IMPERO E MULTINAZIONALI

Premessa

Per Impero intendo un sistema di alleanze che ha al suo centro gli Stati Uniti, ma che non corrisponde a quello che si definisce Occidente, parola che viene usata e abusata senza mai entrare troppo nel merito del suo significato. In realtà si tratta di un impero statunitense-anglo che si estende a tutto il mondo di lingua inglese, seppure con alcune contraddizioni al proprio interno, che riguardano la Gran Bretagna dopo la Brexit e il Sudafrica, che non si può considerare organico a tale aggregato. In quest’area, che è al tempo stesso geopolitica linguistica e culturale, hanno le loro  sedi le maggiori società multinazionali. Ciò che tale studio intende fare è un contributo alla comprensione degli intrecci fra la geopolitica imperiale e l’operatività delle multinazionali. I dati sono stati raccolti una prima volta durante il Covid,  ma gli aggiornamenti recenti non indicano sostanziali cambiamenti. Per iniziare sono utili alcuni dati di riferimento sull’evoluzione dei più importanti settori manifatturieri negli ultimi decenni. Ho fatto riferimento a due diverse fonti anche per i loro orientamenti politici, ma entrambe autorevoli e sostanzialmente coincidenti rispetto ai numeri. Entrambe sono facilmente controllabili: i siti di provenienza si possono leggere cliccando sulle sigle. Questa analisi dettagliata dei comportamenti si trova nell’appendice in coda al testo: ho scelto tale soluzione per non appesantire questa riflessione, il più possibile sintetica.

Un quadro prevedibile

Le prime deduzioni che si possono trarre da una prima massa di dati riportati nelle prime pagine dell’appendice, sono due: il massiccio trasferimento di reddito da lavoro a capitale e la concentrazione del capitale medesimo. Tali fatti si sono consolidati in un arco di tempo che inizia negli anni ’80 del secolo scorso e che trova il suo picco dalla caduta del muro di Berlino in poi. Le premesse antecedenti vanno cercate nella scelta di Nixon del 1975 di seppellire gli accordi di Bretton Woods, scelta che segnò il passaggio da un modello di moneta coniata peraltro già in crisi a un modello di moneta creditizia. A partire da questi primi dati ho esaminato prima di tutto il modo di agire delle multinazionali nei diversi scenari geopolitici a cominciare dalle 10 maggiori per fatturato e provenienza. Due ulteriori aspetti da cui si prescinde in questa prima parte sono gli eventi come le epidemie e tutto il discorso riguardante le guerre di intelligence. I dati fin qui raccolti possono definirsi ovvi, nel senso che non presentano un quadro diverso da quello che ci si poteva aspettare, anche senza mettere in campo particolari competenze. Analogamente, certi comportamenti standard che verranno rilevati nel prosieguo, tipo attività di lobbying quando non di vero e proprio ricatto messi in atto dalle multinazionali, non possono stupire, come pure la sostanziale subalternità dei poteri politici (quello degli Usa compreso, seppure con margini diversi autonomia), rispetto a tutte le altre aggregazioni nazionali o sovranazionali. Perché allora uno studio come questo? La  prima e principale ragione è di verificare se l’ipotesi più volte evocata di uno spostamento strategico dell’impero statunitense-anglo sullo scenario estremo orientale, un parziale o totale abbandono del Medio Oriente al suo destino, sia realistica o meno e fino a che punto lo sia, eventualmente. Naturalmente si tratta di una questione decisiva per l’Europa. Una seconda ragione sta nel cercare di capire se gli elementi di crisi presenti nella politica statunitense – dunque nel cuore del potere imperiale e da tempo – sono l’indice di una crisi ancora più profonda e inarrestabile di egemonia, oppure no. Un’ultima considerazione prima di cominciare. Londra rimane il più grande mercato finanziario del mondo, ma la Brexit, evento non propriamente previsto, di natura intermedia fra una turbativa catastrofica e una crisi qualunque, rimane un’incognita su cui è bene per il momento non lasciarsi andare a previsioni, ma piuttosto cercare di monitorare quanto avviene giorno per giorno. 

La politica delle multinazionali

I dati salienti che si possono ricavare dalle analisi riportate nell’appendice sono tre:  l’espansione nel continente asiatico è abbastanza recente, c’è un vivo interesse verso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, un’importante crescita d’interesse per India e Cina e una forse sorprendente minore rilevanza del Giappone. Tuttavia, il quadro generale, ci dice che negli ultimi anni il fatturato nell’area asiatica è diminuito dell’8% nonostante la crescita globale del fatturato.

Il secondo è che Europa e Stati Uniti rimangono i mercati fondamentali per Microsoft, la più grande fra le 10 più importanti, mentre l’estremo oriente è un’area  interessante, ma solo un po’ di più di Africa e America latina. Le pressioni sull’Europa quindi, saranno ancora forti e l’attività nevralgica di lobbying che Microsoft intraprenderà, sarà identica a quella documentata nell’appendice anche maggiore perché non si tratta solo di aumentare i profitti ma esercitare forme di controllo sempre maggiori sugli stessi governi dell’unione, del tutto dipendenti dalla tecnologia del colosso statunitense. In particolare, Microsoft condurrà una battaglia contro la possibilità del software libero. Quanto ad Amazon, la sua espansione ha assunto dimensioni che alcuni siti stessi indicano come mostruose e riguardano il mondo intero seppure con alcune precisazioni. Sulla potenza di Amazon inutile dilungarsi di più ma ai fini del discorso che si fa qui quello che è importante mettere in evidenza è che, per le caratteristiche del servizio che svolge, Amazon tende al massimo di concorrenza possibile alle imprese che agiscono nell’e-commerce, ma la sua diffusione dipende esclusivamente dalla natura dell’impresa stessa, per cui il criterio seguito è quello di un’espansione on demand. Gli elementi che caratterizzano Amazon sono altri: i tassi allucinanti di sfruttamento del lavoro – e dunque gli alti profitti – ma anche la necessità di ricorrere a magazzini di logistica che mettono in movimento quote crescenti di lavoro vivo che tende a ribellarsi, come avviene in altri settori dove la logistica svolge un ruolo strategico. L’aggressività di Amazon, che ha monopolizzato un settore a livello mondiale, andrà tuttavia incontro a limiti oggettivi, prima di tutto perché è riuscita a cannibalizzare tutto il settore dell’e-commerce con una tale voracità da diventare troppo grande in breve tempo, come la famosa rana che si gonfia fino a scoppiare. Sia per la resistenza operaia, sia perché altri saranno indotti a trovare nicchie di mercato, sfruttando le prevedibili manchevolezze, Amazon andrà incontro a un momento di crisi e di stabilizzazione successiva, cedendo quote di mercato.

Fra Apple e Google vi è invece una divisione delle parti: Apple prevale nei mercati occidentali a causa del costo elevato dei suoi prodotti, Google nei mercati emergenti. Infine Facebook. Le ragioni della relativa crisi di facebook le conosciamo: le falle nel sistema di sicurezza, le profilazioni incontrollabili e finite in chissà quali mani, il sospetto di influenza sulle campagne elettorali, le vertenze in atto un po’ in tutto il mondo per farsi dare dei rimborsi: anche in Italia Altroconsumo ha avviato una class action. Sotto certi aspetti Facebook assomiglia ad Amazon ma, per ragioni diverse, sarà soggetta a fragilità che sono esplose negli ultimi due anni. 

Non mi occuperò invece per il momento di Berkshire Hathaway (Stati Uniti): 496 miliardi di dollari di Visa, di JP Morgan e delle due cinesi Tencent (Cina): 436 miliardi di dollari e di Alibaba (Cina): 431 miliardi di dollari, perché non influiscono sul bilancio generale che si può trarre da questi dati alla luce dei cambiamenti intervenuti nella politica statunitense e cioè guerra dei dazi e il tentativo di tornare a forme di protezionismo avvenuti durante la presidenza Trump e non ritoccati più di tanto dalla presidenza Biden. I dati sembrano suggerire che vi è indifferenza fra i due comportamenti perché l’impatto della politica di Trump ha colpito al cuore la strategia mercantilista tedesca e dunque europea, ma è ininfluente sulle politiche delle aziende più tecnologiche. In sostanza la politica di Trump ha avuto una forte incidenza sui mercati cosiddetti maturi (quello dell’automobile per esempio), ma non sulle dinamiche di altri settori. La politica di Trump andava a colpire alcune eccellenze europee e metteva in crisi maggiormente settori come quelli della piccola e media industria e questo ha grandi conseguenze sull’Italia – per esempio – come si evince dall’attivismo frenetico delle associazioni di questi settori. Il ritorno di Biden non ha cambiato più di tanto la situazione: pur lontano dal protezionismo, a parole, in realtà non ha toccato le modifiche introdotte da Trump: il solo cambiamento significativo sta nella politica distributiva dei redditi e nell’uso della guerra ucraina per demolire gli accordi energetici fra Russia e Unione europea, costringendo gli europei a rivolgersi agli Usa per le forniture energetiche e pagarle molto di più.

Conclusioni provvisorie

Joe Biden: “Non so se le prossime elezioni saranno pacifiche”. La dichiarazione è stata ripresa un po’ in tutto il mondo, in modo piuttosto asettico e senza troppi commenti. Le fonti diverse e facilmente reperibili in rete.

Rimane un’ultima domanda cui cercare di dare un minimo di risposta. In che misura la politica delle grandi multinazionali ha influenzato oppure è cambiata a seguito delle due diverse presidenze? Si può parlare di indifferenza fra due diversi sistemi che corrono in parallelo. Le 10 maggiori multinazionali e anche le altre che non hanno bisogno del WTO per attuare le loro politiche commerciali, continuano per loro strada senza troppi intoppi. Le dinamiche delle loro crisi possibili sono legate o a fattori di concorrenza con le due grandi cinesi Tencent e Alibaba. Tuttavia le dinamiche della politica imperiale si iscrive in un ordine di problemi diversi che fino ad ora possono essere descritti secondo uno schema di reciproca indifferenza che può diventare fonte di contraddizioni. Ne indico alcune, come se fossero i titoli di capitoli da esplorare. 

  1. Il mercato è a occidente, la geopolitica no.
  2. L’Europa è un peso che gli Usa, per questa ragione insieme alla Gran Bretagna hanno fatto di tutto per impedire la nascita di una forte e autonoma Unione europea, ma l’impoverimento dell’Europa ha contraccolpi potenziali sui bilanci delle maggiori multinazionali Usa.
  3. Il mercato tecnologico può essere solo mondiale, ma i metalli rari sono quasi un monopolio cinese e in parte latino americano, dove la presenza cinese è molto forte.
  4. Il fronte interno statunitense va verso una polarizzazione potenzialmente drammatica.
  5. La Cina può aspettare senza fretta.

La seconda deduzione provvisoria che si può trarre è che i provvedimenti di carattere protezionistico di Trump hanno riguardato per un buon 90% i settori maturi e cioè il mercato automobilistico, gli alimentari, vestiario, settori manifatturieri in generale, con la sola – rilevante peraltro – eccezione e cioè lo scontro con la Cina per quanto attiene il sistema operativo Android cioè lo scontro con Huawei. La politica anti cinese di entrambi i presidenti, colpisce maggiormente l’Europa e il settore manifatturiero tedesco in primo luogo, mette in crisi il WTO, ma non sembra colpire la Cina più di tanto. Perché dunque questa politica? Trump è l’espressione di una contraddizione profonda che ci rimanda ai primi due punti dei cinque indicati alla fine della prima parte di questo studio: 1) il mercato è a occidente, la geopolitica no. 2) L’Europa è un costo che gli Usa non possono più mantenere ma così facendo la colano a picco. La politica di Trump, fondata sul breve termine per recuperare posti di lavoro nel tempo più breve possibile, ha funzionato eccome, ma è di corto respiro perché non riguarda i settori di punta. Questa dinamica schizofrenica è destinata ad approfondirsi e infondo il timore espresso da Biden nella dichiarazione all’inizio delle conclusioni va proprio nel senso una radicalizzazione dello scontro interno da un lato, e di un allargamento della forbice fra un mercato che continua a essere in larga prevalenza a occidente e una geopolitica che lo sarà sempre di meno. Tutto questo sembra portare a una collisione con la Cina, che le amministrazioni democratiche saranno probabilmente più determinate a perseguire fino alla guerra; ma chi spera che una presidenza Trump possa modificare le cose prende una grande cantonata. Quando Trump afferma l’inutilità della guerra ucraina, è solo per dire all’Europa: questa guerra fatevela voi, mentre sullo scontro geopolitico con la Cina non potrà tirarsi indietro. E se vincesse Harris? L’agenda di Harris è dettata da Biden e lo si vede molto bene dall’incontro settimane fra il Presidente e il leader britannico. Il teatrino sulla guerra ucraina andato in scena è una divisione delle parti. Biden nicchia sulla possibilità di usare le armi occidentali per colpire a Russia e il leader britannico lo vorrebbe: ma lo vuole davvero oppure è una scelta obbligata, un modo più soft della rozzezza trumpiana di dire all’Inghilterra la guerra fatevela voi che siete i nostri valletti in Europa? Quanto alla politica aggressiva anticinese s’inasprirà qualunque sia il presidente e lo dimostra proprio il discorso di Biden, non quello alla Convention democratica, ma quello fatto il giorno dopo, successivamente all’apoteosi festiva. In quel discorso sono stati posti due limiti precisi: di Gaza non si parla e Harris non potrà fare nulla di diverso sulla Cina. Biden è stato chiaro: il programma nucleare statunitense deve guardare in direzione cinese, Harris non potrà scostarsi di un millimetro da questa linea, a meno che non ci siano contrasti interni che ancora non vediamo. Del resto, nell’intervista successiva alla convention Harris ha già fatto molte marce indietro rispetto a quanto affermato in precedenza. La sua affermazione nel confronto diretto con Trump è dovuta maggiormente all’incapacità del secondo di porre un limite alla propria sgangherata emotività, oppure è il frutto di una scelta che gli è suggerita dallo staff, vai a sapere. In ogni caso, i nodi verranno presto al pettine. Rimane un’ultima questione cui cercare di dare risposta. Lo spostamento geopolitico verso l’estremo Oriente implica un abbandono parziale del campo mediorientale ed europeo? Le due questioni vanno a mio avviso tenute in parte separate. Le scelte suicide dell’Europa sulla guerra ucraina l’hanno messa ai margini, indipendentemente dalle dinamiche geopolitiche principali e cioè lo spostamento strategico verso l’estremo oriente. Proprio in questi giorni, la seconda tappa del suicidio si materializza nelle reazioni scomposte e al limite dell’incredibile al piano Draghi, che peraltro è stata la stessa commissione europea a commissionargli e non si può pensare che non sapessero già in partenza quali fossero le sue intenzioni, dal momento che quanto scritto nel rapporto Draghi lo ha detto più volte e infondo si muove nel solco del famoso whatever it takes di alcuni anni fa. La risposta è stata un no su tutta la linea. Il piano Draghi non è niente di che, non si scosta dai canoni del liberismo, prevede un’economia di guerra ma con due proposte logiche e di buon senso: se l’Europa è unita deve muoversi come una sola entità e questo vuol dire investimenti pubblici solidali e debito comune, altrimenti non stiamo parlando di un progetto comune ma di una accozzaglia di staterelli. Draghi è stato netto anche nel dire che se non sceglierà questa strada il declino dell’Europa diventerà inarrestabile e potrebbe aprire scenari nuovi e inquietanti; se sarà o meno conseguente con le sue parole è un altro discorso, ma non cambia la sostanza della cosa e cioè la marginalizzazione dell’Europa. Diverso ma altrettanto inquietante lo scenario mediorientale. Da tempo gli Usa cercano una soluzione che consenta loro di allentare la presenza mediorientale, delegando a Israele la funzione di cane da guardia della regione, ma le politiche al tempo stesso criminali e potenzialmente suicide della leadership israeliane – non solo del primo ministro ma di tutto l’establishment israeliano – hanno messo in scacco gli Usa in una misura fin troppo visibile a livello mondiale. Presi a pesci in faccia da Israele si sono macchiati di crimini di guerra – che differenza c’è fra chi il genocidio lo attua e chi gli fornisce le armi per farlo? – ma al tempo stesso il ricatto israeliano è riuscito a mettere ai margini qualsiasi tentativo di mediazione promosso dagli Usa, anche nelle forme più deboli e sempre sbilanciate in funzione antipalestinese. Fino a quando andrà avanti il ricatto israeliano nei confronti del mondo intero e di tutte le istituzioni internazionali? Potenzialmente sempre perché Israele – non solo il suo primo ministro e i coloni – sa fare solo la guerra e niente altro, ma questa politica rischia di creare un vortice nella quale cadranno in molti. Un commentatore israeliano è intervenuto in un dibattito recentemente ricordando una frase pronunciata anni fa da Golda Meir e quanto ma attuale: dopo la Shoah gli ebrei possono fare quello che vogliono e Golda Meir era addirittura una progressista secondo la disgustosa ipocrisia occidentale. Nel giudizio sulle prossime elezioni statunitensi, tuttavia, occorre distinguere alla fine due diverse questioni. La propaganda di entrambi i partiti metterà su di esse la sordina anche perché al popolo statunitense la politica estera interessa fino a un certo punto: una volta stabilito che 4 su cinque fra chi si esprime sta dalla parte di Israele e una volta detto che le perplessità sulla guerra ucraina sono molte, tali questioni saranno materia di scontro fra gli apparati di intelligence che se ne occupano: a questo proposito il controllo quasi monopolistico delle reti satellitari da parte Elon Musk potrebbe avvantaggiare Trump nelle elezioni ma sarà a disposizione di qualsiasi presidenza per scopi bellici. Le ragioni di politica interna determineranno probabilmente chi fra i due vincerà ma la crisi continuerà, con esiti imprevedibili perché il connubio fra cecità politica – gli Usa generano il caos ovunque ma non hanno vinto una sola guerra dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi – e la possibilità di usare una forza ancora immensa è l’aspetto più pericoloso della politica imperiale statunitense-anglo.

APPENDICE A L’IMPERO E LE MULTINAZIONALI

Il potere delle multinazionali negli Stati Uniti

Pubblicato: 16 Ottobre 2012

 (ASI)

… Lo Stato americano spende 500 miliardi di dollari l’anno in armamenti. Il budget per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo invece ammonta solo a 15 miliardi di dollari.  Oltre a ciò la maggior parte dei media degli U.S.A., soprattutto i giornali e le stazioni televisive, sono proprietà di grosse imprese. Le multinazionali Disney, Viacon, CBS, Time Warner, News Corp, Bertelsmann e General Electric controllano più del 90% del settore dei media, e guadagnano i loro soldi principalmente con costose pubblicità. In Germania gli utili delle imprese e i redditi patrimoniali sono aumentati del 31% dal 2000 al 2005. Le imposte pagate su questi redditi nello stesso lasso di tempo sono invece diminuite del 10%. La stessa evoluzione diventa visibile in modo ancora più drastico se si guarda ancora più indietro: tra il 1960 e il 2006 le tasse sugli utili delle imprese e sul patrimonio sono diminuite dal 20 al 7,1%. L’imposta sul reddito da lavoro dipendente nello stesso periodo invece è aumentata dal 6,3 al 16,3%. L’imposta sulle persone giuridiche, di cui si è discusso molto e con la quale vengono tassati gli utili delle imprese, dal 1980 al 2007 è diminuita in tutta Europa dal 45 al 24%. Nello stesso periodo, l’aliquota più alta per i redditi maggiori è diminuita dal 62 al 48%…. Dall’altro lato, persone normali e piccole imprese pagano sempre più tasse e contributi, nonostante traggano sempre meno vantaggi dal nostro sistema sociale. Nel 1980 la somma delle imposte e dei contributi sul reddito da lavoro dipendente ammontava a circa il triplo delle tasse sul capitale, nel 2003 aveva raggiunto il sestuplo. Un insegnante e un operaio non possono dire così facilmente: “Bè, allora mi trasferisco in un altro Paese dove pago meno tasse”. I 55 miliardari tedeschi possiedono insieme un patrimonio di 180 miliardi di euro. Questa somma raggiunge quasi l’ammontare dell’intera Germania, cioè della cifra che lo Stato ha a sua disposizione in un anno per le spese: nel 2006 erano circa 260 miliardi di euro per questioni di lavoro e sociali, 8 miliardi per l’istruzione e 4 miliardi per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Le spese per i cittadini più indigenti nello stesso anno ammontavano a 30 miliardi di euro scarsi, e ogni beneficiario doveva cavarsela con 345 euro al mese.

Davide Caluppi – Agenzia Stampa Italia

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Fonte: www.attac.it

Il libro che le multinazionali non ti farebbero mai leggere” di Klaus Werner-Lobo

Le società madri delle maggiori multinazionali sono concentrate per oltre il 95% in una decina di paesi ricchi. Il 42% delle esportazioni mondiali è effettuato all’interno delle filiali delle multinazionali. Rispetto al fatturato ed al potere economico di cui dispongono le multinazionali producono un numero di posti di lavoro molto basso.

Il controllo delle attività estere. Tra le multinazionali di ciascun paese un gruppo molto ristretto concentra nelle proprie mani la maggior parte delle attività delle filiali estere. Negli USA l’1% delle multinazionali controlla il 45% delle filiali all’estero di tutte le multinazionali. In Germania lo 0,7% delle multinazionali (50 società) controlla oltre i 2/3 di tutte le filiali estere tedesche. Il controllo delle filiali estere viene esercitato dalla società madri non necessariamente detenendo il 100% del loro pacchetto azionario, e spesso nemmeno con la quota maggioritaria, ma attraverso il controllo della tecnologia, dei marchi, dei servizi finanziari e del marketing.

La concentrazione geografica delle multinazionali

Il 96,5% delle società madri delle 200 maggiori multinazionali del mondo si concentra in appena 9 paesi. Queste società realizzano il 98% del fatturato e il 95% dei profitti complessivi delle 200 multinazionali. Nel mondo esistono oltre 63.000 multinazionali che controllano oltre 690.000 filiali estere. L’intero sistema delle multinazionali rappresentava nel 1997 ¼ del PIL mondiale. Negli Stati Uniti l’1% delle società madri (22 multinazionali) controllano il 45% di tutte le filiali estere delle multinazionali

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Analisi del comportamento delle maggiori multinazionali

La fonte principale cui faremo riferimento è la Forbes. Ecco come la redazione introduce il problema.

21 Settembre, 2018 @ 10:11 La redazione di Forbes.

Le più grandi aziende del mondo stanno diventando sempre più grandi. Ma quasi tutte hanno due cose in comune: sono tecnologiche e americane. La gara tra chi è più grosso, è una questione che si gioca tra pochissime aziende, tutte statunitensi: Apple, Amazon, Microsoft, Alphabet e Facebook. Si tratta di una competizione serrata e dove chi primeggia può perdere la posizione in poche ore. Infatti, la valutazione dei titoli azionari di una società può cambiare rapidamente. Così, quest’anno, Microsoft ha detronizzato Apple, che era l’azienda più grande nel 2018. I problemi di Apple e il successo di Microsoft. Attualmente, Apple soffre a causa delle scarse vendite di iPhone e MacBook. Al contrario, il modello di business di Microsoft è incentrato su flussi in costante aumento di entrate ricorrenti. Mentre le persone non hanno bisogno di un nuovo smartphone o laptop ogni anno, se hanno acquistato una licenza software, un pacchetto cloud o un abbonamento ad un videogioco, è probabile che lo rinnoveranno anche l’anno successivo. Ecco spiegato il sorpasso dell’azienda di Bill Gates a spese della Apple. Tuttavia, il valore delle azioni in circolazione di una società, cioè la sua capitalizzazione di mercato, può essere influenzato da una miriade di fattori imprevedibili. Ad esempio, i mercati azionari hanno ripetutamente perso valore a causa dei tweet del Presidente Donald Trump, comprese le società che avevano poco o nulla a che fare con l’argomento dei tweet: la Cina. Dietro ai numeri c’è sempre della verità. C’è chi si domanda se la capitalizzazione di mercato rifletta il valore oggettivo o il valore intrinseco di un’azienda. Warren Buffett a riguardo disse che “Nulla è più lontano dalla verità”. Tuttavia, essendo lui il fondatore di Berkshire Hathaway (in sesta posizione della graduatoria), sa bene che dietro ai numeri, capitalizzazione di mercato compresa, c’è sempre della verità. Mentre quasi tutte le prime 10 aziende più capitalizzate sono americane, spiccano due eccezioni: le società tecnologiche cinesi Tencent e Alibaba. Hanno infatti preso il posto di due colossi americani del calibro di Exxon Mobil e Wells Fargo. La loro ascesa ha segnato uno spostamento non solo nella composizione geografica della classifica, ma anche settoriale. Infatti, fino a un decennio fa, le società più capitalizzate sul mercato azionario erano società nel settore dell’energia, con una lunga storia alle loro spalle (Exxon, Generale Elettric e AT&T). Oggi sono quasi tutte le aziende tecnologiche. Meglio una gallina domani che un uovo oggi. Infine, è interessante notare come le aziende più grandi (in termini di capitalizzazione) non siano quelle che generano più fatturati. Tutte e dieci le società di questa graduatoria non sono nella Top 10 mondiale dei fatturati (Microsoft è solo in 60esima posizione). Come è possibile? Gli investitori preferiscono le start-up tecnologiche alle aziende che generano grandi fatturati perché hanno un potenziale di crescita molto maggiore. Chi ha acquistato 100 dollari in azioni Amazon durante la IPO del 1997, adesso (agosto) ne ha 106.000. Proprio Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon, ha sempre sostenuto che investire nella redditività futura attraverso nuovi prodotti e servizi ha la priorità rispetto a fare utili nell’immediato. Ma andiamo a vedere la classifica 2019 (i dati sono riferiti al 1 agosto) delle 10 maggiori aziende del mondo in termini di capitalizzazione di mercato.

Le 10 maggiori aziende del mondo per capitalizzazione di mercato nel 2019

  1. MICROSOFT (Stati Uniti): 1.058 miliardi di dollari
  2. APPLE (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari
  3. AMAZON (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari
  4. ALPHABET (Stati Uniti): 839 miliardi di dollari
  5. FACEBOOK (Stati Uniti): 550 miliardi di dollari
  6. BERKSHIRE HATHAWAY (Stati Uniti): 496 miliardi di dollari
  7. TENCENT (Cina): 436 miliardi di dollari
  8. ALIBABA (Cina): 431 miliardi di dollari
  9. VISA (Stati Uniti): 389 miliardi di dollari
  10. JPMORGAN CHASE (Stati Uniti): 366 miliardi di dollari

Fonte: AISOM

Cominciamo da Microsoft Corporation, azienda d’informatica con sede a Redmond nello Stato di Washington e quindi sulla costa atlantica. Creata da Bill Gates e Paul Allen il 4 aprile 1975, cambiò nome il 25 giugno 1981, per poi assumere nuovamente nel 1983 l’attuale denominazione. Dipendenti: 114.000 (dato del 2016) Slogan: «Do Great Things».1 In Italia sua sede centrale è a Milano e a Roma all’Eur. Cominciamo da questa azienda non tanto perché sia attualmente la più ‘avanzata’ (Amazon e Apple lo sono molto di più e persino Facebook – seppure un po’ claudicante – insieme a Google e a tutto il gruppone della Silicon Valley), ma perché occupa una posizione strategica e monopolistica in un uno dei settori europei più delicati: i desktop della pubblica amministrazione, che da solo rappresenta il 30% dei ricavi dell’Information Technology in Europa. L’attività di lobbying intrapresa da Microsoft ha naturalmente bypassato i diversi stati nazionali concentrandosi su Bruxelles, anche se poi gli esiti di tale campagna è a macchie di leopardo.Ecco come la situazione viene riassunta da Martin Schallbruch, fino al 2016 capo del servizio informatico del governo federale tedesco:

“Il lock in delle amministrazioni sarà un tema molto serio nel futuro, se non si agisce con investimenti importanti i nostri Stati rischiano di perdere il controllo sul proprio sistema informatico. È una questione di sovranità”.

La Microsoft ha annunciato di sospendere il sistema di sicurezza di tutti i computer delle amministrazioni pubbliche, se i governi non si affrettavano a sostituire il vecchio Windows XP con Windows 7. Non c’era possibilità di negoziare. Risultato: solo per un anno il governo olandese ha dovuto sborsare 6.5 milioni di euro per un software di protezione del suo vecchio sistema operativo, prima di migrare verso il nuovo modello Microsoft. Lo stesso hanno dovuto fare le altre amministrazioni europee. Il problema si ripresenterà nel 2020, quando Microsoft aggiornerà i suoi sistemi operativi Windows. Perché l’amministrazione pubblica dei nostri Paesi è incatenata ai programmi Microsoft. Gli esperti lo chiamano “vendor lock-in” essere legati a un solo venditore. I documenti sono tutti formattati con Windows. Diego Piacentini, il commissario voluto da Renzi per digitalizzare l’Italia, manager in aspettativa di Amazon, spiega:

“Nella Pubblica amministrazione italiana ci sono tanti servizi che non sono utili e non si parlano tra loro. Il vero problema oggi è la mancanza di operabilità e questa la puoi ottenere non solo con open source, ma anche con un altro applicativo proprietario”.

Ma se si continua a investire in software e nuove applicazioni (l’anagrafe unica, le fatture on-line, i documenti on line) che si agganciano sempre al sistema operativo Windows, della Microsoft, non se ne uscirà più.

“La Pubblica amministrazione non può e non deve essere ricattabile”, dice Flavia Marzano, Assessore IT al Comune di Roma, una lunga carriera come professore di Tecniche per l’Amministrazione Pubblica.

Devo avere il controllo sul software che controlla i dati dei miei cittadini”.

Tutto vero e di buon senso: ma che si fa allora? Lo capiremo meglio fra poco. Difficile, invece, comprendere se la strategia di Microsoft sia stata semplicemente dettata da ragioni commerciali e di realizzo oppure anche da una qualche velleità politica (diretta o eterodiretta) di controllo sulle amministrazioni e indirettamente su tutto il comparto politico e militare; né si capisce da questi dati se da parte degli stati europei e di Bruxelles si sia agito più per incompetenza che per connivenze o corruzione. Sappiamo però che il problema è sul tavolo dal 2013 e che nel 2020:

“… firmeremo con la Microsoft, stiamo valutando le alternative, ma per il momento non ce ne sono, non possiamo bloccare tutto il sistema”,

ha detto a Bruxelles Gertrud Ingestad, direttrice generale per le infrastrutture digitali. Corruzione, connivenza, incapacità di decidere su basi competenti? Probabilmente un mix, dal momento che l’alternativa invece esiste e si chiama open source, software libero: chi sviluppa i codici li mette a disposizione della comunità, basta scaricare gratuitamente un programma e poi cercare l’assistenza sul web o pagare dei professionisti. Il paradosso è che Google, Facebook e Skype (che appartiene a Microsoft) usano il sistema a codice aperto Linux. La stessa cosa per il controllo del traffico aereo europeo, per gli uffici fiscali di mezza Europa (ma non in Italia), per la Marina olandese. Dai dati emerge una prima constatazione, anch’essa ovvia: non esiste una politica europea comune su questo come su un po’ tutto e ognuno di arrangia come può. In questo contesto i soli a prendere l’iniziativa in Italia sono stati i militari su iniziatica del generale Camillo Sileo che tre anni fa, in spirito di spending review, ha proposto ai suoi superiori di tagliare il costo delle licenze Microsoft, 28 milioni di risparmi in 4 anni. Il ministero della Difesa ha accettato. Microsoft non l’ha presa bene: si racconta che il Capo del servizio commerciale della Microsoft sia volato da Redmond per impedire questa migrazione, ma niente.).

Abbiamo scoperto che solo il 15 per cento degli utenti usa appieno Office, cioè WordExcell e Power Point, per il resto il desktop è come una macchina per scrivere. Non c’era quindi bisogno di pagare tutte queste licenze”.

Libre Difesa: da settembre 2015 ad oggi sono stati cambiati 33.000 computer, si arriverà a 100.000 nel 2020. E nei tre corpi della Difesa, l’Esercito, la Marina e l’Aviazione.

“Abbiamo preparato questa migrazione con l’aiuto di Libre Italia, un’associazione no profit che diffonde l’open source nella Pa italiana”.

Dietro al generale Sileo, per sei mesi, c’era l’occhio attento di Sonia Montegiove, presidente di Libre Italia, un’informatica della Provincia di Perugia. Sileo mostra due schermi con i due software da lavoro, Office e Libre Office. “Sono uguali”. Solo che uno costa 280 euro a utilizzatore, ogni tre anni, l’altro è gratuito e lo posso cambiare come voglio. Sonia Montegiove spiega che altre Pa italiane sono passate a Libre Office: “I comuni di Bari, Verona, Trento, Assisi, Norcia, Todi, la Provincia di Perugia e il consiglio regionale dell’Umbria. Alcuni altri hanno migrato, ma non vogliono farlo sapere, per paura della Microsoft”.

In Italia il codice per l’amministrazione digitale o CAD, esiste dal 2005 ed è stato riveduto già tante volte. Però l’impianto resta:

Le pubbliche amministrazioni acquisiscono programmi informatici, dopo una valutazione comparativa tra (nell’ordine): “software sviluppato per conto della pubblica amministrazione; riutilizzo di software sviluppati nella Pa; software libero o a codice sorgente aperto; software fruibile in modalità cloud computing e software di tipo proprietario”.

Prima il software libero e poi quello proprietario. Peccato che non ci siano sanzioni, né incentivi. E dunque chi si avventura verso l’open source, rischia di scontrarsi con Microsoft. Nella provincia di Bolzano per quattro anni un’equipe di quattro funzionari ha lavorato a tempo pieno al viaggio verso Libre Office: si risparmiavano 500 mila euro di licenze il primo anno e 1 milione ogni anno successivo. Ma nel 2014 cambia la giunta e il 12 aprile 2016 viene approvata una nuova delibera in cui si annuncia un contratto con la Microsoft, 5,2 milioni su tre anni per andare sul Cloud (il software O365). Delibera votata dopo aver chiesto a una società “indipendente”, la Alpin di Bolzano, di dire la sua tra Libre Office, Google a sempre Microsoft. La Alpin, che nel suo sito fa promozione di prodotti Microsoft e chiede a chi cerca lavoro di saper usare i suoi programmi operativi, in sei giorni e con un compenso di 12 mila euro, conclude che ormai è un’esigenza andare sul cloud, quindi meglio restare con la Microsoft. Ma lo stesso responsabile IT, Kurt Pöhl, nella delibera di aprile ammette: “La banda non è pronta a sopportare una tale migrazione verso il cloud”. Intanto da maggio 2016 la Provincia versa 150 mila euro al mese nelle casse della Microsoft per un programma non ancora installato. Nella Regione Emilia Romagna la Microsoft ha dovuto essere più generosa: a ogni utilizzatore in regione sono state date quattro licenze in più, da usare privatamente, più cinque licenze per smartphone e 5 per tablet. E un nuovo contratto è stato firmato. Dobbiamo pensar male?

“La nostra priorità non è fare la guerra a Microsoft”, risponde l’onorevole Paolo Coppola (Pd) – stia tranquillo onorevole Coppola, non ne dubitiamo NDR – presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta che dovrebbe dirci come vengono usati i 5,2 miliardi che ogni anno la pubblica amministrazione spende sul digitale. “Noi dobbiamo insegnare agli italiani ad usare un computer. Se i big ci possono aiutare, ben vengano”.

Ma quanto si spende per le licenze? Nessuno lo sa. Né in Italia, né in Germania, in Francia, in Portogallo. La pressione sui dipendenti Microsoft è altissima, ogni tre mesi ricevono una graduatoria sulle loro prestazioni. “Se per due anni non vai bene, ti propongono un pacchetto di soldi, ma ti mandano a casa”, ha raccontato un impiegato italiano. “Le licenze vengono fatturate dall’Irlanda, da noi tutto si concentra sulle vendite, sulla lobby”.

Questa è la situazione in Europa ricostruita in un’inchiesta del fatto Quotidiano:

La potenza politica della Microsoft è evidente. Nel Regno Unito i suoi finanziamenti ai partiti politici sono pubblici, ma un ex-consulente IT dell’ex premier Cameron, Rohan Silva, ha rivelato le minacce della società americana al governo conservatore: niente fondi in caso di passaggio all’open source. In Portogallo, il giovane manager Microsoft Mauro Xavier è stato scelto dal capo del partito conservatore Pedro Coelho come capo della sua campagna elettorale nel 2011, per poi tornare in azienda dove oggi è a capo dell’Europa orientale. E continua a consigliare i governi portoghesi sulle migliori scelte in materia digitale. In Francia Investigate Europe ha trovato almeno cinque impiegati al ministero degli Interni e della Difesa, membri dello staff del ministero, con regolare indirizzo mail e telefono fisso, ma pagati da Microsoft e con un profilo da consulenti o venditori dentro l’azienda americana. Roberta Cocco è assessore al comune di Milano per la trasformazione digitale: in Microsoft dal 1991, ex direttore del Marketing in Italia e ha quasi quattro milioni di dollari in azioni Microsoft, per ora congelate. In Italia, come in molti altri Paesi, i prodotti Microsoft vengono venduti attraverso delle gare pubbliche della Consip (società del ministero del Tesoro, azionista unico). Ogni due anni in media la Consip apre un bando chiamato “Enterprise agreement per prodotti Microsoft”, la concorrenza è già tagliata fuori. Chi li vince? A ruota la Telecom o Fijutsu che rivendono dunque software, hardware e servizi della società americana. Una volta firmata questa Convenzione, le Pa non hanno più bisogno di andare a gara, firmano contratti sulla base dell’accordo Consip: 5 milioni qui, 10 là, i soldi vanno tutti in Irlanda da dove la Microsoft fa partire le fatture per le licenze. Abbiamo chiesto a vari avvocati in diversi paesi europei se lanciare bandi per una sola società, fosse in linea con le norme europee sugli appalti pubblici. “Non aprire ad altri fornitori è una chiara violazione della direttiva Ue sugli appalti”, risponde Matthieu Paapst, un avvocato olandese tra i massimi esperti in materia. “Il problema è che la Commissione europea è la prima a non rispettare le regole, firmando contratti con la Microsoft senza un bando pubblico”. “Cominciare una causa costa tempo e denaro”, spiega Marco Ciurcina, un avvocato torinese che nel 2006 vince una causa contro il ministero del Lavoro che voleva acquistare 4,5 milioni di licenze Microsoft. L’associazione Assoli riuscì a far bloccare l’acquisto per non rispetto della concorrenza. L’avvocato Ciurcina oggi però pensa ad altre soluzioni: “Non si può cambiare il sistema per vie legali. Deve cambiare la consapevolezza politica”. Microsoft non ha mai voluto rispondere alle nostre richieste d’interviste, nè dalla sede europea, né da molte sedi nazionali, tra cui l’Italia.

Cosa è cambiato nella politica di Microsoft negli anni successivi a questi dati? Poco o nulla se non l’aumento dei prezzi dei servizi cloud e poco altro. La sola vera novità sembra essere l’accordo del maggio  2024 con gli Emirati Arabi Uniti potrebbe trasferire all’estero chip e tecnologia chiave degli Stati Uniti e al tempo stesso un alleggerimento dei rapporti con la Cina e un rafforzamento della presenza in Giappone.

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AMAZON

Da: it.businessinsider.com

“Gli incredibili dati che rivelano le mostruose dimensioni raggiunte da Amazon”

Da: ilsole24.com

mar 2018 – Amazon spiegata con cinque grafici

Apple (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari:

Mappa diffusione iOs e Android

ALPHABET

it.businessinsider.com › la-societa-un-tempo-nota-come-google-e-molto-…

  1. luglio 2018 – E mercoledì 11 luglio il ramo per la ricerca e lo sviluppo di Alphabet, X, ha … dai palloni aerostatici per la diffusione di internet alle macchine a guida autonoma … Google è diventata ufficialmente Alphabet nell’ottobre del 2015, con la … che volino ininterrottamente per anni
  2. diffondendo internet per il mondo.

Fonti: Forbes, Il fatto quotidiano, Multiplayer.

Alcune deduzioni che si possono trarre da quanto detto sopra le vedremo nel capitolo conclusivo di questa prima parte; per avere un quadro esaustivo rispetto agli interrogativi posti nella premessa, è infatti necessario capire prima come Microsoft si muove negli altri contesti geopolitici.

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La politica di Microsoft in Estremo Oriente

I riferimenti che seguono danno un quadro sufficientemente ampio dell’espansione di Microsoft in estremo oriente:


Microsoft vuole una nuova divisione Xbox Asia incrementare la …

Sembra che Microsoft abbia intenzione di tornare a concentrarsi anche sul … in estremo oriente di Phil Spencer per questioni di sviluppo della divisione Xbox. I grandi sempre più verso l’Estremo Oriente – Punto Informatico

www.punto-informatico.it › i-grandi-sempre-pi-verso-lestremo-oriente

Microsoft progetta di aprire il primo centro di sviluppo per MSN in Cina, Sony Ericsson sposterà il grosso delle proprie produzioni in India.


Touchscreen – Ordine record di Surface per Microsoft – Focus.it

www.focus.it › tecnologia › microsoft-surface-diventa-un-karaoke-bar

Microsoft festeggia il capodanno cinese con otto Xbox One …

www.everyeye.it › Scheda Xbox One › Notizie


1     Il valore azionario non viene indicato perché varia di giorno in giorno ed è facilmente reperibile in rete.

SULLE COMMEMORAZIONI DEL D-DAY

Premessa

Non pensavo proprio di occuparmene, ma giovedì sera ho seguito la trasmissione di Alessandro Barbero su Rai Storia e alla fine sono stato contento di averlo fatto. Barbero con il suo atteggiamento ridanciano e a volte apparentemente ingenuo riesce sempre a colpire nel segno e lo ha fatto anche questa volta, trasformando – senza darlo troppo a vedere – una commemorazione in una esposizione dello stupidario militare e molto altro. Lo schema delle sua trasmissione è molto semplice. Alcune sobrie note introduttive, una selezione attenta di storici molto documentati e alcune domande ben scelte che provengono da chi assiste alle trasmissioni da casa. Poiché il programma si può rivedere in Rai Play non mi soffermo ulteriormente su di esso, chi vuole potrà rivederlo e dire se il mio giudizio è condivisibile o meno e quindi passo alle riflessioni che il programma ha suscitato in me, limitandomi a una sola citazione e precisamente la domanda decisiva posta da una ragazza e che Barbero ha lasciato per il gran finale:

“Se lo sbarco fosse fallito cosa sarebbe successo?”

“Le cose sarebbero andate nello stesso modo” – risponde Barbero – “solo ci sarebbe voluto un po’ di tempo in più” , ma a giudicare dall’espressione del volto neppure tanto.

Le ragioni di tale risposta molto netta sono riportate nella trasmissione. Esaurite le premesse vengo alle mie rapide riflessioni.

Non erano dei giganti

Uno dei leit motiv che compaiono qui e là in questi giorni è che chi ci governa oggi è uno stuolo di mediocri se paragonati ai giganti di allora. Non lo erano affatto e credo che tale giudizio sia basato su una distorsione ottica che ha a che fare con l’esposizione mediatica. Penso che se Roosevelt, Churchill e Stalin fossero stati seguiti da giornalisti e mass media, reti social, microfoni lasciati aperti per sbaglio o volutamente, interviste più o meno pilotate e continue apparizioni televisive, sarebbero apparsi della medesima statura che oggi viene attribuita al Barnum contemporaneo di giornalisti, commentatori e leaders. Quanto a Hitler e Mussolini, i due godevano di un sovrappiù di grottesco grazie alle caricature che di loro fece Chaplin e per la caricatura di se stessi di cui erano entrambi maestri. I leader di oggi che possono apparire un’eccezione rispetto a tale drastico giudizio lo sono perché – se ci si fa caso – appaiono di meno nei notiziari occidentali e perché in generale sono leader che si espongono di meno; ma la sostanza non muta.

Lo stupidario militare

Gli esempi sono infiniti e del resto è sufficiente avere giocato a Risiko tre o quattro volte (peraltro come per internet il gioco viene dalle accademie militari), per rendersene conto. Tuttavia, a parte i giudizi espressi nella trasmissione, suggerisco la lettura di tre libri. Il primo è Il grande gioco di Peter Hopkirk, Adelphi Milano; un testo prezioso perché ricostruisce, con una documentazione in parte inedita o poco conosciuta, i tentativi compiuti dalle potenze occidentali durante tutto il 1800 per conquistare l’Estremo Oriente o almeno influenzare le politiche dei diversi stati e staterelli di quell’area, in modo da farsene alleati contro le altre potenze concorrenti. Il libro ha aspetti – forse involontariamente – tragicomici e lo si potrebbe definire anche un campionario delle stupidità geopolitiche e militari pensate da cosiddetti strateghi. Si comincia dal progetto di Napoleone Bonaparte d’invadere l’India, progetto che viene preso sul serio dagli inglesi. Comincia così una vera propria corsa verso i luoghi e territori che si trovano nel mezzo fra l’Europa il continente indiano. Era dai tempi di Alessandro Magno che nessuno ci aveva più pensato. Spie, false spedizione scientifiche, frenetici contatti con gli emiri afghani e altro. Poiché una spia tira l’altra come le ciliegie, le spedizioni continuarono per alcuni decenni. A ogni nuova missione si scopriva che c’era sempre qualcun altro che stava battendo le stesse piste e questo faceva pensare all’esistenza di piani segreti che occorreva scoprire: un affollamento grottesco, i cui scopi diventavano sempre più fumosi. Nella seconda metà del secolo, però, accade qualcosa di nuovo: un simpatico cartografo e disegnatore dilettante mandato in avanscoperta in quei territori immensi fra Russia, Afghanistan, Persia scrive che da quelle parti non ci sono strade, ma solo sentieri impervi, che fra una popolazione e l’altra le barriere fisiche di una natura indomabile rende tutto assai complicato: chi invade chi? Improvvisamente, dopo quella mirabolante scoperta, tutto finisce, repentinamente così come era cominciato.

Il secondo è un grande classico scritto migliaia di anni fa: l’Arte della guerra di Sun Tzu. A dispetto del titolo, se lo si legge davvero dall’inizio alla fine e fra le righe, questo manuale di strategia militare si traduce paradossalmente nel suo opposto e questo forse spiega molto della Cina e dei cinesi.

Il terzo è un classico del ‘900 che andrebbe continuamente riletto e studiato: Le tre ghinee di Virginia Woolf.

INTORNO A PROMETEISMO E TRANSUMANISMO

Recentemente il termine prometeismo è tornato in auge insieme a un altro di conio più recente: Antropocene. In merito al primo termine, alcuni studiosi hanno proposto una lettura che, partendo dal mondo preistorico, individua due diverse forme di prometeismo: la prima volta alla distruzione l’altra positivamente orientata.1 Il quadro che ne esce, tuttavia, è altrettanto problematico, perché individuare due tendenze opposte (lo sdoppiamento) rischia di essere un’operazione d’inutile buon senso al punto in cui ci troviamo; così come il ripetersi a ogni occasione che la tecnologia può essere buona o cattiva e dipende da come la si usa. Rimanere dentro tale senso comune non può più aiutarci a comprendere il presente. L’emergenza climatica, il rischio di ripetersi di pandemie innescate dallo spillover, a sua volta agevolato dagli allevamenti intensivi, non permettono più di considerare il prometeismo nei suoi aspetti positivi, se non evidenziandone valenze diverse rispetto a quelle storicamente valorizzate, tutte incentrate sull’esaltazione della potenza. Ancor peggio, poi, se lo scontro fra le due tendenze viene accolto come una sorta di sfida fra due diversi titanismi. Il prometeismo è diventato un vicolo cieco, sebbene il mito da cui deriva e il personaggio Prometeo, meritino una riflessione assai più attenta a partire dall’opera di Mary Shelley a lui dedicata, Frankenstein, or the modern Prometheus. L’importanza dell’opera di Shelley sta nel mettere in scena un Prometeo che non vuole più dare agli umani gli strumenti per poter vivere meglio, ma vuole creare una seconda natura con le proprie mani. La differenza fra l’opera di Mary Shelley e le distopie proposte da altri autori, specialmente quelle che verranno scritte in pieno ‘900, è che lei è la sola a non manifestare alcun ammiccamento o collusione fascinosa con la tematica oggetto del romanzo. Il suo intento sono la denuncia e la paura, che non si ritrovano invece in molti romanzi successivi, in cui l’autore di fatto collude con la distopia che mette in scena e in alcuni casi addirittura esibisce in modo narcisistico il proprio cupio dissolvi. Pubblicata nel 1818, Shelley modificò in parte il romanzo nel 1831 quando uscì la seconda edizione: come tutte le storie gotiche ha alcune caratteristiche tipiche del genere letterario che possono fuorviare dal nucleo e dalla sua origine e cioè un incubo che lei ebbe a seguito di un gioco di società inventato da Byron e dalla sorellastra di Mary, Claire Clarmont. Il gioco consisteva nell’inventare fiabe e narrazioni di fantasmi, ma senza trascurare il fatto che fantasie scientifiche, scoperte reali e narrazioni horror – diremmo oggi – si mescolavano facilmente in molti ambienti in quegli anni. Mary Shelley, forse influenzata dalle scoperte dell’abate Galvani, sogna quello che sarà poi il tema centrale del suo romanzo: un uomo che assembla i pezzi di un altro essere fino a infondergli la vita. L’incubo la terrorizza e lei decide di scrivere proprio per liberarsene, ma la scelta di definire il professor Frankenstein come il moderno Prometeo pone il romanzo ben oltre il genere di appartenenza e per noi che siamo da tempo prigionieri di una commistione perversa fra capitalismo e Big Science, possiamo proiettare l’opera della scrittrice britannica nel futuro. La visione di una seconda natura ha in questo slancio prometeico e titanico al tempo stesso, le sue ragioni d’essere, le stesse che in parte abbiamo trovato anche nel Romanticismo e ancor più nella mitologia intorno al medesimo: gli anni sono quelli. Nel romanzo, la creatura mostruosa decide alla fine di darsi lei stessa la morte.2 Il Prometeo di Mary Shelley è la visione più potente dell’homo capitalistis e prometeico (uso l’espressione dandole anche un significato di genere) coniugato all’esaltazione delle tecnologie nella loro proiezione storica e forse non è un caso che a scriverlo sia stata proprio una donna. Si pensi al ruolo esponenziale delle protesi, alla robotica estesa fino a fare dei robot delle badanti e ora anche delle amanti come nelle più recenti declinazioni giapponesi. Si pensi alle visioni fra l’apocalittico e il fantascientifico di certi guru della Silicon Valley che vagheggiano la possibilità di superare per sempre la morte tramite l’ibernazione, le tecnologie di sostituzione degli organi, o la manipolazione del DNA, le fughe su astronavi alla ricerca di altri mondi in cui vivere.3 Il transumanismo coniugato all’onnipotenza tecnologica è l’estrema propaggine delle distopie e delle narrazioni apocalittiche attuali e non è un caso che nasca in ambienti anglo statunitensi, in una commistione perversa fra millenarismo, letture catastrofiche dell’Apocalisse di Giovanni e deliri tecnologici autodistruttivi. Sulle narrazioni tossiche contemporanee il libro Una vita liberata di Roberto Ciccarelli è quanto mai prezioso.4 In esso l’autore affronta in un capitolo specifico e qui e là nell’intero saggio, il significato attuale delle molte narrazioni catastrofico-apocalittiche che si sono susseguite, specialmente dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19. Il suo giudizio è netto: tali narrazioni tossiche confondono fine del mondo con fine di un mondo e si pongono come forme di falsa coscienza e rivoluzione passiva che trova tuttavia collusioni anche in chi critica l’ordine neoliberale. L’analisi di Ciccarelli quanto mai convincente per quanto mi riguarda, ha il merito fra l’altro di mettere in evidenza, seppure sotto traccia, come tali narrazioni nascano in un humus culturale definito, il medesimo peraltro in cui sono nate la maggiori distopie da un punto di vista letterario

Disastri veri e apocalissi fasulle

Nessun genere letterario è più anglo statunitense della distopia, ma ciò che è più interessante per il contesto oltre atlantico, è la commistione fra tecnologia, catastrofismo apocalittico, misticismo e pensiero empirista, che si riscontra anche in molti romanzi, ma che appartiene anche a una élite che fa parte di un establishment trasversale alle diverse presidenze Usa. Il grande modello o archetipo che sta alle spalle di molte narrazioni distopiche è proprio l’Apocalisse di Giovanni, sia nella versione etimologicamente corretta del termine e cioè di rivelazione e anche di missione messianica, sia in quello corrente di catastrofe. Il testo ha profondamente influenzato la cultura statunitense delle origini, sia nel senso proprio di rivelazione, sia nell’altro senso. Alcuni degli elementi fondanti di questa formazione discorsiva si trovano nell’esperienza empirica dei coloni puritani sbarcati nell’America del nord e sono riassumibili a mio avviso in alcuni punti, di cui i primi due sono i pilastri portanti e gli altri due il trascinamento sul suolo americano di formazioni discorsive nate in Europa: la predestinazione, il primato dell’individuo sulla società e la comunità, la natura come oggetto da asservire, la tecnologia e il calcolo come strumenti di tale asservimento.

La predestinazione.

Grazia e predestinazione alla salvezza sono una coppia importante e la seconda parola è una traduzione possibile dell’immagine dei Marcati e dunque dei salvi a priori che si trovano nell’Apocalisse di Giovanni. A questo si aggiunga il fatto che secondo il protestantesimo radicale di Calvino, è proprio il successo mondano uno dei segni possibili della grazia. Ora, se si pensa agli inizi dell’avventura coloniale, alle indubbie difficoltà nell’approdare in un luogo in parte sconosciuto, la capacità di resistere e di farsi largo in quel mondo (sto adottando provvisoriamente il loro punto di vista e non quello dei popoli nativi ovviamente) tutto questo poteva facilitare la convinzione di essere stati predestinati a una missione divina. L’idea più volte ripetuta in tutti i discorsi presidenziali statunitensi – più accentuata in quelli democratici – di una missione degli Usa nel mondo ha le proprie radici proprio in questa narrazione, che tuttavia ha nutrito anche un pensiero laterale democratico come quello, per esempio di Thoreau. Tale presupposto fondante, forse il più importante, non ha se non in minima parte le proprie radici in un pensiero genericamente illuminista, né deriva di per sé dalla concezione che ispirava i rivoluzionari francesi, ma costituisce già in origine una formazione discorsiva che ha obiettivi ben diversi, perché i due contesti sono diversissimi. I diritti dell’uomo e del cittadino nascono prima di tutto in contrasto con l’assolutismo, sono quindi diritti del cittadino singolo rispetto al dispotismo del sovrano e dell’aristocrazia, ma sono anche diritti del popolo e quindi della comunità, tramite il parlamento e il suffragio. Non è affatto vero che la filosofia di fondo che ispirava la prima carta costituzionale francese fosse quella di un individualismo esasperato. I suoi limiti erano di genere e di classe. Il contesto statunitense è totalmente diverso.

L’individualismo statunitense.

Quegli uomini (e il termine va preso alla lettera perché le donne erano escluse), erano già liberi, i nativi per loro erano solo selvaggi che non ponevano problemi di ordine giuridico e costituzionale e neppure morale – se non per alcuni – mentre aristocrazia e assolutismo se li erano lasciati alle spalle in Europa. L’idea di una preminenza dell’individuo sulla società e la comunità – parole che non uso per caso al posto della parola Stato –  non è la traduzione americana dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma piuttosto una formazione discorsiva nella quale confluiscono l’assolutizzazione di una concezione della salvezza che è solo individuale (tipica delle versioni più estreme del protestantesimo), un’idea d’individualità come misura di ogni cosa che ha una qualche radice nel solipsismo filosofico di Barkeley, sostenuta probabilmente anche sulla visione ingenua di un teismo che riconosceva nella vastità del territorio vergine e ricchissimo da conquistare e occupare un’immagine possibile del Paradiso Terrestre o almeno di quella prefigurazione della fine dei tempi e della tenda di dio in mezzo agli uomini di cui parla l’Apocalisse. Dicendola un po’ più alla buona: se c’è posto per tutti perché preoccuparsi della società? Che ognuno faccia di se stesso una società o la comunità che vuole, pianti la sua bandiera dove arriva, si armi fino ai denti, recinti la sua conquista per stabilire che quel territorio è di sua proprietà, al massimo estendendola alla famiglia, unica istituzione riconosciuta nel passaggio aldilà dell’Atlantico. Proprietà e famiglia – entrambe armate come sancito dalla costituzione degli Usa –  sono gli ambiti sociali per eccellenza tutto il resto va soltanto limitato nei suoi poteri.

La natura da asservire.

Non è ovviamente una prerogativa statunitense ma di tutto il pensiero occidentale, almeno da un certo momento in poi; tuttavia, nel passaggio al nuovo continente essa si radicalizza e una delle ragioni sta proprio nella vastità del territorio. Poche parole sono necessarie in questo caso: la narrazione della frontiera e dell’espansione verso ovest parla da sola ed è in realtà una narrazione che nega l’esistenza della frontiera e cioè del limite. Infatti, non appena ultimata la conquista, non appena finite le guerre indiane, l’espansione a occidente si tramuterà nel giro di pochi anni in una attitudine imperiale (uso il termine in alternativa a imperialismo che significa altro) e aggressione agli stati vicini (la guerra ispanica del 1888). Per apprezzare meglio il passaggio che riconnette mistica e tecnologia, invece, mi servirò di un libro dello storico statunitense David Noble, intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito d’invenzione. Scelgo questo libro perché è una raccolta di citazioni molto importanti intorno a questa tematica, per cui il lettore non deve fare la fatica di andarsele a cercare. Non sempre le tesi conclusive e le deduzioni di Noble sono accettabili e talvolta troppo ingenue, Più sociologo che filosofo Noble tende alla fine a una visione troppo parziale, però la mole di materiali che egli ha raccolto è indubbiamente impressionante. Mi servirò del suo libro in questo senso cercando però di inserirlo in un quadro più ampio di quanto non faccia il sociologo statunitense. Noble parte da un’osservazione empirica che viene dalla lettura dei testi sacri: come la tecnologia sia stata considerata, dal Medioevo in poi, un’arma affidata dal dio cristiano ai fedeli per combattere il male. Questo vale sia per le tecnologie agricole messe a punto dai monaci benedettini, ma anche per le armi con cui combattere gli infedeli, come si evince da questa citazione tratta dal Salterio di Utrecht:

I malvagi si accontenteranno di usare un’affilatrice di vecchio stampo; i devoti invece … la prima manovella usata fuori dalla Cina e applicata alla prima mola conosciuta al mondo. Ovviamente l’artista vuole dirci che il progresso tecnologico è volere di Dio.

Non solo i padri della Chiesa come Agostino, ma anche eretici o mistici visionari quasi all’indice condividono questo pensiero: da Gioacchino da Fiore a Raimondo Lullo. Nella seconda parte del libro, intitolata Tecnologie della trascendenza,  il libro di Noble affronta il nesso fra tecnologia, potere politico e millenarismo nella contemporaneità ed è qui che entra in scena Hume. Perché, fino a tutto il Medioevo, l’ipotesi di una tecnologia al servizio di dio piuttosto che dei malvagi, si ammanta solo di espressioni metaforiche e in fondo abbastanza ingenue. Quando però tale pretesa diventa calcolabile e si ammanta di oggettività tecnologica assurta a verità teologica, essa produce degli effetti che nei successori, atei o credenti che siano, porta alle aberrazioni qui di seguito. Secondo Edward Fredkin, vi sono stati tre grandi eventi di uguale importanza nella storia dell’universo. Dopo aver detto che il primo è la creazione stessa dell’universo e il secondo l’apparire della vita, eccoci al terzo: 

Penso che la nostra missione sia quella di creare l’intelligenza artificiale, è il prossimo passo dell’evoluzione.

Sempre più preso dall’entusiasmo il nostro si domanda addirittura come mai dio non ci abbia pensato lui a crearla. Ma chi è Fredkin? Ovviamente uno scienziato che si occupa di intelligenza artificiale, ma anche un consigliere di diversi presidenti.  Ma c’è di più. Nel capitolo viii del libro di Noble, dal titolo significativo “Armageddon, la battaglia finale: le armi atomiche”, Noble cita scienziati e politici anglo statunitensi, che sembrano parlare come mistici invasati, ma dotati appunto di un potere tecnologico immenso. Una sola citazione per tutte: 

La bomba atomica è la buona novella della dannazione.

Mi sono chiesto cosa ci sia dietro questo narcisismo della distruzione che alberga nella cultura anglo-americana come in nessun’altra e che ritroviamo puntualmente anche nelle distopie. Nel caso della citazione finale forse la chiave di comprensione diventa assai semplice. Una mondità del tutto affidata al caos, alla legge del più forte e senza alcuna speranza di salvezza e redenzione, alla lunga diventa insopportabile anche per chi la persegue: il mito di Armagheddon e cioè la lotta finale e definitiva fra il bene e il male quanto prima arriva tanto meglio è: ciò giustifica ampiamente il paradosso di una buona novella della distruzione: un vero e proprio corto circuito che chiude il cerchio e che spiega anche l’eclatante deriva complottista e negazionista  – prima del Covid e poi del voto – che ha avuto come protagonista addirittura un presidente eletto. Questa miscela esplosiva di razzismo, deliri tecnologici e pseudo misticismo è nel Dna dell’uomo bianco statunitense fin dalle origini. Non bisogna farsi illusioni sulle intenzioni dell’establishment nordamericano. La politica estera statunitense conosce solo due principi: Carthago delenda est e Vae victis, perché senza nemico esterno, il suo fronte interno si disgregherebbe subito, la guerra civile e le spinte secessioniste sono sempre latenti in ogni momento della sua storia. Il problema non è se potranno cambiare, ma se potranno continuare a farlo oppure no. Come per tutte le distopie, infatti, non è detto che riescano a trionfare; anzi, fanno di certo molti danni ma alla fine non trionfano.


1 Il primo studioso a proporre una definizione specifica per l’era in cui la Terra è massicciamente segnata dall’attività umana fu il geologo Antonio Stoppani nel 1873. Successivamente il geochimico russo Vernadskij definì il periodo col termine di noősphera (ossia mondo del pensiero) per sottolineare il potere crescente della mente umana nel modellare il suo futuro e l’ambiente; lo stesso termine venne usato dal paleontologo e pensatore cattolico Teilhard de Chardin. Nel 1992, Andrew Revkin ipotizzò la creazione di una nuova epoca geologica chiamata Antrocene. Il termine fu diffuso negli anni ottanta dal biologo naturalista Eugene F. Stoermer e adottato successivamente da Paul Crutzen. Successivamente Crutzen formalizzò il concetto in opere quali l’articolo Geology of mankind, apparso nel 2002 su Nature e il libro Benvenuti nell’Antropocene. Per quanto riguarda invece il termini prometeismo, mi riferisco ad alcuni saggi comparsi in Sinistra in rete. Riporto il nome degli autori di alcuni di essi: Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli con un articolo dal titolo L’assalto al cielo, Bellamy Foster – La dialettica della natura di Engels e l’antropocene; infine ancora Burgio, Leoni e Sidoli con Homo Prometeous e marxismo prometeico.

Due libri recenti, il primo scritto congiuntamente da David Graeber e da David Wengrow – L’alba di tutto – e il secondo del solo Graeber – Il debito i primo 5000 anni – sono decisivi nel proporre uno sguardo diverso dalle narrazioni correnti anche sul tema del prometeismo.

2 Figlia di Mary Wollstonecraft e di William Godwin, cresciuta in un ambiente ricco culturalmente e dove l’emancipazione femminile era considerata un valore, Mary Shelley, ha avuto un ruolo importante nella cultura di quegli anni. Il modo in cui termina il suo romanzo è governato dalla pietas, un sentimento che la distanzia ulteriormente da ogni forma di ammiccamento e titanismo, anche involontari. La scelta della creatura mostruosa di darsi lei stessa la morte sta all’opposto del nichilismo e suona come una denuncia delle pretese del suo creatore. Una eco di questa soluzione a me sembra sia stata ripresa nel primo Blade runner e precisamente nell’episodio finale della morte del replicante con il suo celeberrimo monologo. Quanto alla ricezione della sua opera presso di noi, fino al 1970  è stata principalmente conosciuta per l’apporto che ha dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il suo romanzo, che ebbe grande successo e ispirò numerosi adattamenti teatrali e cinematografici. Studi recenti hanno però permesso una più profonda conoscenza del profilo letterario di Mary Shelley; in particolare, questi studi si sono concentrati su opere meno conosciute dell’autrice, tra cui romanzi storici come Valperga, romanzi apocalittici come L’ultimo uomo. Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggio A zonzo per la Germania e l’Italia contribuirono a fare di Mary Shelley l’esponente di una politica radicale, ma anche in opposizione agli ideali romantici ma individualisti che ispirarono in particolare William Godwin. La sua istanza politica era molto più indirizzata nel senso della cooperazione sociale, distanziandosi così sia dal padre sia da Percy Bessie Shelley.

3 Gli articoli e le interviste a manager, esponenti a vario titoli delle più importanti major statunitensi della Silicon valley sullo sfidare la morte, sono continue. Il Sole 24 ore ha pubblicato diversi articoli al proposito, ma è sufficiente aggirarsi nella rete per trovare tutto quello che serve per informarsi. Citarne una o l’altra non ha molta importanza.  Riporto soltanto l’indicazione di questo articolo dell’Huffington Post: https://www.huffingtonpost.it/2017/01/26/miliardari-silicon-valley-preparano-per-apocalisse_n_14413104.html

4 Roberto Ciccarelli, Una vita liberata Derive Approdi, Roma 2002.

LE TESI SULLA STORIA DI WALTER BENJAMIN

Una parte di questa riflessione è stata già pubblicata sulla rivista online Overleft (www.overleft.it), con il titolo La speranza possibile. Alla fine ho deciso di riproporlo qui nella sua forma più estesa e con alcune modifiche al fine di accorciare quelle parti che mi sono sembrate più datate rispetto al nostro presente e invece sviluppandone altre. Data la lunghezza del testo, lo pubblico in due puntate: la prima è la pars destruens della riflessione di Benjamin e si conclude con la celeberrima nona Tesi, quella in cui compare l’Angelo della storia e ha come riferimento un quadro di Klee.

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Premessa

I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo, dopo due anni di pandemia che stanno già cadendo in un eccessivo oblio, sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere quest’opera, che si può considerare il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito di tale testo, nelle diverse riletture che ne ho fatto, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita.

Introduzione

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, contraddittoria e oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920.

Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso che va ben oltre lo scritto del ‘20. Bisogna tuttavia considerare che egli si trovava in una condizione di disperazione personale e di isolamento in quel momento. Penso che se avesse avuto il tempo di rivederle, alcune oscurità avrebbe cercato di chiarirle e del resto che si tratti di un lavoro composto in uno stato febbrile lo dimostra il continuo cambiamento nell’ordine delle tesi e le due non numerate ma indicate come Tesi A e Tesi B, aggiunte per ultime. Per di più, le versioni diverse del testo e delle traduzioni rendono ancor più complesso avvicinarsi a quest’opera. Per tale ragione seguirò un mio ordine nel commentarle e non quello delle due traduzioni italiane cui faccio riferimento, peraltro diverse anch’esse nella numerazione. Per alcuni passaggi chiave farò ricorso anche all’originale in lingua tedesca. Per non appesantire la lettura con continui rimandi alle note, indicherò nel testo a quale traduzione mi riferisco, caso per caso.1   

Al grado zero della speranza

Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana ndr).

Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.   

Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, alcuni dei temi intorno ai quali si muove la riflessione, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentrop-Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Egli lo ricorderà quasi in ognuna delle Tesi che il contesto è quello. Nazismo e Fascismo trionfano ovunque, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era entrata in guerra; dall’altro c’è lo smarrimento del fronte antifascista. Portandoci in una nicchia conventuale, Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. Niente però è più salvo della prassi precedente quel momento, compresi certi sodalizi che sono stati anche i suoi. In quei politici e in quei partiti nulla può essere riconosciuto come speranza e occorre avere il coraggio di voltare loro le spalle: è uno scenario che conosciamo benissimo anche noi oggi.

La regola della meditazione conventuale è un togliersi dalla lettera della storia e il farlo implica accettare il prezzo che comporta il rifiuto di colludere con il modus operandi di poco prima; tale prezzo, tuttavia, non è tanto la brutalità degli eventi in sé e neppure la propria solitudine soltanto, ma prima di tutto un affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente. Come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente, la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. Qual è tuttavia la concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere? Lo storicismo; ma si tratta  di un termine convenzionale e tecnico che può essere frainteso e che di per sé non risponde alla necessità impellente di gettare l’allarme in un momento tragico della storia europea. Nella tesi ottava troviamo una sua maggiore concretizzazione:

La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […]. Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)

Lo storicismo assume qui un volto, non ancora del tutto definito, ma alcuni lineamenti iniziano a palesarsi. Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2023?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.

Tesi settima.  Traduzione da L’ospite ingrato.

Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Prima di commentarla tuttavia, è necessario una messa in guardia sull’uso del termine materialismo storico che appare in essa e in quella precedente, come antidoto allo storicismo e il cui compito – assai impegnativo – sarebbe quello di spazzolare la storia contropelo. Opportuno è leggere subito la prima tesi che si trova in nota, per comprendere che forse Benjamin non sta dicendo ciò che superficialmente appare2.

Stalin e Molotov

Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? Cosa significa? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita.3 Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Per farlo bisogna arrivare in fondo a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. E invece è proprio questo che il filosofo suggerisce di fare, in un modo che può apparire paradossale, ma che lo diventa di meno se leggiamo la dodicesima tesi, liberandola da alcuni aspetti datati.

   Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […]. Questa coscienza che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare del tutto il nome di un Blanqui […]. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future […]. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrifico. Entrambi, infatti, si alimentano dell’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.    

La Lega di Spartaco è la speranza precedente che Benjamin non rinnega ma che appartiene al passato, come peraltro la socialdemocrazia cui egli non ha mai riservato alcun credito. L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni, disseminate in modo non sempre consequenziale, ma che alla fine permettono una ricostruzione del suo pensiero. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa in prima istanza identificarsi con tutti i vincitori, facendo propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.4 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti cioè “le tesi”.5 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.

In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.6 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi potremmo dire il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi:

 […] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […].

Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout-court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo. 

Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica, le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci si ponessero al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Dietzgen: “è là gratuitamente”.   

L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. La conclusione ci dice però qualcosa di più e cioè che la natura non è gratis, un concetto con il quale ci troviamo decenni dopo a fare i conti in modo drammatico.7 Che dire però del paradossale elogio di Fourier? Prima di tutto che non si tratta di un paradosso, ma se mai di un uso del medesimo per arrivare a indicare altro. Ciò che importa ed è decisivo nella citazione di Fourier, aldilà delle bizzarrie che lo hanno reso famoso, è l’affermazione finale di Benjamin e cioè che le sue ipotesi, per quanto strampalate, esprimono una filosofia di fondo che è sana e cioè che rispetto alla natura il lavoro utile è quello che fa prevalentemente da levatrice a ciò che si trova già nel suo grembo. La sintesi che possiamo trarre da questo accostamento analogico è che la più strampalata ma sana fantasticheria è di gran lunga preferibile a qualsiasi progressismo impregnato di positivismo e di spregiudicatezza tattica senza etica alcuna. Alla luce di tutto ciò e proprio perché questa critica covava da tempo, si può ora commentare la prima Tesi, la sola che in tutte le versioni si trova sempre al primo posto.

Si dice che esistesse un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […] In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “Materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.

È per tutti i commentari la tesi più oscura ed enigmatica. Il racconto ce la rende più ostica, ma comincia a esserla meno se ci sintonizziamo sullo stile della sua scrittura. Benjamin usa l’apologo e persino la parabola e l’accostamento analogico, lo ha fatto in tutte le tesi; ma lascia sempre un vuoto nel mezzo, in questa tesi particolarmente vistoso. Non mi soffermerò in questo momento sul retroterra ebraico di questo tipo di scrittura. Fra la fine del racconto-aneddoto e la conclusione della tesi c’è uno iato, sebbene introdotto da una frase – Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia – dalla quale non possiamo tuttavia immaginare ciò che seguirà e che a una prima lettura è sorprendente. Cosa c’entra il manichino vestito da turco con il “materialismo storico”? Nominandolo espressamente Benjamin ci avverte che non sta usando una metafora – nella sua scrittura non vi è quasi mai posto per la metafora – bensì una complessa catena di similitudini. Come il nano gobbo seduto nel manichino costituisce il trucco meccanico per ingannare il pubblico, così la teologia, rimpicciolita rispetto ai secoli precedenti, si è insinuata nel materialismo storico, che Benjamin mette fra virgolette, facendone una macchinetta per avere sempre ragione, qualunque siano le scelte compiute, dal momento che sarebbe in linea con il solco deterministico della storia. Questa tesi, nei commentari, viene considerata come la sua radicale critica allo stalinismo e allo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Non vi è dubbio su questo, tuttavia cercherò di leggere le sue parole, oltre quel contesto perché la parte veramente interessante della tesi, è il nesso che egli stabilisce fra il trucco del manichino e la teologia che secondo Benjamin ha inquinato l’illuminazione materialista e profana di cui aveva scritto nel saggio sul Surrealismo del 1929.8 Anche in questa critica c’è da considerare un doppio aspetto: nell’immediato è una critica al Diamat staliniano come forma perniciosa di mistica materialista e spregiudicatezza senza alcuna etica, ma tale giudizio si estende come vedremo fino a comprendervi il falso progressismo nei suoi diversi aspetti.

La tesi nona, commentata e celeberrima quanto mai, suggella e chiude quella che considero la pars destruens del ragionamento di Benjamin e ci permette di andare oltre.   

Tesi nona.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove, davanti a noi, appare una catena di avvenimento, egli vede un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie  e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera.

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903


1 Le traduzioni italiane di cui mi sono servito sono: Angelus novus, tascabili Einaudi a cura di Renato Solmi e un saggio di Fabrizio Desideri: la mia edizione è quella del 1995. La seconda è Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N.3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013: questa edizione riporta anche le tesi finali che mancano nel testo einaudiano. Il testo in originale tedesco è quello dei Manuskript Hanna Arendt, che si trova anche in rete ed è corredato dalle fotocopie del manoscritto di Benjamin con le sue correzioni. Il titolo completo è: Walter Benjamin über den Begrieff der Geschichte. In questa stesura, mancano alcune tesi che verranno aggiunte più tardi e che si trovano invece nelle due traduzioni in italiano. Soltanto la prima tesi è numerata sempre così anche negli originali.

2 Questa dell’uso continuo dell’espressione materialismo storico nelle tesi è una contraddizione o almeno un’aporia non chiarita dal filosofo. Riservandomi di tornare successivamente su questo problema niente affatto minore, mi limito a porre in evidenza come l’espressione abbia almeno due significati diversi, ma si riferisca anche a due oggetti filosofici in diversi. Ecco di seguito la prima tesi nella traduzione da “L’ospite ingrato”: È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […]. In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere. Questa tesi verrà meglio commentata successivamente nel testo.

3 Naturalmente il mio giudizio, così estremo, non è un giudizio da storico. Tuttavia, proprio per rimanere in sintonia con Benjamin e per non sottoscrivere il romanissimo Carthago delenda est, ricordare le alternative che pure furono prese in considerazione, non significa fare la storia con i se, ma rifiutare appunto l’immedesimazione deterministica con il vincitore. Il determinismo assoluto non riguarda il futuro come non riguarda il passato che era pur sempre il futuro di una volta.

4 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, e l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.  

5 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.  Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa.  La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del ’36-’37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati, e specialmente in alcune note al testo, è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.  

6 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.

7 Citerò due passaggi da Dialettica della natura di Engels per la loro assonanza con le affermazioni di Benjamin e anche perché il concetto di lavoro in esse non ha nulla a che vedere con l’espressione lavoro salariato: […]  noi non la dominiamo (la natura ndr) […]  come chi è estraneo ad essa, ma le apparteniamo come carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura, consiste nella capacità, che si eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato […]. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini sentiranno, anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile sarà il concetto assurdo e innaturale, di una contrapposizione fra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il collasso del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare gli effetti naturali più remoti della nostra attività  rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda gli effetti sociali di quelle attività. […] Che cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? […]

L’interrogativo di Engels è retorico. La scrofola è simmetricamente il risultato di quel progresso nell’uso intensivo della coltivazione di patate che genera il regresso della società, come ha scritto Benjamin nel passaggio citato. Il secondo passaggio di Engels è tratto dal nono capitolo:

[…] Perché la mano non è solo l’organo del lavoro, è anche il prodotto del lavoro […] e con l’adattamento alle nuove operazioni, grazie all’eredità rappresentata dallo speciale sviluppo dei muscoli, dei legamenti e, sul lungo periodo, anche delle ossa. Grazie, inoltre, all’impiego ogni volta rinnovato di questi strumenti ereditati, ma soggetti a nuovi miglioramenti con operazioni sempre più complicate, la mano umana ha raggiunto quell’alto grado di perfezione che ha reso possibili la pittura di Raffaello, le statue di Thorwaldsen, la musica di Paganini.

8 La citazione occupa una parte importante nella strategia discorsiva di Benjamin, in tutte le sue opere, ma va pure chiarito in modo preliminare che il suo atteggiamento è lontano dal citazionismo postmoderno. Il filosofo anticipa molti temi tipici del postmodernismo, ma non cede alla lettera del medesimo. Le citazioni di Benjamin sono sempre degli exempla emblematici che permettono all’interlocutore di aderire o dissentire, ma prima di tutto di comprendere e non in astratto, quanto egli afferma, ma di collocarlo in una dimensione di concretezza e verificabilità. Siamo lontani anni luce dal procedimento post moderno la cui filosofia – non sempre espressa – è che la cultura sia solo citazione, cioè auto contemplazione narcisistica del passato e sfoggio di erudizione basato sul wit, parola che si può interpretare in molti diversi modi ma sempre gravitanti intorno alla brillantezza salottiera e discorsiva. Benjamin non ha mai compiuto questo passo, anche se sa vedere molto lontano: egli è un anticipatore del postmoderno, nel senso che ha visto prima di altri molte sue caratteristiche. La forza degli exempla di Benjamin sta nell’essere la concretizzazione di quella immagine che balena per un solo attimo nella storia e che deve essere afferrata e salvata, perché rompe il continuum dello storicismo. La citazione è dunque emblematica se evoca un balenìo del passato da riscattare nell’adesso: Resuscitare Cartagine per esempio, o cogliere nella vicenda storica dello schiavo Spartaco ciò che chiede oggi il proprio riscatto.

Maschio guerriero, maschio protettore: il paradosso mortale dentro il patriarcato

Paolo Rabissi

Odisseo e Tiresia

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

Per me uomo bianco, educato all’eterosessualità, non è poi così semplice e intuitivo l’uso della parola ‘femminicidio’. Perché il femminicidio non è il semplice omicidio di una donna, si presenta dentro una casistica articolatissima in cui a commettere violenza è ora il padre, ora il fratello, ora il conoscente anche se più frequentemente l’uccisione di una donna avviene per mano del partner abbandonato, per un altro/a ma anche no.

Non è nemmeno semplice l’uso della parola sessismo. Perché devo distinguere tra misoginia, antifemminismo e sciovinismo maschile, che, per quanto odiosi, sono componenti indiscutibili del sessismo ma meno gravi delle forme estreme di manifestazione come il femminicidio e anche la mercificazione del corpo e dell’immagine femminile che, per la sua carica razzista di fondo, del femminicidio è supporto.

Le cose cominciano ad essere più chiare quando risalendo al patriarcato, che è organizzato sulla subordinazione del femminile al maschile, ti rendi conto che il sessismo è l’insieme di idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi ecc., che perpetuano e legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, per usare le parole di Annamaria Rivera (La bella, la Bestia e l’Umano, Ediesse, 2010).


Ma infine s’impara anche che, acquisizione felice di più recenti studi antropologici, è diventato possibile storicizzare la nascita del patriarcato. Voglio dire che di fronte alla disperante nozione che affonda quella nascita nella notte dei millenni, oggi siamo in grado di datarla con una certa sicurezza a circa tre, quattro mila anni fa, che fanno in tutto solo trenta, quaranta secoli, che in fondo non è gran che: siamo in definitiva eredi di una quarantina di generazioni di Sapientes e non è più così difficile pensare che il patriarcato come è nato possa anche morire. Nel senso che intanto non solo sappiamo cosa non vogliamo ma anche quali radici abbiamo da estirpare, che poi facendo ciò si possa anche finire molto verosimilmente col togliere molta aggressività e subliminale capacità di condizionare le genti all’organizzazione capitalistica del mondo, neoliberismo incluso, non può che consolarci.


Si dice a ragione allora insistentemente: il femminicidio è soprattutto un problema di uomini e sono costoro a doversene fare carico pubblicamente. E viene aggiunto subito che riguarda tutti gli uomini, non solo alcuni uomini, che è l’aspetto più difficile da sbrogliare. Perché c’è da superare la tentazione diffusa di addebitare il femminicidio a colpi di follia esplosi in un uomo, magari apparentemente mite e innocuo: del quale solo dopo perlopiù si viene a sapere che esercitava violenze continue e di vario tipo che accumulatesi a un certo punto esplodono.


A monte dunque di questi casi, mitezza apparente ma violenza più o meno nascosta, sembrerebbe che ci sia un tipo di uomo che non ha comunque inibizioni a usare la violenza, né di educazione né di scelta volontaria. Anche se occorrerebbe aggiungere che evidentemente non gli provengono, oggi in particolare, sufficienti inibizioni nemmeno dalla scuola, dalle istituzioni, dalla politica che, nei periodi di crisi come quello che viviamo, dovrebbero far argine nella testa dei ‘violenti’.

Coloro che invece fanno argine per scelta volontaria e che non hanno mai “toccato una donna con un dito” e che dichiarano con fermezza che mai lo farebbero, sembra debbano essere automaticamente esclusi dalla categoria sospetta, il che appare a prima vista anche legittimo.

Tuttavia in questo modo da una parte la violenza viene anch’essa naturalizzata (come avviene dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna), assunta quasi a codice genetico che solo il lungo lavoro della civiltà dei costumi può modificare sottraendo l’umano alla sua ferina barbarie, mentre sappiamo che violenti si può diventare per mille ragioni. Dall’altra la mancata storicizzazione dei comportamenti cui la violenza induce, impedisce di ragionare sulle forme di violenza diverse da quelle fisiche, quelle per intenderci che all’interno della relazione impongono di fatto alla donna il rispetto dei ruoli tradizionali (la cura della casa, del cibo, dei figli, ecc.), dei suoi ‘doveri’ di madre, moglie ecc., sottraendole libertà e parità nelle scelte (in una infinita serie di varianti dovuta a condizione sociale e cultura).

Questo è forse il territorio meno esplorato perché è il più complesso, dato che oggetto dell’analisi non può essere più soltanto il maschio che si sente depositario naturale di una serie di privilegi ma la relazione stessa, soprattutto quella familiare, nella quale anche la donna, pur partendo sempre da una condizione di inferiorità, è costretta ad accettare una serie di compromessi appena compatibili con la sua soggettività nonostante ne avverta il fondo di limitazione e compressione. Si tratta di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello. (Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà – Bollati Boringhieri 2011).

Che si tratti di violenza omicida o di quella silenziosa nel quotidiano, il nostro presente è segnato irrimediabilmente dal venir meno dei secolari privilegi dell’uomo, il che fa terribilmente comodo al neocapitalismo, soprattutto nostrano, che sollecita romanticamente il maschio in crisi al recupero di posizioni mettendo a produzione le sue passioni (basta dare un’occhiata agli spot pubblicitari). In ogni caso la violenza snuda il marchio del dominio dell’uomo sulla donna, che di individuo in individuo si caratterizza in una scala infinita di forme che la relegano nell’inferiorità fisica intellettiva e morale, che aprono la strada a umiliazione, schiavitù, de-umanizzazione, fino alla reificazione nell’oggetto sessuale di cui il maschio, che se ne sente proprietario, può decidere quando vuole la vita o la morte.

Quis fuit horrendos primus qui protulit enses ? Chi afferrò per primo le armi per la guerra? Quando al liceo negli anni cinquanta traducevamo Tibullo e Virgilio, (due specialisti nell’ipostatizzare un paradiso agreste e pastorale senza guerra del quale dopo un secolo di guerre civili non potevano che sentire la mancanza) non potevamo immaginare che cinquant’anni dopo accanto a quella domanda avremmo dovuto farne altre.

Quale frase d’amore fra due teneri amanti risuonò mai per prima dentro gli orrori della guerra: Ti proteggerò io oppure Proteggimi?

In ogni caso in quel momento la divisione dei ruoli era già cosa fatta. E non è che per se stessa non fosse cosa buona. Anche se ormai del bisogno della donna di essere protetta e accudita durante la gravidanza e il parto abbiamo conoscenza che è una costruzione culturale (non sappiamo forse che certe contadine partorivano sulla terra nuda mentre la lavoravano?), tuttavia sappiamo che ogni divisione del lavoro ha vantaggi per ogni membro di una comunità. Il problema è che poi su quella divisione di ruoli tra uomo e donna si venne incistando un sistema gerarchico di poteri che vogliono dominio da una parte e sottomissione dall’altra e che quei ruoli si sono fissati dentro una rete sempre più fitta di doveri e obblighi ‘definitivamente’, al punto che essi hanno finito con l’essere percepiti come ‘naturali’.

Quando è nato il mio primogenito agli inizi degli anni settanta, mio padre, lui che aveva scelto di fare l’artista rompendo con la famiglia patriarcale, e che la famiglia disastrata che fu costretto da quelle stesse regole patriarcali a mettere su, l’aveva appunto subita, si ricordò improvvisamente dei ‘naturali’ ruoli nei quali era stato educato e suggerì a mia moglie (già femminista) di lasciare la scuola per dedicarsi al figlio e alla casa (e a me suppongo).

Quante/i della mia generazione, che hanno steso tenere relazioni d’amore nell’epoca della contestazione antiautoritaria, sono sfuggite/i a questa codificazione di ruoli? La disponibilità a proteggere e ad essere protette, la disponibilità ad una divisione aggiornata tra l’uno e l’altra dei compiti di cura, almeno nelle coppie che hanno resistito, ha finito spesso (ma non sempre, e non così raramente come sostengono certe femministe che parlano di ‘perle rare’ dimenticando tra l’altro che in Italia sono spesso stati uomini a introdurre certi temi del femminismo), a causa dell’organizzazione sociale del lavoro che richiede tempi sempre più cogenti per la produzione e la riproduzione a discapito della relazione che ne viene soffocata, col costringere ad accettare quanto di più collaudato e comodo arrivava dalla tradizione di quei ruoli. Intendo la contrattazione tra tempi dei doveri comuni e tempi del piacere per sé. Nella quale la donna, spinta all’analisi dall’insorgenza femminista, si trovò a scoprire di godere di pochissima libertà rispetto all’uomo, di essere cioè imbrigliata in una dinamica di dominio tutta a favore dell’uomo: verso la quale non si sentiva più disponibile né tanto né poco, dimodoché anche l’uomo ha dovuto rimettere in discussione la propria identità e rileggerla storicamente. La follia da sola non spiega perché la violenza omicida si accanisca sulla donna, ma scardinare la mentalità da guerrieri dominanti che si è radicata dentro di noi in un percorso millenario non è né sarà compito facile.

Il potere che derivò un tempo al signore della guerra per essere tornato vincitore si riflette sin dentro la propria casa come estensione di dominio, nel senso che essa storicamente diventa la ‘patria’ da difendere sempre e che per la sua sicurezza deve funzionare secondo le regole che il signore ha esperito vincenti in battaglia: gerarchizzazione, obbedienza, disciplina e fedeltà. La donna ora riceve dalle mani del neo patriarca l’investitura di esecutrice fedele e disponibile di compiti ‘privati (sesso compreso)’, importanti quanto i ‘pubblici’ di sua competenza e di fatto interamente dipendenti dalle sue decisioni.

Wirginia Woolf: da Le tre ghinee

Saltano subito all’occhio tre ragioni che spingono il vostro sesso a combattere: la guerra è un mestiere; è una fonte di felicità e di esaltazione; è uno sbocco per le virtù virili senza le quali l’uomo si deteriorerebbe … È evidente … che all’interno del medesimo sesso coesistono opinioni diverse sul medesimo argomento. Ma è altrettanto evidente, a quel che si legge sul giornale di oggi, che per numerosi che siano coloro che dissentono la grande maggioranza del vostro sesso è favorevole alla guerra.