LE ARTI E LA GUERRA
Le vicende storiche reali della città di Ilio sono sfocate al confronto delle immagini che l’Iliade ci tramanda da secoli. All’origine della guerra troviamo un evento storico, ma ancor più una narrazione intorno alla quale si costruisce un discorso dotato di senso, che si tramanda nel tempo. Non solo la guerra è un oggetto estetico fin dagli albori della civiltà che definiamo occidentale ed è quindi collegata all’ideale stesso della bellezza, ma produce anche un’etica che arriva fino a noi. In ogni passaggio storico, grandi narrazioni epiche hanno elaborato questo discorso etico/estetico producendo quell’apparato di simboli, suscettibili di trasmettere valore, e determinare soglie di differenza fra bene e male. Se di volta in volta la guerra affonda le sue radici nelle contingenze storiche è altrettanto vero che alle lontane origini del primo evento bellico significativo, troviamo un patto fra guerra e letteratura, guerra e narrazione. Nascono così parole che si caricano di un senso particolare e hanno valore discriminante fra virtù e vizio. Termini come coraggio e persino temerarietà sono sinonimi di positività, mentre parole come paura o diserzione, sono esempi di negatività. Penso che una risposta che prenda di petto e non eluda la domanda – perché la guerra oggi? – debba prendere in considerazione la catena virtuosa che si è stabilita nei secoli fra la guerra come modo di risolvere il conflitto da un lato e un discorso etico/estetico con la conseguente catena simbolica. Contribuire a spezzare tale catena, a interromperla, sottoporre al vaglio che non dà nulla per scontato, proprio quel discorso dotato di senso che è stato costruito dalla letteratura intorno all’evento bellico è una delle poche azioni che ci restano nel clima di impotenza generalizzato dal quale non si riesce a venir fuori.
Diserzione e paura nell’immaginario collettivo sono ovviamente una coppia negativa, ma la rottura del patto fra letteratura e guerra passa anche attraverso la possibilità di ridare senso proprio alle parole considerate sospette o da aborrire da parte dell’apparato simbolico guerresco.
Nessuna causa, anche quella più condivisibile, dovrebbe più suscitare una letteratura di omaggio, di esaltazione o semplicemente di appoggio; perché l’epica guerresca di oggi non serve alla guerra di oggi, bensì a quella di domani. Un esempio famoso, ricordato anche a proposito delle guerre in corso, è quello di Wilfred Owen, poeta inglese che Virginia Woolf ricorda come eccezione per il genere maschile. Owen combatté la Prima Guerra Mondiale e vi morì; lasciò però, a differenza di moltissimi altri scrittori prima e dopo di lui, versi memorabili ed inequivocabili contro la guerra. Owen scelse il verso più monumentale della letteratura inglese, il blank verse e le strutture chiuse per rovesciare la logica epico/monumentale della lirica di guerra. Ebbene il suo destino di poeta è significativo. Le sue liriche sono scarsamente visibili nelle antologie anglosassoni e i testi più alti di denuncia vengono solitamente trascurati. Questo dovrebbe testimoniare a sufficienza l’importanza dell’apparato simbolico e la sua forza: perché a oltre un secolo da quella guerra l’establishment inglese teme di più le poesie di Owen che non il suo sacrificio. Al polo opposto di Owen colloco invece Ilia Êrenburg: egli scelse di partecipare alla difesa dell’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale – e tale scelta in quel contesto fu certamente meritoria; ma scrisse poi versi infami nei confronti della popolazione e delle donne tedesche, che non citerò proprio per questo.
Testi di denuncia della guerra e della logica guerresca si trovano nell’Antologia di Spoon River di Masters, in Christa Wolf che, in Cassandra definisce Achille, l’eroe per antonomasia, con l’appellativo che si merita: una bestia più che un essere umano. Sono tutti esempi di rottura dell’ordine simbolico, come lo furono le proposte avanzate anni fa da Gunther Grass e Kazumiro Oe di di erigere un monumento ai disertori tedeschi e giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.
A quanto detto fin qui mi si potrebbe facilmente obiettare che non sono più la grande letteratura oppure il cinema a essere veicoli della propaganda guerresca, ma i mass media, l’informazione asservita e quant’altro e che dunque occuparsi della narrativa guerresca come di quella di opposizione è in fondo tempo perso, un atteggiamento che poteva andare bene per il passato ma inservibile oggi. In secondo luogo, l’impotenza che sembra regnare sovrana scoraggia qualsiasi tentativo di discorso, la parola appare fuori gioco rispetto a logiche geopolitiche e di potere troppo più grandi di noi. Sono sentimenti diffusi che quotidianamente verifichiamo, ma sono anche il risultato di una narrazione tossica che può essere smontata e in ogni caso si tratta di due problemi diversi.
L’impotenza è un dato reale, ma è il risultato del fallimento delle élite occidentali e in particolare di quelle europee; tanto è vero che a livello continentale e in percentuali ancor più accentuate in Italia, l’opposizione al continuo invio di armi in Ucraina è molto forte e in alcuni casi maggioritaria, nonostante la propaganda martellante. Più che impotenza è la consapevolezza di non potersi affidare alle forze politiche esistenti a determinare atteggiamenti di disincanto e di indifferenza. Bisogna cercare le parole adatte, ma specialmente continuare a rifiutare il linguaggio bellicista che permea tutti gli aspetti della vita quotidiana, contrastarlo senza cadere però in una spirale reattiva o semplificata. Per questo gli esempi che si possono trovare nella grande letteratura e nel cinema sono quanto mai utili e per concludere questa parte della riflessione suggerisco la visione di 1917, un film di guerra, certo, ma che mette in scena un tipo di comportamento virtuoso che fa emergere tutta la stupidità della guerra: lo stesso si è può dire naturalmente di un classico come Niente di nuovo sul fronte occidentale.
La propaganda attuale
Una breve nota finale sulla questione della propaganda. Che essa, piuttosto che stare nelle mani di scrittori che sanno usare la parola in modo virtuoso, sia invece in quelle di mediocri giornalisti asserviti nella grande maggioranza dei casi, è un bene e non un male. Tanto più che le vendite di giornali sono in caduta libera come riportato da due diverse fonti citate nella nota: per non appesantire il testo chi voglia verificare i numeri e le percentuali può farlo accedendo ai due siti.1 I dati più eclatanti riguardano proprio Corriere della Sera e Repubblica, in caduta libera, mentre i soli in controtendenza e anche per questo difficili da trovare persino nelle statistiche, riguardano quotidiani che fanno ancora del serio giornalismo d’inchiesta come Domani. Tutto questo spiega in buona parte perché, nonostante il martellamento costante, la maggioranza della popolazione italiana continua a essere contraria all’invio di nuove armi in Ucraina e ci sono segni che anche nelle opinioni pubbliche europee ci sono incrinatura importanti. Ma è la televisione il guaio peggiore, potrà obiettare qualcuno, e per contrastare le televisioni che cosa su può fare? Anche in questo campo le statistiche dicono che mentre i programmi di intrattenimento e quelli sportivi hanno un seguito come prima, anche perché a volte sono un rifugio alla eccessiva pressione del presente, i telegiornali hanno sempre meno ascolti. Naturalmente esiste un enorme problema che riguarda l’inconsistenza del ceto intellettuale che frequenta giornali e Tv e l’informazione in generale, ma questo è un tema che ci accompagna da molto tempo e che esula dagli intenti di questo scritto che si propone semplicemente, a un anno dallo scoppio dell’ultima guerra in ordine di tempo, di ricordare che la diserzione dal frastuono mediatico è altrettanto importante quanto la diserzione vera e propria e che i piccoli passi sono in certi momenti storici le sole azioni praticabili.
1 Dati del sindacato autonomo giornalai:
“Sono i principali dati contenuti nell’ultimo Osservatorio sulle comunicazioni (n. 4/2022), l’aggiornamento trimestrale dei settori dei media e delle telecomunicazioni realizzato dall’AGCOM. Nell’editoria quotidiana si conferma dunque l’andamento negativo già rappresentato nei precedenti Osservatori e che ha riflessi diretti negativi sulla rete di vendita della stampa in termini di redditività e sostenibilità dell’attività.”
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