel centro storico di Roma sfiora Villa Doria Pamphili, uno dei luoghi romani che preferisco. Scendo e mi avvio verso l’ingresso e in un certo senso mi ritrovo a Civita Castellana: anticlericalismo e repubblica romana scandiscono la visita. La prima via, infatti, è intitolata a Bartolomeo Rozat, svizzero combattente per la Repubblica romana.      


1 Un’ampia e dettagliata riflessione sul nesso fra cultura industria e movimento operaio nell’Italia del secondo dopoguerra, si trova nel blog alla Rubrica cento fiori. Il saggio è diviso in tre parti intitolate: Arti e lettere nel ‘900 italiano: fra rivoluzione e industria.     

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Parte prima

PREMESSA.

Nel ‘900 italiano  ci sono delle peculiarità interessanti nei rapporti fra arti e industria, da un lato, arte e movimento operaio dall’altro. Si può parlare addirittura di una tradizione plurima che si è nutrita di ideali socialisti e utopie capitaliste, come quella dei Crespi, una famiglia di cotonieri di fine ‘800. Una tradizione esaurita, che ebbe notorietà fino alla fine degli anni ’70 e che fra l’altro ha diffuso anche in Italia l’interesse per l’archeologia industriale, assai più sviluppata in altri paesi europei.1 Gli esempi sono molti e distribuiti sull’intero secolo. Ne ho scelti alcuni perché meno noti di altri.

Crespi d’Adda. UNESCO. Lombardy. Italy. (Photo by: Giovanni Mereghetti/Education Images/Universal Images Group via Getty Images)

1 I cotonieri Crespi fondarono fra le altre cose anche il famoso villaggio che porta il loro nome e si trova a Trezzo d’Adda, a pochi chilometri da Milano. Furono i primi a incarnare una forma di utopia industriale fondata sul rapporto organico, seppure gerarchicamente definito, fra imprenditori, classe operaia e territorio: il villaggio ne è l’espressione emblematica, sia per la concezione architettonica che lo ispira, sia per l’ideologia che veicola e cioè l’idea di un corporativismo illuminato, con al centro la fabbrica, i quartieri operai vicino ad essa e dotati di servizi essenziali; nel punto più alto del villaggio l’abitazione della famiglia degli imprenditori e la chiesa. In rete sono facilmente disponibili siti che ne ricostruiscono la storia. La tradizione della famiglia continua in pieno ‘900 con Giulia Maria Crespi, proprietaria del Corriere della Sera e poi fondatrice del FAI.

PARTE PRIMA

Il centro Italia, fra artigianato e industria

La prima testimonianza nasce, in modo del tutto casuale, da una visita compiuta anni fa al Museo della Ceramica di Civita Castellana. La storia di questa cittadina laziale è emblematica per molte ragioni ed è piena di sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. Il Museo costituisce oggi la maggiore ricchezza della città, un esempio di cura dell’archeologia industriale e un prezioso concentrato, denso di storie che ne richiamano altre. Il Museo si trova all’interno della ex chiesa di san Giorgio, dove nel 1915-16 Ulderico Midossi aprì la Regia Scuola Professionale per l’Arte Ceramica. La tradizione falisca e civitonica, però, risale alla fine del diciottesimo secolo, quando fu fondata la fabbrica Treja per la produzione di vasellame e stoviglie. Dall’artigianato all’industria, il proliferare di piccole entità produttive continuò a crescere nel tempo. Il tornio divenne il cardine della produzione e un esemplare assai bello è conservato nella sala centrale del Museo: un manufatto degli anni ’50 che apparteneva a Osvaldo Cirioni, fondatore della ceramica MAISC. Il passaggio dalla manifattura alla fabbrica portò con sé anche un ulteriore salto di qualità verso la ceramica d’arte. Tale scelta, di cui fu sempre promotore Ulderico Midossi, diede nuovo impulso alla nascita di altre realtà produttive nei primi decenni del’900; tanto che la produzione evolse sempre più in quel senso. Artisti di fama internazionale come Duilio Cambellotti, Basilio Cascella e Assen Peikov furono coinvolti in diversi progetti; fino agli anni ’70 quando cominciò il declino e si tornò in parte a una produzione più legata all’arredamento domestico, per esempio con la produzione di sanitari. Proprio fra questi mi aggiro nella parte finale del Museo e l’occhio si sofferma sulla tazza del water closet di un colore rosso scuro, intenso e bellissimo. Il pensiero corre all’orinatoio di Duchamp e a tutto l’infinito dibattito sull’arte moderna, il design, il post moderno. Il gesto di Duchamp fu provocatorio perché a compierlo fu lui e con quel gesto iniziò il rovesciamento di valore fra l’opera e l’artista, a vantaggio del secondo: un rovesciamento che trasformò l’autore in un performer e anticipò la società narcisista o postmoderna di cui vediamo oggi gli esiti più nefasti. Un gesto come quello, infatti, non poteva che aprire la stura alla reiterazione di gesti analoghi che, nel loro essere prima di tutto delle trovate, finivano per diventare dei significanti senza più significati e senso. Fino al gesto più estremo e più intelligente di tutti: la merda d’artista di Manzoni che ebbe il merito d’indicare dove doveva per forza finire quel poderoso movimento dissacratore che ebbe in Duchamps un maestro – almeno in parte – involontario e in Andy Warhol il più grande di cattivi maestri del ‘900. Il gesto che sostituisce l’opera e che mette al primo posto il suo autore è forse il marchio distintivo dell’arte novecentesca in occidente, più dedita alla contemplazione della propria morte, ma che trova la sua origine anche nella mitologia dell’originalità ad ogni costo, che ha pure nel Romanticismo una delle sue lontane radici. La ricerca di un gesto o di una trovata che sia sempre più stupefacente del precedente, porta infatti a una nevrotica serialità e quindi alla pornografia; niente più di quest’ultima è tanto seriale da un lato, quanto sempre protesa a promettere qualcosa di nuovo ai suoi fruitori, dall’altro. Si tratta però di un nuovo impossibile, dal momento che essa non può che proporre una sequenza di pochi gesti identici a se stessi, spogliati di ogni magia e ridotti allo scheletro: come se si venisse invitati a un meraviglioso concerto e scoprire invece che si tratta della ripetizione ossessiva e senza soluzione di continuità della scala delle note musicali. Invece, quanta bellezza e quanta ironia nel bellissimo manufatto di Civita Castellana. Forse nessuno, per via del suo colore così volutamente vistoso,  si metterebbe in casa un oggetto che infondo deve solo raccogliere le deiezioni di un corpo umano; ma anche se così fosse, la tazza del water al Museo della ceramica di Civita Castellana si mostra e si offre nella sua gratuità, che è sempre un dono. L’oggetto di Duchamp, invece, visto nella sua proiezione storica e alla luce di quanto è accaduto dopo di esso (o di lui come sarebbe meglio dire) appare come un oggetto inutile.

Luisa sargentini Spagnoli

Il secondo esempio di rapporto virtuoso fra lavoro artigiano, arte e impresa, lo troviamo nell’esperienza di Luisa Sargentini Spagnoli, che fu una straordinaria protagonista dell’utopia industriale italiana. La sua storia particolarissima si presta a molte riflessioni, se non altro per l’epoca in cui è vissuta e anche perché se si facesse una domanda generica chiedendo a cento persone chi fosse Luisa Spagnoli, a quasi tutti verrebbe in mente la casa di moda e niente altro; tanto meno si ricorderebbero del suo cognome da ragazza. Invece, la famosa e prestigiosa casa fu fondata dai figli quando lei era già morta. La sua vera impresa fu precedente. Luisa Sargentini nacque a Perugia il 30 ottobre del 1877 e morì a Parigi nel 1935. Figlia di un pescivendolo e di una casalinga era una ragazza vivacissima e indipendente. Nel 1898 sposa Annibale Spagnoli e insieme rilevano la vecchia drogheria di un anziano negoziante con cui la giovane Luisa, fin da ragazzina, s’intratteneva durante le sue scorribande per la città, fra gli scherzi e le ragazzate che combinava insieme a un’amica cui rimarrà vicina per tutta la sua vita. Fu proprio questo anziano droghiere – in un certo senso un nonno acquisito – a spingerla a rilevare il negozio dopo la sua morte. L’anziano uomo si era reso ben conto delle sue capacità! Insieme al marito avviò un’attività dolciaria, la produzione di confetti. Il successo fu immediato. La mente imprenditoriale era la sua, ma ciò che più conta fu che Luisa Sargentini non dimenticò le proprie origini sociali. S’interrogò per esempio sul  motivo per cui le donne non potessero accedere al lavoro e si diede delle risposte ovvie per noi, ma che a quel tempo erano rivoluzionarie: non lavoravano perché non sapevano come conciliare la maternità con la professione e nessuno offriva loro soluzioni. Dalla produzione di confetti i coniugi Spagnoli passarono ad altri generi dolciari, ma la storia della drogheria cambiò radicalmente quando Luisa propose a Francesco Buitoni, produttore della famosa pasta, quella che oggi si chiamerebbe una joint venture: unificare in una sola azienda i loro prodotti. L’imprenditore si recò personalmente al negozio di Sargentini e del marito e da anziano fondatore d’imprese fu subito ammirato dall’efficienza e dalle sue capacità imprenditoriali. Accettò la proposta, non senza qualche resistenza da parte dei suoi figli, il maggiore in particolare. Insieme fondarono la Perugina che all’inizio della Prima Guerra Mondiale poteva contare su 15 dipendenti. Alla fine della Guerra i dipendenti saranno addirittura un centinaio ed è a questo punto che Luisa Sargentini Spagnoli convinse l’azienda a introdurre le innovazioni più rivoluzionarie nel rapporto con i dipendenti: l’asilo nido interno all’azienda e l’allattamento sul lavoro senza diminuzione di salario. Come aveva pensato, l’occupazione femminile aumentò e a queste misure se ne aggiungeranno altre di natura sociale, che riguarderanno i figli delle dipendenti. La guerra mutò radicalmente la sua vita e quella della famiglia. Il marito ritornò devastato dal fronte; inoltre, non avendo alcuno spirito imprenditoriale e un temperamento piuttosto da sognatore, (era un discreto musicista), si ritrovò ai margini dell’impresa, finché nel 1923 decise di ritirarsi anche perché nel frattempo era accaduto altro e cioè l’inizio della storia d’amore fra Luisa Sargentini e Giovanni Buitoni, il minore dei figli di Francesco e di lei assai più giovane. Oltre che essere un uomo brillante, Giovanni aveva uno spirito imprenditoriale simile a quello di Luisa. Sotto il loro impulso l’azienda crebbe ulteriormente, tanto da estendere il proprio raggio d’azione all’intero mercato nazionale, facendo concorrenza all’industria dolciaria torinese. Intorno all’azienda, tuttavia, fu creato anche un ambiente sociale che faceva della fabbrica un centro di aggregazione, d’iniziative culturali e ricreative che coinvolgevano la cittadinanza perugina ben oltre i confini della fabbrica. Fu Luisa Sargentini a inventare il Bacio e l’uovo pasquale con la sorpresa e altri gadgets di cui Giovanni Buitoni aveva studiato l’importanza, grazie ad alcune esperienze all’estero. L’immagine dei due innamorati dei Baci Perugina fu opera di Federico Seneca, che peraltro aveva già collaborato con Buitoni prima della joint venture del pastificio con Luisa Sargentini. Egli s’ispirò al quadro di Hayez Il Bacio. La storia d’amore fra i due è un capitolo a parte di tutta questa vicenda e merita a sua volta qualche attenzione. Quello che è straordinario nella loro relazione è che tutti gli uomini delle due famiglie, superato lo sgomento iniziale, accettarono la situazione e loro due furono molto determinati a proteggere la loro storia d’amore, ben nota alle stesse dipendenti, ma che non suscitò mai un vero scandalo. Luisa Sargentini Spagnoli morì nel 1935 per un tumore alla gola, probabilmente dovuto all’eccesso di consumo di dolci e assaggi (non c’era un solo prodotto che uscisse dall’azienda senza passare dal suo vaglio). L’idea della casa di moda nacque ancora una volta per caso e per una sua intuizione, sebbene Luisa coltivasse l’idea fin da ragazza.

coniglio d’angora

Si rese conto che i conigli d’angora che aveva ricevuto come regalo di natale, non erano solo animali da compagnia ma ancor più da curare amorevolmente e pettinare. Fu ancora una volta lei ad avere l’idea della tosatura per produrre lana d’angora e quindi maglioni e scialli di pregio. Fu una scelta virale, si direbbe oggi, tanto che a metà degli anni ’30 erano ben 8.000 gli allevatori che mandavano i loro conigli per la tosatura all’Angora Spagnoli, ormai sul punto di diventare una grande azienda. Luisa Sargentini morrà prima di vederla nascere, quasi all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Sarà il figlio Mario a guidarla ma con l’aiuto dello stesso Giovanni Buitoni e degli altri famigliari. Nel ’47 nascerà La città dell’angora a Perugia. Va ricordato, infine, che l’influenza delle sue idee non venne mai meno nella gestione dell’azienda, successive alla morte di lei. Nel periodo più duro della guerra gli Spagnoli regalarono ai loro dipendenti generi di vestiario per cifre ingenti per quell’epoca. Infine Giovanni Buitoni, pur ancora giovane, non si sposò e visse, come peraltro tutti gli altri uomini della famiglia, nel culto di Luisa Sargentini Spagnoli e delle sue imprese.2 Pur nella consapevolezza che stiamo parlando di un modello paternalista ma gestito al femminile anche dopo di lei –  rimane comunque giusto rilevare come le lavoratrici italiane abbiamo goduto di diritti simili e neppure tutti, solo durante la stagione degli anni ’70, grazie prima di tutto alle loro lotte e anche a quelle di quegli anni.  


2 Anche Umberto Boccioni ebbe un passato da cartellonista, eseguendo diversi lavori in merito. Uno degli artisti simbolo dell’Art Nouveau, Alfons Mucha, operò ampiamente in campo pubblicitario per diverse aziende, ma anche per il cinema, ad esempio. Era la routine per molti al tempo che si affermo ancora di più alla fine degli anni ’20 e poi ’30. Un’esperienza a parte, anche per la sua durata nel tempo, fu il sodalizio di Fortunato Depero con la Campari, che si manifestò sia nelle campagne pubblicitarie negli anni ’20 e ’30, sia del disegno della bottiglietta del Campari soda nel 1932.