IN DIFESA DI ISMENE. Terza parte
Terza parte: Sofocle fra Ananke e pietas
Abbiamo parlato molto fin qui dei personaggi, ma ancora troppo poco del loro creatore: occorre farlo tenendo conto della trilogia, cioè dell’intero ciclo della vicenda, che inizia con Laio e termina con la morte di Antigone. Sofocle è il drammaturgo di mezzo della grande triade che comprende anche Eschilo ed Euripide ma dei tre è forse quello più vicino a una concezione dell’essere umano greco del tutto dominato dal destino, ancor più di Eschilo. Più vicino, tuttavia, non vuole dire che anche in lui non vi siano delle rotture interne nel corso della sua opera e che sono anche il segno delle trasformazioni che stavano avvedendo nella società greca del tempo. Emerge nelle sue opere, un movimento pendolare: da un lato Ananke, il destino; dall’altro un andare verso una forma di pietas che apre uno spazio di libertà all’essere umano. Edipo Re sta a un estremo di tale oscillazione, Edipo a Colono sta sull’altro lato del pendolo: Antigone nel mezzo. Per ritornare a Sofocle, tuttavia, occorre anche un po’ dimenticare Freud. Vi è poco o nulla in Edipo Re che autorizzi l’interpretazione freudiana del medesimo, solo una mezza battuta di Giocasta che va tuttavia posta nel contesto della cultura greca.11 Gli inglesi hanno un’espressione che a me piace molto: hopeful monster. La traduzione italiana più corrente, è mostro fortunato, ma io ne preferisco una seconda: mostro di successo. Ecco, l’interpretazione freudiana della tragedia Edipo Re di Sofocle è un mostro di successo. Non voglio con questo sminuire Freud, se qualche psicoanalista intenderà le cose in questo modo mi dispiace; le sole osservazioni cliniche sui casi che trattava erano e sono più che sufficienti a delineare il complesso che lega – nella famiglia borghese del suo tempo in modo assai stringente, nella nostra un po’ meno – i figli ai propri genitori, senza alcun bisogno di ricorrere alla tragedia sofoclea. Freud ha spalancato una porta su un continente immenso da esplorare e per questo gli saremo sempre grati, tanto grati che a oltre cento anni dalla fondazione della psicoanalisi possiamo liberare Sofocle dall’abbraccio di Freud, ma continuare a seguirli entrambi sulle loro diverse strade: il mostro di successo può essere messo in letargo. Il protagonista assoluto di Edipo Re è Ananke, tutti i personaggi a cominciare da Edipo medesimo, sono stritolati da un meccanismo impersonale governato dal Destino e non dall’inconscio e il terribile fascino di quest’opera sta proprio nella perfezione di questa macchina che funziona a orologeria, tanto da diventare ipnotica anche per il lettore e lo spettatore. Essa funziona così bene che si dimenticano facilmente le numerose incongruenze del testo e anche se sappiamo come va a finire si ha sempre voglia di andare fino in fondo perché non si riesce a credervi che possa andare davvero così. Gli esseri umani in Edipo Re non possono scegliere se non le inezie, il libero arbitrio è un concetto inesistente, la psiche come la intendiamo oggi pure e di questa assenza e della presenza totalizzante di Ananke, Sofocle dà la rappresentazione più potente che sia stata scritta, almeno nella storia della drammaturgia occidentale. Non manca neppure in questa tragedia la stoltezza degli esseri umani ma essa svolge un ruolo minore che non in Antigone. Sono talmente piccoli gli umani in Edipo re, che non possono essere neppure troppo stolti, sono semplicemente travolti e infatti non vi è alcun accenno di pietas nel testo: essa è tutta affidata alla catarsi, cioè al rivivere insieme la vicenda nella dimensione pubblica e religiosa del teatro greco, mentre in altre tragedie – anche di Sofocle – la pietas è visibile anche nel testo, come per esempio proprio in Edipo a Colono. In Antigone, Sofocle sta sostanzialmente dalla parte del coro, non può dare del tutto ragione ad alcuno dei due e su questo concordo con Zagrebelsky. È questo il modo in cui prende le distanze da quella assolutezza del destino che invece è così forte in Edipo Re. Se la materia è politica, essa appartiene all’umano ed è soggetta a una discrezionalità, cui non è estranea la parola libertà. Infatti, persino una donna, la può trasgredire, pur essendo esclusa dal governo della città. L’oscillazione ci riporta all’impossibilità di una scelta, ma essa è tutta umana, gli dei sono sullo sfondo e non più al centro. La tragedia Antigone è prima di tutto governata dall’incapacità di fronteggiare una situazione inedita da parte di Creonte e da una ribellione – del tutto legittima – ma che finisce per rafforzare i suoi comportamenti più dissennati. Sofocle sa che la ribellione di Antigone è destinata a fallire e si tiene a una certa distanza, ma di certo tanto meno sposa la causa di Creonte, che fallirà a sua volta. La grandezza del testo sta ancora una volta nella drammatica oscillazione. In Antigone il dubbio è sovrano, ma Sofocle non può essere del tutto dalla parte della principessa, perché anche in lei alberga una buona dose di arroganza e di hybris, che Sofocle di certo non può sposare.12 La soluzione allora sarà un’altra: mettere Creonte di fronte alla sua hybris.
Creonte e Tiresia
Quando Tiresia si presenta da Creonte tutto è già avvenuto o quasi. E cosa gli dice? Da un lato gli fa un discorso pieno di buon senso, che ancora di più fa risaltare la circostanza che forse tutta la vicenda è dominata da una serie di atti sconsiderati, alcuni dei quali pure maldestri, che hanno suscitato una reazione a catena che nessuno riesce più a fermare. Come mai ci riesce Tiresia quando è troppo tardi? Se ci pensiamo un momento, tutto questo è paradossale. Creonte non era l’inflessibile esecutore della legge? Non era l’uomo della legge fredda, per citare Zagrebelsky, contrapposto ad Antigone che seguirebbe invece, secondo le diverse interpretazioni che abbiamo visto, la legge degli dei, quella del sangue o dell’Ade, gli usi e le tradizioni? E perché allora quest’uomo di legge tutto d’un pezzo collassa di colpo di fronte alle parole di un indovino, di un veggente, cioè di un personaggio che fa da tramite proprio con il mondo degli dei o con quello del sottosuolo? Non era Antigone a contatto con quel mondo? Di colpo, davanti a Tiresia, Creonte non è più lui e in una rapidissima sequenza di pentimenti e di sgomenti, cerca maldestramente di salvare Antigone quando è ormai troppo tardi; ma specialmente, ciò che emerge è che fin dall’inizio non è stato in grado di prevedere le conseguenze del suo gesto, proprio perché governato dal panico e da una formazione reattiva. Distruggendo i suoi legami famigliari è lui a innescare una reazione a catena che porterà alla morte di Emone, poi a quella di sua madre Euridice, nonché sposa di Creonte. Il re, alla fine, rimane con la sua legge fredda e niente altro. Essa infatti non può ignorare del tutto usi, costumi e tradizioni, ma specialmente non può legiferare su ciò che appartiene al mondo che sta aldilà: Creonte ha preteso di legiferare sul mondo degli dei! Questo è il contenuto saliente del discorso di Tiresia, che ha in sé anche un piccolo escamotage retorico che permette a Sofocle di scegliere Antigone come eroina, creando però una asimmetria fra i due destini, in parte comuni. In sostanza, ma solo in ultima analisi, Sofocle assegna la priorità alle leggi non scritte.
Il discorso di Antigone
Quando Antigone si avvia verso la morte, pronuncia il suo discorso più sereno, nonostante il dolore. Ha perso molta della sua hybris, non vi è più traccia di arroganza, ma specialmente dismette la parte reattiva di sé, che infondo colludeva con quella di Creonte. Ciò che dice permette di cogliere la sua azione in tutta la sua complessità e di capire che non sono arbitrarie le diverse interpretazioni del suo comportamento che si sono succedute nei secoli, perché in questo brano ci sono tutte le possibilità. Ciò che tuttavia aggiunge in questo canto finale e che prima non emerge con questa pregnanza, sta forse in questa parte del lungo monologo, in cui si rivolge direttamente a Polinice e ai cittadini di Tebe e non più a Creonte:
…. E anche ora Polinice, per avere coperto il tuo corpo questa sorte ottengo. Eppure io ti resi onore giustamente, per chi ha senno. Infatti mai se fossi divenuta madre di figli, né se fosse stato il cadavere di mio marito a corrompersi, io mi sarei assunta questo ufficio contro il volere dei cittadini. E in forza di quale principio lo affermo? Morto il marito ne avrei avuto un altro; da un altro uomo avrei avuto un figlio, se quello mi fosse mancato; ma ora che mio padre e mia madre sono infondo all’Ade non è mai più possibile che mi nasca un fratello. Eppure poiché secondo questa legge ti ho prontamente onorato, è sembrato a Creonte che questa fosse una colpa…13
Nessuno può ridarmi un fratello, dunque se io non fossi intervenuta – ed ero la sola a poterlo fare – Polinice sarebbe stato condannato in eterno a non trovare requie nel mondo dei morti. Non bisogna dimenticare un’altra battuta che si trova in modo esplicito nell’Aiace, ma che aleggia anche qui più volte e un po’ in tutte le tragedie sofoclee. La cito a memoria: è maggiore il tempo che trascorrerò nell’Ade che non quello che trascorrerò qui. Dunque aveva ragione Hegel a sostenere che, in ultima analisi, in Antigone prevale la legge del sangue, non quella degli dei, anche se pure in lui vi è un accenno all’interpretazione cristiana; ma tale legge non può essere asfitticamente intesa solo come un attaccamento alle tradizioni. Il fratello, la sorella, sono un legame diverso perché per l’altro o l’altra della coppia fraterna, la perdita è irreversibile per chi non ha più i genitori e dunque la responsabilità nei confronti del congiunto è massima. Dunque, l’interpretazione hegeliana sembra resistere anche alle suggestive ipotesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. O forse non del tutto.
Il ritorno di Ismene
Non ci siamo dimenticati di Ismene. Cosa pensa di lei il suo autore? Non c’è un giudizio diretto in Sofocle. Nella prima parte della tragedia, nei colloqui con la sorella, Ismene dice cose di buon senso che, se da un lato ne rivelano la limitatezza, dall’altro fanno emergere l’incapacità di ascolto da parte di Antigone, che ha già deciso tutto e non si è rivolta alla sorella per dialogare con lei ma solo per saggiare la sua eventuale complicità nell’impresa che sta per compiere. La tensione drammatica dei loro colloqui fa emergere in modo netto la differenza di caratteri, ma infondo è proprio questo che Sofocle si proponeva di fare e niente di più. La mossa decisiva è un’altra: toglierla dalla grande storia nel momento cruciale della tragedia, ma subito dopo quella sequenza di battute in cui è lei a cercare di dare all’intera vicenda un finale diverso. Il silenzio e la zona d’ombra nella quale viene relegata e dove anche il suo destino diventa irrilevante, è dunque il silenzio di chi non è e non può essere nella storia. Sofocle non poteva andare oltre ciò e neppure la comunità che gli aveva commissionato la tragedia, ma noi possiamo farlo e domandarci se c’è qualcosa nell’essere fuori dalla storia di Ismene che oggi può parlarci, senza per questo rovesciare le parti. L’inaudito che è sotto gli occhi di tutti – come la Lettera rubata di Poe – non sarà allora proprio che le donne sono escluse dalla polis, dal governo della città? Ismene sceglie di non attraversare quella soglia, anche nel momento in cui si autoaccusa insieme alla sorella di un atto che non ha commesso. Antigone se ne stupisce, ma solo perché non l’ha mai ascoltata. La ragione di quel suo gesto, infatti, non sta in una tardiva complicità eroica con la sorella, ma deriva da una tragica constatazione che era emersa con chiarezza nei loro dialoghi. Quando nelle prime battute del testo Antigone le chiede se sia a conoscenza dell’editto di Creonte e della nuova disgrazia che si è abbattuta su di loro, Ismene così risponde:
Nessuna nuova, né trista né lieta,
dei nostri amici, Antigone, mi giunse,
da quando entrambe noi di due fratelli
orbe restammo, in un sol giorno uccisi
con reciproca mano. E poi che lungi
la scorsa notte andò l’argivo esercito,
io null’altro mi so: né piú felice
né sventurata piú di pria mi reputo.
Che male maggiore ci può essere oltre le disgrazie già accadute? Ismene se lo chiede e lo domanda alla sorella; lo ribadirà quando capirà cosa intende fare Antigone. Quando si auto accusa, dunque, lo fa perché – coerente con quando ha detto fin dall’inizio – la sua vita senza i fratelli e ora anche senza Antigone condannata a morte, non ha più alcun senso. Ismene, in sostanza, si sottrae al modello eroico ed è il solo personaggio a farlo. Emone, una volta compreso che la sua tattica di ammansire il padre fallisce, si toglie la vita e lo stesso farà Euridice sua madre e sposa di Creonte quando saprà del suicidio del figlio. Anche loro rimangono aggrappati al modello eroico, seppure come eroi minori. Antigone, in quanto donna che si batte in un contesto dove non può andare con le proprie forze oltre di esso, rimane una figura grandiosa dentro una società patriarcale, che quel ruolo riserva alle donne. Tuttavia, proprio l’interpretazione hegeliana della tragedia sofoclea, richiama la necessità di un passo ulteriore. Se la posizione di entrambi i due protagonisti maggiori è legittima, come Hegel riconosce, ciò equivale a dire che c’è un’anomalia di fondo nella legge. Come si può dire a qualcuno sei nella polis da qui fin qui, ma da lì in poi ne sei fuori? Sofocle e la comunità tebana non erano in grado di risolvere quella anomalia, ma la grandezza dell’arte di Sofocle vi accenna. Hegel avrebbe potuto farlo, visto che ci va vicino, ma poi si tira indietro. Le costituzioni hanno fatto un ulteriore passo in avanti, ma neppure quelle hanno risolto il problema. Forse allora la vera novità odierna è che il silenzio di Ismene è stato rotto. Ismene è tornata, anche perché forse non è mai morta, neppure nel paradossale finale della tragedia! Di lei non sappiamo più nulla, dopo che Creonte ha dato l’ordine di riportare le due donne legate nella reggia e non c’è un’esplicita condanna che la riguardi: possiamo anche pensare che si sia tolta la vita come ha minacciato di fare, ma anche no, perché il testo non afferma nulla in proposito e forse con un ultimo magistrale colpo d’ala, Sofocle la colloca in una specie di limbo.14
Ismene è tornata; ma non più come versione al femminile dell’Io ipertrofico degli eroi, bensì come donna comune che prende la parola collettivamente, dunque immagine di un possibile noi in un mondo che non è mai stato suo. Karola Rakete e Greta Thunberg, molto più che Antigoni, sono questo noi, che potrebbe anche liberare i maschi (se sapranno ascoltarle) dalla schiavitù della sottomissione al fantasma del padre primitivo, che abbia o meno le sembianze di un dio personale o di un rivoluzionario di professione.
11 La battuta cui mi riferisco è la seguente: E che cosa dovrebbe temere un uomo in balia del caso, senza chiara previsione di nulla?Meglio vivere alla ventura, come si può. Tu non temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria madre; ma chi non dà nessun valore a queste cose, vive più facilmente. Ho scelto la traduzione di Cantarella, op.cit. pag.109.
12 L’arroganza di Antigone è più visibile nella prima parte della tragedia, nei colloqui con Ismene, di cui però non mi sono occupato in questo scritto perché non così rilevante rispetto alle tesi centrali che si volevano prendere in considerazione.
13 Ho scelto la traduzione di Cantarella, op. cit. pag 319.
14 Rileggendo il finale mi sono chiesto più volte cosa mai avrebbero potuto dirsi Creonte e Ismene ritrovandosi faccia a faccia nella reggia qualche giorno dopo.