GRAND TOUR: VENEZIA E LIDO DEGLI ALBERONI

Lido degli Alberoni a Venezia

La strana decadenza veneziana è proporzionale alla forza che la Serenissima ebbe nel suo passato. Paolo Rabissi mi corregge quando gliene parlo:

“Guarda che lì come qui a Forte dei Marmi, siamo aldilà della decadenza.”

Ci penso un po’ e ne concludo che Paolo ha ragione: neppure oltre, ma proprio aldilà. Essere oltre vuole dire poter tornare, mentre dall’aldilà non si torna, si può solo permanere in esso immobili, senza mutamento, un po’ come l’acqua della laguna che, anche quando s’increspa, permane nella sua piatta uniformità. I colori però riportano a una bellezza che non muore, fuori dal tempo e anche dalla storia, nonostante i motoscafi. Vista dagli Alberoni, la laguna è anche una striscia di terra sottile, lunga una decina di chilometri e larga non più di uno, che si estende dal Lido vero e proprio, con i suoi sfarzi, fino alla punta estrema da cui ci s’imbarca per Pellestrina, un’altra striscia più o meno analoga, alla fine della quale ci si trova dirimpetto a Chioggia. Davanti a essa e nel mare lagunare, una serie di isolotti disabitati, forse vecchi avamposti militari o piccole fortezze d’avvistamento. Il silenzio la fa da padrone, ma su quello naturale e ambientale pesa anche quello della storia. Venezia sembra non potere avere altro se non un destino turistico, anche se i veneziani i turisti sembrano subirli più che amarli perché è pur sempre una città vivente anche nella contemporaneità, ma in un presente deprivato e stanco. Non so se l’acredine che spesso traspare sia dovuta alla nostalgia per il passato glorioso o semplicemente perché ce l’hanno con il mondo in modo un po’ ottuso, visti i risultati. Forse è soltanto la difficoltà di arrendersi a una legge della storia e dell’antropologia, che pur non avendo la stessa cogenza delle leggi fisiche, pur tuttavia esiste. Chi ha avuto troppo prima non può avere sempre e mi domando, allora, se Venezia non sia una metafora dell’Italia intera.

In Italia e in Grecia è nato gran parte di ciò che definiamo Occidente ed eccoci di nuovo tornati alle origini. Tutte le forme politiche e religiose occidentali sono nate qui: dalla repubblica alla democrazia, dagli imperi all’autocrazia, dai politeismi ai monoteismi. Poco più in là e in tempi molto remoti solo l’Impero Egizio può vantare altrettanto prestigio, ma essendo troppo perfetto nella sua commistione riuscita fra potere religioso e temporale, rimane un modello probabilmente inimitabile. Sul suolo italiano sono nate le due costruzioni geopolitiche più durature della storia occidentale, seconde solo all’Impero Egizio: quello Romano e la Repubblica di Venezia. Sul primo si è detto tutto, su Venezia meno, ma se si pensa alla sua durata nel tempo si rimane stupefatti. I veneziani hanno saputo proteggere molto bene la loro storia: ne sono entrati da protagonisti in punta di piedi, addirittura dal sesto secolo e sulle macerie di una legione romana, per poi uscirne altrettanto in punta di piedi con la conquista napoleonica: oltre mille anni! Quanto alla democrazia, la vulgata che ne pone la nascita nella polis greca, va oggi integrata dalla consapevolezza che, in quella forma, non era esportabile in un grande stato, anche perché il suo difetto d’origine era pur sempre quello di essere fondata su un modello patriarcale e di essere una democrazia per pochi uomini liberi. Le culture nordeuropee e poi quella anglo sassone e francese hanno inventato la sola forma geopolitica moderna, di cui non vi è traccia nell’antichità e che ci accompagnerà ancora per poco: lo stato nazionale. Esso nacque legato a stretto filo al nascente capitalismo, anzi, ne fu l’involucro geopolitico naturale per arrivare a un’estensione su larga scala della fase mercantilista. La Lega Anseatica, pur non essendo uno stato, svolse la stessa funzione, mentre le Repubbliche Marinare in Italia nacquero troppo presto per diventare il collante di una possibile unificazione nazionale. Solo la Repubblica di Venezia assunse un ruolo di grande potenza anomala e questo sorprendente risultato vale la pena di guardarlo più da vicino perché, se da un lato conferma alcune regole immutabili della geopolitica da cinquemila anni a questa parte, dall’altro vi apporta alcune integrazioni assai interessanti. Quella che segue è la cartina della Repubblica di Venezia nel momento della sua massima espansione.

Lo Stato includeva, nel XVIII secolo e sino alla sua caduta, gran parte dell’Italia nord-orientale, nonché dell’Istria e della Dalmazia e oltre a numerose isole del Mare Adriatico (il Golfo di Venezia) e dello Ionio orientale.

Se si osserva attentamente questa strana mappa ci si rende conto che il capolavoro dei veneziani fu la rinuncia a conquistare ampi spazi terrestri, a parte un pezzo relativamente grande di Grecia continentale: per il resto solo isole e strisce di terra. In sostanza la loro genialità fu quella di far credere che fossero un’isola essi stessi, nonostante non lo fossero del tutto; in questo troviamo la conferma di un paradigma geopolitico ma anche una sua mutazione assai intelligente. Lo si capisce anche dalle guerre strategiche che i veneziani intrapresero: non di conquista nel senso usuale del termine, ma volte a eliminare l’eventuale concorrenza e le sole entità politiche che potevano in teoria coltivare un progetto analogo al loro erano proprio le altre repubbliche marinare. Le guerre con queste ultime furono condotte con una determinazione che non lasciò scampo ad Amalfi, Pisa e Genova anche se va detto che quest’ultima aveva già trovato una sua strada diversa per galleggiare piuttosto bene nel nuovo mondo che stava nascendo: diventare il banchiere d’Europa, più tardi insieme ai fiorentini. Quanto a Pisa era troppo nordica per poter svolgere un ruolo autonomo in quello scenario. La vera possibile concorrente era Amalfi, affacciata sulle coste africane, potenzialmente in grado di fare ciò che Venezia fece con le fasce di terra adriatica. Una volta eliminata la concorrenza, infondo conveniva a tutti rispettare e tutelare – pur fra scontri e tensioni – l’autonomia della Repubblica. La rinuncia ad ampie conquiste territoriali lasciava tranquilli i grandi stati nazionali nascenti, che potevano trovare in essa un momentaneo alleato. La sua presenza sulle coste era un presidio contro la pirateria e talvolta i veneziani ne fecero una risorsa: lasciando per esempio via libera ai pirati uscocchi nell’Adriatico, in funzione anti francese e anti spagnola. Insomma, tenendosi fuori dai grandi conflitti dinastici (erano una repubblica), alla larga da tentazioni militariste di ampia conquista territoriale, i veneziani quatti quatti si ritirarono nella loro nicchia. Venezia fu la capitale dell’intero occidente nel 1500, un po’ come New York oggigiorno e questo capolavoro riuscì loro anche per la struttura del governo interno. Se si pensa ai tempi, quello di Venezia era uno stupefacente governo democratico e repubblicano.

L’Italia vista da qui è il più grande museo archeologico a cielo aperto dell’intero Occidente e questa dovrebbe essere la maggiore preoccupazione di governi e popolazione: custodire questo sito, farlo vivere, dedicare ogni energia alla sua manutenzione. Tutto il resto, dalla narrazione sulla settima e poi addirittura quinta potenza industriale è solo il frutto di un’illusione ottica creata dalla Guerra Fredda e che ha cominciato a finire il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. Vi sono solo due elementi di quella parentesi storica, che si possono far risalire alla cultura italiana più profonda e ne costituiscono la vera continuità e un fattore importante d’identità virtuosa: la costruzione di strade e l’apporto scientifico e tecnologico, più che non genericamente culturale. La plastica deriva del moplen e fu sperimentata in Italia prima che altrove grazie a Giulio Natta; c’è almeno un fisico italiano per ogni generazione del ‘900 (Majorana, Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Rubbia, Parisi). Oggi questa tradizione continua e sono molto spesso le donne a esserne protagoniste: Gianotti, Branchesi, Fafone e Stratta. Tale apporto riguarda quasi tutti i campi del sapere, con quello scientifico al primo posto: la tradizione umanistica, invece, di cui siamo tanto fieri, si sta perdendo nel degrado di una scuola che non è più in grado di trasmetterla e che forse dovrà essere custodito altrove per alcuni secoli come lo fu la grande cultura classica nei conventi benedettini.

Venezia città

Era da tempo che non approdavo in città e arrivarci dal Lido è un’esperienza del tutto diversa. Il lido è luogo di silenzi. Arrivando da qui non si entra immediatamente nel flusso turistico, come accade giungendo alla stazione o in piazza Roma. Solo le scie degli aerei disturbano la quiete, ma basta non alzare troppo gli occhi al cielo e ci si dimentica che l’aeroporto di Venezia è uno dei più trafficati al mondo. Arrivare nel cuore di Venezia dal Lido è un po’ come venirci da un altro tempo. La città si avvicina lentamente, poi si cominciano a vedere in lontananza i campanili, a individuarli, poi le cupole delle chiese; ma tutto molto lentamente. La velocità delle navi, a confronto con quella di altri mezzi, è rimasta molto indietro, l’acqua offre una resistenza e un attrito che l’aria non conosce, ma neppure la terra. Se non fosse per Porto Marghera con le sue guglie sinistre e minacciose, potremmo essere dei viaggiatori di molti secoli fa provenienti dall’Oriente. Anche il brusio della città si avvicina lentamente e anche quando si è nel vivo del flusso di folla, i rumori rimangono lontani nel tempo, appartenenti anch’essi a un aldilà. Quanto alla folla, sciama verso le solite mete, con mancanza di fantasia, a parte coloro che vengono per vedere mostre o altro. È una folla consumista e disattenta, che può passare indifferentemente dalle magliette delle squadre di calcio ai negozi dei vetri pregiati di Murano. Cose già viste, eppure man mano che ci aggiriamo per la città mi rendo conto che qualcosa è cambiato anche sotto questo aspetto. L’aumento vertiginoso dei chioschi ha assunto una dimensione post consumista, siamo in un altro aldilà, ancora più inquietante. Leggo su un giornale che ora i veneziani stanno protestando per la presenza delle grandi navi davanti a piazza san Marco, ma mi domando se quello che vedo per le strade non sia anche peggio. Capisco gli abitanti che non escono di casa per non finire nel mezzo di questa assurda baraonda, ma perché accettarla allora e in nome di che cosa? Forse dell’affitto di suolo pubblico a prezzi esorbitanti che servirà a risanare il patrimonio della città? Se fosse questo mi sembra una strategia perdente, ma forse non c’è una vera ragione, ma solo una deriva accolta con rassegnazione, come avviene per molte altre cose. L’ambivalenza rabbiosa dei veneziani rispetto al flusso turistico la si coglie meglio entrando nei bar: è quello che facciamo anche noi. L’ordinazione (un gelato per Mattia, un ghiacciolo per Anna, un caffè per me), lascia del tutto insoddisfatto il gestore che infatti dopo l’ordinazione mi chiede perentoriamente se voglio soltanto un caffè. La tentazione di uscire subito è forte, ma poi faccio finta di niente badando solo ad accorciare il più possibile la permanenza. Usciamo e sciamiamo anche noi diretti a Piazza san Marco, con l’idea di farla apprezzare ai nipoti; impresa quanto mai difficile in questo bailamme. Intanto si sta avvicinando mezzogiorno e anche un po’ di fame. Un altro bar si profila all’orizzonte e almeno a una prima vista ha un aspetto accattivante. Piccolo, come tutti gli spazi veneziani, è arredato all’antica. I tavolini eleganti, le sedie curate, le piccole teche con le bottiglie di vino bene allineate invogliano a entrare. Sembra pieno a una prima occhiata panoramica, ma siamo fortunati perché si liberano due tavoli e così possiamo ordinare. Mentre attendiamo mi guardo intorno: sì, siamo proprio capitati in un angolo di vecchia Venezia, allegra, in mezzo a turisti che vengono da tutte le parti, rilassati, anche perché, a differenza dell’altro bar, in questo siamo simpaticamente accolti. Il servizio è ottimo e i gestori sono gentilissimi, svolgono il lavoro nei tempi giusti, rispettando rigorosamente l’ordine delle diverse richieste e hanno un sorriso per tutti: sono tre cinesi e un’indiana.

Il ritorno pomeridiano è un altro viaggio nel tempo. Non è soltanto la lentezza, ma la riconquista del silenzio dopo il caos della città urbana. Solo approdando nella parte più mondana del Lido si apre per un attimo una parentesi, poi è di nuovo oblio. L’autobus corre per i viali ancora vuoti, il caldo è soffocante e rallenta a sua volta i movimenti. Fra il Lido e gli Alberoni c’è una piccola frazione, Malamocco, fatta di vie strette e due larghi Campi. Il nome evoca qualcosa di sinistro, ma il luogo è terso. Il ponte, in fondo alla grande piazza, supera il canale e fa di questa piccola frazione un’isola fra la laguna e le spiagge che da esso s’intravvedono in lontananza. Risalgo sull’autobus verso il piccolo porto dove c’è un bar con terrazza sul mare: un luogo ideale dove leggere e attendere l’ora della riapertura dei negozi, che finalmente arriva; ma alla Coop una sorpresa mi attende. Il supermercato è chiuso anche se gli addetti sono tutti lì al lavoro. Chiedo spiegazioni e mi guardano sorpresi. Due vaporetti non sono arrivati e senza merci sugli scaffali è meglio fare lavori di manutenzione; riapriranno fra un’ora, sperando in un terzo vaporetto. Non ho nessuna voglia di aspettare e, in fondo, a casa ce n’è abbastanza di cibo per arrivare al giorno dopo. Mentre ripercorro a ritroso la strada, con il sole che comincia a calare e i colori della laguna si fanno ancora più sfumati, mi coglie il pensiero che potrebbero farcela per una seconda volta a scomparire e a rinascere i veneziani; o comunque a rimanere nel loro aldilà senza che nessuno li disturbi. Se è sufficiente il mancato arrivo di due vaporetti per fermare il consumismo almeno per qualche ora vuol dire che l’aldilà è proprio una frontiera insuperabile. Con le sue insopportabili zanzare, che nessuna tecnologia potrà mai eliminare del tutto da una laguna, questo mondo potrebbe di nuovo diventare una nicchia, un limbo arcaico nel futuro incerto che ci attende.  

Malamocco