LA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINI

Introduzione

La produzione poetica di Pasolini copre l’intero arco della sua vita ed è vastissima. La prima parte è dominata dalle opere in dialetto friulano: da Poesie a Casarsa, che è del 1942 fino a La meglio gioventù del 1954. È il Pasolini che tutti amano e quello su cui la critica sembra unanime, fino ad attribuirgli il merito di avere rilanciato la poesia dialettale in Italia. Che Pasolini le abbia ridato rango e valore è vero e non va dimenticato che la poesia dialettale è stata un oggetto di attento studio critico da parte del poeta: dalla fondazione, insieme a Nico Naldini e altri dell’Academiuta de lengua furlana, fino alla pubblicazione, nel 52, di un libro sulla poesia dialettale del 900.

Senza nulla togliere al valore poetico di queste raccolte, ritengo che tale incondizionato elogio sia anche un modo per mettere la sordina alla poesia successiva. La poetica in cui sono immerse le due opere citate è ancora quella dell’ermetismo; ma l’uso del friulano a ovest del Tagliamento, un lingua che era solo orale, conferisce all’opera un valore altamente sperimentale. Quanto ai temi e all’atmosfera di queste liriche si può dire che il Pasolini di Casarsa non ha ancora conosciuto il male del mondo, l’ombra; la poesia riflette perciò uno stato di innocenza vera, pura, non letteraria, la stessa che si avverte anche in Sandro Penna. Solo successivamente il mondo di Casarsa diventerà una sorta di mitologia e al tempo stesso stimolo per la ricerca di un universo arcaico dentro la maglie della modernità: è un mondo che Pasolini cercherà e penserà di trovare (quasi sempre deluso), nelle borgate romane, poi alle Mura di Sanaa, in Africa e in India, infine nell’immaginario dei suoi film, specialmente in quelli più rivolti al passato: a cominciare dalla Trilogia dell’amore, ma anche nel Vangelo secondo Matteo. L’incanto che pervade le poesie di Casarsa è quello della fiducia primaria, quella che si ha per la madre.

Il darsi del male proprio nel luogo dell’Eden, prima con la tragica morte del fratello, poi con l’accusa di omosessualità e l’espulsione dal PCI, sarà il trauma che segnerà tutta la vita di Pasolini e una ferita che non si rimarginerà, ma verrà rielaborata in mille modi.

In lingua italiana

Il Pasolini in lingua italiana esordisce nel pieno del dibattito letterario del tempo, in un momento cruciale del dopoguerra. Il neorealismo, che peraltro aveva dato poco in poesia, si era ormai esaurito anche in narrativa. Pasolini non rifiuta del realismo gli elementi popolari e la tensione etica e civile; rifiuta invece la sua angustia ideologica, ma se si legge Scherzo Shakespeariano, in cui almeno nella parte iniziale rifà il verso al discorso di Marco Antonio in morte di Giulio Cesare, si potrà constatare come egli non rifiutasse i contenuti drammatici ed epici di quell’esperienza, ma rimproverasse semmai una certa acquiescenza successiva da parte di alcuni suoi protagonisti all’andazzo dei tempi; anzi, in quel testo, sembra proprio attribuire a questo accomodamento la fine del neorealismo.

Quando Pasolini sta per esordire in lingua italiana i poeti dominanti sono Quasimodo, Ungaretti e Montale; ma è la poetica dell’ermetismo a occupare ancora la scena. Altri protagonisti come Bertolucci, Caproni e Luzi sono più defilati, mentre la nascente Linea Lombarda non sarà mai vista da Pasolini come un’alternativa credibile alla poetica ermetica. Egli entra nell’agone con idee molto chiare per quanto riguarda la pars destruens: la necessità di superare l’ermetismo, ma anche il petrarchismo, di cui peraltro l’ermetismo è espressione. Pasolini è il primo a parlare di plurilinguismo, di contaminazioni fra registri alti e bassi, guarda al Dante dell’invettiva, alle commistioni fra lingua letteraria e lingua popolare. Sulla rivista Officina, da lui diretta insieme a Fortini, Roversi, Romanò e Leonetti, esordiscono Sanguineti e Pagliarani e altri che daranno poi vita al Gruppo 63, la neo avanguardia da cui Pasolini prenderà aspramente le distanze. Tuttavia, sarà un rapporto mai del tutto risolto né nel Pasolini poeta, né nel critico, anche perché fu proprio lui il primo a parlare della necessità di un neo avanguardismo, espressione che successivamente sentirà ritorcersi contro di lui. Questo rapporto conflittuale, complesso e non risolto, è a mio avviso anche un limite che influenzerà negativamente la sua ricerca poetica.

Il problema è che le ragioni che spingevano Pasolini a superare l’ermetismo erano diverse da quelle che ispiravano Sanguineti e tutto il Gruppo 63. Lo testimoniano sia gli scritti teorici, La libertà stilistica, per esempio, un saggio pubblicato proprio su Officina, ma anche la sua prima opera pubblicata in lingua italiana, proprio Le ceneri di Gramsci, (1957), che resta uno dei vertici dell’opera poetica, insieme a La religione del mio tempo e in parte anche Poesia in forma di rosa, che è del 1961.

Nel saggio ricordato, l’idea di sperimentalismo che viene avanzata è quella di una lotta innovatrice nella cultura e nello spirito. È un nuovo orizzonte culturale quello che Pasolini auspica e non semplicemente il rinnovamento della lingua della poesia; nel dire questo, egli pone per primo la necessità di uscire dal Novecento. Questo a me pare un punto d’irriducibile differenza con la neo avanguardia.   

Quanto a Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo, anch’essi sono esempi della distanza che separava Pasolini dalla sperimentazione neo avanguardista. Gli elementi salienti di differenziazione mi paiono tre: la scelta poematica, la materia epica seppure spuria, il corto circuito fra scelta metrico stilistica improntata a un forte legame con la tradizione (la terzina dantesca, l’endecasillabo) e un lessico popolare che recupera tutto il meglio dello stesso realismo; l’assenza in Pasolini di ogni intento volto allo scardinamento sintattico della lingua e ad un’esaltazione pirotecnica del significante. La valenza sperimentale, invece, si colloca proprio al livello in cui Pasolini la voleva: un rinnovamento dello spirito che indicasse un orizzonte culturale nuovo rispetto a quello in cui erano nati l’ermetismo in periodo fascista e il neorealismo del dopoguerra.

Nonostante gli elementi spuri a me pare che le due opere e in parte anche Poesia in  forma di rosa siano da riportare proprio al genere epico, sia per la materia (la storia, la società, la condizione della comunità e non importa, a questo proposito, che Pasolini sentisse la fine di questa storia e ne vivesse la tragicità), sia per le scelte metriche; spuri perché segnati in contro canto da una memoria soggettiva interiore, quasi intimista (quello che è stato definito un canzoniere intimo alla Machado), estranea al genere epico per come lo conosciamo, se manteniamo ferma nel tempo la definizione stessa di epica. Chi ha detto però che il genere epico non possa, nel tempo, assumere al proprio interno contenuti e forme che non gli appartenevano all’origine? La stessa poesia lirica si è rivolta a temi che non le erano tradizionali. Non bisogna poi dimenticare che per Pasolini ciò che altri potevano leggere come elementi di un canzoniere intimo, venivano da lui considerati in ben altro modo. Per lui la condizione di omosessuale escluso non è l’irruzione nella partitura della grande storia di un elemento di biografismo, o non è semplicemente questo (se mai lo diventa nei momenti di caduta della poesia); bensì la metafora di una più generale emarginazione dei popoli del terzo mondo, dei borgatari romani, dei sotto proletari ecc. ecc. Discutibile o meno che sia tale convinzione, il punto di vista soggettivo che Pasolini introduce in contro canto non ha nulla a che vedere a mio avviso con un recupero dell’io biografico dell’artista.

Antimoderno

C’è infine un ultimo elemento da considerare poiché in questo Pasolini è stato davvero un caso unico nel secondo dopoguerra, per gli artisti della sua generazione: parlo della sua irriducibile anti modernità e della ricerca di mondi arcaici che lo portavano sempre più lontano dall’Occidente. Per anti modernità costituzionale intendo anche il fatto che Pasolini non ha mai introiettato l’idea della fine del mandato, cioè la convinzione che nella società moderna al poeta non spettasse più il compito di rappresentare la voce profonda di un’epoca o di un popolo. Questo mandato Pasolini lo ha conservato e praticato in pieno, si è posto senza remore e vergogne come un maître à penser in quanto artista. Un altro aspetto altrettanto importante della sua anti modernità è l’avere inseguito un’idea di opera totale, attraversando tutti i mezzi espressivi per approdare anche al cinema, certamente il più moderno di tutti, ma sempre in un’ottica che definirei leonardesca, piuttosto che a valorizzare l’apporto della tecnica nel senso della riflessione di Benjamin. La sua non accettazione del moderno, che in alcuni momenti può essere certo viziata da un volontarismo ingenuo, ne fa un autore lontano da un altro cliché che gli è stato indebitamente attaccato addosso: quello di essere un maledetto. C’è in lui troppo senso di colpa da un lato e troppo scandalo per la tragicità della secolarizzazione per presupporlo. Nel maledetto, almeno in quello moderno che ha in Rimbaud il padre (Rimbaud che – sia detto fra parentesi – Pasolini non amava), c’è sempre il disincanto, mentre in Pasolini c’è il dolore mai risolto, la ferita aperta che non si chiude mai. Di questo risentirà sempre la sua poesia, anche come limite; ma l’estetica del disincanto che poi finirà di passo in passo nel nichilismo non lo attirerà mai, neppure nei momenti più narcisisti che pure non mancano.

Il maledetto moderno è un dandy disincantato che fa della scissione della personalità non una materia di problematica sofferenza, bensì il suo punto d’onore. I grandi maledetti della contemporaneità sono i tecnocrati, gli gnomi della finanza, quelli che si travestono dal giovedì sera alla domenica da maledetti, ma che rientrano nell’ordine (anzi ne sono le colonne portanti) ogni lunedì mattina.

Rispetto a questa irriducibile anti modernità è pur vero che nella parte finale della sua vita Pasolini si sentiva sconfitto ed era giunto alla convinzione che la sua disperata vitalità non bastasse più. Vedeva i suoi amici intellettuali e gli altri poeti in preda a una deriva inarrestabile, vedeva l’omologazione venire avanti senza contrasti. È il periodo più oscuro per me della sua produzione poetica, quello in cui sembra arrendersi alle ragioni della neo avanguardia che pure aveva così aspramente combattuto. Trasumanar e organizzar è un’opera in cui Pasolini sembra rinnegare molto della sua opera poetica precedente in lingua italiana. Nella parte finale c’è una cesura (che comincia di già in Poesia in forma di rosa), che del resto Pasolini aveva anche chiaramente indicato. Nel motivare la sua scelta quasi esclusiva per il cinema Pasolini aveva affermato che riteneva la lingua della poesia e la poesia stessa fossero state sconfitte dalla modernità. Per questo parlo di una resa per Trasumar e organizzar. In quest’opera l’impoetico, l’estetica del brutto, il verso libero senza misura, quasi con un’esibizione, come se stesse dicendo alla neo avanguardia, vedete che se voglio queste cose le so fare anch’io, l’andare verso quella poesia in prosa, ecco tutto questo mi sembra una sorta di resa. Così come un’altra forma di resa mi sembra il suo ritorno tardivo al dialetto friulano; La nuova gioventù, pubblicata nel ’75 pochi mesi prima della morte, è un ricamo manierista intorno alle due opere del suo esordio. Era convinto che la sua fosse stata una battaglia perduta, ma se si guarda a quello che aveva fatto in così pochi anni, c’è da rimanere ammirati. Forse era vero che all’interno di quella vicenda del dopoguerra Pasolini avesse dato fondo a tutte le risorse a sua disposizione per contrastare la logica dei tempi; anche se tutto questo è comprensibile, tuttavia vi è un fondo oscuro nella parte finale della sua vita artistica, quasi una metafora, il presentimento di una fine tragica fine.

PASOLINI E LA CRISI DELLA LINGUA

Premessa. Il testo qui pubblicato è la rielaborazione scritta di una conferenza su Pasolini che si tenne a La Spezia nel 2005 e a cui ero stato invitato come relatore. La ripropongo in occasione del centenario della nascita dello scrittore.

La propensione di Pasolini per modi espressivi diversi dalla poesia prende forma e maggiore consapevolezza in un momento di crisi, di passaggio e confine; siamo alla fine degli anni ’50, la società italiana sta cambiando profondamente. Il poeta è convinto che la lingua della poesia italiana si sia irrimediabilmente deteriorata; lo dice qui e là in versi (In morte del realismo è del 1960)1 e in diverse interviste di quel periodo. In breve tempo, tale denuncia divenne il primo passo di una riflessione che sarebbe andata ben oltre la lingua di poesia per investire l’italiano come idioma nazionale.

L’Italia si stava trasformando in un paese industriale, la cultura stava per diventare di massa grazie alla scuola media unificata; infine la televisione, che occuperà un ampio  spazio nella polemica del poeta.

Pasolini visse il cambiamento in modo drammatico; ma anche, probabilmente, come il reiterato presentarsi, nella vita sociale, del trauma dell’innocenza violata che aveva segnato profondamente la sua giovinezza. Prima l’uccisione del fratello Guido e poi lo scandalo del processo per omosessualità lo avevano allontanato da quel luogo materno e protetto che era la Casarsa delle sue prime poesie dialettali.2

Il romanesco divenne la lingua di un esiliato, ma anche un modo di ripararsi da un italiano che si andava corrodendo: rivolgersi al romanzo e poi al cinema fu il suo modo di resistere.

Pasolini e la tradizione del romanzo

In che rapporto si pone la narrativa pasoliniana rispetto alla tradizione del romanzo italiano, che si forma intorno a Manzoni e Verga, cui aggiungerei Fogazzaro e Nievo? Ciò che rende diversi gli autori citati, al di là del diverso valore delle loro opere, è la strategia linguistica. Manzoni, come sappiamo, inseguiva la purezza dell’italiano e si rivolgeva al fiorentino, la lingua che con la Commedia di Dante s’era imposta nel ‘300 come lingua nazionale. Il curioso, sta nel fatto che Dante, nel De vulgari eloquentia, affermava che la lingua italiana poteva nascere solo cogliendo fior da fiore le espressioni e il lessico migliori di ciascuna delle tradizioni dialettali: un programma ben diverso da quello di Manzoni.

Verga, grazie alla lezione preziosissima degli Scapigliati, con i quali entrò in contatto durante il suo periodo milanese, scelse invece di portare la ricchezza del dialetto a contatto con la lingua italiana. Fogazzaro e Nievo lavorarono sull’appartenenza regionale (quanto alle tematiche), oppure anticipando le inquietudini della soggettività novecentesca (Fogazzaro), stando però dalla parte di Manzoni per quanto riguarda la lingua. La narrativa successiva ha seguito più o meno questi grandi modelli e Pasolini appartiene alla schiera di coloro che hanno nutrito la lingua italiana degli umori dialettali, ma con due peculiarità. Prima di tutto egli lesse Dante come il poeta del discorso libero indiretto, della contaminazione fra registro alto e basso; in una parola, il Dante più espressivo.

In secondo luogo, Pasolini era convinto che la lingua dei borgatari romani (ma il discorso vale per tutti gli idiomi regionali o locali), potesse essere conservata in quanto tale con tutta la sua ricchezza, come unica traccia d’innocenza resistente al dilagare della modernità. Lui stesso dovette rendersi amaramente conto che questo non era possibile. Il neocapitalismo italiano negli anni del boom economico e in quelli successivi, avrebbe al tempo stesso integrato parzialmente e disaggregato le culture regionali e locali, incidendo profondamente nel tessuto agricolo e distruggendo la piccola proprietà a favore di un’agricoltura intensiva. I borgatari romani come altri esponenti storici di una malavita povera e tutto sommato innocua (la ligera milanese non era molto diversa), diventavano i manovali del grande crimine organizzato, oppure venivano relegati ed emarginati nel ventre della grande città, perdendo quell’alone romantico che Pasolini vide in loro.

Cosa cercava Pasolini nella narrativa e poi nel cinema? In primo luogo, una maggiore aderenza alla realtà sociale in trasformazione. Gli sembrava che tali strumenti espressivi fossero più adatti della poesia sia per rappresentare i cambiamenti sociali che stavano avvenendo, sia per conservare la memoria di un mondo che stava finendo. Infondo, Pasolini inseguiva lo stile più consono a esprimere un realismo che definirei arcaico, teso a cercare ovunque le tracce delle civiltà sostanzialmente rurali che vedeva tramontare qui dove noi viviamo e che lo portava sempre più lontano dal cuore del mondo occidentale, sia nello spazio, sia indietro nel tempo. L’odore dell’India, un diario di viaggio che lo scrittore fece insieme con Moravia, lo stesso poema La Guinea in Poesia in forma di rosa, sono altrettante tracce di questo percorso che diventerà più esplicito e compiuto nella cinematografia, per esempio con Le mura di Sanaa, il film documentario che il regista girò nella capitale dello Yemen nel 1971.

Ci sono due momenti distinti nella narrativa pasoliniana, mentre una valutazione a sé meritano due romanzi postumi: Atti impuri e Amado mio, di cui però non mi occuperò in quanto li ritengo marginali rispetto al problema della lingua ma anche della svolta che lo scrittore imprimerà al suo lavoro con Petrolio.

Ragazzi di vita e Una vita violenta sono i romanzi che nascono dalla convinzione, rivelatasi poi fallace, che il mondo linguistico delle borgate romane fosse destinato a conservarsi nel tempo con la sua innocenza. Le due opere non hanno una vera e propria trama nel senso tradizionale del termine. Lo sviluppo della narrazione, infatti, focalizza in presa diretta la vita di un gruppo di giovani che abitano nelle borgate romane. Sono esistenze che non hanno chiari punti di riferimento; frammentarie per definizione, fra un fatto e un altro, un incontro e un altro, che costellano le loro giornate, non vi è spesso alcun nesso. È lo scorrere del tempo sempre uguale a scandire una struttura narrativa che in realtà si sfalda nell’inconsistenza. Tommasino, il Cagone, anche Accattone, oppure il memorabile Stracci del film La ricotta e tutti gli altri personaggi dei romanzi, non sono però dei romantici deracinés o degli arrabbiati da bohème piccolo borghese come nelle commedie o nei drammi coevi di Osborne e Wesker, né assomigliano al prototipo ben rappresentato da James Dean nei film che avevano per protagonista la cosiddetta gioventù bruciata; tanto meno sono dei beatniks mediterranei. Tutti questi che ho ricordato erano integrati nella grande città, da cui a volte sognavano di fuggire, ma che non smetteva di essere il loro habitat naturale, di cui erano il volto innocuo e trasgressivo dei ribelli senza causa. I borgatari di Pasolini sono dei sottoproletari, la cui condanna all’emarginazione sociale è data per definizione, come un fato. Essi  furono l’ultima generazione sottoproletaria italiana; dopo di loro saranno gli immigrati o i tradizionali popoli nomadi a rappresentare questa parte della società, anche se oggi assistiamo a un fenomeno di regressione e di emarginazione progressiva che coinvolge di nuovo fasce sociali indigene.

I protagonisti dei romanzi di Pasolini sono dunque gli esclusi dal boom, l’esubero di una società che integrava ancora la maggior parte di coloro che si affacciavano alla vita e al lavoro. Oggi l’emarginazione sociale si ripropone in tutta la sua crudezza, che la pandemia ha solo accentuato, ma che ha le sue origini anche nella sconfitta dei movimenti nati durante gli anni ’60 e ’70.

La struttura dei due romanzi di borgata e anche di un film come Accattone, aderendo alle loro vite, è aperta e frammentaria e dunque  nei canoni della narrativa novecentesca europea, che aveva, per altre ragioni, inflitto un colpo decisivo alla saldezza della trama. Tuttavia, Pasolini non sembra del tutto consapevole di inserirsi nell’alveo di questa tradizione; la sua non è una scelta che nasce dalla riflessione sul romanzo europeo del ‘900, ma aderisce a un’esigenza interiore e ambientale.

Quanto al linguaggio esso è fortemente espressionista, pieno di irruzioni del dialetto; i dialoghi sono in presa diretta la parlata è quella povera delle borgate, ma anche quando scendono in città e si avvicinano a sedi istituzionali (un cinema, la sede del MSI o del PCI e altro), questi personaggi mantengono la loro totale estraneità rispetto alla città degli altri, tanto che quando s’imbattono in qualche persona che s’aggira nel centro di Roma e capita loro di parlare, la lingua cambia perché cercano di esprimersi in italiano stentoreo, hanno nei confronti dell’interlocutore un atteggiamento di imbarazzata deferenza, che tradisce la sudditanza culturale. Come nella successiva metafora del Palazzo, l’urbe rimane per loro una specie di geroglifico incomprensibile. Pasolini si renderà amaramente conto (e pagherà di persona questa trasformazione) di come in poco tempo quel mondo diventerà corrotto e preda della grande criminalità: la banda della Magliana non nasce forse in quegli anni a ridosso della sua stessa morte?

Petrolio

Prima di entrare nel merito dell’opera vorrei dedicare qualche parola sul finto mistero delle 600 pagine trafugate, oppure (secondo un’altra versione del medesimo mistero), del capitolo smarrito. Graziella Chiarcossi ha definitivamente chiarito la questione. Questo capitolo semplicemente non esiste e il bottino dei furti a casa Pasolini,  due e regolarmente denunciati, consistono di gioielli e denaro rubato, ma non manoscritti. Chiarcossi chiarisce in modo limpido anche il perché del suo lungo silenzio. L’intervista in questione risale al 2014, ed è stata ripubblicato dalla rivista online Doppiozero.

Questo non significa che tutti i misteri intorno alla morte del poeta siano chiariti, ma penso sia necessario lasciare alla magistratura la possibilità (se ancora esiste) di arrivare più vicino alla verità dell’accaduto e dare la priorità al Pasolini scrittore e intellettuale. Del resto Petrolio, anche senza la favola del capitolo mancante, rimane pur sempre un testo contundente e drammatico, che non ha bisogno di ulteriori aloni.

Nelle intenzioni di Pasolini, l’opera avrebbe dovuto aprire una fase nuova della sua narrativa e che probabilmente l’avrebbe addirittura esaurita in questa sola opera. Lo afferma lui stesso nella lettera a Moravia (un frammento della quale sta scritto anche sulla quarta di copertina del libro), in cui annuncia al suo sodale tale intenzione. Ancor più, mi sembra che proprio in questa pagina e mezza, Pasolini imprima una svolta decisiva alla propria consapevolezza di autore.

Ora io a questo punto, potrei riscrivere daccapo tutto il romanzo, oggettivandolo … e assumendo le vesti del narratore convenzionale … Potrei farlo …ma se lo facessi avrei davanti a me una sola strada: quella della rievocazione del romanzo ...3 

Petrolio è certamente un romanzo incompiuto, ma lo sarebbe stato probabilmente anche dopo le revisioni e le seconde o terze stesure perché è programmaticamente incompiuto; o meglio, la sua voluta frammentarietà è la cifra stilistica che il suo autore ha scelto per rappresentare un affresco della dissoluzione. Del resto, sarebbe bastato prendere sul serio l’incipit della prima pagina, che è al tempo stesso una dichiarazione di poetica e una parte dell’opera:

Tutto Petrolio (dalla seconda stesura) dovrà presentarsi sotto forma di edizione critica di un testo inedito (considerato opera monumentale, un Satyricon moderno.) Di tale testo sopravvivono quattro o cinque manoscritti, concordanti e discordanti, di cui alcuni contengono dei fatti, altri no ecc. La ricostruzione si vale dunque del confronto dei vari manoscritti conservati (di cui per esempio due apocrifi, con varianti curiose, caricaturali, ingenue o ‘rifatte alla maniera’)…”4

La dichiarazione di cui sopra e quelle che seguono, sempre dalla prima pagina, sono ancora più importanti della lettera a Moravia, dove Pasolini aveva scritto che, se avesse scelto di rimanere legato ai canoni della trama, dell’intreccio e della definizione chiara del personaggio avrebbe potuto solo rievocare il romanzo. Nelle opere precedenti, però, questa rottura non era così radicale, tranne che in Teorema, che non è solo un film ma anche una scrittura narrativa che si avvicina allo stile di Petrolio. Il romanzo raccoglie la sfida novecentesca del pastiche, ma la complica ulteriormente in un gioco di specchi e di rimandi, tali da farne un’opera meta letteraria, intenzionalmente stratificata su più livelli.

Il primo è costituito dall’edizione critica di un  testo inedito, cioè di un’introduzione che guida il lettore in un labirinto di manoscritti e versioni in cui il vero, il verosimile e l’apocrifo si mescolano. Il richiamo al Satyricon non è una semplice citazione, perché anche il romanzo attribuito a Petronio Arbitro è un libro composito e frammentario, di cui si hanno titoli e versioni diverse. Mentre l’opera classica ha un intento satirico più marcato, Petrolio è un libro più drammatico perché  il gioco di specchi e versioni diverse ha un intento differente da quello del romanzo classico; inoltre, bisogna pure tenere conto che nel caso del Satyricon la frammentarietà è dovuta a ragioni obiettive perché gran parte del testo è andata persa, oppure è stata censurata e probabilmente distrutta dai cristiani che giudicavano l’opera troppo licenziosa.

Pasolini ha di fronte a sé una realtà mutante, camaleontica, che si scompone e ricompone in una serie di figure e situazioni grottesche, al cui centro c’è sempre lo stesso tipo di potere, ma che si manifesta in forme continuamente mutevoli, quasi liquide. L’esempio più importante di questa strategia compositiva sono i due Carli. La doppiezza dei personaggi e delle situazioni che li vede coinvolti, è rappresentata anche nelle loro fattezze fisiche, nella mutazione dei loro corpi, abnormi come un quadro di Arcimboldo; oppure contraddistinti da oggetti-segno, come il borsello del Merda, oppure altri apparentemente insignificanti, ma inscritti in quel misero mare magnum consumista e straccione. 

Sempre nella prima pagina già citata, lo scrittore così prosegue:

“… Esistono anche delle illustrazioni del libro… di grande aiuto nella ricostruzione di scene o passi mancanti… accanto alla ricostruzione letteraria ci sarà una ricostruzione figurativa. Per riempire poi le vaste lacune del libro, e per informazione del lettore, verrà adoperato un enorme quantitativo di documenti storici che hanno attinenza con i fatti del libro: specialmente per quel che riguarda la politica, e ancor più, la storia dell’Eni.5

Dopo un elenco sommario di altre fonti, ecco un altro passaggio importante. Faranno parte del romanzo anche:

“ … documentari cinematografici rari (e qui ci sarà una ricostruzione critica analoga a quella figurativa e letteraria  – non solo filologica ma anche stilistica  e attribuzionistica – … L’autore dell’edizione critica ‘riassumerà’ dunque sulla base di tali documenti … lunghi brani di storia generale, per legare fra loro i ‘frammenti’ dell’opera ricostruita …”6

Queste ulteriori citazioni ci portano nel cuore del tentativo di Pasolini: un’opera totale dalla forma originale, che sappia intrecciare livelli diversi di linguaggi e scrittura, alla fine forse più teatrale che semplicemente narrativa e comunque di nuovo assai prossima al cinema, se pensiamo anche alle riflessioni contenute in Empirismo eretico e in particolare il capitolo dal titolo Il cinema di poesia.7

La pagina introduttiva si conclude nel modo seguente:

“… Il carattere frammentario dell’insieme del libro, fa sì per esempio che certi ‘pezzi narrativi’ siano in sé perfetti, ma non si possa capire, per esempio, se si tratta di fatti reali, di sogni o di congetture fatte da qualche personaggio.”8

Potenzialmente si tratta di una scrittura senza soluzione di continuità. Gli appunti 36-40, per esempio, che hanno per oggetto un libro dal titolo Gli Argonauti, è del tutto incompiuto, ma gli spunti che suggerisce sono assai suggestivi e indicano l’intenzione di scrivere un capitolo allegorico che trova nella vicenda classica e mitologica una chiave per interpretare il presente. Tali appunti sono sufficientemente estesi per tentare un’analisi di queste intenzioni.

Il caos e la mutazione

Nell’appunto 3d Pasolini descrive l’allontanamento del primo Carlo (di Tetis), dal secondo: è un viaggio in autobus che lo porterà a una stazione, poi su un treno dentro una nave. L’attraversamento di Roma ci presenta un paesaggio che evita accuratamente le bellezze della città, ma sceglie un percorso di periferie ancora non inquinate dalla plastica, ma solo dai rifiuti organici: “cartacce e merda...”

La meta ultima di Carlo Tetis sarà Torino. La biografia di Carlo è significativa per quegli anni e la troviamo all’appunto 5:

Carlo è nato a Torino il 6 Marzo del 1932. Ha frequentato le scuole medie a Ravenna; ha studiato poi ingegneria all’Università di Bologna dove si è laureato nel 1956 ... “9

La sua formazione è cattolica, ma in senso molto generico, all’inizio. Carlo si orienta verso le ricerche petrolifere: quella in cui cresce e diviene adulto, è l’Italia di Mattei e del sogno d’autonomia energetica e di un ruolo da media potenza mediterranea. La Bologna in cui vive, però, è anche fortemente permeata dalla cultura comunista, di cui fanno a parte anche i dissidenti che usciranno dal Pci. Carlo scopre la sociologia statunitense, il cattolicesimo sociale e la psicoanalisi.

Fu quello il momento in cui Carlo divenne un cattolico di sinistra e questo gli consentì da una parte di differenziarsi o distinguersi dal potere e nel tempo stesso attraverso il suo lavoro specifico e specialistico in quella punta avanzata che era l’Eni di inserirsi quasi con spavalderia nello ‘spazio’ dove si trova il potere reale.”10

Questa descrizione è assai importante se la mettiamo in relazione con quella di Carlo secondo:

Se un uomo è uguale a un altro uomo, tanto uguale da essere lo stesso, quale dei due è quello vero? Qual è l’altro a cui l’altro assomiglia, o meglio, con cui l’altro si identifica? … Chiamare Carlo secondo la persona che è praticamente il ‘doppio’ di Carlo primo è ingiusto:… Probabilmente l’ingiustizia di questa gerarchia è un’ingiustizia di carattere sociale...”11

Il tema del doppio, evocato esplicitamente – seppure virgolettato – da Pasolini, così come quello del sosia, è uno dei più cari al romanzo moderno ed è presente in opere diverse e autori diversi: basti pensare agli eteronimi di Pessoa, oppure a Il fu Mattia Pascal.  Pasolini, però, con quell’accenno finale alle ragioni di questa gerarchia fra i due Carli, ci guida per un sentiero che s’allontana dal cliché, puramente psicologico, della scissione o moltiplicazione dell’io.

Il secondo Carlo diventa Karl e dopo una serie di approssimazioni ecco come si arriva a un primo momento di snodo:

Karl, il secondo Carlo, è così nella gerarchia sociale, inferiore a Carlo pur essendone identico, … ma la sua inferiorità non è controllata da Carlo primo. Il secondo Carlo, come tutti gli umili, (…) privi di autorità sociale, (…) – un po’ come i cani – è buono. Inferiorità sociale e bontà coincidono. Tuttavia, è in Karl che si concentrano i caratteri cattivi di Carlo, mentre è in Carlo che si concentrano i caratteri buoni di Karl.

Karl è servo, Carlo è padrone . Ma come racconterò in seguito Karl (forse) è libero, mentre Carlo sicuramente non lo è ...”12

A un primo livello di lettura, la scissione della personalità con il suo lato d’ombra è messa in primo piano, ma l’accenno finale alla dialettica servo padrone e tutta la descrizione ambientale che precede e seguirà ci portano alla situazione sociale in cui si muovono i due Carli. Pasolini è consapevole della scissione dell’io, ma non possiamo isolare i due personaggi dalla loro collocazione politica e lavorativa. Carlo sceglierà infatti di lavorare all’Eni, una parte dell’impero del Troya, un personaggio chiave nel quale è facile cogliere la biografia di Eugenio Cefis. La sua Eni era diversa da quella di Mattei, anche se perseguiva la stessa politica petrolifera. Cefis è l’esponente più tipico e autorevole del grand commis dell’industria di stato, un’invenzione della sinistra democristiana. Mattei, di questo tipo di boiardo di stato, era solo il prototipo ancora grezzo e aveva troppe ambizioni politiche per non entrare in collisione con i poteri forti nazionali e internazionali; cosa che Cefis, invece, saprà evitare benissimo, servendosi spregiudicatamente anche di apparati di sicurezza e alleanze trasversali, che lo tenevano in ombra – dietro le quinte – come un sapiente burattinaio. Carlo è scisso in due perché è il contesto sociale che si sta scindendo.

Nell’appunto 34 bis, apparentemente, Pasolini s’allontana dai due personaggi e racconta una fiaba sul Potere (dal Progetto).

Il tema è la Nevrosi, il protagonista un intellettuale, un uomo di piccola statura grasso, insignificante ma capace di muoversi nella giungla di un sotto potere non meglio definito:

“Non essendo ancora un personaggio in vista, nessuno se ne accorgeva; ma in realtà egli era un repellente mostro di passionale servilismo. Sarebbe stato capace delle azioni più abbiette pur di ottenere il (favore) di una persona. Nel tempo stesso coltivava anche il mito della propria innocenza. Il fatto è che il suo desiderio di affermarsi e di avanzare, apparteneva all’ordine dei desideri clinicamente ansiosi: ed era dunque la ‘malattia’ che provvedeva a preservarne l’innocenza, come primitiva condizione di grazia, giustificando contemporaneamente tutte le povere infrazioni di essa …”13

Una notte, il personaggio si sveglia e avverte nella sua stanza una Presenza, una Forza Oscura, con la quale inizia un dialogo:

Che c’è?”

“Lo sai qual è lo scopo della tua vita?”

“Farmi come tutti una posizione nella società in cui vivo …

“Va bene, va bene, ma questa è una parte o una fase della tu avita. Interrogati meglio, va più a fondo della tua coscienza.”

“E’ il massimo sforzo che posso fare, sinceramente…”

“Allora se  non vuoi dirlo te lo dirò io: lo scopo della tua vita è il Potere…”

Man mano che il dialogo prosegue, l’intellettuale capisce che davanti a lui ci sta il Diavolo in persona.  Il suo atteggiamento diviene agghiacciato ma anche remissivo, perché è ben consapevole che il Diavolo gli ha detto la verità.

Se lo dici tu…

“Io sono qui per aiutarti.”

“E come?”

“Chiedimi attraverso che cosa vuoi raggiungere il Potere e io te lo darò.”14

La risposta dell’intellettuale è singolare è spiazzante: vuole raggiungere il Potere tramite la Santità. Il Diavolo non si scompone e risponde da par suo: si può fare. Ironizzando sulla circostanza Pasolini attribuisce al Demonio una certa superficialità, ma poi si ritorna nel cuore della contraddizione. Raggiungere il Potere tramite la Santità è il tentativo impossibile da parte del nostro intellettuale di non accettare la scissione, di salvare capra e cavoli, di volere Mammona (in  linguaggio ecclesiastico) e la Santità al tempo medesimo. In questa insanabile contraddizione Pasolini vede una metafora non solo del potere democristiano ma del tipo umano democristiano.

Il primo Carlo è un cattolico generico, che diviene di sinistra a contatto con il mondo bolognese, ma che si nutre anche della sociologia progressista. La sinistra democristiana aveva un culto per la sociologia tanto che la famosa facoltà di Trento, nella quale si formeranno anche alcuni dirigenti delle future Brigate Rosse, era proprio un fiore all’occhiello di questa corrente del cattolicesimo italiano (e non solo della Dc), che attingeva al progressismo liberal statunitense qualche strumento (non tutti naturalmente, specialmente in tema di libertà civili) per contrapporsi all’egemonia culturale del Partito Comunista e della sinistra più in generale. Il progressismo era un’arma però a doppio taglio. Nel momento in cui il cattolico generico Carlo entra all’Eni, la punta di diamante dell’industria di stato, si trova al centro di quella trasformazione radicale che insieme al mondo contadino relegherà in un angolo anche l’innocenza più o meno presunta del cattolicesimo generico, ancora rurale di Carlo. Il demone del Potere, con le sue regole, i suoi riti di modernizzazione, toglieva gli ultimi orpelli alla buona coscienza del cattolicesimo sociale di Carlo: il tentativo disperato del nostro intellettuale della fiaba è la favola allegorica dei due Carli e della loro necessaria scissione. Essi sono al tempo medesimo il servo e il padrone nella medesima persona. Che cosa è stata la Democrazia Cristiana se non questo? Un partito ossimoro, la cui falsa coscienza era il tenere insieme un vago cristianesimo sociale ispirato dalle encicliche papali, con un progetto di trasformazione neocapitalista che avrebbe portato alla dissoluzione dello stesso cattolicesimo sociale e a una inarrestabile secolarizzazione. Il radicalismo di Pasolini non ammette repliche e su questo qualche considerazione in sede conclusiva sarà necessaria, ma come dargli torto? Cosa rimane a decenni di distanza da quel tentativo della tradizione rappresentata dai Dossetti, dai Mattei, dai La Pira, dai Moro? Nulla, come era ovvio che fosse; ma cosa rimane anche della tradizione comunista e della sua opposizione morale e politica a quel modello? Altrettanto un nulla e questo ci riporta al cuore delle considerazioni di Pasolini su quegli anni.

Tornando alla fiaba pasoliniana essa non riflette solo la parabola dei due Carli portandola sul piano allegorico, ma va a toccare il tema nevralgico per un cattolico:  le nuove forme del potere temporale.

Il nostro intellettuale si avvia verso la santità con una serie di pratiche:

“… Parlò quindi Fede e di Speranza: e ciò non poteva che esser pubblico. In privato, invece, applicò la Carità … Egli si guardò  bene dall’interrompere la tradizionale dissociazione della Chiesa  fra fede e Speranza da una parte e Carità dall’altra. Abbandonò in nome di quest’ultima i beni del mondo (il suo impiego statale)…attirati dall’odore di santità un gruppo di giovani cattolici erano intorno al nostro intellettuale, nel cortile di un convento  (che era nuovo in stile neo-liberty costruito con i soldi di una grande industria; …”15

Il nostro intellettuale scopre di essere al centro del convegno; pur non essendo ancora “decollato” s’accorge che intorno a lui sta crescendo un’aura di popolarità, ma questa circostanza lo precipita in un gelo progressivo e in un vuoto esistenziale. Non si possono scindere Fede e Speranza da un lato e Carità dall’altro. Fuor di metafora e  traducendo il linguaggio cristiano, se la cosiddetta Carità non è un bene pubblico e cioè un’etica comunitaria ma solo la privata rinuncia ai propri beni, non può modificare in alcun modo i rapporti sociali. Il nostro intellettuale continua però per la sua strada e così:

Vide passare il Diavolo che lo guardava ridendo con complicità, facendogli quasi l’occhietto…

Finché il nostro intellettuale non lanciò un grido cadendo a terra e allora:

“Il Diavolo ne approfittò per aprirgli sulle palme della mano due lunghe sanguinose stimmate…”

Fin qui siamo nel mito ma anche nel teatrino delle varie apparizioni di madonne. Le sorprese però non sono finite, perché nel nuovo colloquio con la Presenza Oscura essa diviene improvvisamente Luminosa.

Ti pare che il Diavolo possa averti condotto alla Santità, quella vera? Il Male non è che un’esperienza transitoria, non sta né al principio né alla fine. Bisogna passarci in mezzo, ecco tutto. Se dunque l’iniziativa non è partita dal Diavolo, che non è che un incidente, da chi è partita? .

“Tu!”

È stato uno scherzo, il Diavolo non è una persona è un semplice aspetto. Io me la sono messa sul viso e ti sono apparso … devo usare il peggiore  per farlo diventare il migliore, … Adesso , va torna sulla terra; vai a testimoniare tutto questo. C’è solo un patto che ti pongo…”
“Dimmi
disse umilmente il santo.

Nell’allontanarti da qui devo andare diritto, senza più voltarti indietro per riguardarmi.”

“Lo faròdisse il santo.

Ma non aveva fatto che una ventina di passi che una curiosità irresistibile si impadronì di lui… Il rigurgito di bassi sentimenti …. fu come una legge di natura: ed egli si voltò indietro un attimo, solo un attimo. La Forza Luminosa era là ma non aveva più la faccia di Dio. Aveva la faccia del Diavolo … Subito a quella vista, come già Lot, il nostro intellettuale santo si pietrificò. Diventò un pesante masso  e precipitò a piombo giù dal Terzo Cielo.”16

Un’epica contemporanea

Petrolio, pubblicato postumo nel 1992, è senz’altro ascrivibile a una forma originale e contemporanea di scrittura epico-picaresca e non manca di qualche aspetto che lo lega alla tradizione: non solo il  Satyricon, ma anche quella moderna del romanzo saggio. Anche Petrolio descrive una piccola o grande epopea: quella che trasformò l’Italia ancora rurale degli anni dell’immediato dopoguerra nella settima potenza industriale del mondo. Per Pasolini i pilastri di tale trasformazione, che egli giudica catastrofica, sono due: l’industria di stato e i suoi legami con la politica democristiana da un lato e dall’altro l’acculturazione di massa che travolgerà le culture locali e contadine, omologando anche il linguaggio dell’italiano medio a uno standard sempre più impoverito. La torsione che imprime anche ai suoi personaggi è una metafora della torsione cui tutta la società italiana fu sottoposta nel giro di poco più di un decennio. A decenni di distanza ci si può domandare se quest’opera magmatica e programmaticamente incompiuta, parli in qualche modo alla nostra contemporaneità o sia datata. La questione è aperta e la pongo come tale sperando che l’occasione fornita dal centenario della nascita, susciti qualche dibattito.  


1 Il testo si trova all’interno de La religione del mio tempo e ne chiude la seconda parte. Imitando il famoso monologo di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare, Pasolini pronuncia l’orazione funebre della stagione neorealista. In: Pier Paolo Pasolini, Le Poesie, Garzanti, Milano 1976, p.283-89.

2 Mi riferisco a La meglio gioventù, pubblicata nel 1954.

3 P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, lettera a Moravia, pp. 544-5

4 Op.cit. pag.3.

5 Ivi.

6 Ivi.

7 P:P: Pasolini, Empirismo eretico, saggi Garzanti editore, edizione maggio 81, Milano pp.167-72

8 P.P. Pasolini, Petrolio pag.3

9 Op.cit. psg.34.

10 Ivi.

11 Op. cit. pag. 34.

12 Ivi.

13 Op.cit. Appunto 6, pp. 128-36.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Ivi.