NOBEL MANCATI: FABRIZIO DE ANDRÈ

Questo saggio fu pubblicato nel blog Diepicanuova – http://diepicanuova.blogspot.com, – fondato da Paolo Rabissi e da me. L’occasione, allora, fu il dibattito che nacque dopo l’attribuzione del Nobel della letteratura a Bob Dylan, dibattito che si trova e può essere letto nel sito Diepicanuova. Lo ripropongo qui in memoria di Fabrizio de Andrè, nei giorni ci ricordano la sua precoce morte.

Premessa.

L’attribuzione del Nobel a Bob Dylan è ormai metabolizzata alle nostre spalle da tempo e siamo ritornati negli alvei consueti, tutto passa in fretta. Contagiato dalla lentezza, però, ho continuato a ragionare sul senso che possa avere l’assegnare alla canzone d’autore un valore che sia anche letterario. La questione ha una sua importanza, checché ne pensino i poeti laureati, anche perché esistono culture diverse dalle nostre, seppure parenti strette (penso all’America Latina), dove hanno opinioni molto diverse in merito. Così, di riflessione in riflessione, mi sono ritrovato a domandarmi che cosa abbia Fabrizio De Andrè meno di Bob Dylan per essere considerato nel Pantheon degli esponenti maggiori del genere e perché no – visto il precedente illustre – anche meritevole di un riconoscimento letterario. Ho cominciato allora ad ascoltare di nuovo De Andrè, album dopo album, convinto come sono che le antologie (anche quelle di poesia) sono importanti per dare il senso di un periodo letterario, ma sono bugiarde quando sono la rassegna dedicata a un solo autore. Gli album sono come i libri per un autore di canzoni: entrambi sono organismi autonomi e non semplicemente una sequenza di testi e canzoni. Le antologie, invece, tendono per forza di cose a scegliere fior da fiore, ma in questo modo si perde il lavorio che sta alle spalle di un libro come di un album, ma anche a considerare minori delle canzoni o poesie che non lo sono affatto.

La prima fase

Il primo album registrato da De Andrè, nonostante alcuni 45 giri precedenti e un long playing, è Volume 1 del 1967, un titolo anodino ma anche leggibile oggi in altro modo. A un semplice ascolto dopo tanto tempo, l’impressione è grande. Durante gli anni ’60 ci sono state molteplici rotture culturali e politiche. Nel campo della canzone ebbero di certo la loro importanza Modugno e i cantautori genovesi; inoltre, c’era stata la polemica di Calvino, Pasolini e Fortini contro il Festival di Sanremo, che aveva portato fra l’altro al rilancio della canzone popolare e operaia con Cantacronache e poi il Nuovo Canzoniere di Michele Straniero. Si trattò di operazioni meritevoli, ma con lo sguardo rivolto a un passato che andava di certo conservato, ma che non poteva avere alcun impatto sulla cultura di massa che si stava formando: lo avrebbe avuto dopo il ’68 per ragioni politiche. Il festival di Sanremo non andava aggredito per contrapposizione e Pasolini fu il primo ad accorgersene quando ammise (cito a memoria) che niente altro poteva rappresentare l’estate del 1964 meglio di Sapore di sale di Gino Paoli. Occorreva un’operazione diversa e cioè portare la canzone popolare e di massa a un livello più elevato anche dal punto di vista dei testi, togliendo così centralità al Festival. Ascoltando il primo album di De Andrè, si coglie il senso di una frattura profonda con quanto si cantava in precedenza; a cominciare da Preghiera di gennaio, la canzone d’apertura che egli scrisse dopo il funerale di Luigi Tenco. Versi in difesa dei suicidi come:

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero […] perché non c’è l’Inferno nel mondo del buon Dio […] l’Inferno esiste solo per chi ne ha paura

aprono un orizzonte nuovo e se pensiamo proprio al confronto con Tenco medesimo e aldilà della loro amicizia, la separazione dal gruppo genovese è netta. Iniziò allora una stagione veramente importante, anche grazie all’intuizione di Amilcare Rambaldi, che seppe metabolizzare la morte di Tenco fondando il club omonimo che divenne il polo intorno al quale cominciò a coagularsi il meglio della musica italiana d’autore. L’operazione ebbe anche un successo commerciale, visto che si vendeva e si ascoltava di più quello che non andava a Sanremo piuttosto che quello che ci andava.  

L’album contiene alcuni dei suoi brani memorabili come Bocca di Rosa e la Ballata di Re Carlo, tuttavia è sulla sua prima parte che vorrei soffermarmi, perché in essa è presente la visione di un cristianesimo anti istituzionale che ricorda l’analoga operazione compiuta da Dario Fo più o meno negli stessi anni: distaccare la figura di Gesù da ogni orpello chiesastico. Mi riferisco a brani come la già citata Preghiera di gennaio, Spiritual e Si chiamava Gesù. Questo tema di un cristianesimo vagamente anarchico e antistituzionale, fondato anche sui Vangeli Apocrifi, che tanto entusiasmava un uomo e un sacerdote come Don Andrea Gallo, verrà ripreso da De Andrè anche in alcuni degli album successivi e prima di tutto in La buona novella.

Nella seconda parte di Volume 1, con Via del Campo, entrano in gioco i temi che saranno – in ogni album – i suoi più forti: gli emarginati, gli anarchici, i ribelli, le puttane e i loro clienti, la critica dell’ipocrisia e del perbenismo borghesi, il rifiuto di ogni potere e della sua giustizia (“non ci sono poteri buoni”).

Dall’esistenzialismo alla ribellione

Il contesto sociale che fa da sfondo alla poetica di De Andrè durante il corso degli anni ’60 è la Genova città di porto più che terzo polo industriale del triangolo: con le sue taverne più che non le sue industrie, la famosa via Prè che corre in parallelo alle grandi strade, che si apre ad altri vicoli e ai suoi umori e personaggi. Questa realtà però si tinge di colori espressionisti e visionari, sia risalendo a fonti letterarie come Villon e Angiolieri, sia andando indietro nel tempo, riscoprendo sonorità a ritmi che si richiamano a un medioevo genericamente inteso o comunque rivolti a un passato che a Genova è stato peraltro assai fiorente. Nella Genova contemporanea, come altrove, prevalevano – negli artisti più inquieti – gli umori esistenzialisti, i riferimenti erano Parigi, Prevert, Sarte ma, specialmente per il gruppo genovese, Juliette Greco, Brel e Brassens. Nel tempo, però, tali umori diventarono una gabbia per la maggioranza di loro, dalla quale non usciranno mai. Per tutti l’estenuato Tenco, il cui tragico destino non può far dimenticare, a decenni di distanza, la sua troppo esibita malinconia esistenziale, condita da quantità industriali di narcisismo. In Italia stavano cambiando molte cose e il solo a uscire dalla gabbia fu proprio De Andrè, perché già in origine la sua poetica si nutriva di riferimenti che spaziavano in molteplici direzioni, fra cui la poesia. De Andrè non fu vicino al ’68 perché troppo lontano da ogni tentazione militante, tanto da essere ritenuto addirittura una spia dalle componenti più settarie e idiote delle nascenti forze partitiche extra parlamentari; il paradosso sta nel fatto che anni più tardi fu proprio lui a diventare oggetto delle attenzioni dei servizi segreti! Egli seppe però cogliere il cambiamento, scegliendo anche nei suoi riferimenti d’oltralpe, chi anche in quel contesto sapeva interpretare meglio lo spirito dei tempi: Vian piuttosto che l’eterno adolescente Prevert.        

Gli album successivi al primo riflettono questi mutamenti, sia per la concentrazione in pochi anni, sia per i toni espressivi interni a ciascuno di essi, tanto da segnare il passaggio dagli esordi a una prima fase di maturità: Tutti morimmo a stento (1968), Volume III, sempre del ’68; poi Nuvole barocche (1969), che comprende anche tutte le canzoni precedenti l’anno d’esordio. Questo ciclo si conclude nel 1973 con Vita di un impiegato, ma a metà di esso e cioè nel 1971, si colloca Non al denaro, non l’album minore di questo periodo, nonostante La canzone dell’amore perduto peraltro presente anche in altri long playing. Volume III contiene alcuni dei suoi capolavori fra cui un’impareggiabile versione de Il Gorilla di Brassens, La guerra di Piero, Amore che viene amore che va.

Tuttavia, è sull’ultimo album di questo periodo, Storia di un impiegato, che mi sembra utile soffermarsi, perché si distanzia dai precedenti proprio perché affronta criticamente e anni dopo, il movimento del ’68 e tutto quanto se sortì. La critica di sinistra lo accolse male ma anche al di fuori di quell’ambito, fu considerato un flop. De André stesso in un’intervista, ne parlò in questo modo:

 La “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.

Nella dichiarazione di cui sopra c’è quasi tutto, nel senso che emerge da essa la difficoltà di De Andrè nel rapportarsi ai movimenti di quegli anni, ad affrontare direttamente una tematica politica ma anche l’onestà intellettuale di avere cercato di farlo. La scelta stessa di scrivere la storia di un impiegato rivela prima di tutto la sua difficoltà a rapportarsi con la classe operaia; a differenza di Jannacci a Milano, per esempio. Anche nelle canzoni di quest’ultimo non mancano barboni, prostitute e clienti, solo che tali figure assumono maggiormente aspetti caricaturali e comici, mentre i veri personaggi drammatici delle canzoni più alte di Jannacci sono le vincenzine, cioè le operaie, le commesse, le lavoratrici che diventano metafora della fatica proletaria. Nonostante vivesse nella città dei portuali che nel 1960 erano stati protagonisti di una memorabile stagione di lotta che apriva il decennio che avrebbe portato al ’68, De Andrè non li vede, forse non è in grado di vederli perché il suo occhio vede altro. Tuttavia, era proprio così sbagliata l’idea di mettere un impiegato al centro della scena? Uno degli aspetti nuovi delle lotte di quegli anni non era forse costituito proprio dalla presenza di un forte movimento studentesco e di una saldatura fra operai, impiegati e tecnici dentro le fabbriche? A Milano, in anni precedenti, gli impiegati, le commesse, i goliardi delle serali, non erano forse stati i protagonisti del poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarani e de La capitale del Nord di Giancarlo Majorino? Non sarà proprio un perito tecnico impiegato alla Sit Siemens a diventare il leader delle Brigate Rosse? Allora, al netto di certe prese di posizione troppo emotivamente datate, si può affermare ad anni di distanza che si tratta di un album minore rispetto a quelli citati in precedenza, ma che in esso è presente un testo come Il bombarolo, che, proprio nella sua ambivalenza, indica una possibile parabola che accompagnò il decennio ‘70 come una nuvola scura. La radicalizzazione un po’ astratta e troppo recente da parte di ceti in ombra fino a un decennio prima, poteva portare anche a derive di varia natura. Parlo di ambivalenza perché Il bombarolo incarna una figura estrema e opaca al tempo stesso, che poteva prestarsi o essere usato sia a sinistra sia a destra. Se vi è una eco, nella canzone, delle tendenze anarchiche De Andrè, il personaggio appare segnato da un’ambiguità che lo corrode dall’interno.

Chi va dicendo in giro/che odio il mio lavoro/non sa con quanto amore/mi dedico al tritolo,/è quasi indipendente/ancora poche ore/poi gli darò la voce/il detonatore.//Il mio Pinocchio fragile/parente artigianale/di ordigni costruiti/su scala industriale/di me non farà mai/un cavaliere del lavoro,/io sono d’un’altra razza,/son bombarolo.//Nello scendere le scale/ci metto più attenzione,/sarebbe imperdonabile/giustiziarmi sul portone/proprio nel giorno in cui/la decisione è mia/sulla condanna a morte o l’amnistia.//Per strada tante facce/non hanno un bel colore,/qui chi non terrorizza/si ammala di terrore,/c’è chi aspetta la pioggia/per non piangere da solo,/io sono d’un altro avviso,/son bombarolo.//Intellettuali d’oggi/idioti di domani/ridatemi il cervello/che basta alle mie mani,/profeti molto acrobati/della rivoluzione/oggi farò da me/senza lezione.//Vi scoverò i nemici/per voi così distanti/e dopo averli uccisi/sarò fra i latitanti/ma finché li cerco io/i latitanti sono loro,/ho scelto un’altra scuola,/son bombarolo.//Potere troppe volte/delegato ad altre mani,/ sganciato e restituitoci/dai tuoi aeroplani,/io vengo a restituirti/un po’ del tuo terrore/del tuo disordine/del tuo rumore.//Così pensava forte/un trentenne disperato/se non del tutto giusto/quasi niente sbagliato,/cercando il luogo idoneo/adatto al suo tritolo,/insomma il posto degno/d’un bombarolo./C’è chi lo vide ridere/davanti al Parlamento/aspettando l’esplosione/che provasse il suo talento,/c’è chi lo vide piangere/un torrente di vocali/vedendo esplodere/un chiosco di giornali. //Ma ciò che lo ferì/profondamente nell’orgoglio/fu l’immagine di lei/che si sporgeva da ogni foglio /lontana dal ridicolo/in cui lo lasciò solo,/ma in prima pagina/col bombarolo.

Forse, concludendo questa parte si può dire che non era nelle sue corde affrontare di petto una tematica politica e che i conti con il ’68 li aveva già fatti, a modo suo, altrove, nella riscrittura dell’Antologia di Spoon River.

L’album chiuse un periodo dalla sua produzione, cui seguì una lunga crisi creativa, che tuttavia vide anche l’inizio di nuove collaborazioni proficue (con De Gregori e più tardi con Bubola), traduzioni di canzoni di Cohen, Dylan e altri e una serie di pubbliche esibizioni. Non intendo in questa riflessione seguire un percorso storicistico e dunque salto direttamente all’ultimo De Andrè, quello di Crêuza de mä (1984) e di Anime salve (1996), sebbene nel mezzo un album come Rimini (1978), sia tutt’altro che disprezzabile.

I grandi album

Il vertice dell’opera di De Andrè si trova a mio avviso nei due ultimi album e in quello già citato del 1971: Non al denaro, non all’amore né al cielo.

Crêuza de mä è un’opera del tutto nuova rispetto alle precedenti, che apriva una strada interrotta purtroppo dalla precoce morte: l’attenzione verso la musica etnica, le sonorità mediterranee e le lingue minori. La scelta di scrivere i testi in genovese lo testimonia. Non sono in grado, mi mancano le competenze per farlo, di valutare quale apporto linguistico esso dia alla koinè ligure e genovese che, ancora negli anni ’60, esprimeva autori che andavano ben oltre la commedia dialettale nel teatro (Govi) e che avrebbe espresso poeti come Roberto Giannoni e Paolo Bertolani. Da semplice ascoltatore c’è un dato sorprendente che mi ha colpito subito: il mare, in fondo poco presente nella produzione precedente di De Andrè, diventa il primo protagonista di questo album, un mare che si avverte prima di tutto nelle cadenze ritmiche della partitura musicale. Il merito, in questo caso, non è soltanto suo ma anche di Mauro Pagani.

Anime salve è una lunga meditazione sulla vita e sulla morte, dove precipitano in un’opera compatta e rigorosa tutti i temi della sua poetica, ma anche i diversi stili e timbri musicali, in questo aiutato dalla collaborazione con Ivano Fossati. Viene ribadita anche l’attenzione verso le sonorità mediterranee e le lingue minori (Â cúmba è scritta in genovese). Prinçesa, il brano d’apertura, ci dice fra l’altro quanto tempo sia passato dalle taverne di via Prè, dagli emarginati dei vicoli genovesi, dal porto ormai in parziale disarmo. Lo scenario è diventato globale e De Andrè lo coglie nella storia di un bambino brasiliano che si sente donna e si sottopone a tutta la trafila di dolore e umiliazioni possibili fino ad approdare fra le braccia di un avvocato milanese: l’alternarsi della lingua italiana con quella brasiliana riprende nel testo l’attenzione vero gli altri idiomi di cui si è detto.

Il sodalizio fra Fabrizio De Andrè e Fernanda Pivano nacque intorno all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e portò all’album che a mio avviso è il suo più grande: Non al denaro, né all’amore né al cielo (1971). Pivano in alcune interviste disse che De Andrè, in alcuni casi, aveva fatto anche meglio del poeta statunitense. La critica milanese amava di certo le iperboli, ma in questo caso mi sento di condividere quello che afferma. De Andrè non traduce i testi ma li riscrive, rispettando solo il pilastro fondamentale su cui si regge l’opera di Masters: la riproposizione in chiave moderna della dantesca legge del contrappasso, fondata sulla similitudine piuttosto che sulla metafora. Per il resto compie un’operazione del tutto diversa e in una direzione opposta. Masters scrisse una commedia umana in versi, fondata sull’equilibrio fra il microcosmo (la piccola comunità di un paese) e il macrocosmo che consiste nella dilatazione delle vicende, delle tipologie umane fino ad abbracciare per intero quella comunità, ma anche alludere a un’infinità di situazioni diverse: il piccolo paese diventa così un’allegoria dell’umanità intera. Perciò l’Antologia è una narrazione epico-lirica, a tratti sapienziale, che ritorna sulle stesse situazioni e tipologie di personaggi più volte. De André, dopo l’omaggio a tutti i defunti della comunità nel brano di apertura (La collina), distilla al massimo, riducendo la sua opera a un solo testo emblematico per ogni tipologia e situazione: una scelta metonimica, che mantiene, anzi esalta, la similitudine e la legge del contrappasso. De Andrè riesce a tenere in tutto l’album un livello altissimo di tensione. Non vi sono brani minori in questo album, governato da una rigorosa unità di stile e di scelte. Per darne un esempio, dunque seguirò semplicemente il mio gusto, scegliendo un testo soltanto, che riprende uno dei temi più cari di De Andrè fin dal primo album: la diffidenza verso ogni forma di potere giudiziario:  

Un Giudice

Cosa vuol dire avere/un metro e mezzo di statura,/ve lo rivelan gli occhi/e le battute della gente,/o la curiosità/d’una ragazza irriverente/che vi avvicina solo/per un suo dubbio impertinente://vuole scoprir se è vero/quanto si dice intorno ai nani,/che siano i più forniti/della virtù meno apparente,/fra tutte le virtù /la più indecente.//Passano gli anni, i mesi,/e se li conti anche i minuti,/è triste trovarsi adulti/senza essere cresciuti;/la maldicenza insiste,/batte la lingua sul tamburo/fino a dire che un nano/è una carogna di sicuro/perché ha il cuore troppo/troppo vicino al buco del culo.//Fu nelle notti insonni/vegliate al lume del rancore/che preparai gli esami/diventai procuratore/per imboccar la strada/che dalle panche d’una cattedrale/porta alla sacrestia/quindi alla cattedra d’un tribunale/giudice finalmente,/arbitro in terra del bene e del male.//E allora la mia statura/non dispensò più buonumore/a chi alla sbarra in piedi/mi diceva “Vostro Onore”,/e di affidarli al boia/fu un piacere del tutto mio,/prima di genuflettermi/nell’ora dell’addio/non conoscendo affatto/la statura di Dio.   

La lingua fra poesia e musica  

Uno dei leit motiv che la critica letteraria e anche i poeti rivolgono a chi pensa si possa dare un valore letterario ai testi delle canzoni dei maggiori autori, è che mentre la poesia avrebbe la musicalità incorporata nel testo, la canzone deve ricorrere a un artificio: la musica si pone come esterna e spesso prevarica il testo, piegandolo alle proprie esigenze ritmiche e sonore. Questo discorso è vero solo in parte o lo era quasi totalmente per il melodramma, quasi senza eccezioni. La canzone d’autore è nata e si è evoluta su altri presupposti. Gli autori più importanti padroneggiano entrambi i linguaggi, non ricorrono a parolieri, spesso sono autori anche di versi e raccolte poetiche (Dylan, Vincius de Moraes) e il problema è l’equilibrio che riescono a ottenere fra i due linguaggi: nel caso di De Andrè tale equilibrio è sempre presente nella sua produzione anche se non sempre gli esiti sono dello stesso livello. La scelta della Ballata come genere che può essere sia musicale sia poetico, lo favorisce in questo, almeno nei suoi album maggiori. Tuttavia egli stesso, parlando della propria musica, tenne sempre un profilo piuttosto basso, affermando per esempio che suo figlio Cristiano possiede una cultura musicale migliore della sua. Diamo per scontato un eccesso di affetto paterno in questa dichiarazione, ma è pur vero che De Andrè ricorse sempre a collaborazioni eccellenti. Vi è in ogni caso molta più coerenza, non solo tematica ma di stile, nei suoi testi che non nella partitura musicale assai eclettica, tanto da pensare che nel suo caso è proprio la musica a piegarsi alle esigenze del testo; vale allora la pena di guardarlo più da vicino.  

Pur ricorrendo quasi sempre alla Ballata, De Andrè non sceglie l’ottonario (il verso per eccellenza della ballata come testo poetico), ma più spesso il settenario o l’alternanza fra settenari e novenari, tranne quando la scelta dell’ottonario è imprescindibile per ragioni di ritmo. In qualche caso il doppio settenario si alterna a novenari; raramente ricorre l’endecasillabo, ma piuttosto al verso di dieci sillabe della poesia inglese, aggiungendovi spesso un piede. Tutto questo non è casuale: la coerenza è alta e se in qualche caso, come ne Un giudice riportato più sopra, vi è qualche scostamento rispetto a tale norma in altri casi il rispetto è rigoroso. L’attenzione alla metrica da parte di De Andrè può essere colta anche nella rara presenza di endecasillabi, il verso d’eccellenza della poesia italiana ma che, spesso ridondante in sé anche sulla carta, lo sarebbe ancora di più se associato alla musica. Per chi pensa ancora anche la metrica sia casuale, suggerisco di scegliere uno o due testi fra i migliori di Mogol-Battisti e confrontarli con quelli di De Andrè. La casualità delle scelte nel primo caso è evidente, se ci sono righe che potrebbero far pensare a versi, ciò avviene per caso e perché il linguaggio è almeno in parte sempre ritmico e scandito, persino nei momenti più comunicativi: vado a fare la spesa è un settenario. In De Andrè c’è sempre la ricerca di una regola dalla quale si può scartare a volte (il ritmo musicale ha in suoi diritti e li fa valere), ma sempre dentro un contesto di ricerca di equilibrio fra i due linguaggi.

Lo stile, la voce, la pietas

Concludo con una riflessione su due testi che permettono di tornare alla radice più  profonda di tutta l’opera di De Andrè: la pietas, che diventa un elemento portante del suo stile e che fu anche la strada maestra che lo portò lontano dalle secche dell’esistenzialismo. Il primo brano è ispirato dall’Antologia: Un chimico. Il secondo è Ho visto Nina volare da Anime salve.

Un chimico.

Solo la morte m’ha portato in collina
Un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria
Per bivacchi di fuochi che dicono fatui
Che non lasciano cenere, non sciolgon la brina
Solo la morte m’ha portato in collina

Da chimico un giorno avevo il potere
Di sposar gli elementi e farli reagire
Ma gli uomini mai mi riuscì di capire
Perché si combinassero attraverso l’amore
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore

Guardate il sorriso guardate il colore
Come giocan sul viso di chi cerca l’amore
Ma lo stesso sorriso lo stesso colore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore

È strano andarsene senza soffrire
Senza un volto di donna da dover ricordare
Ma è forse diverso il vostro morire
Voi che uscite all’amore che cedete all’aprile
Cosa c’è di diverso nel vostro morire

Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano

Ma guardate l’idrogeno tacere nel mare
Guardate l’ossigeno al suo fianco dormire
Soltanto una legge che io riesco a capire
Ha potuto sposarli senza farli scoppiare
Soltanto la legge che io riesco a capire

Fui chimico e, no, non mi volli sposare
Non sapevo con chi e chi avrei generato
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

In questo testo la concatenazione di similitudini e la legge del contrappasso emergono limpidamente dal testo, senza scorie. Come sulla bilancia ideale di un chimico ogni elemento viene pesato e connesso con l’altro fino a costruire una rete di rimandi interni fittissimi; ma il testo può essere letto anche come una sequenza di immagini emblematiche, fino a quella davvero sorprendente dell’idrogeno che tace e dell’ossigeno che dorme al suo fianco. Sul richiamo dantesco vale forse la pena di dire che esso è rivolto del tutto all’al di qua, come del resto avviene anche nell’Antologia di Masters, ispirata da quella Palatina. I defunti di Masters e De Andrè hanno lo sguardo che ritorna al mondo come al tempo ritrovato dei propri errori, dei propri sogni e mancanze, senza alcun giudizio. La metrica sfrangiata del testo che oscilla fra rari endecasillabi e blank verse allungato rimane in equilibrio fra solennità del tema e un incedere che lo rende più leggero, come quei fuochi fatui di cui si dice nel primo verso.  

Infine: Ho visto Nina volare:  

Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che venga neve//Luce luce lontana/più bassa delle stelle/sarà la stessa mano/che ti accende e ti spegne//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena//E se lo sa mio padre/dovrò cambiar paese/se mio padre lo sa/m’imbarcherò sul mare//Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che faccia neve//Stanotte è venuta l’ombra/l’ombra che mi fa il verso/le ho mostrato il coltello/e la mia maschera di gelso./E se lo sa mio padremi metterò in cammino/se mio padre lo sa/m’imbarcherò lontano./Mastica e sputa/da una parte la cera/mastica e sputa/dall’altra parte il miele/mastica e sputa prima che metta neve.//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena.//Luce luce lontana/che si accende e si spegne/quale sarà la mano/che illumina le stelle./Mastica e sputa/prima che venga neve.

Vita e morte s’intrecciano e s’incarnano in immagini di grande suggestione. Il ruminare la vita, il distillare il miele eliminando lo scarto, il tempo che ci è concesso (prima che venga neve), l’immagine di Nina, evocata anche nella copertina dell’album, ma che si eleva a misteriosa allegoria. Infine quella stessa mano che accende e spegne. Anche in questo testo ogni elemento di cui è fatto il vivere viene pesato e soppesato, senza mai dimenticare che la materia con cui è fabbricato è spuria (come non ricordare che dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior), necessita di quel continuo masticare e sputare che lo raffina finché ne è capace. Pensando a queste due ultime canzoni, un’ultima notazione la lascio alla voce di De Andrè, una voce sempre in bilico fra recitativo e canto. È proprio quest’ultima  a far risuonare, anche nei testi più aspri ed espressionisti, quella nota di pietas che affonda le sue radici in un mondo mediterraneo e pagano che De Andrè riscopre, seppure traducendolo nella sensibilità di un cristianesimo tutto suo.     

Il treno

Lo scompartimento si sta lentamente riempiendo. Il convoglio è un po’ vecchiotto e calure di origini diverse si sovrappongono le une alle altre, mescolandosi. Le campate in ferro e vetro della Stazione Centrale di Milano rilasciano un umidore dall’inconfondibile olezzo metallico, che sommato alla cappa che grava sulla città, produce un impasto dolciastro e fumigante… poi ci sono i treni che arrivano e rilasciano calore senza vapore. Infine, i corpi sudati …

La giovane donna in divisa da ferroviere alza il braccio e fischia, il treno si muove cigolando e mentre sta per uscire del tutto dalle campate, si ode un avviso emesso dal centro messaggi della stazione …

A causa di un convoglio guasto, fermo sulla linea, i treni in direzione di …

La lontananza dalla fonte emittente rende confusa l’ultima parte del messaggio, nessuno ha udito bene e nello scompartimento c’è un attimo di sospensione, gli sguardi cercano quelli altrui.

Entra una giovane donna: porta sulle spalle uno zainetto, ha un’aria decisa e borbotta:

“I ritardi possono essere fino a un’ora, non ci posso credere, non ci posso credere!”, continua a ripetere…

“Ho un concerto alle 21 …”

Gli altri passeggeri seguono il suo sfogo senza intervenire, lei si accascia sul sedile, arrivano altri che s’erano sbagliati carrozza e raggiungono finalmente i loro posti, sbuffando. Intanto il treno ha superato di slancio Lambrate e si sta avvicinando alla stazione di Rogoredo.

Salgono in tanti e tutti chiedono ai nuovi venuti se ci sono notizie fresche.

“I problemi sono sulla linea di Torino”.

“E anche su questa a Lodi”.

Il treno riparte e l’altoparlante di bordo comincia a gracchiare.

“Ecco, adesso ci dicono qualcosa”.

Macché! La comunicazione riguarda bevande e merendine che transiteranno con il carrellino. Tutti ritornano alle loro occupazioni, un uomo seduto al finestrino scuote la testa e ridacchia.

“Mai che avvisino di qualcosa, inutile sperarlo.”

“Ma se il ritardo è su Torino perché mai dovrebbero avvisarci?”

“È vera la notizia del guasto a Lodi? “

“Sembra di sì, un comunicato della stazione diceva questo.”

“Cosa esattamente?”

“Beh, non so di preciso, me lo hanno riferito”.

Qualcuno afferra il telefonino sospirando e comincia ad annunciare il presumibile ritardo. L’uomo al finestrino si rivolge alla ragazza:

“Perché non va a chiederlo direttamente al capotreno?”

Lei lo guarda sorpresa, poi assente decisa.

“Ma sì, ci vado, almeno faccio qualcosa di utile per tutti.”

Nel silenzio che segue gli sguardi si piegano verso la campagna assolata e immobile, che contrasta con il rumore di ferraglia, amplificato dai finestrini tutti aperti. Capannoni e campi coltivati, gente per le strade o intenta ai lavori agricoli. Quando la ragazza rientra gli sguardi sono puntati su di lei.

“Non ne sa nulla.”

L’uomo al finestrino scuote la testa e ride.

“È la solita Italia di sempre, se neppure il capotreno sa cosa sta succedendo.”

“Mi ha detto che abbiamo un ritardo di cinque minuti per via di un passaggio a livello incustodito.”

Detto ciò, la ragazza si rimette gli auricolari, ma poi ci ripensa:

“È un uomo strano il capotreno.”

“Cosa intende?”

“Ma, non so, qualcosa di indefinibile nello sguardo.”

“O dio, non saremo guidati da un matto!” esclama una signora.

“No, un matto no.”

Lodi è prossima: nessun rallentamento, poi ecco la stazione e nello scompartimento si diffonde sui volti una ventata di ottimismo. Sono in tanti sul marciapiede in attesa, ma quando il serpentone si ferma, c’è smarrimento sulla banchina, alcuni formano crocchio, c’è una grande incertezza e sono in pochi a salire.

“Il treno viene dirottato su Voghera e poi su Genova.”

“Come?”

“Sì, lo hanno appena detto.”

“Ma siete sicuri?”

L’altoparlante della stazione toglie ogni dubbio. Dopo la deviazione si proseguirà fino a Livorno e da lì ripartirà per Firenze riprendendo poi il percorso verso sud.

“Sapete se ferma anche a Levanto?” chiede un uomo con apprensione, mentre un altro comincia a dare in escandescenze.

“Ma io devo andare a Bologna.”

“Vado a chiederlo al capotreno”.

“E io come faccio!, che devo essere a Bologna, devo raggiungere la mia fidanzata… ci sposiamo proprio domani pomeriggio.”

“Oh congratulazioni!” esclamano tutti.

“Chiedo anche per quello, ma non ci dovrebbero essere problemi; da Firenze lei prende un treno per Bologna e in un’ora e mezza ci arriva.”

“Sì, ma meglio chiedere.”

Quando la ragazza esce, gli altri si rivolgo al futuro sposo, mentre la voce del matrimonio si diffonde in tutta la carrozza.

La campagna fra Lodi e Voghera mette allegria, con tutti quei campi ben squadrati e coltivati, immagine di un ordine che è lavoro e amore per la terra.

La ragazza ritorna dopo una decina di minuti.

“Lei è fortunato”, dice rivolta all’uomo che vuole scendere a Levanto e prosegue rivolta allo sposo: “per Bologna bisogna domandare più tardi, ci potrebbero essere dei ritardi anche sulla tratta inversa da Firenze, ma non è certo.”

“Ma mi tolga una curiosità.” dice poi un altro rivolto all’uomo che deve scendere a Levanto.

“Prego” ribatte lui.

“Come mai è salito su questo treno se doveva andare in Liguria visto che in teoria dovremmo essere sulla linea per Roma e Napoli?”

Gli altri, intanto, sono tutti affaccendati: chi ad avvisare ancora, chi ad agitarsi per cercare di avere ulteriori informazioni.

L’uomo si stringe nelle spalle e tergiversa, tanto che, chi ha posto la domanda, sente il bisogno di scusarsi; poi l’annuncio di una donna a voce alta distoglie l’attenzione di entrambi.

“Ecco Voghera, forse ci diranno qualcosa di più!”

Lo sposo sta telefonando, un po’ preoccupato.

“E il capotreno che impressione le ha fatto questa volta?”

“Si è voltato verso di me per parlarmi, mentre prima non lo aveva fatto; è un uomo molto anziano, mi ha sorpreso che ci fossero macchinisti della sua età, oppure non so, li porta male.”

La signora la guarda diffidente quanto mai e allora la giovane donna prosegue:

“Non si preoccupi, è un uomo per bene, con gli occhi dolci, pieni di malinconia.”

“La sua è un descrizione molto romantica, non mi dica che ci ha fatto un pensierino.”

Scoppiano tutti in una sonora risata. Poi è l’altoparlante della stazione ad azzittire  tutti.

A causa dei noti inconvenienti e al fine di alleviare il disagio dei passeggeri, la direzione delle ferrovie ha deciso di aggiungere a questo treno un vagone ristorante che entrerà in funzione fra poco.

La notizia è accolta con un giubilo che corre lungo tutto il treno, come un’iniezione di energia elettrica.

“Offro un brindisi” comunica lo sposo che ha riacquistato il proprio buon umore dopo la telefonata.

“Evviva lo sposo!” 

Intanto, il treno ha ripreso la sua corsa verso Genova: Arquata Scrivia, Ronco, le montagne e le valli ancora assolate, il treno lento da una galleria all’altra.

La ragazza del concerto chiama l’amica e le comunica che non arriverà, poi decide di proseguire il viaggio.

“Che ci vado a fare e poi le ho tutte qui le sue canzoni, ho i suoi Cd, preferisco rimanere con voi fino alla fine di questa avventura.”

“Ma di quale concerto stiamo parlando.”

“Vecchioni e De Andrè insieme.”

“Che strano, non ne ho mai sentito parlare.”

“Per il brindisi aspettiamo di vedere il mare, che ne dite?”

“Ma dove sarà diretto poi il treno? Riprenderà il suo tragitto normale e poi? Dopo tutto questo tempo?”

“Già, ma non si era detto Livorno?”

“Sì, ma poi di nuovo a Firenze sulla tratta originaria.”

“Non avvisano mai, la conosco questa storia; non avvisano mai, arriva quando arriva” ripete sconsolatamente l’uomo al finestrino.

Intanto, il treno si è infilato nella galleria che porta alla stazione di Porta Principe.

Sono in molti a salire e pochissimi a scendere, ma anche chi riparte si concede una sigaretta sui marciapiedi.

“Per il brindisi aspettiamo di vedere il mare, che ne dite?”

“Ma certo!” ribadisce lo sposo.

A Brignole salgono pochi altri.

La ragazza ha di nuovo raggiunto il capotreno e subito dopo informa tutti i presenti, come se parlasse a un comizio.

“La corsa proseguirà fino a Roma di certo, ma la meta definitiva non è ancora chiara.”

Ecco il mare, è il momento del brindisi.

Le spiagge si stanno svuotando e la fila di ombrelloni mossi dal vento nasconde il vuoto. Tutto sembra scivolare lentamente verso l’immobilità, ma le voci nella carrozza ristorante si fanno sempre più allegre.

“Si è informata se stiamo recuperando il ritardo?” chiede ancora l’uomo che deve scendere a Levanto.

“Pare di sì, vedrà che alla fine sarà solo un quarto d’ora. Non si unisce a noi?”

L’uomo, finalmente tranquillizzato, accetta volentieri, mentre un altro lo guarda perplesso.

“La vedo in apprensione.”

“Beh, un po’ sì, sono atteso e non mi piace arrivare in ritardo.”

“Forse c’è dell’altro. ”

L’uomo si schernisce un poco e arrossisce:

“Sì, sono atteso da una donna.”

“Si vede caro amico, si vede.”         

Lo sposo sta parlando con una signora anziana.

“Mi maritai sessant’anni fa, proprio in questi giorni, lei mi ha fatto tornare con la memoria a quel momento e le sono grato, anche se mio marito mi ha lasciato da tempo. Sto andando da lui, a Pompei, è sepolto là; lei me lo ha un po’ restituito. ”

Lo sposo le accarezza la spalla con un gesto affettuoso, poi la guarda: gli occhi tristi e lucenti al tempo stesso, sembrano persi in una lontananza senza fine. Lo sposo l’osserva irretito, poi la donna si rivolge di nuovo a lui con un sospiro e un sorriso.

“Ma ora alzo il bicchiere, non voglio tediarla con la mia tristezza.”

Intanto, si sta per arrivare a Chiavari. In città regna un silenzio irreale, le figure che transitano sotto i portici prospicienti la stazione sono ripiegate su di sé, raccolte, indifferenti agli altri. La spiaggia è completamente deserta.

Dentro il vagone ristorante, invece, la musica, le chiacchiere, il clima conviviale che sta contagiando sempre di più tutti i viaggiatori.

La notizia dello sposo a bordo si è diffusa per tutto il treno ed è un continuo andirivieni nel ristorante, dove i brindisi si susseguono interrotti ogni tanto dalla richiesta di informazioni, cui si presta volentieri la giovane donna. 

“Neppure il capotreno sa precisamente dove siamo diretti, dopo Napoli tutto diventa confuso.” ribadisce lei e prosegue: “Però secondo me lui non mi ha detto tutto, mi ha guardato con occhi paterni, rassicuranti, come a dire di non preoccuparmi.”

“Ma come, non si era detto Roma?” chiede un altro perplesso, ma la sua domanda cade nel vuoto.

“Lo vada a trovare ogni tanto, mi sembra che con lei parli questo benedetto uomo.”

“Tutto avviene per caso e all’improvviso, come sempre. La conosco molto bene questa linea, chi sale su questo treno, non sa bene dove va a finire. ”

L’uomo che ha parlato è comparso da poco nel vagone ristorante.

“Lei dove va?”

“Io? Non ho meta, viaggio da tempo durante la notte. Non ho più casa e non posso permettermi di pagare un affitto e allora ho fatto un abbonamento annuale notturno con le ferrovie. Dormo sui treni e scendo il mattino dove capita; in questo modo, con la pensione che mi ritrovo, riesco a vivere.”

“Ma non è dignitoso che un uomo anziano venga trattato così, è indegno di un paese civile!” sbotta una signora che ha orecchiato la conversazione. Il tono alto della voce attira altri e altre nel crocchio che si è formato intorno all’uomo, elegantemente vestito, che racconta.

“Questo abito me lo tengo da conto, ne ho solo un altro che è appeso nel vagone destinato ai controllori, ormai mi conoscono tutti.”

“Sì, la nostra è una società che tratta gli anziani come ferri vecchi.”

“Con i giovani fa anche di peggio.” s’inserisce un altro.

“Vedo che avete ancora voglia di indignarvi, io l’ho persa da tempo questa volontà e poi, tutto sommato, sono contento della vita che faccio. In treno mi rispettano tutti, a volte incontro le stesse persone un anno dopo e anche più, le loro vite entrano nella mia: è bello condividere le vite altrui, dare qualche buon consiglio se richiesto, è come leggere un romanzo che non finisce mai.”

“Sa che forse un po’ la invidio? Ma che fa poi di giorno?”

“Aspetto la sera, là dove mi trovo, a volte è un po’ faticoso, durante l’inverno, ma cerco di andare sempre verso sud quando fa molto freddo: di solito, leggo nei bar e scrivo, qualche volta vado al cinema o a teatro.”

“Ne avrà incontrata di gente e anche qualche avventura, sia sincero!”

L’uomo sorride tristemente a quelle parole, perso in chissà quali ricordi.

“Perché non ci racconta qualcosa.”

Lui si schermisce: “Mah, non so raccontare è difficile non sono così bravo.”

“Ma sì che può farlo, tutti siamo un po’ narratori, la vita è un romanzo per tutti, non solo per i personaggi che poi finiscono nei libri, non crede?”

La giovane donna che ha parlato è appena entrata nello scompartimento e si sta godendo il suo bicchiere di vino. Lo alza in direzione dell’uomo.

“Ma, se proprio volete.”

Fu uno dei primi che incontrai: da poco più di un mese avevo sottoscritto l’abbonamento. Lui salì per ultimo alla stazione di Como. Non mi capitava spesso di raggiungere quella città perché si trova  a ridosso della Svizzera e da lì si può solo tornare indietro; poi a me le città di lago non piacciono, mettono tristezza. Lui salì e chiese se fosse libero il posto di fronte al mio e quando si sedette notai anche il suo bagaglio, un borsa piccola che conteneva un album di fotografie. Il treno arrivava a Milano intorno alle undici, poi io avrei preso quello notturno per Roma, che viaggia tutta la notte facendo proprio questa linea; sarei arrivato al mattino presto alla stazione Ostiense. Lui invece proseguiva per Mantova. Aprì subito l’album e si mise a sfogliarlo; intravedevo qualcuna di quelle fotografia lui ogni tanto alzava lo sguardo e mi sorrideva malinconicamente. Non resistetti alla tentazione e gli chiesi dove stesse andando. Lui mi rispose subito, capii che aveva voglia di parlare. Mi spiegò che prendeva tutte le sere quel treno a quell’ora perché molti anni prima aveva incontrato, proprio nello stesso scompartimento dove siamo seduti insieme (Carrozza 6  sei posto 42 mi precisò con meticolosità), una donna che faceva quel percorso in senso inverso rispetto a lui, allora. Lei si recava a lavorare –  così mi disse l’uomo – a Milano, senza specificare niente altro, lui tornava a casa a Milano, alla fine di una giornata in ufficio. Non mi disse altro per il momento e  continuò a sfogliare il suo album. Mi passarono molti pensieri per la testa, ma rimasi in silenzio. Fu lui a riprendere il discorso. È la sola che ho in cui siamo insieme e mi mostra una fotografia di loro due abbracciati, proprio nello stesso scompartimento in cui ci troviamo ora. Lei indossa una minigonna di plastica rossa e calze nere a rete, molto vistose. “è un angelo” mi disse l’uomo e io non gli risposi nulla…       

Intanto nello scompartimento è entrata altra gente, il narratore s’interrompe per fare posto, ma quando s’accinge a continuare ecco che l’altoparlante comincia di nuovo a gracchiare.

“Vede che avevo ragione? Meno di un quarto d’ora di ritardo. Allora  è proprio deciso a lasciarci?”

L’uomo diretto a Levanto sorride felice e alza il calice per un nuovo brindisi, mentre il narratore ha ripreso il suo racconto.

“Mi ripromisi di cercarla sempre, quel viaggio fu indimenticabile per me; niente è più vero di ciò che si incontra per caso, perciò viaggio sempre su questo treno.”

Io lo osservavo perplesso, ma gli occhi di quell’uomo erano velati e caldi, la sua era una malinconia che chiedeva silenzio e un’accettazione religiosa.”

Il crocchio intorno al narratore si è fatto ancora più grande e non tutti riescono a sentire.

“Vado a cercare un microfono, lei aspetti a continuare” dice la ragazza che era appena entrata.

“Mah lei cosa ne pensa del racconto, a me sembra assai strano, ma quella ragazza….”

“Sì capisco cosa lei vuole dire, ma sa le storie d’amore sono tutte un po’ strane.”

“Beh ma qui l’amore sembra c’entri poco, incontrare una prostituta che ritorna dal suo lavoro in treno non è poi un incontro così originale.”

“Ma forse non è quello il senso del racconto” s’intromette uno degli ultimi arrivati.

“Mi sono perso la prima parte…”

“O ci vuole poco a riassumerla. Un uomo che se ne torna a casa incontra questa signora e si innamora di lei, tanto che la cerca tutte le sere sullo stesso treno.”

“Ma il narratore non ha detto che si era innamorato di lei.”

“Ma era implicito nel suo racconto.”

“Lei dice?”

“Ma certo! Forse il messaggio è proprio quello: l’amore è imprevedibile, ci si può anche innamorare di una prostituta che si è vista su un treno.”

“Sì ma poi non la vede più.”

“Beh aspettiamo la conclusione per dirlo.”

“Ecco il microfono.”

La ragazza, aiutata da un uomo, piazza l’aggeggio su un tavolino del vagone ristorante, il narratore si siede e ricomincia a raccontare.

Ero molto incerto: come potevo entrare nel mistero di quell’uomo e interrogarlo, senza violarne il bisogno di silenzio? Lui continuava a guardare la fotografia, io sbirciavo per coglierne altri particolari. Lui sospirò a lungo, ripose tutto e si rivolse a me con un sorriso triste.

“Il destino, il destino” mormorò sottovoce, poi si avviò verso la porta. Eravamo giunti a Milano, infatti, non vi era più tempo. Lui mi guardò e allora mi decisi a parlare:

“Domani sarà ancora su questo treno?”  

“Sì certo e lei?”

Rimasi un momento interdetto poi mi lasciai sfuggire che ci sarei tornato. Pensavo dentro di me che fosse tutto assurdo, ma ormai lo avevo detto. Sarei tornato a Como per ritrovarlo la sera dopo, e la cosa sul momento m’inquietò. Tornavo in un luogo in cui mi ripromettevo ogni volta di non tornare più; quel lago che ogni tanto tracima, quelle montagne basse e incombenti, mi trasmettevano in senso di paura. Ma ormai mi sembrava di essere legato a quello strano passeggero da un destino comune che pure non sapevo decifrare. Forse è proprio questa la magia: a volte il racconto di una vita altrui è più affascinante persino della propria di ciò che si può ancora farne e volerne fare. Ma ora scusatemi, vi prego, ho sonno, sono molto stanco, se volete possiamo continuare domani.

La fine momentanea del racconto fu accolta da tutti con un senso di meraviglia e sgomento, da altri con stizza o una punta di delusione.

L’altoparlante annunciò proprio in quel mentre che si stava per entrare nella stazione di Levanto e tutti si rivolsero all’uomo che stava per scendere. Egli però era rimasto seduto e immobile al suo posto, il solo movimento visibile sul suo corpo erano le lacrime che scendevano sul volto, pian piano. Il treno si ferma, ma egli non accenna a scendere e allora tutti si rivolgono verso di lui, trattenendo il fiato.

“No, non ne sono più convinto di scendere, anzi non lo sono affatto, resto con voi.”

Poi, quasi a scusarsi, abbassa lo sguardo e si schernisce dietro il fazzoletto: allora è la giovane donna, che lo sta osservando con un sorriso malinconico, a iniziare un applauso che diviene un vero e proprio scroscio di palmi che si battono a un ritmo sempre più accelerato. L’uomo allora ride a singhiozzi e ringrazia. 

Il treno è ora fermo sul binario più lontano e in molti s’avvicinano al finestrino e guardano fuori.

Dietro la stazione, verso l’interno, il bosco immerso nel buio del crepuscolo, è forato dalle luci dei pochi casolari.

“Mi è sempre piaciuta quella valle, i suoi silenzi, la sua asprezza che si apre improvvisa su paesaggi immensi, il vento, ma è tardi, è tardi” poi si rivolge agli altri con un sorriso.

Nessuno sale, le porte si chiudono rapidamente, con un rumore che non ammette repliche.

“Ecco un altro che sente ancora fortemente il richiamo della vita.”

“Già, è molto poetico quello che ha detto.”

“Sì, per i poeti che ci stanno oggi era poetico, certo!”

La prima stella in cielo e sul mare sempre più scuro, spalanca la notte, ma nel vagone ristorante nessuno sembra accorgersene: si continua a bere e a chiacchierare.

“Ma perché non ci dice di più di questo capotreno signorina? Ormai è diventato un personaggio, un po’ come questa donna misteriosa del racconto.”

“È un uomo molto anziano, ma i suoi occhi sembrano quelli di un ventenne, neri e bellissimi, emanano una grande forza.”

“Si direbbe che lei se ne stia invaghendo.”

“Le donne giovani come lei sono sempre un po’ alla ricerca di un padre….”

“A dire il vero potrebbe essere mio nonno.”

“Addirittura!”

“Sì è un uomo che sembra provenire da un altro tempo.”

La nuova galleria, distoglie per un momento l’attenzione, mentre l’ennesima bottiglia di spumante fa il suo ingresso in scena con il botto. Si entra nella stazione di La Spezia, proprio sull’ultimo binario, il più lontano dall’edifico, che s’intravede appena sullo sfondo. 

Il treno prosegue veloce verso la Versilia mentre l’altoparlante ricomincia a gracchiare. Tutti trattengono il fiato in attesa del messaggio.

Si informano i passeggeri che il treno, dopo Firenze, proseguirà fino a Napoli dove verrà presa la decisione definitiva sulla sua destinazione ultima. Per chi volesse recarsi a Bologna ci sono invece delle difficoltà perché la tratta appenninica è interrotta nei due sensi.

“Oh Dio!, e adesso che faccio? Devo avvisare subito la mia Giulia!”

“Giulia? Un nome nobile e antico.”

“È un professoressa di paleontologia.”

“Nomen homen…”

“Mulier, se mai”

“Perché non le dice di raggiungerci Firenze? Se lei venisse sul treno.”

“Già ma poi dove ci sposiamo?”

“Qui, fra noi, il capotreno è un ufficiale giudiziario in determinate circostanze, come il capitano di una nave: mi sembra che l’emergenza giustifichi questa prassi inusuale.”

“Mah, non so che dire, ma poi noi, noi vogliamo sposarci anche in chiesa!”

“Ma ci sarà pure un sacerdote in mezzo a tutta questa gente!”

“Lei pensa davvero che si possa fare?”

“Ma certo! Signorina, visto che ormai ci è abituata: può recarsi un’altra volta dal capotreno e chiedere tutto a lui?”

La ragazza, felice di potere ancora una volta rendersi utile, esce frettolosamente; intanto lo sposo telefona a Giulia. Nella carrozza ristorante la ressa si è fatta ancora più fitta, insieme a una frenesia contagiosa e sono tutti in attesa della ragazza. Lei entra di corsa nella con un sorriso raggiante, preceduta solo per un attimo dall’altoparlante: è il capotreno a parlare, richiamando l’attenzione di tutti e allora lei, che ha sulla punta delle labbra la buona notizia, si zittisce, lasciando all’uomo al comando di chiedere tramite la radio che un prete lo raggiunga nel locomotore per comunicazioni importanti.

Un evviva corale accoglie la notizia e subito lo sposo lo comunica a Giulia. Sarà lei a raggiungerli in auto sul convoglio, prima di Livorno.

Non è lunga l’attesa, fra un brindisi e l’altro e le voci che ormai si stanno alzando di tono, ecco un pretino fare il suo ingresso nella carrozza: giovane e impacciato come tutti i giovani, visibilmente a mal partito, avanza lentamente cercando con gli occhi chi sia lo sposo; ma è la signora anziana a intervenire e a toglierlo dagli impacci.

“Venga, venga padre e non abbia paura, potrei essere sua nonna sa! Li mi ricorda tanto mio nipote.”

Il sacerdote si profonde in un inchino e si schernisce un poco “era missionario in Africa!” prosegue imperterrita l’anziana signora, mentre il giovane prete si accomoda a un tavolo dove si siede anche lo sposo che gli tende la mano.

“Sono io la causa del suo disturbo padre; io e la mia Giulia e futura moglie. Crede si possa fare questo matrimonio?”

La battuta solleva la risata di qualcuno, lo sconcerto di altri, il silenzio dei più. Anche il pretino sempre più impacciato nel rispondere, incerto forse se cogliere l’implicita ironia della citazione, forse neppure voluta, oppure di passarci sopra.

“Io sono qui e se posso esser utile, ma devo chiedere l’autorizzazione al mio Vescovo”. 

“Oh, le hanno sempre trovate le soluzioni, per qualsiasi cosa, vuole che non la trovino proprio ora? Non ci credo. Può farlo subito per cortesia?”

“Ma quando la futura sposa ci raggiungere?”

“Fra non molto è per questo che le chiedevo se può sentire il Vescovo al più presto.”

Il pretino, superato il momento d’imbarazzo, si apparta con il proprio cellulare.

“E così suo nipote era un missionario in Africa?”

La signora guarda l’uomo che le sta di fronte, l’altro allora le tende la mano e si presenta. “Mi scuso per essermi intromesso, ma sono sempre curioso dell’Africa ci andai anch’io per diversi anni: mi chiamo Spartaco.”

“Missionario anche lei?” chiede un po’ incerta la signora.

“No, no, non proprio almeno.”

La signora scuote il capo, poi riprende dopo avere sorseggiato il vino: “Era in Mozambico, in una missione sulla costa.”

“Oh conosco quel paese, pensi che collaborai con il primo governo, li aiutavo a costruire la ferrovia, sono ingegnere.”

“E rivoluzionario.” aggiunge la signora con un sorriso beffardo.

“Sì, diciamo che a quei tempi lo ero o se preferisce ero convinto di esserlo.”

“Già, anche mio nipote era convinto di fare del bene allora.”

“Perché”, ma non c’è tempo di continuare perché il pretino fattosi improvvisamente disinvolto se ne esce con un sonoro: “Sì, si può fare, ho l’autorizzazione del Vescovo.”

L’annuncio è accolto da applausi e altre grida di evviva, mentre lo sposo si è ritirato in un luogo più silenzioso per telefonare a Giulia. Torna poco dopo.

“Mi richiama fra qualche minuto, speriamo che possa raggiungerci.”

“Vedrà che andrà tutto bene.”

Gli altri s’interrogano con lo sguardo, ma poi le attenzioni sono tutte rivolte di nuovo al prete, che discute amabilmente con tutti

Squilla di nuovo il telefono e lo sposo si allontana leggermente per parlare con più calma.

“La mia Giulia ci sta raggiungendo, sarà qui al massimo fra un’ora!”

“Evviva la sposa!”

Al suo arrivo la carrozza è in piena festa, il prete attende un po’ imbarazzato che la cerimonia possa avere inizio.

“I testimoni, ci vogliono i testimoni.”

Si offrono in tanti e si arriva in fretta a una soluzione.

Al termine un nuovo evviva corale accoglie il fatidico bacio fra i due sposi, sotto gli occhi imbarazzati del pretino che si sta togliendo i paramenti.

“Rimanga con noi padre”, ma lui si schernisce.

“Vi lascio alla vostra festa, preferisco coricarmi” e s’allontana rapidamente. 

L’accavallarsi delle voci, dei brindisi, l’allegria più semplice, tutto quello che ci si può immaginare stava dentro quella carrozza che diventava sempre più grande, con i suoi ospiti che continuavano ad arrivare da ogni parte.

“Ma qui manca la musica, come si può festeggiare senza musica!”

“E senza ballare” aggiunge una signora. Tutti gli occhi sono di nuovo rivolti alla ragazza.

“Ma lei non doveva andare a un concerto questa sera? E non ha forse detto che ha della musica con sé”

“Certo.”

Senza dire altro la ragazza, prende un computer dal suo zainetto, inserisce il cd e la musica inizia come uno scoppio fragoroso, a un ritmo cui i corpi rispondono subito, a ondate successive.

Ridere, ridere, ridere ancora,

ora la guerra paura non fa,

brucian le divise nel fuoco la sera,

brucia nella gola vino alla sazietà,

musica di tamburelli fino all’aurora,

il soldato che tutta la notte ballò

vide fra la folla quella nera signora,

vide che cercava lui, e si spaventò

Dal fondo della sala qualcuno invoca che si alzi il volume, mentre altri hanno rimediato degli altoparlanti di fortuna che piazzano agli angoli della carrozza.

Il ritmo diviene sempre più frenetico, i corpi sobbalzano e danzano come un’onda di piena.

La danza prosegue incessante al ritmo della canzone che viene continuamente riproposta, finché i corpi esausti cominciano a sciogliersi l’uno dopo l’altro dal gruppo. È notte tarda quando il vagone ristorante si svuota quasi completamente. Gli sposi si sono ritirati in uno scompartimento preparato per loro, solo il viaggiatore notturno, la giovane donna, l’uomo che doveva scendere a Levanto e quello seduto  al finestrino indugiano ancora. Poco dopo anche l’anziana signora si aggiunge alla compagnia.


“Alla mia età si dorme poco, ormai, il tempo è tutto contratto, si rinsecchisce come una ruga sul volte e poi mi piace vegliare.”

“Io sono fortunato invece, il sonno mi prende sempre ed è profondo, mi sveglio quando il treno sta per arrivare e così durante il giorno posso andarmene in giro senza problemi.”

“Già per lei sarebbe davvero un guaio l’insonnia, ma vedo che questa sera lei fa un’eccezione.”

La ragazza ha tolto dalla sua borsa alcuni cd e li fa scorrere fra le mani.

“Perché non mette qualcosa?”

“Già buona idea”, ribadisce l’uomo del finestrino.

“Mi raccomando, scelga qualcosa di adatto, non così ritmato.”

Lei armeggia e poi si indirizza decisa su un disco che tiene appena fra due dita.

“È un De Andrè molto particolare, vi piacerà …”

Tutti tacciono in attesa ma il cd tarda a partire.

L’uomo che doveva scendere a Levanto scuote il capo tristemente, fra gli altri solo la signora anziana annuisce; poi è il suono a estendersi per tutto lo scompartimento. I camerieri si fermano, ascoltano come tutti, mentre i bicchieri rimangono sospesi a mezz’aria.

Se dalla carne mia già corrosa

dove il mio cuore ha battuto il tempo

dovesse nascere un giorno una rosa

la do alla donna che mi offrì il suo pianto

per ogni palpito del suo cuore

le rendo un petalo rosso d’amore

 per ogni palpito del suo cuore

le rendo un petalo rosso d’amore

Tutti seguono in silenzio le note, senza dirselo hanno formato un cerchio e si tengono tutti per mano.

Quando è di nuovo silenzio si accorgono che il treno sta di nuovo rallentando e allora tutti si accalcano al finestrino. Roma è vicina.

La città è immersa in un sonno profondo, le poche automobili sul tratto di Tiburtina che corre di fianco alla ferrovia sono immobili, pur trovandosi al centro della carreggiata.

Le rotaie divelte e i cantieri, sembrano voragini, squarci nella terra rivoltata e lasciata a mucchi di fianco a macchine utensili e gru che sembrano mostri antidiluviani, nel buio. La stazione è deserta e non appena il treno la supera, vira verso Ostiense e Città del Vaticano. In prossimità del Tevere il convoglio rallenta di nuovo. Il fiume s’intravvede appena, come un nero fondale, un abisso scuro e tranquillo. Superato il ponte ecco profilarsi sullo sfondo la cupola di san Pietro, ricoperta da un fogliame che da lontano sembra una decorazione barocca. La luna incombente e chiarissima illumina a giorno il colonnato della piazza. Su ognuna delle colonne i viluppi di edere e altri rampicanti costruiscono bizzarri disegni che da lontano sembrano corpi travolti in un amplesso senza fine.   

“Nessuno ci è più venuto da quando se ne sono andati da qui.”

“Già, tutto lasciato com’era.”

“Quelli di prima si stanno riprendendo il luogo pian piano.”

“Già.”  

Il sonno, uno dopo l’altro se li porta via tutti: chi abbandonato sul sedile, i piedi distesi alti o il capo appoggiato al braccio disteso sul piccolo tavolo.

Il primo a risvegliarsi è il viaggiatore. Si guarda intorno e sorride con tenerezza agli altri che stanno ancora dormendo. Il sole è appena spuntato da una collina a sinistra del treno che attraversa una campagna silenziosa; poi curva verso sinistra e infondo alla piana si intravede il mare. L’uomo che doveva scendere a Levanto si avvicina a lui, i due si guardano senza parlare gli occhi puntati in direzione del mare.

“Siamo vicini.”

Intanto il treno si è inoltrato in un piccolo bosco di alberi e cespugli, in mezzo al quale si delinea il profilo di un antico tempio classico. In lontananza e dai quattro punti cardinali si vedono altri convogli, scivolare l’uno accanto sui binari che si moltiplicano con l’avvicinarsi dell’ultimo tratto di corsa in direzione dei templi e del mare. Finalmente le porte della città sono vicine e tutti si accalcano ai finestrini in religioso silenzio. Lo sposo abbraccia Giulia alle spalle e lei si abbandona a lui. La vecchia indica un punto lontano e si asciuga una lacrima; è il cimitero, pensa fra sé lo sposo, ricordando il dialogo fra loro due avvenute tanto, tanto tempo fa.

Le labbra si muovono per dire qualcosa ma il suono della voce è atono, distante. Il treno è ormai vicino all’ingresso e i primi rumori della città vengono accolti con stupore. Il convoglio rallenta ancora e la porta d’ingresso appare ora in tutta la sua grandezza e quando il locomotore è giunto alla soglia il treno si arresta. C’è una fila di convogli all’ingresso, ma l’attesa è breve. Si odono le porte della prima carrozza aprirsi, è il capotreno a scendere per primo, al suo cenno tutti lo seguono dalle diverse carrozze si avviano lentamente con i loro bagagli. Alla porta d’ingresso la Gradiva  e un giovane che indossa dei calzari alati salutano chi arriva con un largo sorriso, i bagagli vengono ammassati lì fuori appena prima dell’ingresso.

Si entra e la casa di  Meleagro non è lontana. La superano insieme agli altri e arrivano in una larga spianata proprio in riva al mare. La folla è enorme, silenziosa, ognuno cerca un luogo dove mettersi in attesa. In fondo, proprio a ridosso della battigia, una specie di duna di sabbia più alta si sta riempiendo. Nel silenzio sono in molti ad accennare con la mano a questo o a quella che si stanno portando sulla piccola altura in quel momento.

Ora sono tutti fermi e anche la piccola collina è quasi piena, ma nessuno ancora dice qualcosa. Poi, una figura claudicante dai lunghi capelli castani venati dal bianco e una lunga veste si avvicina, sale con fatica, sedendosi a un lato estremo del medesimo. Allora, proprio al centro si alza una di loro e si rivolge alla folla:

“Venga avanti il primo!”