GRAND TOUR

Casa di Meleagro

Il titolo è nato un po’ per caso e un po’ per scherzo, ma durante il percorso ne sono diventato sempre più convinto. L’Italia che ho visto mi ha riportato alle descrizioni di Goethe, di Stendhal, di altri viaggiatori e viaggiatrici meno illustri ma altrettanto acuti. Fu Richard Lassels a usare per primo l’espressione Grand Tour nel 1670; la fortuna di tale binomio, tuttavia, trovò una conferma concreta nei secoli successivi, quando la pratica del Grand Tour divenne una parte consistente della formazione personale di figli e figlie dell’aristocrazia nord europea, poi di artisti grandi e piccoli, infine di semplici curiosi e avventurieri di vario genere. Quei viaggiatori furono l’anticipazione del flaneur urbano immortalato da Baudelaire, ma anche la declinazione nomade su larga scala di un’attitudine verso l’esplorazione di mondi e culture diverse, che si andava consolidando in Europa, insieme alla riscoperta delle lontane fonti classiche della nostra cultura. Cominciavano le spedizioni archeologiche alla ricerca delle rovine di Troia e Montaigne, già nel corso del 1600, era stato il primo filosofo e antropologo europeo che nella sua biografia di intellettuale aveva saputo unire la passione della scoperta con quella del viaggio. In pieno ‘800 sarebbe venuta l’ultima ondata di esploratori, più segnatamente colonialista e predatoria: infatti le spedizioni si rivolsero verso l’Africa e l’Asia alla ricerca di spazi lasciati liberi dalle imprese coloniali dei secoli precedenti. Nella prima parte del ‘900, infine, furono gli appartenenti alle avanguardie politiche e artistiche a percorrere il continente europeo in ogni direzione, finendo tutti, prima o poi, dentro la carneficina delle due Guerre Mondiali.

Il mio piccolo grand tour è cominciato da un’area circoscritta del centro Italia ed è continuato per spostamenti a salti sul territorio, da un punto all’altro e senza un programma preciso, esplorando a volte un’area piccola fin nei dettagli, oppure scegliendo di colmare lacune di visite precedenti che avevano lasciato al margine alcune località. Durante il percorso alcune scelte geografiche sono maturate e sono diventate sempre più consapevoli, dopo un primo momento di casualità. Prima di tutto l’assenza delle maggiori città come fulcro della narrazione. In secondo luogo, il racconto si snoda lungo la cronologia delle visite, senza alcun riguardo per i salti – anche bruschi – da nord a sud, da est a ovest. Solo un’eccezione ho previsto a questa regola e riguarda l’ultimo luogo geografico di questo viaggio; se chi legge avrà la bontà di arrivarci ne capirà il motivo.

La relativa assenza delle grandi città italiane (con tutti i limiti che tale espressione ha, se le paragoniamo a megalopoli come Londra, Berlino e Parigi e con l’eccezione di Roma per ragioni in gran parte extra nazionali), ha diverse motivazioni che si sono a loro volta affacciate durante il percorso. Città come Torino, Milano, Genova, Firenze Napoli e Palermo hanno rappresentato un punto di riequilibrio rispetto all’Italia dei comuni, dei campanili e del localismo più o meno virtuoso. L’Italia come nazione ha avuto nelle aggregazioni urbane che ho citato i centri di sintesi politica economica e culturale (di cui Roma era il terminale simbolico), che hanno giocato un ruolo fondamentale nei passaggi nevralgici e spesso tragici della storia italica: per questa ragione esse furono capaci di offrire un orizzonte più ampio e condiviso, nonché un volto nazionale all’Italia. Questo non è più vero dagli anni ’90 del secolo scorso  e tale convinzione si è confermata lungo la strada e mi ha portato a vedere le città più grandi dalla loro provincia e ancor più ad arrivarci dalla provincia.

Quanto alla scelta di un percorso casuale e a salti, per spiegarlo mi servo di una metafora cinematografica: ho considerato il mio grand tour come un unico piano sequenza che non aveva bisogno di alcun lavoro di montaggio, ma solo di flash back.  L’attraversamento di luoghi in parte già noti, in altri casi per nulla, ha infatti riportato alla memoria viaggi precedenti e mi ha permesso di ritornarci, rivedendo quei momenti alla luce di quanto osservavo ora. In alcuni casi, ho scelto di non ritornare a visitare quei luoghi ma di affidarmi solo ai ricordi più o meno lontani, nutrendoli con nuove letture piuttosto che con nuove visite. 

Infine, il mio è stato un viaggio anche nei libri: sia quelli degli autori maggiori e minori che dell’Italia hanno scritto, sia spigolando fra gli scritti di altri viaggiatori e viaggiatrici più comuni. Ne potrei citare molti ma preferisco che chi legge li incontri strada facendo. Di uno soltanto voglio scrivere in questa introduzione perché mi ha accompagnato in ogni fase del viaggio e con il quale mi sono trovato ad avere una sorta di confronto continuo: Non ti riconosco, di Marco Revelli Einaudi 2016. A questa parte introduttiva seguiranno nei prossimi giorni i capitoli di questo viaggio. 

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

IL RIMOSSO DELLA STORIA: VIOLENZA DI STATO E SOCIALE AL TEMPO DEL PATRIARCATO CAPITALISTA

Il testo che segue è la trasposizione scritta del mio intervento al convegno che si tenne a Barranquilla in Colombia  nel 2019 ed è stato pubblicato nel libro bilingue (castigliano e italiano) a cura di Eva Gerace, dal titolo La psicoanalisi e la sua causa nel tempo del non ascolto, pubblicato da Città del Sole edizioni.

L’uso che faccio della parola rimozione o rimosso della storia non ha nulla a che vedere con il concetto analitico, fra l’altro controverso per via della traduzione in italiano del termine freudiano. L’uso che qui faccio della parola rimozione si riferisce alla storia e alla politica e con tale termine intendo nominare quei processi di cancellazione della memoria storica che il potere tende sempre a mettere in atto e a cui resistono le narrazioni altre che cercano invece di porle al centro discussione. 

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La categoria del rimosso non appartiene solo alla clinica psicoanalitica ma può essere estesa alla storia. Le diverse forme attuali di violenza, alimentate dalle politiche economiche e di potenza, oppure le manifestazioni più efferate che nascono nel tessuto sociale devastato dalle politiche neoliberiste, non sono spiegabili soltanto con le dinamiche dei conflitti attualmente in corso, ma sono il precipitato di antiche ferite mai risolte che riappaiono improvvisamente.   

Non è stato facile decidere di che cosa parlare in questo incontro e infatti sia il titolo sia i contenuti del mio intervento sono cambiati più volte. La parola ascolto ha una lunga tradizione nella cultura europea moderna. Montaigne fu il primo filosofo e antropologo che si rese conto della diversità culturale e fu il primo ad avvicinarsi ai popoli lontani dall’Europa con una volontà di ascolto e non predatoria. Da questa tradizione europea sono nate molte cose fra cui la Rivoluzione Francese, il concetto di riconoscimento dell’altro, fondamentale in Hegel almeno tanto quanto la dialettica; poi i diritti umani, il movimento operaio con le sue pratiche, un modello costituzionale che viene oggi adottato anche in altre parti del mondo. Aldilà del riconoscere tutto ciò, occorre tuttavia domandarsi perché permangono allora forme brutali di sfruttamento, una mescolanza fra violenza di stato e sociale, poteri criminali che sono ormai una parte anche della cosiddetta economia legale (penso al ruolo del narcotraffico e delle mafie). Infine, pensando a ciò che accade in Europa negli ultimi anni: cosa significano le periodiche ondate migratorie che raggiungono le metropoli europee, se non un ritorno del rimosso della storia? Sono uomini e donne che fuggono da guerre e povertà quasi sempre causate da interventi militari delle potenze occidentali. Questa è storia contemporanea, che è causa di molte polemiche politiche in Italia; ma come non vedere le radici lontane di questi fenomeni, le ferite mai sanate e metabolizzate della storia? Lo stesso si può dire della violenza maschile contro le donne, i femminicidi. Allora mi sono posto una domanda sul luogo in cui mi trovo. I luoghi non sono neutrali e io mi trovo in una città colombiana, in un continente molto lontano, rispetto al quale in quanto europei abbiamo una responsabilità storica che non può essere rimossa, tanto meno in un convegno che ha al proprio centro la psicoanalisi. Più pensavo a tutto ciò più mi rendevo conto che il campo del non ascolto nella mia relazione si restringeva a una sola forma delle tante possibili: la violenza pura e semplice che si manifesta in molti modi ma che è prima di tutto utilizzo della forza brutale, istigazione all’odio razziale particolarmente virulento in Italia in questo momento, una violenza nella doppia accezione di violenza di stato da un lato ma anche sociale, che sorge dalle viscere del corpo sociale devastato della società capitalista a patriarcale, in Europa come in altre parti del mondo. 

La scoperta dell’altro

Il problema è molto antico e si perde nel tempo, però pensando alle relazioni fra Europa e continenti americani mi sono ricordato di un testo teatrale di Dario Fo.  Juan Padan alla scoperta delle Americhe è un’opera che continua quella più importante di Fo e cioè Mistero buffo. In tali opere, documentazione storica e invenzione si confondono in modo inestricabile. La lingua in cui sono scritti è il Grammelot, una mescolanza di idioma lombardo, italiano maccheronico e antico francese. Una lingua dei giullari che è al tempo stesso invenzione, imitazione del parlato quotidiano, molto espressionista. Che cosa si racconta in questa opera teatrale? Che fra gli invasori europei che arrivarono prima in Messico e poi in tutta l’America Latina, c’era anche un uomo che è nato dalle parti dove sono nato io stesso, nella Lombardia a nord Milano, a ridosso del confine svizzero. Joan Padan, il personaggio, è un falegname e artigiano, si occupa di molti aspetti di vita quotidiana della spedizione. È un uomo comune, semplice, che partì per spirito di avventura e per fuggire da qualcuno o da qualcosa, come molti altri. Dal suo racconto sappiamo che aveva già partecipato ad altre spedizioni militari in Europa e all’inizio sembra che la nuova esperienza non sia diversa dalle altre. Tuttavia, giorno dopo giorno Joan Padan capisce che no, le cose non sono uguali. Gli uomini e le donne che stanno dall’altra parte, i nemici, sono diversi, prima di tutto perché quando s’incontrarono per la prima volta il loro atteggiamento non era affatto bellicoso. Nelle guerre europee gli uomini che si combattevano erano molto simili, qui no. Prima di tutto lo scandalo della nudità, un tabù per gli europei, in particolare la nudità delle donne indigene, i loro modi di vita. Per farla breve Joan Padan incontra l’Altro per la prima volta e non è solo una sua esperienza, ma una metafora che riguarda l’Europa intera. Si potrebbe pensare che questo non sia del tutto vero, che durante le Crociate – per esempio – l’Europa avesse già incontrato l’altro, ma si tratta di un’esperienza ben diversa. Ci sono molti aspetti in comune fra Cristiani, Ebrei e Islamici, Gesù Cristo è un profeta ebreo nominato nel Corano e non solo quello che è per i Cristiani, ci sono differenze riguardo ai cibi in alcuni casi ma in altri no. Il riconoscimento reciproco era possibile anche in una situazione di guerra e poi nel trattamento dei tabù riguardanti la sessualità, l’impurità delle donne, il dominio maschile, erano tutti d’accordo. L’indigeno latino americano è l’Altro assoluto, gli europei non sanno nulla di loro. Il personaggio di Fo non si limita a osservare, ma comincia a porsi delle domande, fa le sue deduzioni: a volte comiche, a volte tragiche o strampalate, ma si rende conto che anche nel modo di condurre al guerra ci sono delle diversità. La mancanza di ogni pietà, il disprezzo dell’altro lasciano nel suo animo un segno profondo. Egli non è un eroe, però non fa finta di non vedere: e cosa vede? Cristiani che commettono ogni genere di crimini verso popolazioni considerate inferiori. Noi oggi abbiamo una parola per definire tutto questo, razzismo, un marchio originale del colonialismo europeo. La conquista fu violenza militare e politica, successivamente nella storia europea sarebbe diventata – con la rivoluzione industriale – predominio economico e finanziario. Ci sono poi forme sociali di violenza che sono collegate alla prima che e pure hanno una loro autonomia: la violenza maschile sulle donne, quella sui bambini, gli abusi sessuali come la pedofilia, il turismo sessuale. Che risposte possiamo tentare di dare? Pensando alla domanda mi sono venuti in mente due libri. Il primo fu scritto negli anni ’70 dalla femminista italiana, Lea Melandri, il titolo del libro è L’infamia originaria. Il secondo è un libro recente scritto dallo psicoanalista francese Gerard Pommier che mi sembra molto conosciuto in America Latina, ma non è stato ancora tradotto in italiano e io stesso l’ho letto nella lingua castigliana. Il libro s’intitola Il femminile una rivoluzione senza fine. Che cosa hanno in comune i due libri? Entrambi si interrogano sulla violenza e subordinazione di genere e anche sull’origine del potere.

Melandri critica sia l’idealismo filosofico europeo sia l’economicismo marxista e riporta l’origine della violenza alla dominazione sessuale che è per lei il paradigma di tutte le forme successive di oppressione, sfruttamento e dominio. Pommier riconduce alla legge del padre una delle ragioni del dominio e s’interroga al tempo stesso sulle ragioni per cui il processo rivoluzionario francese si arenò proprio sulla questione del potere politico. Per lui i rivoluzionari francesi dopo avere distrutto i simboli più vistosi della legge paterna, a cominciare da quelli religiosi, hanno introiettato il medesimo meccanismo del potere nell’inconscio e dopo avere ucciso il padre hanno ricostruito la legge patriarcale affidandosi a un piccolo padre come Napoleone Bonaparte. Da questa dinamica del potere le donne, ma anche le minoranze sessuali o gli immigrati (gli antichi meteci della polis greca) continuano a essere esclusi. Del libro di Melandri, si può dire che si tratta di un classico insieme ad altri della cultura femminista degli anni ’70 in poi, attuale e importante anche oggi. Del Femminile un rivoluzione senza fine si può dire che è scritto da un uomo che ha saputo interrogarsi sulle ragioni del femminismo e non le ha ignorate come molti altri. Ne cito due brevi passaggi nei quali è citata anche Judith Butler riportati nel libro di Pommier:

..il rifiuto del femminile fu sempre una questione teologica , correlata alla spiritualizzazione del padre. Questa repressione si esercitò di padre in figlio fin dall’origine dei tempi. Però la sua longevità non le dà alcuna legittimità…”

Bisogna considerare l’impulso teologico istituito da questa rappresentazione della legge paterna, come autorità insondabile inconoscibile cui il soggetto è sottomesso ancora prima di essere sessuato, come un continuo fallimento…La costruzione di una legge che garantisce il fallimento è il sintomo di una morale da schiavi, che smentisce la produttività stessa del potere che essa impiega per costruire la legge come impotenza permanente.”(pag 85-86). 

Quali ulteriori e conclusive riflessioni si possono fare? Riprendo il tema che ho posto all’inizio del mio intervento. La categoria del rimosso non è importante solo per la clinica analitica, cioè nel rapporto fra analizzante e analista, ma riguarda anche la storia. Ascoltare, nella nostra contemporaneità, significa per me ascoltare prima di tutto questo enorme rimosso che insorge un po’ ovunque nel mondo. Penso ai movimenti delle donne, quelli della rete Nonunadimeno ma non solo, con le loro diverse caratteristiche. Penso allo sciopero sociale dell’otto marzo che è giunto quest’anno alla sua terza edizione. Penso al movimento Friday for future sulle questioni climatiche che ha indetto proprio per il prossimo 20 settembre un sciopero a livello mondiale.

Concludo allora con un’immagine ricorrente nella cultura europea del ‘900. Fu inventata dal filosofo tedesco Walter Benjamin. L’immagine è quella dell’angelo della storia che secondo Benjamin procede impetuosamente in avanti ma ha gli occhi solo dietro di sé, per cui può vedere soltanto le terribili distruzioni che il suo procedere provoca. Se non riusciamo collettivamente a girare la testa dell’angelo e a guardare come umanità in avanti verso il futuro, credo che ci attendono tempi ancor più terribili di questi, perché il pilota automatico patriarcale e capitalista e cioè l’immagine attualizzata dell’angelo della storia, non si fermerà da solo se non ci saranno decise e collettive azioni per fermarlo.