WALLACE STEVENS: UNA GIARA NEL TENNESSEE
In questa seconda parte del saggio viene preso in considerazione un testo degli esordi, spesso trascurato.
Perché Stevens è così decentrato rispetto alla temperie del suo tempo? È bene ritornare a un testo pubblicato nel 1919 dalla rivista Poetry e intitolato Anecdote of the jar.
I placed a jar in Tennessee
And round it was upon a hill
It made the slovenly wilderness
Sorround the hill.
The wilderness rose up to it,
And sprawled around no longer wild.
The jar was round upon the ground
And tall and of port in air.
It took dominion everywhere
The jar was grey and bare.
It did not give of bird and bush,
Like nothing else in Tennessee.
———–
Posai una giara nel Tennessee,
Ed era tonda sopra un colle.
Obbligò la sciatta selva
A circondare il colle.
La selva sorse alla sua altezza,
attorno adagiata non più selvaggia,.
La giara era tonda sulla terra
E alta e ben portante in aria.
Prese a dominare tutto.
La giara era grigia e spoglia.
Non sapeva di cespo o uccello,
come nient’altro nel Tennessee.4
Il tema di questo componimento verte su uno dei tanti contrasti latenti intorno ai quali ruota e medita la poesia di Stevens: ordine e caos, oppure natura selvaggia ed elemento umano. Non è difficile trovare i termini che si contrappongono nel testo: jar e wilderness. Tuttavia, se di guarda meglio la varietà di significati possibili di queste parole, cominciano a delinearsi alcune sorprese.
Se si sta al dizionario, il termine natura sfiora ma non tocca direttamente la parola wilderness: è l’aggettivo sostantivato wild che ha una precisa curvatura naturalistica, mentre wilderness è un vocabolo più concreto che definisce il territorio selvaggio, disabitato, non coltivato. Il vocabolo è assai meno evocativo e più comune, intermedio, quasi prosaico e adatto a formare una coppia asimmetrica con jar: una giara, infatti, non è l’opposto simmetrico dello spazio incolto. La curvatura che assume la parola wilderness si precisa ancor meglio se si guarda all’aggettivo con cui essa è accoppiata nella seconda strofa: slovenly. Apparentemente si tratta di un’inutile ripetizione dal momento che la parola significa sciatto, trasandato e solo in terza istanza disordinato. Slovenly, invece, serve a Stevens per avvicinare sempre più la parola wilderness al suo terzo significato, quello di landa desolata. Priva dell’elemento umano? L’umano aleggia eccome in questa poesia ma vedremo in che modo. Stevens sembra sì alludere a ordine e caos, ma lo fa in modo così obliquo da far pensare che ci sia altro sotto traccia. Infatti, se si torna alla parola jar scopriamo che non ha solo il significato che sembra ovvio, tanto che quasi tutte le traduzioni insistono nel tradurre il termine con la parola italiana barattolo a volte aggiungendo per maggiore precisione di vetro. La parola inglese jar infatti è anche un termine onomatopeico che significa suono stridente e disarmonico, dissonante, come quello fatto da un oggetto che viene sfregato contro qualcosa. Stevens, sfruttando a fondo la molteplicità di significati dei sostantivi inglesi, mette qui in scena una complessità di senso molto elevata. L’elemento umano rappresentato dalla giara non sembra portare ordine, bensì una disarmonia, un suono stridente, mirabilmente coerente, peraltro, con le scelte lessicali compiute dal poeta e che m’inducono anche a preferire di gran lunga la traduzione del termine jar con giara, il solo che in italiano possa dare l’idea di un suono stridente. Prendiamo infatti il primo verso: I placed a jar in Tennessee seguito nel secondo verso dalla parola wilderness: il ruolo delle sibilanti evoca certamente il frusciare di alberi, il vento, o anche il silenzio della natura incontaminata, mentre la parola jar spezza l’armonia con un suono, appunto, dissonante e stridente.
Ritorniamo ora all’inizio di questa lirica. L’uso del simple past (passato remoto) e del soggetto I, danno un tono solenne ma anche misterioso alla poesia. Il simple past è il tempo della narrazione mitica: e chi è poi questo misterioso Io che ha posto la giara nel Tennessee? Se la scelta verbale ci proietta nel tempo astorico della favola, del racconto orale, questo andamento solenne contrasta con il titolo ed anche con l’oggetto concreto della visione. Anecdote è una parola prosaica la cui traduzione è scontata, mentre dal canto suo giara non è un oggetto qualunque e astorico, non è un prodotto metafisico della civiltà o del lavoro umano astratto: si tratta di un manufatto. La tensione fra il tempo verbale e l’oggetto concreto della visione è massima. L’oggetto della visione, è sopra una collina circondato dalla landa desolata; ciò che mette in fuga wilderness è proprio jar, l’elemento umano. Nel ritrarsi della wilderness c’è qualcosa di sinistro, sembra una fuga disordinata ed infatti l’inizio dell’ultima quartina lo testimonia: It took dominion everywhere. La giara prese il potere ovunque! Qui Stevens usa un’espressione che ricalca il linguaggio politico, ma che incarna anche l’idea di un’azione di forza. Facciamo un passo indietro. La conclusione della seconda quartina suona così: The jar was round upon the ground/ And tall and of a port in air. La ripetizione con rima interna è un richiamo martellante, evoca una presenza sinistra, prepara l’ultima quartina preannunciando il dominio della giara, ben saldo sulla terra ma anche in alto. Si trova lì perché la collina è alta o per qualche altra ragione? All’inizio non vi è dubbio che si trovi sulla cima di una collina, ma ora esso è in alto anche perché domina. E come se non bastasse port e portly sono un segnale di arroganza: port è la persona che si gonfia il petto ma anche la sentinella militare che guarda il territorio. Le giare si sono moltiplicate: è una collina di giare ciò che Stevens vede!
Continuiamo: The jar was grey and bare (la giara era grigia e spoglia) scrive il poeta. L’aggettivo bare può sembrare a prima vista una scelta gratuita associata ad una giara, dal momento che esso è usato per costruire fruste metafore autunnali. Se però lo poniamo in connessione con l’aggettivo slovenly precedentemente accoppiato a wilderness ci rendiamo conto che Stevens ha costruito una similitudine interna al testo: la landa è desolata rispetto alla natura tanto quanto la giara lo è nei confronti dell’umano.
Jar non porta ordine, ma una desolazione di tipo diverso, creata dall’essere umano. L’ordine è solo una maschera perché jar did not give of bird and bush (la giara non ha nulla a che vedere con il cespuglio e con l’uccello. Essa non domina solo sulla landa desolata ma anche sulla natura che si ordina da sé. Siamo all’epilogo. Così come il viaggio testuale era iniziato con un ritorno indietro imprecisato nel tempo mitico della narrazione e in quello storico della nascita del manufatto, Stevens lo chiude con un bruciante ritorno al qui e ora cioè al presente del Tennessee e vi torna con un finale enigmatico che rilancia tutta la questione. Egli infatti non vede solo il presente e cioè che nulla più della giara è oggi più estraneo al Tennessee, ma anche il futuro, allorché più nulla avrà a che fare con bird e bush, cioè con la natura incontaminata. La sua poesia vive nel mezzo, corre da un punto all’altro del tempo che lega insieme mito e aneddoto, storia e cronaca, presente, passato e futuro. La poesia non si ferma su alcuno di questi punti ma li ripercorre tutti e li fa risuonare ma in modo dissonante. È la disarmonia e non l’ordine il tema di questa lirica, una disarmonia intervenuta nel rapporto fra l’umano ed il suo ambiente, oppure se si vuole fra natura e cultura; oppure ancora fra prima e seconda natura. L’io che campeggia in questo testo non è dunque lirico; in realtà è un noi, l’indicazione apparentemente impersonale di un soggetto collettivo che ha introdotto una disarmonia. Se questo è l’aneddoto che il poeta ci racconta qual è la scena maggiore? La disarmonia, la rottura di un equilibrio. La giara, è un manufatto, è un prodotto industriale.5
La parabola poetica di Stevens comincia da qui e lo porterà molto lontano. Alcuni critici hanno parlato dell’influenza di Keats su questa poesia, ma essa mi sembra superficiale, basata solo su qualche assonanza che potrebbe apparire come una citazione ironica dell’Ode sull’urna greca, sostituita appunto da una comunissima giara o da un ancor più comune barattolo. Inoltre è stato pure notato che l’anno di pubblicazione della poesia di Stevens (1919), viene proprio a cento anni dalla stesura delle grandi odi del poeta inglese.6 In Keats, tuttavia, il ritorno alla classicità è una fuga nel mondo passato, mentre – nel caso di Stevens – è alla prima generazione dei romantici che a mio avviso occorre guardare, a Wordsworth e a Coleridge (al primo dei due in particolare) per i quali è viva, presente e operante (lo era stato in precedenza anche per Blake), la visione di uno shock provocato dalle trasformazioni nella società inglese del tempo e quindi una fervida attenzione al presente.7
La Prefazione alle Ballate liriche indica con chiarezza proprio questo proposito:
The subject is indeed important! For the human mind is capable of excitement without the application of gross and violent stimulants; and he must have a very faint perception of its beauty and dignity who does not know this, and who does not further know that one being is elevated above another in proportion as he possesses this capability… enlarge this capability is one of the best services in which, at any period, a Writer can be engaged; but this service, excellent at all times, is especially so at the present day.
Il soggetto, è davvero importante! Dal momento che la mente umana è capace di eccitarsi senza che siano necessari chissà quali e violenti stimolanti; e deve avere davvero una debole percezione della sua bellezza e dignità colui che non sa questo, e chi non si propone inoltre di sapere che un essere umano si eleva sopra un altro in proporzione a quanto possieda o meno tale capacità… allargare tale capacità è uno dei migliori servizi in cui un scrittore, in qualsiasi epoca, si debba sentire coinvolto: ma tale servizio, eccellente sempre, lo è specialmente nel tempo presente…
La ragione per cui Wordsworth e Coleridge pensano che tale compito sia quanto mai importante nell’Inghilterra del suo tempo, viene resa esplicita subito dopo:
For a multitude of causes unknown to former times are now acting with a combined force to blunt the discriminating powers of the mind,… to reduce it to a state of almost savage torpor. The most effective of these causes are the great national events which are daily taking place, and the encreasing accumulation of men in cities, where the uniformity of their occupations produces a craving for extraordinary incident which the rapid communication of intelligence hourly gratifies. To this tendency of life and manners the literature and theatrical exhibitions of the country have conformed themselves…
Per una serie di ragioni, sconosciute nelle epoche precedenti, agiscono sul presente forze che combinate insieme ottundono la capacità del discernimento della mente, … per ridurla a uno stato di torpore selvaggio. La parte più consistente di queste cause è costituita dagli eventi che avvengono a livello nazionale, la sempre crescente concentrazione di uomini nelle grandi città, dove l’uniformità del loro lavoro produce miseria … A tale tendenza tutte le rappresentazioni teatrali e letterarie si stanno uniformando. 8
La polemica diventa chiarissima in questo passaggio: la vita urbana e specialmente la vita industriale, la concentrazione nelle fabbriche e nei quartieri è vista come una minaccia e un corrompimento dei costumi. A tutto questo si oppone la semplicità della vita rurale come esempio, la natura in quanto suscitatrice di emozioni e non la natura matematizzata e geometrizzata della rivoluzione scientifica e della ratio illuminista. Tuttavia il poeta inglese e il suo sodale non hanno in mente un disegno di tipo aristocratico ma il contrario:
La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”9
Siamo così lontani dagli esiti ultimi della poesia di Stevens, quando il poeta invoca la necessità di scrivere (cito a memoria) i poemi della terra e non del cielo inteso come paradiso, e di avvicinarsi alle cose come sono, nella loro semplicità? In una lettera a Henry Church, si esprimerà con una chiarezza ancora maggiore:
Caro Church … per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta e la poesia non è che la ricerca difficile di questo.10
La seconda generazione dei romantici inglesi (Keats, Shelley, Byron) aveva già indirizzato la propria poetica per altre e diverse strade, ma ugualmente cospiranti nel rompere la difficile unità d’intenti che Wordsworth e Coleridge cercarono di proporre nelle Lyrical Ballads: riforma del linguaggio poetico in senso popolare, critica della società industriale sul piano simbolico (L’ode all’antico marinaio), rifiuto della modernità. Tuttavia, già in Coleridge sono evidenti le scelte sempre più visionarie e rivolte all’interiorità, mentre Wordsworth espresse anche personalmente il suo rifiuto, barricandosi nella sua casa di campagna nel Lake Distritct, lontano da tutto e da tutti. L’eredità che la seconda generazione romantica raccolse andava ormai in tre direzioni diverse: il culto del passato classico come rifugio (Keats), la natura come fonte di meditazione intima e personale e dunque la rinuncia a vederne una sorta di contraltare al mondo industriale, nei confronti del quale opporre invece la critica sociale (Shelley), la riscoperta delle radici dei popoli europei e la passione politica e risorgimentale (Byron). In fondo, quella espressa dalla prima generazione dei romantici inglesi, fu l’ultima, estrema e vana resistenza alla modernità, ma Wordsworth e Coleridge ebbero l’enorme merito di rivoluzionare il linguaggio della poesia inglese e questo in definitiva fu il loro grande contributo:
“Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”11
Nella seconda generazione dei poeti romantici, la scissione fra individuo, natura e società è già compiuta e le diverse scelte dei tre esponenti maggiori lo dimostrano.12
Di lì a poco sarebbe esplosa in tutta Europa la stagione del realismo, ma i protagonisti sarebbero stati narratori, romanzieri, pittori, caricaturisti e musicisti. La poesia inglese si sarebbe sempre più ritirata nella meditazione solitaria e nell’intimismo, che conosce le sue vette più alte con Tennyson; nell’Europa intera saranno Leopardi e Baudelaire ad aprire nuove strade alla poesia.
Stevens, in Anecdote of the jar, si trova più vicino alla prima generazione, ma più di cento anni dopo e in un contesto diverso. Come per Wordsworth e Coleridge, anche per lui nulla sarebbe stato come prima: gli Usa dei grandi spazi e dei grandi fiumi, della natura incontaminata e selvaggia, oppure dell’intimità domestica nel ranch e nelle praterie, erano già stati rappresentati da Whitman, da Dickinson, da Twain. La lezione del bardo americano per eccellenza è ben presente e operante in Stevens, così come nei testi più brevi è presente la eco di Emily Dickinson; ma la New York di Whitman non poteva più essere la sua. Se mai vi fu davvero un tempo dell’innocenza statunitense (c’è molto da dubitarne e lo si dovrebbe comunque domandare ai popoli nativi di quelle terre e ai neri statunitensi), esso era finito. Per questa ragione, Stevens sente le ragioni di Wordsworth come una eco profonda, nel senso che vede analoghe trasformazioni in atto nella società statunitense. Ecco come affronterà questa problematica molti anni dopo in una conferenza. In essa, Stevens si confronta, come farà per tutta la sua vita di autore sulla relazione fra realtà e immaginazione. Parlando della prima e della vita statunitense, ecco cosa scrive:
… La realtà è data dalle cose così come sono … Dapprima abbiamo una realtà che viene data per scontata, latente e tutto sommato ignorata. È l’agiata vita americana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e del primo decennio dell’attuale. C’è poi una realtà che ha cessato di essere irrilevante, e questo si è avuto quando, una volta accantonati i vittoriani, le minoranze intellettuali e sociali hanno cominciato ad occupare il loro posto, trasformando la nostra vita in qualcosa di potenzialmente instabile. Di fronte a questa realtà, molto più vitale, quella precedente appare simile a un libro di litografie stampate da Rudolf Ackermann o a uno dei libri di schizzi svizzeri di Töpffer…
Il manufatto porta il marchio del lavoro industriale ma anche della modernità statunitense, rispetto al secolo precedente e ai primi dieci anni, ancora sognanti e immersi in quella che il poeta definisce come agiata vita americana. Nella collina delle giare del Tennessee s’intravede la potenza dell’industria che avanza, la modernità, le ciminiere delle fabbriche.
Nel modo di tornare a quel momento storico e alla moderna caduta, si palesa tuttavia da subito la differenza e la distanza che lo separano da Wordsworth. Se la natura rappresentata dal romantico inglese era un mondo splendente, lussureggiante, dai colori forti – come è pure nelle rappresentazioni di Whitman – una sorta di paradiso terrestre da contrapporre come un Titano al grigio e orrido mondo della produzione industriale – la natura di Stevens può essere anche una wilderness, oppure il giardino elegante, ma immobile e incantato, di Sunday Morning.
Il poeta statunitense non ha bisogno d’immaginarsi il paradiso terrestre. La disarmonia può introdursi anche laddove il paesaggio è desolato pur essendo naturale: la disarmonia riguarda il rapporto fra l’umano e l’ambiente naturale e la società vittoriana precedente, ma la natura non deve essere per forza di straordinaria bellezza, può essere plain e cioè normale o addirittura piatta, un aggettivo che Stevens userà sempre più spesso. Ribadirà un concetto analogo anche in un altro dei saggio de L’Angelo necessario, dal titolo L’immaginazione come valore:
La generazione precedente alla nostra avrebbe detto che l’immaginazione era un aspetto del conflitto fra uomo e natura; oggi siamo più inclini a dire che si tratta di un aspetto del conflitto fra l’uomo e l’organizzazione sociale. 13
L’America agiata, forse un po’ sognata, era quella di una presunta innocenza, mentre quella attuale sta dentro i conflitti sociali della modernità. Stevens lo capisce molto di più di certi suoi critici, anche se non si può pretendere da lui che ne tragga tutte le conseguenze. L’organizzazione sociale e anche la guerra, oppure la storia, come vedremo meglio più avanti, sono per Stevens la pressione massima che la realtà esercita sugli individui e quindi l’ostacolo maggiore che l’immaginazione incontra per esercitare il suo diritto a stare nel mondo.
4 Wallace Stevens, Anectode of the Jar. In Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, con testo a fronte, Einaudi Torino, 1994, pp. 98-9. Ho scelto questa edizione e la traduzione di Bacigalupo poiché ritengo, come viene spiegato nel testo, che la traduzione di jar con giara sia la più felice possibile.
5 Mi si potrebbe obiettare, a questo punto, che la parola barattolo, sarebbe stata più adatta come traduzione perché la giara infondo è più legata a un mondo ancora artigianale e preindustriale e a noi italiani, oltretutto, ricorda proprio un memorabile racconto di Pirandello, fortemente legato a quel mondo. Tuttavia, ritengo che il traduttore abbia privilegiato l’aspetto onomatopeico e abbia fatto bene, anche perché l’onomatopea non è un’eccezione nella poesia di Stevens. Nelle traduzioni, lo sappiamo, si perde sempre qualcosa, in particolare da una lingua che vede nell’estensione dei significati lessicali, più che non nelle strutture della frase – come è per esempio per la lingua tedesca – una delle sue caratteristiche più rilevanti.
6 Gert Buelens e Bart Eeckhout ne scrivono in un interessante saggio pubblicato sul numero 1 volume 34 di The Wallace Stevens Journal, primavera 2010. Nel saggio, che mette fra l’altro in evidenza l’influenza di William James sulle opere di Stevens, si sostiene che la giara del poeta di Hartford sarebbe un ironico contrappunto all’urna greca di Keats. Se anche così fosse, tuttavia, significherebbe che Stevens è del tutto alieno da quella fuga nel passato come rifugio che un poeta come Keats, di fronte ai diversi orrori o delusioni del suo tempo, ha cercato. Keats non era il solo e anche il suo viaggio a Roma e la sua morte nella città eterna lo dimostrano. Fu un’intera generazione di poeti che, per ragioni diverse, prese la via del Grand Tour e dell’Oriente. Si pensi a Goethe dopo il 1815 e il suo Divano Occidentale orientale.
7 I canti dell’innocenza e dell’esperienza furono la prima opera in cui, nella società inglese, si percepiva una frattura che sarebbe diventata sempre più acuta fra natura, cultura e società. L’idea stevensiana di caduta è più vicina alla sensibilità della prima generazione dei romantici inglesi, anche se ritengo eccessivo definire Stevens come l’ultimo dei romantici. Se mai, lo accomuna a Wordsworth l’appartenenza, almeno come punto di partenza, ai poeti della tradizione protestante. Ne scrive Massimo Bacigalupo nell’introduzione a L’angelo necessario Coliaeum editore, Milano 1988, pag.10.
8 La prefazione alle Ballate Liriche si trova on line in diversi siti britannici. Mi sono servito della versione inglese di Wikimedia, ma ne esistono altre. Nelle citazioni che seguono riporterò solo la traduzione italiana, vista la facilità con cui si può attingere agli originali in inglese. A volte la traduzione è mia come in questo caso, altre volte tratta da siti italiani.
9 Questa parte della prefazione è tratta dal sito italiano La soffitta incantata, il mio mondo fra parole e sogni.
10 … Egli (il poeta ndr) ha perduto il mondo soprattutto perché i grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra … Questa citazione, ripetuta anche in altre forme, ricorre più volte in Stevens; nel caso specifico si trova in L’angelo necessario a cura di Massimo Bacigalupo traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Milano 1988, pag. 216. La seconda citazione è tratta dalla lettera 521, indirizzata appunto a Henry Church.
11 Anche questa citazione dalla Prefazione alle Ballate liriche è tratta dal sito italiano La soffitta incantata.
12 Sebbene il loro apporto non si discosti dai canoni indicati in precedenza, è utile riscoprire la poesia delle poete romantiche, molto seguite e del tutto integrate nei consessi letterari del tempo, ma poi dimenticate. Va dato merito all’editore italiano Carocci, di averle riscoperte alcuni anni fa e pubblicate con testo a fronte. Le loro opere cambiano qualcosa nelle gerarchie del valore, rispetto alla canonizzazione tradizionale? Una risposta esaustiva è impossibile darla per la scarsità di studi anche da parte della critica letteraria nata in ambito femminista. Tuttavia, almeno una di loro e cioè Mary Blachford Thige (18772-1810), va posta nel Pantheon delle voci più originali di entrambe le generazioni. In: Antologia delle poetesse romantiche inglesi, a cura di Lilla Maria Crisafulli, in due volumi, Carocci editore, Roma 2003.
13 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum, Milano 1988, pag. 101. La prima citazione è tratta dal saggio Il nobile cavaliere e il suono della parole. Esso fu letto all’università di Princeton durante un convegno dal titolo Il linguaggio della poesia, organizzato da Barbara Church. Successivamente fu pubblicata nel 1942 per Princeton University Press. La seconda si trova nello stesso libro ma in un saggio dal titolo L’immaginazione come valore, alla pag. 224.