ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Terza parte

Un tentativo di bilancio

L’originalità di questo frammento di storia culturale italiana è indubbia, sia per la durata nel tempo, sia perché è sufficiente una rapida indagine per capire che in nessun altro paese occidentale è esistito qualcosa di paragonabile. A valle dei cicli industriali conclusi è nata in Gran Bretagna e nel nord Europa una disciplina come l’archeologia industriale, che si è diffusa in vario modo anche in altri paesi. Il restauro dei docks di Londra, piuttosto che i villaggi minerari sono esempi straordinari di queste nuove discipline, nonché attrazioni turistiche; ma siamo nell’ambito di una cultura museale, seppure profondamente diversa dal museo tradizionale.9

In sede conclusiva mi pongo due interrogativi in particolare: è esistita un’egemonia della cultura di sinistra nell’Italia del secondo dopoguerra? Il particolare rapporto fra cultura, industria e movimento operaio, può essere considerato un segmento importante della traduzione originale in lingua italiana del compromesso fordista fra capitale e lavoro che ha caratterizzato l’intero mondo occidentale post bellico?10 Anticipo le conclusioni dicendo che, pur nel loro intreccio, fra le due domande vi è una notevole asimmetria. Mentre alla seconda mi sentirei di dare una risposta affermativa, sulla prima occorre innanzi tutto scorporare dall’analisi concreta dei processi concreti, la narrazione propagandistica che è stata alimentata, per opposte ragioni, sia da destra sia da sinistra.

Il rapporto virtuoso fra scienza, cultura industriale, capacità manageriali e cultura tout court fu un fattore determinante nella rinascita post bellica, fino al boom economico. La politica petrolifera di Mattei, l’invenzione del Moplen – il padre della plastica – da parte di Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 e che fu prodotto dalla Montedison, sono tappe decisive – insieme a quelle già ricordate in precedenza – per affermare che l’intreccio del tutto particolare fra cultura e industria fu un elemento propulsivo della società italiana. A questo aggiungerei la consulenza dell’economista Federico Caffè ai primissimi governi di centro sinistra. Alcuni capitani d’industria come Olivetti e Luraghi e un banchiere come Raffaele Mattioli hanno giocato un ruolo di primaria importanza che va molto oltre le loro funzioni istituzionali e ha costituito un tessuto intermedio, più che un corpo intermedio vero e proprio; piuttosto una trama trasversale fra impresa, istituzioni culturali e politica che ha permesso la crescita di una cultura laica e in molti casi di sinistra, protetta da interventi censori, che pur non mancarono e furono molto gravi. Valga per tutto la fondazione a Milano, per esempio, della casa della Cultura, un baluardo della sinistra non solo milanese, alla cui nascita contribuirono personaggi di spicco del capitalismo italiano, oltre a quelli già ricordati; lo stesso si può dire della casa editrice Einaudi a Torino. Laici e in qualche caso – Mattioli – in odore di massoneria, ma lontano dagli scandali che sarebbero scoppiati decenni dopo, svolsero insieme a un pezzo consistente di sinistra socialista un ruolo terzo – basato sul rispetto dell’autonomia della cultura e sulla diversità – rispetto sia ai democristiani sia ai comunisti: in molti casi, questo mondo intermedio offrì più di una sponda alla crescita di una cultura democratica e fu assai importante nelle trasformazioni del sindacato. Capitalismo illuminato? Sì, ma con dei limiti molto precisi. Gli imprenditori citati, cui possiamo aggiungere anche Mattei, erano prima di tutto una minoranza anomala rispetto a un mondo imprenditoriale acefalo e reazionario, diretto a bacchetta da un altro banchiere – Enrico Cuccia – e tenuto a balia dalla sua creazione – Mediobanca – che suppliva con le sue acrobazie finanziarie alla storica incapacità del capitalismo italiano di ricapitalizzarsi con le proprie forze. In secondo luogo, non erano di certo gli Olivetti a dirigere Confindustria e a trattare con i sindacati: questo compito era lasciato ai mazzieri come Valletta e Costa, nonché alla Celere di Scelba. Tuttavia, i vari Olivetti, Girotti e alcuni dei managers di stato costituirono un cuscinetto che permise una certa flessibilità e fin quando riuscirono ad avere voce in capitolo, poterono far pesare la loro autorevolezza sia in campo economico, sia ancor più in campo culturale, dove nessuno si permetteva di criticare anche le loro scelte più eccentriche, tenuto conto dell’ignoranza congenita di gran parte del ceto imprenditoriale italiano. Quegli uomini, tuttavia, non avevano eredi e quando la crisi del boom economico portò al pettine molti nodi sociali e politici, già nel 1963, le redini furono prese dai settori più reazionari ed eversivi: cominciava a finire quella tradizione anomala, fatta anche di salotti trasversali – per esempio quello di Giulia Maria Crespi a Milano – e iniziava un’altra storia.

Diverso il discorso sulla cosiddetta egemonia della cultura di sinistra, sebbene s’intrecci con la questione del compromesso fordista. Credo ci sia una prima considerazione da fare: intellettuali come i coniugi Steiner e come Elio Vittorini permisero alla stampa del Pci di avvalersi delle menti migliori e dei progetti grafici più avanzati esistenti in quegli anni. Politecnico rimane un’impresa straordinaria – lo sarà Alfabeta in un contesto diverso anni dopo –  e anche Rinascita, la rivista teorica del Pci, era quanto di più moderno si potesse pensare in quegli anni. Se parliamo di egemonia in senso gramsciano possiamo dire che la pubblicistica comunista si avvalse del meglio e così pure altre istituzioni culturali. Tuttavia, ci sono due problemi di cui tenere conto: prima di tutto la stagione dei rapporti idilliaci fra Pci e intellettuali s’incrinò molto presto, almeno con alcuni di loro. In secondo luogo, la cultura del militante medio del Pci, non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda di chi dirigeva la politica culturale nel partito. L’egemonia che il Pci cercava di esercitare sugli intellettuali come mondo separato era un mondo a se stante. In buona sostanza, l’intellettuale organico del Pci, quello che si occupava della cultura intesa come lavoro di massa da un lato, ma che al tempo stesso teneva i rapporti con i grandi intellettuali dall’altro, parlava ai colti con un linguaggio e agli incliti con un altro, riproducendo al proprio interno una tradizione curiale tutta italiana. Questa contraddizione fu particolarmente visibile rispetto a tre nuovi aspetti della cultura di massa: il fotoromanzo, il cinema e la canzone. 11

Il fotoromanzo come genere nacque infatti nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ne ricostruisce puntualmente la storia.12 L’autrice ricostruisce le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. L’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche della Dc, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni furono immediate. In questa prima fase la diffusione del fotoromanzo si scontrò con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, per i primi, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe, per i secondi. Cosa accadde, però, nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda, accennando a un dibattito assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente, intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che ebbero un ruolo politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero. Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma di Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affrontavano temi come contraccezione e aborto.

La terza fase riguarda il cinema e i cambiamenti che stavano avvenendo nell’ambito della musica cosiddetta leggera. Come mai gli intellettuali vincenti come Zavattini and company, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi venivano bollati da Aristarco – anch’egli intellettuale di punta del partito –  come pornografi dei sentimenti? 13 A mio giudizio  le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura profonda della dirigenza comunista era umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante l’omaggio formale alle avanguardie sovietiche, che avevano aperto sia nel cinema sia nella grafica le maggiori e più importanti trasformazioni novecentesche e proprio nella Russia del primo decennio del secolo e poi nei primi anni successivi la Rivoluzione Bolscevica, Il Pci scelse da subito e molto di più gli interventi censori di Stalin e Zadanov, ben rappresentato da Mario Alicata, il cui furore non era infondo diverso da quello dei sovietici. La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente – anche in Gramsci – di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini, cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo. Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista fu molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual’era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro.

Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica della propaganda fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni – tutt’altro che banali – e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada. Nel mezzo e grazie al cinema, cresceva una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: da quel momento iniziò anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale erano venuto prima, con buona pace del nesso struttura sovrastrutture e riguardava proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa nel contesto del neocapitalismo italiano. Entra in scena anche un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo, cui anche lui aveva dato un contributo all’inizio, riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

Il combinato disposto fra queste spinte e contro spinte contraddittorie, faceva del mondo comunista una società nella società come avrebbe detto anni dopo Pasolini, ma in un’ottica di arroccamento difensivo. Se parliamo dell’insieme della società italiana, non vi è dubbio che l’egemonia culturale clerico-fascista fosse di gran lunga prevalente ed esercitò un plumbeo dominio fino alla metà degli anni ’60. Basti pensare ai processi che subì Pasolini, alla canea reazionaria che travolse Fausto Coppi, a Braibanti, ai casi continui di censura, al sequestro di film e romanzi, alla censura televisiva nei confronti di Dario Fo e Franca Rame. Tale egemonia cominciò a essere messa in discussione non tanto dalla critica comunista, ma dai processi di modernizzazione innescati dal boom economico e dall’irruzione della sociologia statunitense negli atenei italiani. Tale processo non fu affatto compreso dal Pci. Non bisogna infatti dimenticare che i grandi consiglieri politici del partito non erano più gli Steiner e i Vittorini, non erano gli economisti, ma piuttosto esponenti importanti del mondo cattolico come Franco Rodano, oppure uomini come Ambrogio Donini, che guardavano prima di tutto al mondo cattolico, da atei, ma anche ostili alla cultura laica e socialista più progressista; prima di tutto in materia di sessualità e famiglia. I primi movimenti di massa anticapitalistici durante quegli anni, furono certamente tenuti a battesimo anche dal Pci – si pensi al luglio del 1960 – ma furono le riviste eretiche del marxismo italiano, nate da costole socialiste e comuniste, fu l’opera di intellettuali come Fortini, Beccalli, Panzieri, Bellocchio, Morandi, Pirelli, infine il Concilio Vaticano Secondo, a creare quello strano crogiolo, frutto dell’eterogenesi dei fini, che sarebbe esploso nel triennio 1967-69 e che spazzò via per un decennio l’egemonia clerico-fascista.11 Fu una parentesi felice, ma mise anche in evidenza che se egemonia vi fu, essa non venne prevalentemente dalla cultura del Pci, ma da una sinistra più vasta, operaista e antiautoritaria, o dalla teologia della liberazione. Il Pci cercò di cavalcare i movimenti, poi fu costretto a inseguire, come su tutta la materia riguardante i diritti civili, poi a cercare di egemonizzare o reprimere. Le trame eversive criminali, le stragi e la scelta sciagurata della lotta armata posero fine alla parentesi più felice della storia italiana recente e travolsero anche il Pci.


9 Insieme all’archeologia industriale è nata, in particolare in alcuni paesi del nord Europa come Danimarca e Olanda, l’idea del turismo antropologico, cioè rivolto al passato. Ci sono molte agenzie che se ne occupano in quei paesi. Si tratta di trascorrere un periodo di vacanza in villaggi che sono stati ricostruiti in base agli studi etnografici. Si sceglie il periodo storico nel quale si vuole viaggiare e ci si ritrova a vivere nelle condizioni di cinque o diecimila anni fa.  Nel nord Europa questi villaggi sono usati anche per fini didattici.

10 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

11 Questa parte del saggio dedicata al cinema, al fotoromanzo e alle canzoni, è la rielaborazione di un testo già pubblicato sulla rivista online Overleft, nell’ambito di una dibattito della redazione cui parteciparono anche altri.

12 Il fotoromanzo174 pag., Euro 12.00 – Edizioni il Mulino (L’identità italiana n.22) ISBN.

13 A questo proposito mi riferisco all’espressione usata da Adriano Voltolin nel suo intervento su Oveleft.

11 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Seconda parte

Il secondo dopoguerra

La caratteristica più originale dalla fine degli anni ’40 fino agli anni ’70 è il doppio intreccio che lega artisti, letterati, architetti e designers alla cultura di sinistra e in alcuni casi al Partito comunista italiano da un lato e al mondo dell’industria dall’altro. Elio Vittorini, Albe e Lica Steiner, Franco Fortini, Gian Giacomo Feltrinelli. Su quest’ultimo la pubblicistica è talmente vasta che è superfluo aggiungervi qualcosa. I due esponenti più originali, sia per la loro storia personale, sia per i contributi che hanno dato, sia per la loro stessa relazione amicale sono Raniero Panzieri e Giovanni Pirelli. Il secondo, un piccolo – ma non minore – Engels italiano, rifiutò il ruolo naturale che gli sarebbe spettato in quanto figlio maggiore di una storica famiglia d’imprenditori, lasciando al fratello Leopoldo le redini dell’azienda, con cui tuttavia mantenne un rapporto fino al 1948. Quanto a Panzieri, il suo ruolo nella nascita dell’operaismo italiano è più che nota: meno nota e assai rilevante la vicenda di Giovanni Pirelli, che verrà ripresa anche nelle conclusioni. 3

Albe Steiner iniziò il suo percorso artistico approfondendo la conoscenza sia del Costruttivismo sovietico (El Lisitzkij), sia del Bauhaus, sia degli astrattisti. La sua prima mostra grafica fu del 1940, alla VII triennale di Milano. Nel 1939 si avvicina al PCI e insieme alla moglie Lica  conosce Di Benedetto e Vittorini. Durante la guerra partecipa attivamente alla Resistenza nelle file del battaglione Valdossola e perde il fratello Mino, deportato a Mauthausen. Dopo la Liberazione entra come grafico nella redazione del Politecnico diretto da Vittorini. Le sue scelte grafiche innovative, che si richiamano alle avanguardie russe post rivoluzionarie per approdare persino al fumetto, costituiscono gli elementi fondanti del suo percorso artistico. Sempre con Vittorini, Steiner realizzerà per la Einaudi Politecnico biblioteca, una collana di undici titoli editi fra il 1946 e il 1949.4

La storia di Adriano Olivetti e dell’azienda omonima è troppo nota per riassumerla qui, se non per l’aspetto che riguarda il rapporto fra industria e cultura.5 Dagli anni ’40 fino agli anni ’80, poeti, letterati e scrittori di rilievo lavorarono alla Olivetti ricoprendo ruoli diversi, anche di grande responsabilità. Tra gli altri Giudici, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni e Fortini. Quest’ultimo entrò nella società nel 1947, dove operò fino al 1960. Si occupava delle pubblicazioni aziendali, delle campagne pubblicitarie e dei nomi dei prodotti (tra questi, si ricordano Lexikon, Tetractys e Lettera 22). L’utopia di Adriano Olivetti consisteva nell’integrazione fra la formazione tecnico-scientifica e quella umanistica in ogni ambiente, azienda compresa.

Coerente con questo proposito, la selezione del personale prevedeva che per ogni nuovo tecnico o ingegnere entrante si assumesse anche una persona di formazione economico-legale e una di formazione umanistica. Gli scrittori che operarono in Olivetti non furono un semplice fiore all’occhiello della direzione aziendale, ma erano ritenuti organici allo sviluppo aziendale, in particolare in settori critici come pubblicità e comunicazione, le relazioni con il personale, i servizi sociali.

Giuseppe Luraghi fu l’ultimo di questa schiera di intellettuali prestati all’azienda, ma attenti alla cultura e con una visione umanistica del loro ruolo. Dirigente d’industria finirà la sua carriera di manager all’Alfa sud, dopo aver diretto la Necchi e la Mondadori. Coltivava al tempo stesso la passione letteraria, sia come scrittore di romanzi (Due milanesi alle piramidi 1966) e come saggista (Le macchine della libertà del  ’67, Milano, dal quattrino al milione nel ’68  e Capi si diventa del ’74.Un capitolo a parte è la sua passione per la poesia spagnola che si tradusse anche in un sodalizio con il poeta comunista Rafael Alberti. Fra i due corse anche un intenso carteggio dal 1949 al ’75.   

Un discorso a sé va fatto invece per Bruno Munari e ne riassumerò la vicenda prevalentemente in nota, visto che la sua figura si distacca anche dal punto di vista qui scelto e cioè la relazione che lega gli intellettuali citati non solo al mondo dell’industria ma a quello della sinistra. Munari è un raro esempio di artista che è riuscito a passare indenne – in un certo senso invisibile – dalle tragedie del ‘900, interpretando in momenti diversi un ruolo di artista, manager, intellettuale a tutto campo – tanto da essere definito una figura leonardesca –  che con la sua opera ha attraversato il regime Fascista e poi il dopoguerra sempre relativamente estraneo alle vicende del momento storico, ma sempre presente con le sue multiformi e mutanti creazioni.6 A lui, in ogni caso, andrebbe dedicato uno studio ben più ampio di questa nota. Come conclusione provvisoria direi che la sua esperienza segna un passaggio senza soluzione di continuità fra modernità e post modernità. La sua ironia e la sua – direi programmatica – assenza di astrazioni teoriche ne fanno però anche un convitato di pietra della seconda metà del ‘900, capace di indicarne silenziosamente i limiti. I suoi fossili del 2000, aldilà della loro comicità, sono un monumento al dissolversi delle forme e della tecnologia e diventano perciò una metafora dell’inconsistenza del consumismo tecnologico e dello stesso post modernismo: dei nulla rispetto alla permanenza millenaria delle statue dell’isola di Pasqua, della stele di Rosetta e delle Piramidi.

Infine, fra le multiformi esperienze che hanno contraddistinto la letteratura dei quegli anni, un posto importante lo occupano i romanzi operai: sia scritti da lavoratori, sia quelli che hanno il lavoro e spesso la fabbrica come centro di propulsore della narrazione. Oppure le inchieste sul lavoro in fabbrica, a metà strada fra saggistica e giornalismo. Legata a questa esperienza è anche la nascita della rivista Abiti-Lavoro, quaderni di scrittura operaia, fondata da Giovanni Garancini e Sandro Sardella (1983-1993). I romanzi operai costituiscono un fenomeno che riguarda prevalentemente il secondo dopoguerra: i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Calvino, Testori, Tonon, Bianciardi, Ottieri, Bilenchi e Volponi.7 Il giudizio critico sulle loro opere esula dagli intenti di questo studio e peraltro i contributi citati nella nota ne danno un quadro più che esauriente.

Quanto alla rivista, la sua veste grafica è volutamente minimalista, abiti-lavoro è una voce compresa nella busta paga operaia e, in questo senso, la sua fondazione s’iscrivere pienamente nel solco dell’arte povera. Uno dei suoi animatori più prestigiosi fu Ferruccio Brugnaro, poeta e operaio alla Montefibre di Porto Marghera, ma la maggioranza delle scritture pubblicate sulla rivista proveniva da uomini e donne che lavoravano nella fabbriche. Essa non fu importante solo per la poesia ma anche per la narrativa operaia, nel duplice senso indicato prima. Nel numero uno, per esempio, l’articolo di Paolo Rossi intitolato la Nuova letteratura operaia fra eversione integrazione, è una rassegna dei romanzi di Bernari, Pratolini, Ottieri, Volponi e Balestrini. Nell’arco di dieci anni Abiti-lavoro ha tenuto a battesimo poete e critiche come Carmela Fratantonio, Mariella Bettarini e Maria Teresa Mandalari; tanto che nell’editoriale del numero 4 e con un certo orgoglio, si sottolinea la volontà della redazione di allontanarsi da un’impronta maschilista. Mandalari è anche l’autrice del solo saggio che si occupi della scrittura operaia a livello europeo e precisamente, nel suo caso alla Germania, con il libro: Poesia operaia tedesca del ‘900  www.dimanoinmano.it/…/poesia-operaia-tedesca-del-900. Lo sguardo internazionale diventa, nel corso del decennio, uno dei tratti salienti della rivista. Nel quinto e nel nono numero l’inserto su Sabra e Chatila, poi la testimonianza di Jean Genet e Piero Del Giudice, costituiscono un momento alto di cultura critica.

L’ultima esperienza di questa rassegna riguarda Antonio Caronia, l’ennesima figura anomala nel panorama della sinistra italiana. Si laurea in matematica e svolge un’intensa attività politica dal ’64 al ’67, prima nel Psi e poi nella Quarta Internazionale, dove dirige per due anni la rivista Bandiera Rossa. Tuttavia, la singolarità della sua esperienza è legata all’interesse per la fantascienza. Aderisce  al collettivo milanese Un’ambigua utopia, che si ispira a un romanzo di Ursula Le Guin I reietti dell’altro pianeta. Le Guin è una delle autrici di fantascienza più originali del panorama mondiale e Caronia ne favorisce la conoscenza in Italia.8


3 Giovanni Pirelli fu un comandante partigiano e nell’immediato dopoguerra curò con Piero Malvezzi la prima edizione delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945. Tornato a Milano nel maggio 1946, s’iscrisse al Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), senza abbandonare la posizione all’interno dell’azienda di famiglia. Sostenne finanziariamente il settimanale giovanile Pattuglia e il quotidiano l’Avanti! Successivamente contribuì alla ricostruzione delle istituzioni culturali milanesi, sostenendo le attività della libreria Einaudi e grazie a tale impegno conobbe Elio Vittorini, con il quale strinse una grande amicizia. Negli stessi anni partecipò alla fondazione della Casa della cultura e del Piccolo Teatro. Il 1948 fu un primo anno di svolta nella sua vita. Attaccato dalla destra, decise di compiere il passo decisivo: lasciare famiglia e azienda per trasferirsi a Napoli, dove iniziò la collaborazione con l’Istituto italiano di studi storici, sotto la direzione di Federico Chabod. Lasciata Napoli nel ’49 continuò a occuparsi di storiografia con Gianni Bosio e divenne redattore della rivista Movimento operaio. La sua cultura umanistica e la passione letteraria lo indirizzarono alla scrittura di libri per ragazzi, racconti e romanzi. Quando Bosio nel 1953, rilanciò l’attività delle edizioni Avanti!, Pirelli pubblicò nella collana Il Gallo il racconto Giovannino e Pulcerosa (1954). L’esordio narrativo, in realtà, era già avvenuto nel 1952, con la pubblicazione del racconto L’altro elemento nella collana I gettoni di Einaudi. Nel 1950, peraltro, Piero Malvezzi lo aveva coinvolto nella riedizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Torino 1952), cui seguirono le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea (Torino 1954). I volumi ebbero immediato successo, molte ristampe e traduzioni. Tornò alla narrativa con La malattia del comandante Gracco, pubblicato da Einaudi nel 1958 nella raccolta L’entusiasta. Nel racconto biografico, narra l’esperienza della malattia che lo colpì durante la guerra partigiana. Nel frattempo  era maturata anche la passione per la cinematografia: nel 1953 con Malvezzi lavorò alla sceneggiatura di un cortometraggio tratto dalle Lettere italiane, con regia di Fausto Fornari, che vinse il premio come miglior cortometraggio a soggetto alla XIV Mostra del cinema di Venezia. Nel 1955 realizzò, sempre con Malvezzi, l’adattamento teatrale delle Lettere europee, Europa incontro all’alba, per la regia di Vito Pandolfi. Firmò inoltre la sceneggiatura di due documentari a carattere storico-politico diretti da Nelo Risi: Il delitto Matteotti (1956) e I fratelli Rosselli (1959). A Roma, dove si era trasferito nel 1950, aveva sposato nel 1953 la pittrice Marinella Marinelli, dalla quale ebbe due figli, Francesco (1953) e Pietro (1954). Gli anni romani furono anche quelli della vicinanza a Raniero Panzieri. Il rapporto fra i due fu una grande amicizia, basata su una piena sintonia politica. Entrambi aderirono alla corrente morandiana del PSI e dopo il 1955 diressero la sezione cultura, poi curarono la raccolta degli scritti di Rodolfo Morandi. Alla fine degli anni Cinquanta avvenne una seconda svolta nella sua vita. Come molti intellettuali e militanti di matrice resistenziale, sposò la causa dell’Algeria contro la dominazione francese, fornendo sostegno al Fronte di liberazione nazionale (FLN) algerino sia dal punto di vista logistico e finanziario sia editoriale, con le raccolte di documenti Racconti di bambini d’Algeria e Lettere della Rivoluzione algerina, pubblicate in Italia da Einaudi rispettivamente nel 1962 e nel 1963 e in Francia, negli stessi anni, da Maspero. Nel 1961 avvenne l’incontro decisivo con Franz Fanon a Tunisi. Il pensiero anticoloniale dello psichiatra antillese influenzò in modo determinante il successivo percorso di intellettuale impegnato politicamente. Pirelli ne divenne il principale divulgatore e sostenitore in Italia: nel 1963 curò per Einaudi l’edizione italiana di L’an V de la révolution algérienne (Sociologia della rivoluzione algerina), di cui aveva discusso personalmente con Fanon. Sempre nel 1963 fondò a Milano il Centro di documentazione Frantz Fanon, con lo scopo di raccogliere e fornire informazioni sui Paesi del Terzo Mondo: in pochi anni il centro costituì una ricca biblioteca e diventò uno dei punti nevralgici del sostegno ai movimenti anticoloniali in Italia. L’incontro con Fanon, ma anche le riflessioni che condivideva con Panzieri e Bosio, fecero maturare in tutti e tre la decisione  di lasciare il PSI (erano gli anni dei primi governi di centro-sinistra), senza tuttavia aderire al PSIUP. Dopo la morte di Panzieri (1964), Pirelli curò, insieme a Dario Lanzardo, un’antologia di suoi scritti: La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere (1956-1960), pubblicata dalle edizioni Lampugnani Nigri (Milano 1973).  Chiuso nel 1967, il centro Frantz Fanon avrebbe poi riaperto nel 1970 con il nome di Centro di ricerca sui modi di produzione (CRMP). Sulla scia dell’incontro con Fanon si sviluppò il suo intenso impegno a favore dei movimenti di liberazione. Grazie a Giovanni Arrighi, Pirelli compì numerosi viaggi, in Africa centrorientale (1964), negli Stati Uniti (1966), a Cuba (1968); infine in Cina nel 1970. Iniziò così l’ultimo segmento di una vita cui non mancò mai l’impegno e il coraggio del nuovo. Si avvicinò alle riviste e ai gruppi della nascente nuova sinistra, in particolare ai Quaderni rossi e ai Quaderni piacentini. Insieme a Bosio dette vita anche a un nuovo progetto editoriale: le edizioni del Gallo e partecipò alle attività dell’Istituto Ernesto De Martino (nato nel 1966) e del Nuovo canzoniere italiano, favorendone l’apertura internazionale. Dopo la morte di Bosio (1971) assunse personalmente la responsabilità delle edizioni del Gallo. Alla ricerca di nuovi strumenti di espressione per il suo impegno politico, selezionò i testi per A floresta é jovem e cheja de vida di Luigi Nono, opera dedicata al FLN vietnamita ed eseguita per la prima volta al teatro La Fenice di Venezia nel settembre 1964: l’opera era il risultato parziale di un lavoro teatrale più ampio sul tema dell’antimperialismo, al quale Pirelli lavorò con Nono per quasi cinque anni. Anche l’attività letteraria continuò in parallelo all’impegno politico. Nel 1962 aveva pubblicato da Einaudi la raccolta per ragazzi Storia della balena Jona e altri racconti, riedita nel 1972 da Fabbri con il titolo Giovannino e i suoi fratelli e una nuova prefazione in forma di interessante Autoritratto. Nel 1965, sempre per Einaudi, aveva pubblicato il romanzo di fabbrica A proposito di una macchina, sua ultima opera letteraria. Il suo archivio contiene tuttavia molti inediti, tra cui la bozza di un romanzo a carattere autobiografico dedicato alle vicende di una famiglia di industriali milanesi, I Bonora. Morì il 3 aprile 1973 a Sampierdarena per le ustioni riportate in un incidente stradale.

4 Dopo una parentesi messicana dal 1946 al 1948, in Messico, Albe e Lica Steiner tornano a Milano dove iniziano ad insegnare al Convitto Scuola della Rinascita. Come grafico, lui lavora per le riviste Domus, Metron ed Edilizia moderna, per alcune delle più importanti case editrici italiane (Feltrinelli, Einaudi, Zanichelli), per molti dei giornali e settimanali italiani di sinistra e per aziende come la Pirelli e la Olivetti. Nel frattempo e sempre negli anni cinquanta è docente dell’Umanitaria che rimane una delle imprese educative più importanti del dopoguerra. Oltre agli incarichi universitari, nel 1963 apre a Reggio Emilia il primo magazzino a libero servizio e disegna quello che diventerà il logo della Coop. Collabora con enti e istituzioni culturali come la Rai, il Piccolo Teatro, La Triennale di Milano, il Teatro popolare italiano, Italia ’61, la Biennale di Venezia. Progetta insieme all’architetto Lodovico di Belgioioso il primo Museo al Deportato politico e razziale, a Carpi. Il Museo, tuttora aperto, è stato inaugurato nel 1973. Il sodalizio sentimentale e politico con la moglie Lica non venne mai meno, ma è pur vero che ciascuno di loro aveva una propria autonomia artistica e culturale. Durante il soggiorno in Messico, per esempio, Lica ebbe modo di lavorare con Hannes Mayer, ex direttore del Bauhaus, al volume Construyamos escuelas. Sempre in Messico partecipò alla campagna di alfabetizzazione dei peones insieme a Diego Rivera e Siqueiros. Nel 1947 nacque la secondogenita Anna. Al rientro in Italia, contribuì alla fondazione del Convitto Scuola della Rinascita di Milano dove iniziò a occuparsi di didattica, sia come docente, sia come coordinatrice dei corsi di grafica. Nel 1957 curò per l’Unità la Pagina della Donna, prima esperienza del genere di un grande quotidiano nazionale. Nel 1964 fu lei a ricevere l’incarico di recuperare documenti, materiali fotografici e storici sui campi di concentramento politici e razziali per la costituzione del Museo di Carpi. La promozione e il riconoscimento della grafica e del designer sul piano tecnico, professionale e politico, sarà un impegno costante della coniugi Steiner durante tutta la loro vita e continuerà ad esserlo per Lica dopo il 1974, anno dell’improvvisa scomparsa di Albe. Rimasta vedova, continuò a dirigere lo studio di grafica e a insegnare fino agli anni novanta presso la Scuola del Libro dell’Umanitaria a Milano. Con le figlie e con il genero Franco Origoni curò la raccolta degli scritti di Albe e istituì nel 1979 l’associazione Albe Steiner per la comunicazione visiva, allo scopo di ordinare le opere del marito e proprie, e divulgarne la conoscenza attraverso mostre e pubblicazioni. Tutto il materiale raccolto confluì nell’Archivio Albe e Lica Steiner, che nel 1998 viene dichiarato di notevole interesse storico dal Ministero per i Beni culturali. Nel 2003, insieme alle figlie, decise di donarlo al Politecnico di Milano. Morì nel 2008 a Milano; è sepolta con Albe a Mergozzo. Le scritte incise sulla comune lapide dicono: Albe Steiner, partigiano; Lica Covo Steiner, partigiana.

5 Anche sulla fine di Olivetti sono sorti sospetti che fanno pensare alla sua morte come un possibile anello in più che va ad aggiungersi alla triste vicenda dei cosiddetti misteri italiani. Anche di questo aspetto non ci si occupa in questa sede. Del resto la pubblicistica su questo come su altri casi è sterminata e facilmente reperibile su carta stampata e anche in rete. Per apprezzare meglio la sua opera è utile invece considerare il concetto di Impresa integrale, che riecheggia in qualche misura anche l’utopia dei Crespi. Qui di seguito il link di un sito appropriato www.attivismo.info/adriano-olivetti. L’utopia di Olivetti finisce con lui, le narrazione successive che legano il suo nome a managers come Marisa Bellisario o Carlo De Benedetti hanno a che vedere solo con aspetti propagandistici che atro.

6 Bruno Munari è stato uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica novecentesche. Anche tale definizione, tuttavia, risulta un po’ stretta se si tiene conto dei contributi fondamentali che, a partire dai campi già citati, finivano per ramificare e produrre effetti che si propagavano a macchia d’olio: è il caso per esempio del tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco.  Nato a Milano passò l’infanzia e l’adolescenza a Badia Polesine. Tornò in città nel 1925 per lavorare in alcuni studi professionali di grafica. Nel ’27 inizia il suo sodalizio con Marinetti e i futuristi  e nel 1930 realizzò la macchina aerea. Nel ’33 proseguì la ricerca di opere d’arte in movimento, ma iniziò anche a distanziarsi dal futurismo militante e le sue macchine inutili possono essere considerate come un primo esempio di patafisica e anche una caricatura dell’esaltazione macchinale futurista. Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni nella storia dell’arte, quasi coeva, benché precedente, all’ambiente nero che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano. Nel 1948, insieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Giuliano Mazzon e Atanasio Soldati, fondò il Movimento Arte Concreta. Insieme a Lucio Fontana dominò la scena milanese degli anni cinquanta-sessanta; sono gli anni del boom economico, in cui nacque anche la figura dell’artista operatore-visivo che diventava consulente aziendale, come era accaduto anche per la fabbrica integrale di Olivetti. Munari è considerato uno dei protagonisti dell’arte programmata e cinetica, Nel 1951 presenta le macchine aritmiche in cui il movimento ripetitivo viene interrotto in modo causale e umoristico. Sempre degli anni cinquanta sono i libri illeggibili in cui il racconto è puramente visivo. Nel ‘55 crea il museo immaginario delle isole Eolie dove nascono le ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari, composizioni astratte al limite tra antropologia, humour e fantasia. Poi le sculture da viaggio, che sono una rivisitazione rivoluzionaria del concetto di scultura, non più monumentale ma come un bagaglio al seguito e a disposizione dei nuovi nomadi del mondo globalizzato di oggi. Nel ’59  crea i fossili del 2000 che con vena umoristica fanno riflettere sull’obsolescenza della tecnologia moderna. Negli anni sessanta diventano sempre più frequenti i viaggi in Giappone. La scoperta di quella cultura e in particolare per lo zen, lo porta su nuove strade. Nel ’65, a Tokyo progetta una fontana a 5 gocce che cadono in modo casuale in punti prefissati, generando una intersezione di onde, i cui suoni, raccolti da microfoni posti sott’acqua, vengono riproposti amplificati nella piazza che ospita l’installazione. Verso la fine degli anni ’60 si dedica alle sperimentazioni cinematografiche con i film i colori della luce (musiche di Luciano Berio, tempo nel temposcacco mattosulle scale mobili (1963-64). Infatti, insieme a Marcello Piccardo e ai suoi cinque figli a Cardina, sulla collina di Monteolimpino a Como, tra il 1962 e il 1972 ha realizzato pellicole cinematografiche d’avanguardia. Da questa esperienza nasce la Cineteca di Monteolimpino – Centro Internazionale del film di ricerca. Munari è tumulato nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano.

7 I siti e la bibliografia indicata qui di seguito sono ricavati da una ricerca in rete da fonti diverse e offorno un quadro esauriente della narrativa industriale. Giuseppe Iadanza, L’esperienza meridionalistica di Ottieri con Appendice sulla questione meridionale, Bulzoni, Roma 1976. Per testimonianze su Adriano Olivetti e sul movimento “Comunità” si rinvia alla sezione Bibliografia. ^ Per un completo profilo critico di questi due autori (segnalati qui a titolo esemplificativo, per la particolare attenzione rivolta alla tematica industriale), Cfr., per Ottieri: Giacinto Spagnoletti, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974, pp. 1603-1624; per Volponi: Enzo Siciliano, Op. cit., pp1589-1601. ^Donnarumma all’assalto, dopo critiche e riserve, fu pubblicato da Bompiani nel 1959 col pieno benestare di Adriano Olivetti.  Giorgio Bàrberi Squarotti, Volponi, Paolo, in Grande dizionario enciclopedico, prima Appendice (1964), Torino, UTET, 1965,, p. 1028. ^Giorgio Bàrberi Squarotti, op. cit., ivi. Giacinto SpagnolettiOttiero Ottieri, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974. Enzo SicilianoPaolo Volponi, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974. Giuseppe IadanzaL’esperienza meridionalistica di Ottieri, Bulzoni, Roma 1976. Primo LeviLa chiave a stella, Einaudi, Torino 1979. Geno PampaloniAdriano Olivetti: un’idea di democrazia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1968 Elisabetta Chicco Vitzizzai (a cura di), Scrittori e industria, Paravia, Torino 1982. Francesca Giuntella e Angelo Zucconi (a cura di), Fabbrica, comunità, democrazia: testimonianze su Adriano Olivetti e il movimento Comunità, Fondazione Olivetti, Roma 1984. Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Giuffrè, Milano 2001. Giorgio Bigetti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Bari 2013. Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Giuffrè, Milano 2001. Giorgio Bigetti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Bari 2013. Lucio Mastronardi con la trilogia di vigevano (il calzolaio,il meridionale e il maestro di vigevano) Infine di Vincenzo Baraldi Condizione operaia e rappresentazione del lavoro www.uni3pinerolo.it/wp-content/uploads/2014/09/Vincenzo-Baraldi.. 10

8 Dalla metà degli anni ’80 collabora a riviste come Linus, Corto Maltese, Millepiani, Linea d’Ombra e con il quotidiano Il Manifesto. Continua la sua attività in ambito fantascientifico fondando la Viortual Isaac Asimo’v Science Foction Magazine Virus Mutaitons, Cyberzone. Collabora inoltre alla stesura di testi per MediaMente, trasmissione televisiva dedicata al mondo delle nuove tecnologie, prodotta da Rai Educational. Nel 2007 partecipa al Film Festival Visionaria, proiettando sotto il titolo di Città immateriali vari cortometraggi realizzati dalle accademie milanesi Accademia di Brera  e NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a cui segue un convegno collegato con il nuovo cyber fenomeno Second Life, sul quale si svolgeva il festival in forma virtuale. È stato per diversi anni docente di Comunicazione all’Accademia di Brera. Ha partecipato in prima persona alla Scuola di media design & arti multimediali della Nuova accademia di belle arti di Milano, NABA, con la titolarità della cattedra in estetica dei media al diploma triennale omonimo e della cattedra di culture digitali alla laurea di specializzazione in film & new media. Muore a Milano  nel 2013.