WALLACE STEVENS: LE OPERE DELLA MATURITÀ
L’anello di congiunzione fra le Note e le opere della maturità sono le Autore d’autunno. Il titolo stesso ci indica una direzione: gli splendori dell’estate si sono attenuati ma non sono scomparsi, l’autunno è il tempo dell’intimità, ma non del ritiro; piuttosto quello della maturità dei frutti.
Il poema è suddiviso in dieci stanze, ciascuna formata da otto terzine. In esso Stevens ripercorre tutti i temi più importanti della sua poesia. Due sono le sezioni su cui mi soffermerò: la prima e l’ottava. Data l’importanza ne citerò larghe parti. Cominciamo dalla prima stanza:
/This is where the serpent lives, the bodiless./ (/Qui vive il serpente, l’incorporeo./).52
Il qui cui si riferisce il poeta è il luogo che anche noi abitiamo, è la terra. In essa Stevens vede un serpente, animale di cui è fin troppo facile ricordare il significato simbolico: il qui del poeta non è dunque semplicemente il nostro habitat fisico, ma un luogo che fu teatro di una caduta originaria, di una rottura dell’armonia, un tema che era presente fin dagli esordi di Stevens, in quella lirica breve intitolata Anecdote of the jar di cui di è scritto nell’introduzione; ancora una volta però, tale caduta non va intesa in senso metafisico e religioso e neppure, semplicemente, come la ripetizione di quanto scritto in quel lontano testo del 1919.
Il serpente è incorporeo. Cosa sta a significare questo ossimoro?:
/His head is air. Beneath his tip at night/Eyes open and fix on us in every sky.// Or is this another wriggling out of the egg,/Another image at the end of the cave,/Another bodiless for the body’s slaugh?//
(/D’aria è la testa. Sotto la punta a notte/Occhi s’aprono e ci fissano in ogni cielo.// O è un altro dimenìo fuori dall’uovo,/Un’altra immagine in fondo alla caverna,/Un altro incorporeo dopo che il corpo s’è spogliato?/
La testa del serpente è fatta d’aria, non solo perché la sua immagine è stata spesso vista in cielo – basterà ricordare la cosmogonia azteca che Stevens conosceva perché a essa accenna in un poema, ma anche perché è un animale intorno al quale si sono formate delle idee mentali che l’associano naturalmente al male e al peccato originale. Il serpente non ha un nido solo nella terra ma anche in cielo ed anche nelle nostre teste, dove diventa il signore dell’intrico:
/In another nest, the master of the maze/Of body and air and forms and images,/Relentlessly in possession of happiness.//This is his poison: that we should disbelieve/Even that. His meditations in the ferns,/When he moved so slightly to make sure of sun,//Made us no less than sure. We saw in his head,/Black beaded on the rock, the flecked animal,/The moving grass, the Indian in his glade./
(In un altro nido, il signore dell’intrico/Di corpo e d’aria e forme e immagini,/Implacabile nel possesso della felicità.//Questo è il suo veleno: che anche a lui/ Smettessimo di credere. Le sue meditazioni tra le felci,/Quando si muoveva appena per assicurarsi il sole,//Ci fecero di lui non più sicuri. Vedevamo nella testa,/Perla nera contro la roccia, l’animale screziato,/L’erba mossa, l’Indiano nella prateria53
Il serpente non è solo l’animale, ma anche l’idea mentale che ne abbiamo, nella quale si coagulano le nostre paure: questo è il veleno cui bisogna smettere di credere se vorremo di nuovo afferrare la visione originaria del serpente come di ogni altra cosa. Nelle sezioni successive che iniziano spesso con Farewell to an idea? (Addio a un’idea) Stevens ci esorta di nuovo ad abbandonare tutte le costruzioni mentali o filosofiche intorno alle cose, a spogliarcene. Torna ancora una volta l’invito a quella sospensione del giudizio, a porsi di fronte all’oggetto come se lo conoscessimo per la prima volta. L’ottava stanza è quella della svolta che anticipa, con il suo tono diverso, quelli che saranno i grandi poemi finali. Il tono in realtà era già mutato e la stessa prima stanza ne è testimonianza: i temi sono gli stessi, ma il linguaggio usato non è più quello alto delle note, ma si è fatto più sommesso e discorsivo, Tuttavia, è proprio nell’ottava sezione che tale passaggio diviene più chiaro:
/There may be always a time of innocence./There is never a place. Or if there is no time,/If it is not a thing of time, nor of place,//Existing in the idea of it, alone,/In the sense against calamity, it is not/Less real. For the oldest and coldest philosopher,//There is or may be a time of innocence/As pure principle. Its nature is its end,/That it should be, and yet not be, a thing//That pinches the pity of a pitiful man,/Like a book at evening beautiful but untrue,/Like a book on rising beautiful and true.// It is like a thing of ether that exists/almost as predicate. But it exists,/It exists, it is visible, it is it is.// So then, these lights are not a spell of light,/A saying out of a cloud, but innocence./An innocence of the earth and no false sign//Or symbol of malice. That we partake thereof,/Lie down like children in this holiness,/As if awake, we lay in the quiet of sleep,//As if the innocent mother sang in the dark/Of the room and on an accordion, half-heard,/Created the time and place in which we breathed…
(/Sempre ci sarà dell’innocenza un tempo./Mai un luogo. O se non c’è tempo,/Se non è cosa né di tempo, né di luogo,//Vivente nell’idea, lì soltanto, nel senso/Contro la sventura non è/ Meno reale. Per il più antico e freddo dei filosofi,//C’è o ci può essere come puro principio/Un tempo dell’innocenza. La sua natura il fine,/Che possa essere o non essere, una cosa/Che risveglia la pietà dell’uomo pietoso,/Come un libro di sera bello ma insincero,/Come un libro all’alba bello e sincero./ E’ come una cosa d’etere che esiste/Quasi fosse un predicato. Ma esiste,/Esiste, è visibile, è, è.//E dunque queste luci non sono malia di luci,/Miracoli di nuvola, ma innocenza./Un’innocenza della terra, non un segno falso//Né un simbolo maligno. Ne siamo parte,/Come bimbi stiamo in questa santità,/Come se svegli stessimo quieti nel sonno,// Come se la madre innocente cantasse al buio/Nella stanza, e alla fisarmonica sottovoce/Creasse il tempo e il luogo in cui respiravamo/)54
Nadia Fusini, parlando di questa ottava sezione, scrive che il tempo in cui vive questo essere a metà fra veglia e sonno ricorda il limbo. Come metafora di un luogo che sta a metà strada fra umano e divino, mi sembra assai calzante. A tale intuizione, ne aggiungerei una seconda: definire l’innocenza un tempo e non un luogo. Ancora una volta Stevens rifiuta il concetto di favoloso altrove che è naturalmente legato a un luogo e così anche il paradiso. L’innocenza può essere solo un tempo, nel luogo essa è perduta per sempre e ancora una volta ritorna l’immagine di quella giara sulle colline del Tennessee. Tuttavia questa sezione finale delle Aurore ci permette di fare qualche passo in più nel decifrare il rapporto di Stevens con la tradizione e il modo diverso di considerarla rispetto ad altri della sua stessa generazione, Eliot e Pound in primis. Abbiamo visto come molte delle liriche iniziano con Farewell to an idea (Addio a un’idea). Dal serpente come incarnazione del male, alla caverna platonica, al romanzo famigliare, sono tutte esortazioni a liberarsi delle costruzioni mentali nate intorno a quei concetti. Alla fine di questo percorso una nuova figura si affaccia: è L’angelo necessario della terra, sintesi delle figure precedenti ed è importante proprio per questo ricostruire la genesi che lo portò a scrivere il testo poetico. Lo spunto iniziale è suggerito al poeta dall’osservazione di un quadro di Tal-Coat. Stevens amava farsi spedire quadri dall’Europa ed era Paul Vidal che di solito si occupava della faccenda. Il dipinto in questione rappresenta tazze e bicchieri, bottiglie e un vaso di vetro con una piccola fronda. L’opera non si distingue per particolari spunti immaginativi, ma ecco che Stevens vede qualcosa che modifica la sua e nostra percezione dell’oggetto. Egli ribattezza il dipinto Angelo circondato dai paesani. Le terrine diventano dei contadini e la bottiglia di vetro veneziano con la piccola fronda assume le sembianze di un angelo che illumina la scena e la riscatta dalla sua povertà apparente.55
Compiuta questa prima metamorfosi, la seconda porta alla nascita di una poesia senza titolo, dove appare un’entità alata che si mostra e scompare, mai del tutto eterea mai del tutto incarnata. Balzano alla mente gli angeli di Klee, ma anche quella voce che improvvisamente ci parla nei momenti cruciali della nostra vita e che fu messa in scena in modo magistrale da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino.56 È proprio questo angelo a rappresentare l’immaginazione e la sua stessa visione, che diviene immagine della creazione e conferisce un valore nuovo a tutto ciò che esiste.
Tale immagine ci porta a quella che definirei una religiosità dell’innocenza che pervade l’opera de Stevens e in particolare i suoi grandi poemi della maturità. Il testo completo della poesia recita:
/Yet I am the necessary angel of earth,/ Since, in my sight, you see the earth again,// Cleared of its stiff and stubborn, man-locked set,/ And, in my hearing, you hear its tragic drone// Rise liquidly in liquid lingerings,/ Like watery words awash; like meanings said// By repetitions of half-meanings. Am I not,/ Myself, only half of a figure of a sort,// A figure half seen, or seen for a moment,, a man/Of the mind, an apparition apparelled in//Apparels of such lightest look that a turn/Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?//
(/Eppure sono l’angelo necessario della terra/ Perché la terra nel mio sguardo rivedete, //Libera dalla sua dura e ostinata maniera umana,/E, nel mio udire, udite il suo tragico rombo// Liquidamente sollevarsi nei suoi liquidi indugi,/Come acquee parole nell’onda; come sensi detti// Con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,/Io stesso una sorta di figura approssimativa,// Una figura intravista, o vista un istante, un uomo/ Della mente, un’apparizione apparsa in// Apparenze tanto lievi a vedersi che se appena/Volgo la spalla, subito, ahi subito, svanisco?//) 57
Le Aurore d’autunno (inverno 1948) aprono il ciclo delle ultime opere, alcune delle quali saranno pubblicate dopo la sua morte. Sempre del 1948 è un altro testo importante: Large red Man reading (Omone rosso che legge). Del 1949 è An ordinary evening in New Haven (Una serata qualunque a New Haven) e del 1950 Angel sorrounded by Paysans (Angelo circondato dai contadini). Infine The Rock (La roccia), un gruppo di 25 poesie scritte dal 1950 e pubblicate nel 54. Infine Opus Posthumous scritte dal 1950 fino all’anno della sua morte (1955); fra queste vi è anche il ciclo di poesie dal titolo The World as Meditation (Il mondo come meditazione), tradotte per la prima volta in Italia nel 1986 e ora comprese in Harmonium.
In queste opere tornano tutti i temi della poesia stevensiana e questo non è sorprendente; ma avviene anche un processo di selezione in due sensi. In primo luogo viene via via abbandonato il tono alto e solenne di cui si sente ancora una eco nelle Aurore d’autunno e specialmente nelle due sezioni precedentemente ricordate e commentate. L’intimità colloquiale è la cifra preponderante e corrisponde a quella curvatura verso l’umano di cui scriveva Nadia Fusini. In secondo luogo, su alcune delle sue tematiche più decisive, per esempio il rapporto fra realtà e immaginazione, Stevens ritorna con pochi tratti sintetici. In altri testi, più tematiche vengono toccate. Un esempio è Vacancy in the park:
/March … Someone has walked across the snow,/Someone looking for ho knows not what.//It is like a boat that has pulled away/From a share at night and disappeared./It is like a guitar left on a table/By a woman, who has forgotten it.//It is like the feeling of a man/Come back to see a certain house.//The four winds blow through the rustic arbor,/Under its mattresses of vines./
(/Marzo … Qualcuno ha camminato fra la neve/Qualcuno che cercava ma non sapeva cosa.//È come una barca che si è allontanata/dalla spiaggia di notte ed è scomparsa./È come una chitarra lasciata sul tavolo/Da una donna, che se n’è scordata./È come lo stato d’animo di un uomo/ritornato a vedere una certa casa.//I quattro venti soffiano attraverso la rustica pergola,/Sotto le sue matasse rampicanti./ 58
Il tema di questa lirica sono le tracce. Marzo, seguito dai puntini di sospensione, introduce il lettore nel setting della lirica: siamo alla fine dell’inverno, la primavera è vicina, ma il paesaggio è ancora immobile, in letargo, si potrebbe dire. L’orma del piede sulla neve, che diventa chitarra abbandonata nel secondo verso, cede il passo nel terzo e nei successivi a immagini d’abbandono e a sentimenti rarefatti. Nella durezza dell’inverno che permane, tali elementi presenti/assenti sono il modo che Stevens assegna all’umano nell’equilibrio del cosmo. Queste tracce visibili non sono simboli di una verità nascosta e misteriosa, ma una tenera presenza che risuona insieme a tutto il resto. I quattro venti che sibilano restituiscono a tutto ciò che umano non è la sua forza, il suo respiro, la sua musica. La chitarra, che fu un oggetto così importante da cui decenni prima e che aveva preso le mosse dalla meditazione di Stevens intorno al nesso realtà immaginazione, è qui abbandonata perché c’è una musica che non può suonare: è quella prodotta dal sibilo di questi venti che passano fra i rampicanti e si tratta di una musica che possiamo sì ascoltare ma che non ci appartiene. Quella musica abita il mondo come lo abitiamo noi, ma non è nostra, l’umano ha qui ceduto il passo a qualcosa che era prima di noi; tuttavia non è scomparso, la chitarra c’è sempre e ci sarà di nuovo qualcuno che la farà risuonare. Tali tracce sono inconfondibilmente umane, non sono tracce del divino, sono i segni di un umano assente ma anche capace di lasciare la sua impronta, il suo segno nel paesaggio, con il quale convive omeostaticamente, in equilibrio.
La seconda lirica, molto celebrata e compresa nell’Opus posthumus, è intitolata The course of the particular (Il corso del particolare.) Essa riprende i motivi di Vacancy in the park, ma anche quelli presenti in un testo assai più vecchio, quasi degli esordi e verrà ripreso successivamente anche in La Roccia.
/Today the leaves cry, hanging on branches swept by wind,/Yet the nothingness of winter becomes a little less./It is still full of icy shades and shapen snow.//The leaves cry…One holds off and merely hears the cry./It is a busy cry, concerning someone else./And though one says that one is part of everything,//There is a conflict, there is a resistance involved;/And being part is an exertion that declines;/One feels the life of that which gives life as it is./The leaves cry. It is not a cry of divine attention,/Nor the smoke-drift of pulled-out heroes, nor human cry./It is the cry of leaves that do not trascend themselves,//In the absence of a fantasia, without meaning more/Than they are in the final finding of the air, in the thing/Itself, until, at last, the cry concerns no one at all./
(/Oggi le foglie gridano, appese a rami che il vento scuote,/Eppure il nulla dell’inverno diviene un poco meno./E’ ancora pieno di ombre gelide e nivee forme.// Le foglie gridano … Ci si discosta, si ascolta solo il grido./E’ insinuante riguarda qualcun altro./E per quanto si dica che siamo parte di un tutto,//La cosa implica un conflitto, una resistenza;/E l’essere parte è uno sforzo che diminuisce:/Si sente la vita che dà la vita così come è.//Le foglie gridano. Non é un grido di attenzione divina,/Nè il fumo di eroi sfiatati, né grido umano./E’ il grido di foglie che non trascendono se stesse,//In una assenza di ogni fantasia,senza significare più/Di quel che sono nella percezione ultima dell’aria, nella cosa/In sé, infine il grido non riguarda più nessuno./)59
In questa poesia si raggiunge ancora una volta una vetta molto elevata della poesia di Stevens. Ciò che il poeta ode è quel suono particolare che nasce dalla combinazione fra un forte vento e l’attrito offerto dalle foglie. Quel grido lo riguarda, ma in che senso? Non è suo, non è umano né divino, è un grido di foglie che non hanno alcuna fantasia. Il grido, però, solleva una contraddizione perché, pur essendo parte di un tutto, si manifesta in esso qualcosa che l’umano può solo cogliere, che non è suo e che alla fine non lo riguarda e come lui nessun altro. Cosa è quel grido allora? È il canto delle cose come sono, è il canto della terra, ancora una volta, per l’ennesima volta, ma con un apporto in più perché il tono del poeta è più pacificato e tranquillo.
Questo tema che ha che fare con il rapporto fra realtà e immaginazione, ma anche con ciò che è umano e ciò che non lo è. Pur essendo tangente la sua tematica fondamentale, tale accentazione, fa di questi pochi testi disseminati nel tempo una specie di cammeo all’interno dell’intera sua opera, anche perché si tratta di testi assai preziosi e raffinati, con un gioco di rime e assonanze particolarmente dense e che non sempre si possono cogliere in pieno nelle traduzioni. Vorrei allora paragonare i due testi citati più sopra ad altri tre. Il primo è del poeta ai suoi esordi, siamo addirittura nel 1916 e la poesia s’intitola Dominion of black (Dominio del nero):
/At night by the fire,/The colors of the bushes /And of the fallen leaves,/Repeating themselves,/Turned in the room,/Like the leaves themselves,/Turning in the wind. /Yes: but the color of the heavy hemlocks/Came striding./And I remembered the cry pf the peacocks.//The colors of their tails/Were like the leaves themselves/Turning in the wind,/In the twilight wind./They swept over the room,/Just as they flew from the boughs of the hemlocks/ Down to the ground./I heard them cry against the twilight/Or against the leaves themselves/Turning in the wind,/Turning as the flames/Turned in the fire,/Loud as the hemlocks/Full of the cry of the peacocks?/Or was it a cry against the hemlocks?//Out of the window,/I saw how the planets gathered/Like the leaves themselves/Turning in the wind./I saw how the night came,/Came striding like the color of the heavy hemlocks./I felt afraid./And I remembered the cry of the peacocks.//
(/Di notte, accanto al fuoco,/i colori dei cespugli/ delle foglie cadute,/ripetendosi,/rotavano nella stanza,/come le stesse foglie/rotanti nel vento./Sì, ma il colore dei pesanti abeti/entrò a lunghi passi./E ricordai il grido dei pavoni./ I colori delle loro code/erano come le foglie stesse/rotanti nel vento,/nel vento crepuscolare./Trascorrevano sulla stanza,/proprio come volavano dai rami degli abeti/giù a terra./Li sentii gridare, i pavoni./Era forse un grido contro il crepuscolo/o contro le stesse foglie/rotanti nel vento,/rotanti come le fiamme/rotavano nel fioco,/rotanti come le code dei pavoni/rotavano nel rumoroso fuoco,/rumoroso come gli abeti,/pieni del grido dei pavoni?/O era un grido contro gli abeti?//Dalla finestra vidi i pianeti congiungersi/come le stesse foglie/rotanti nel vento./Vidi la notte venire, /venire a lunghi passi come il colore dei pesanti abeti./Ebbi paura./E ricordai il grido dei pavoni.//)60
Il secondo appartiene alle ultime opere di Stevens e s’intitolano Il senso ordinario della cose.
/After the leaves have fallen, we return,/To a plain sense of things. It is as if/We had come to an end of the imagination,/Inanimate in an inert savoir./is difficult even to chose the adjective/For this blank cold, this sadness without cause./The great structure has become a minor house./No turban walks across the lessened floors./The greenhouse never so badly needed paint./The chimney is fifty years old and slants to one side./A fantastic effort had failed, a repetition/In the repetitiousness of men and files.//Yet the absence of the imagination had/Itself to be imagined. The great pond,/The plain sense of it, without reflections, leaves,/Mud water like dirty glass, expressing silence//Of a sort, silence of a rat come out to see,/The great pond and its waste of the lilies, all this/Had to be imagined as an inevitable knowledge,/Required, as a necessity requires.//
(/Cadute le foglie ritorniamo/a un senso ordinario delle cose. È come se/avessimo esaurito l’immaginazione,/inanimi in un savoir inerte.//È difficile scegliere persino l’aggettivo/per questo freddo vacuo, questa tristezza senza causa. La grande struttura è diventata una casa modesta./Nessun turbante percorre i pavimenti immiseriti.//La serra ha più che mai bisogno di una riverniciatura./Il comignolo ha cinquant’anni e pende da una parte./Uno sforzo fantasioso è fallito, una ripetizione/nella ripetitività di uomini e mosche.//Eppure l’assenza dell’immaginazione doveva/ essere essa stessa immaginata. La grande vasca,/il suo senso ordinario, senza riflessi, foglie,/fango, acqua come vetro opaco,espressione di un erto//silenzio, il silenzio di un topo uscito a guardare,/la grande vasca e la rovina delle ninfee, tutto ciò/doveva essere immaginato come una conoscenza inevitabile,imposta, come impone una necessità.//) 61
Infine l’ultimo che, forse, è addirittura l’ultima poesia scritta da Stevens; ma anche se così non fosse, possiamo considerarla il suo testamento spirituale, ma non definitivo, perché l’allusione all’endless poem, è un invito ai lettori ma anche agli altri poeti a continuare. Diciamo che la morte del poeta pone il suo sigillo su questo testo, ma al tempo stesso noi riconosciamo in esso quanto egli ci ha lasciato in eredità lungo il suo intero percorso: non è dunque un testo sorprendente per ciò che esso esprime, ma ancora una volta per la capacità di distillare in modo sempre cangiante, quella che è la sua verità. Il testo ha un titolo talmente emblematico da non richiedere alcuna nota aggiuntiva: Of Mere Being (Del mero essere):
/The palm at the end of the mind,/Beyond the last thought, rises/In the bronze distance,//A gold-feathered bird/Sings in the palm, without human meaning,/Without human feeling, a foreign song.//You know then that it is not the reason/That makes us happy or un happy./The bird sings/Its feather shine.//The palm stands on the edge of space,/The wind moves slowly in the branches./The bird’s fire-fangles feathers dangle down.//
(/La palma alla fine della mente,/oltre l’ultimo pensiero, sorge nella distanza bronzea,//un uccello dalle piume d’oro/canta nella palma, senza senso umano,/senza sentimento umano, un canto strano.//Sai allora che non è la ragione/a rendere felici o infelici./L’uccello canta, le piume splendono.//La palma svetta al limite dello spazio./Il vento muove piano nei rami./Le piume di fuoco ciondolano giù./)62
Che cos’hanno in comune questi testi? Prima di tutto la presenza in essi delle foglie e dei gridi o di suoni che non sono umani: da quello dei pavoni del 1916, a quello elle foglie che stridono, fino alle foglie cadute del senso ordinario delle cose. Le tracce sono un secondo elemento, diverse ma decisive sempre. Si potrebbe parlare delle tracce come di una serie di metonimie che emergono più volte nell’opera stevensiana. Infine le voci animali, i suoni di questi altri da noi che e specialmente quel topo che è uscito a guardare. Per Stevens hanno sempre qualcosa di misterioso e irriducibile, quasi mai di fraterno, a differenza della sua grande sodale Marianne Moore che invece s’identifica con il mondo animale. La sintesi di questo gruppo di testi e di queste metonimie è forse nel Soliloquio finale dell’amante interiore:
/Light the first light of evening, as in a room/In which we rest and, for small reasons think/The world imagined is the ultimate good.//This is, therefore, the intensest rendezvous./It is in that thought that we collect ourselves,/Out of all the indifferences, into one thing://Within a single thing, a single shawl/Wrapped tightly round us, since we are poor, a warmth,/A light, a power, the miraculous influence.//Here, now, we forget each other and ourselves./We feel the obscurity of and order, a whole,/A knowledge, that which arranged, the rendezvous,//Within its vital boundary, in the mind./We say God and the imagination are one…/How high that highest candle lights the dark.//Out of this same light, out of the central mind,/We make a dwelling in the evening air,/In which being there together is enough./
( /Accendi la prima luce della sera, come in una stanza/in cui riposiamo e, con poca ragione, pensiamo/il mondo immaginato è il bene supremo.//Questo è dunque il più intenso appuntamento./È in tale pensiero che ci raccogliamo/fuori da ogni indifferenza, in una cosa://entro una sola cosa un solo scialle,/che ci stringiamo intorno, essendo poveri: un calore,/Luce, potere, l’influsso prodigioso.//Qui, ora, dimentichiamo l’un l’altro e noi stessi./Sentiamo l’oscurità di un ordine, un tutto,/un conoscere, ciò che fu? l’appuntamento//entro il suo confine vitale, nella mente./Diciamo che Dio e l’immaginazione sono tutt’uno … /Quanto in alto l’altissima candela irraggia il buio.//Di questa luce stessa, della mente centrale,/facciamo un’abitazione nell’aria della sera,/tale che starvi insieme è sufficiente.//)63
La chiave è proprio il verso finale: tanto che starvi insieme è sufficiente. L’umano ha imparato a convivere e a riconoscere il suo luogo e il suo tempo: Tutto quello che c’è è qui aveva detto Stevens in un’altra occasione ed è in questo luogo ed in questo tempo che a noi è dato di vivere; ma questo non è più un tempo di povertà come troppe volte si insiste, è piuttosto quel limbo o quello stato di semiveglia di cui abbiamo visto una memorabile rappresentazione nell’ottava sezione di Aurore d’autunno. Il suono della terra, il canto della terra non avrà e non conoscerà le altezze dell’inno o del paradiso, ma sarà ugualmente rassicurante, caldo, amichevole. Il suo canto della terra non ascende verticalmente al cielo se non per un arco che poi ripiega di nuovo verso la terra, lo si potrebbe descrivere forse come un movimento ondulatorio che trasfigura le cose, che le trascende per un attimo per poi ritornare ad esse. In questo senso mi sembra superficiale l’accostamento (in verità è un problema della critica italiana più che di altre) fra la poesia di Stevens e la filosofia di Heidegger. L’opera del filosofo tedesco s’inscrive nella tradizione della metafisica occidentale, mentre la poesia di Stevens non porta a una nuova o vecchia metafisica perché la sua curvatura ultima piega sempre verso la terra. Il canto della terra è distante dalle tracce lasciate dagli dei di Heidegger.64 Allo stesso modo mi sembra fuorviante l’accostamento di Stevens a Rilke. Pur con tutta la cautela del caso, visto che non sono nella condizione di apprezzare pienamente il poeta tedesco per la mia insufficiente conoscenza di quella lingua, mi sembra che i toni alti in Rilke siano il telos costante della sua poesia, mentre i toni alti di Stevens sono il passaggio necessario per raggiungere una meta diversa, quella dei suoi poemi finali. Vista nella sua continua metamorfosi la poesia di Stevens ha un vettore differente, anche se in poemi come Mattino domenicale o le Notes toward a supreme fiction si possono avvertire assonanze rilkiane. In ogni caso, gli studiosi americani che si sono occupati di Stevens, Bloom in primis, hanno insistito molto sulle ascendenze statunitensi piuttosto che europee: Bloom parla di Ralph Waldo Emerson, di William James, di Whitman, di una tradizione molto autoctona e per quanto riguarda l’Europ è Platone che ritorna spesso, mentre per la contemporaneità si parla talvolta di Nietzsche e Valery.
L’eterno e il quotidiano: una sera qualunque a New Haven
Il tratto distintivo del poema Una sera qualunque a New Haven, ciò che gli dà unità e cifra stilistica è il timbro della voce. New Haven è un poema conviviale, una meditazione che si fa parola discorsiva e colloquiale. Leggendolo, canto dopo canto, ci si sente portati a recitarlo a bassa voce, come quando si parla rilassati con quei pochi amici con i quali si possono scambiare le confidenze più intime: anche per questo è, fra i poemi di Stevens, quello che meno si presta a estrapolazioni. New Haven è anche il poema della piena riconciliazione con la poesia e i suoi modi ed è poema della maturità; voce autunnale che diviene canto della terra nel suo offrirsi più comune e semplice. In questo poema l’accettazione delle cose nel loro darsi empiricamente è piena e serena. Infatti, l’autunno per Stevens non è una stagione triste, ma rappresenta al contrario la pienezza della vita.
Quanto ai temi della meditazione sono i soliti: ritroviamo la caverna platonica, la tensione costante fra realtà e immaginazione, la poesia come cosa fra le cose, il colore azzurro della chitarra. Cosa rappresenta, allora, questo poema nel percorso poetico di Stevens? Da un lato è l’ennesimo punto di svolta e la porta che introdurrà all’Opus Posthumous, a The rock, cioè agli ultimi testi, scritti vicini alla sua morte; ma segna anche il ritorno a tutte le sue tematiche, in una sorta di ciclicità che è al tempo stesso bilancio di un’esperienza poetica.
La vita di Stevens finisce ma la sua poesia allude, proprio nel suo farsi (e dunque ben prima di quel riconoscimento del valore di cui Stevens non si cura), a un processo che per sua natura non s’interrompe. Il poeta di Hartford non pronuncia in versi quel luogo comune tante volte ripetuto: la poesia è eterna. Ciò è vero, ma non è di questo che stiamo parlando e che appartiene alla sfera sempre opinabile del giudizio critico che si stratifica nel tempo e che solo in esso può trovare il proprio consolidamento. Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è che l’organismo poetico stevensiano è nel suo farsi nel tempo costruito in modo tale da evidenziare un movimento metamorfico in atto, potenzialmente ininterrotto, ma non nel senso dell’infinito; piuttosto in quello di una circolarità che si espande, di un universo in espansione di cui la realtà fisica costituisce l’aspetto più fenomenico, dal quale non si può mai prescindere. La sua espansione è una quest verso la quale incamminarsi. Potenzialmente senza soluzione di continuità questo viaggio porta a un’intensificazione della realtà stessa, senza che nulla però di essa vada perso o venga superato in senso deterministico; tutto ritorna anche se nel ritorno non vi è mai una sovrapposizione perfetta, il mutamento è un piccolo scarto.
In Una sera qualunque a New Haven tale modalità raggiunge una sintesi stilistica particolarmente efficace. In esso, infatti, sono compresenti tre momenti diversi che sembrano stare agli antipodi ma che si rimandano invece l’uno con l’altro. New Haven è una località anonima in quanto luogo fisico, ma nel nome evoca il Paradiso (Heaven). È un luogo apparentemente senza attrattive, ma talvolta è possibile assistere in esso – come ad Hartford – a quel fenomeno naturale estremo che sono le aurore boreali. Ecco qui rappresentato il paradosso stevensiano nella sua nuda essenza: non il paradiso, non il favoloso altrove, ma l’anonimo che per un momento risplende come se fosse il paradiso, come Bergamo in cartolina, un altro verso formidabile di Stevens, che ci lascia oltretutto nel dubbio se stia parlando di una località statunitense (come la Paris Texas di Wenders), oppure proprio della città lombarda. La nona stanza rappresenta molto bene tutto questo:
/We keep coming back and coming back/To the real: to the hotel instead of the hymns/ that fall upon it out of the wind. We seek// The poem of pure reality, untouched/By trope and deviation, straight to te word,/Straight to the transfixing object, to the object//at the exactest point at which it is itself,/Transfixing by being purely what it is,/A view of New Haven, say, through the certain eye,//The eye made clear of the uncertainty, with the sight/Of simple seeing, without reflection. We seek/Nothing behind reality. Within it,/Everything, the spirits alchemicana/Included, the spirit that goes roundabout,/And through included, not merely the visible,/The solid, but the movable, the moment,/The coming on of feasts and the habits of saints,/The pattern of the heavens and high, night air.//
(/Non facciamo che tornare e ritornare/Alla realtà, all’albergo e non agli inni/che il vento vi trasporta. Cerchiamo/La poesia della realtà, vergine /Di tropi e di deviazioni, diritta alla parola,/Diritta all’oggetto che trafigge, l’oggetto//al punto esatto in cui è se stesso,/Trafiggente in quanto è ciò che è, nient’altro/New Haven mettiamo, vista da un occhio certo//Un occhio purgato di ogni incertezza, la vista/Del semplice vedere, senza riflesso. Non cerchiamo/nulla oltre la realtà. In essa//Tutto, comprese le alchimerie dello spirito,/ Compreso spirito che si muove in cerchio/E di traverso, non solo il visibile,//Il solido, ma il mobile il momento, /L’avvento delle feste, dei riti santi,/Il disegno dei cieli e la parola alta, notturna.//)65
È il tono a fare qui la differenza. Il poeta diventa il commensale al banchetto della vita: cioè di tutto ciò che è umano ma anche di ciò che non lo è, o chi si nutre di tavolini che si muovono durante le sedute spiritiche. Non solo la natura organica è per lui degna di attenzione, anche quella inorganica: la pietra, la roccia. Tutto ha una vita che risuona, al poeta spetta il compito, se ne è capace, di avvicinare il più possibile la parola a questo suono, captarlo, tradurlo, così da far risuonare quel canto della terra cui egli mira. E sembra davvero di poterlo immaginare, nel leggere il poema di New Haven, immortalato in quel suo autoritratto che è la poesia Omone rosso che legge. Autoritratto perché, con simpatica ironia, egli allude proprio alla propria massiccia molte corporea e ai suoi capelli; non vi è dubbio che sia proprio lui e che con questo testo abbia in qualche modo voluto mettere la sua firma sul grande affresco che ha tessuto per una vita intera. Il testo però è anche qualcosa di più perché ci permette di avvicinarci (almeno per quello che è il dettato poetico) al suo rapporto con il sacro, il divino, la materia religiosa. Stevens si ritrae come lettore delle sue stesse poesie, ma non siamo in un auditorium o in un teatro; piuttosto in un ambiente domestico, intimo. Qual è però il suo pubblico?
/There were ghosts that returned to earth to hear his phrases/As he sat there, reading aloud, the great blue tabulae/There were those that from the wilderness of stars that had expected more./There were those that had returned to hear him read from the poem of life,/of the pans above the stove, the posts on the table, the tulips among them./They were those who should have wet to step barefoot into reality,/That would have wept and been happy, have shivered in the frost,/And cried out to feel it again, have run fingers over leaves and against the most coiled Thorns,/have seized on what was ugly/And laughed, as he sat there reading, from out of the purple tabulae, the outlines of beings an its expressing, the syllables of the law:/poiesis poiesis, the literal characters, the vatic lines,/Which in these ears, in those thin, those spended hearts/Took on colors, took upon shape and seized the things as they are/And spoke the feeling of them, which was what they ha lacked./
(/C’erano spettri tornati sulla terra per sentire le sue frasi/Lui seduto che leggeva ad alta voce le grandi tabulae azzurre./Erano quelli del deserto delle stelle che avevano atteso di più/C’era chi tornava per sentirlo leggere il poema della vita/della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani/Erano quelli che avrebbero pianto pur di entrare scalzi nella realtà,/Avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo,/E gridando pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie,/le spine più acuminate afferrandosi al brutto,/E ridendo, mentre lui seduto leggeva , dalla tabulae di porpora,/i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe della legge:/Poiesis, poiesis, le lettere i caratteri, i versi ispirati/Che in quegli orecchi, in quei cuori sottili, esausti, /Prendevano forma colore, e la misura delle cose come sono/E dicevano per loro l’emozione, che era ciò che era loro mancato./)66
Sono i morti che, se potessero, vorrebbero ritornare a pregustare di nuovo il calore semplice delle cose di tutti i giorni, la pentola sul fuoco, il conversare insieme. Non sono i vivi che vanno verso il favoloso altrove, l’aldilà come terra promessa, ma il contrario. Dopo tremila anni di viaggi nell’Ade oppure in Inferni e in Paradisi, questo sorprendente statunitense fa il viaggio contrario e riporta i morti qui in mezzo a noi! Non so se in questo vi sia pure una eco del folklore statunitense prima che esso divenisse un’americanata e cioè le tradizioni legate alla notte di Halloween il 31 ottobre – data conosciuta anche come il Capodanno delle donne. Il senso del canto della terra è in questa poesia più limpido che mai! Stevens ha messo alla prova il linguaggio poetico, portandolo al limite estremo. Così come Lucrezio scrisse un poema scientifico e naturalistico in versi, Stevens si cimenta con il tono filosofico e anche con i suoi eterni rovelli. Poeta controcorrente, dunque, ma anche ben mimetizzato, mai esposto al ludibrio scontato dei cultori dell’abisso, dei narcisisti del niente che hanno imperversato in larga parte del ‘900 e ai quali propose una volta di venire con lui a fare un picnic nelle rovine.
52 Op. cit. pp.44-5
53 Op. cit. pp.44-7
54 Op. cit. pp.56-9
55La ricostruzione completa della genesi di questo testo si trova Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Roma 1988 pag.23/24.
56 Gli angeli sono una presenza in tutto il film Wenders, ma mi riferisco in particolare a una scena iniziale, quando a un uomo morente l’angelo sussurra all’orecchio la poesia di Peter Handke Invocazione del mondo: /Come fui sul monte e arrivai/al sole dalla nebbia della valle/il fuoco ai bordi del pascolo/le patate nella cenere/il capannone delle barche sul lago/la croce del sud/l’oriente lontano/il grande nord/l’ovest selvaggio/il grande lago dell’orso/le isole Tristan da Cunha/
57 Wallace Stevens Harmonium , Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzioni di Massimo Bacigalupo, Glauco Cambon, Renato Poggioli e Giovanni Giudici, Millenium, Einaudi, Torino, 1994, pp.546-7
58 Wallace Stevens, Collected poems, Faber and Faber, Londra 1984, pag.511. La traduzione è mia.
59 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, pp. 594-5
60 Op.cit. pp.9-11
61 Op. cit. pp. 554-5
62 Op.cit. pp. 608-9
63 Op.cit. pp.570-1
64 La questione del rapporto fra la poesia di Stevens e la filosofia di Heidegger è stata posta talvolta dalla critica europea e ripresa con maggiore frequenza in Italia, ma è a mio avviso, almeno in parte, fuorviante. Il filosofo era fra l’altro l’inventore di formule assai affascinanti e qualcuna di esse affascinò di certo anche Stevens. L’espressione che indica nei poeti coloro che inseguirebbe le tracce lasciate dagli dei in fuga, fra le più suggestive create da Heidegger, non appare tuttavia adeguata per descrivere il percorso poetico di Stevens, anche perché tale espressione non può essere disgiunta dall’altra e cioè che l’essere umano a seguito della fuga degli dei dal mondo abiterebbe un luogo di povertà. L’uso che anche Stevens fa talvolta della parola povertà in alcuni testi è del tutto diverso, perché è diverso il telos che lo muove. L’intento di Stevens non è la ricerca di una metafisica secondo le linee del pensiero occidentale, ma piuttosto di riconciliare l’umano con la realtà fisica del suo habitat, che tuttavia non è soltanto suo.
65 Wallace Stevens, Una sera qualunque a New Haven, in Aurore d’autunno, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 191
66 Op. cit. pp.70-3.