IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO TERZO
L’uomo con le gambe distese si porta le mani intrecciate dietro la nuca e comincia a parlare.
BACH:
Vivevo in quel labirinto fin da bambino. Persi i genitori e il vuoto lasciato da loro fu riempito dalla musica e da un’angoscia che mai mi abbandonò, la paura di dovermi sostenere con le mie forze generò in me un’attitudine guardinga. Dicono che fui poco generoso; ma può esserlo chi non è mai stato accudito? La generosità è un bene che si può spendere soltanto se si è ricchi di famiglia. Quali e quante varianti si possono creare da un motivo, questomi assillava! Si dice che l’abbia risolto come non avrebbe saputo fare meglio il più geniale dei matematici e dei geometri. Io non so cosa dire; mi accorsi di trovarmi al centro di un vortice, dal quale era impossibile uscire. Ero nella mia creazione come un signore nel suo castello, ma ero solo; intorno avevo un labirinto di note.
Il secondo uomo, prima di cominciare a parlare torce il capo in direzione dell’altro e comincia a sfregarsi ossessivamente le mani. La voce di questa seconda figura è roca, cupa e profonda.
PICASSO:
E dal labirinto non si esce. Io ho scomposto tutte le forme per trovare la forma e ho trovato, invece, l’infinità delle forme. Fuori c’era soltanto il brutto, che mi assillava da ogni lato e poi l’informe, il vuoto, lo stampo, il calco su cui ci facevano passare ore e ore in accademia: la sezione aurea, le proporzioni, la materia.
Smette di parlare e si morde nervosamente le unghie. Da questo momento i suoi gesti si ripetono con monotonia: quando tace si morde le unghie, mentre quando parla si torce le mani.
B: La materia potevo soltanto immaginarla: era geometria, proiezione che da una nota sola si apriva a rose di suoni, mi sembrava di diventare l’eco di me stesso.
P: Volli riempire quel vuoto, riempire l’infinito di forme: prima le esplorai, poi le scomposi, le rimontai secondo la mia voglia, come un dio demente che si diverte a ricostruire il mondo a proprio piacimento e lo fa ogni volta diverso. Ricavai dall’informe quanti più oggetti possibili, non mi stancavo mai: mi svuotavo in essi per continuare a esistere come artista, così come mi svuotavo dentro i corpi femminili per ritornare a esistere come uomo.
B: Per me era come perdermi in un deserto. Non vi erano limiti e io respingevo le regole. Fuggii a Lubecca per quattro mesi e dovevo restarci soltanto qualche settimana. Me ne andai in quel modo solo per dire a chi mi voleva incatenato a una sedia ad imparare da maestri che ne sapevano meno di me, che io me ne sarei infischiato delle loro norme.
P: Ah ah ah! Come per me l’accademia; non ero il solo allora ad annoiarmi!
B: Alla musica che suonavano nelle chiese bastava l’ammirazione dei fedeli, la consuetudine, io non feci altro che introdurre qualche piccola modifica. La lasciai scritta e me ne andai; ma quell’esecutore da strapazzo non sapeva suonarla e rimproverarono me per i torti di quei maldestri cantori. Alla musica non s’addicono limiti, mi dicevo, è il deserto, la vastità assoluta, l’infinito: questa era la sola legge che riconoscevo. Eppure qualche segno che m’invitava a fermarmi e a riflettere io l’ebbi, ma saper seguire i segni di prudenza è pane per chi ha masticato almeno una volta la morte.
P: Io la incontrai subito la morte, prima ancora di nascere e Conchita, mia sorella, replicò in peggio la mia stessa nascita. Pregai per lei quello che un artista non dovrebbe mai pregare: fammi, o dio, rinunciare alla mia arte pur di salvarla, ma non bastò. Morì di quella maledetta febbre che chiamano spagnola e allora la odiai perché mi sentii tradito, odiai chi l’aveva generata, odiai quei ventri da cui esce soltanto una sanguinante illusione di vita; odiai dio e scelsi il demone che era in me. Da quel momento non ebbi che uno scopo: riempire la morte di oggetti per impedirle di muoversi. Io quel pane l’ho masticato fin troppo a lungo, ma non mi servì a nulla. M’infilai nel labirinto e andai fino al suo fondo, trovai uno specchio e in esso vidi riflesso il Minotauro, la bestia assoluta, la bestia, la bestia senz’altri aggettivi! Ma dimmi di te; ora almeno posso ascoltare, non devo più temerla, quando ero di là non ci riuscivo.
B: Trovavo rifugio in una caravella di note che oscillavano immobili dentro una culla di bellezza; poi riprendevano a concatenarsi, dovevo seguirle. Tutti hanno detto di me che fui impareggiabile proprio in questo, nel seguirle; ma io ero nella pienezza della gioia quando trovavo le anse, gli anfratti. La maestosità si trova fra la corte e il cielo, non nell’empireo e neppure nell’infinito.
P: Io invece mi muovevo dentro una prigione che aveva due porte: da una entrava la morte, dall’altra il vuoto. Mi sovrastavano entrambe e piegavano le mie mani inchiodandole al foglio e allora inventai le forme che sfuggono dai quadri, ma loro erano sempre lì a torcere la mia mano, i miei polsi, da cui uscivano forme in continuazione, come il fuoco dalla bocca di un drago.
B: La casa che abitiamo meglio noi umani è quella che ci propone le stesse sensazioni che ritornano a ogni stagione: come un giardino che fiorisce e sempre ci sorprende perché non ti aspetteresti che sotto la durezza di una terra ritratta in sé come un lottatore in difesa, si dischiuda la grazia di uno sboccio precoce. Non è un miracolo già questo? E non appartiene forse all’eternità? Noi non abbiamo nulla a che fare con l’infinito; esso non è che l’illusione ottica di quella parentesi che è il vivere fisicamente! Avessi potuto avere una prigione entro la quale tenermi saldamente. Tutto passava attraverso i pori, la nostra materia è come l’acqua di una piena inarrestabile, puoi forse dividere l’acqua, o la sabbia di una duna? Ogni acqua contiene molte acque, ogni deserto li contiene tutti, ogni forma si piega e diventa altro da sé.
P: Come me con le mie forme.
B: Quando ero dentro la musica sentivo di essere la sfera che vive nella sfera. Ecco, nel percepire l’identico noi viviamo quella sensazione misteriosa e così banale che è il tornare a casa, accendere un camino, consumare il cibo con i nostri figli, distenderci nel letto con la donna che amiamo. Il resto è pane per filosofi e scienziati, non per noi. Sorrido quando mi parlano di quel pianista così bravo e geniale; diventato, dicono, il mio esecutore più perfetto! Io credo, invece, che lui sia caduto nel mio stesso fraintendimento. Mi domandavo sempre dove stesse la finitura, il taglio, quel segno che traccia i confini e li fa rispettare. Inseguii invece l’impossibilità della conclusione e m’infilai diritto nel labirinto di tutti i labirinti.
P: Ho profanato, non riuscivo a fermarmi, inghiottivo le forme una dopo l’altra, ma non mi accontentavo di loro soltanto; dalle forme mi precipitavo sui colori.
B: Ogni duna di note ne nascondeva un’altra e quello che sembrava un punto d’arrivo era un miraggio e l’altro in me, quello che non voleva quel mondo fatto di rette e cerchi soltanto, veniva brutalmente tacitato. Il pentagramma è l’Olimpo dei suoni, non l’unico dio e forse questo pianista mi esegue come se io fossi soltanto la perfetta geometria delle mie fughe. Era il mondo che voleva vedermi così, il mondo che mi ha saccheggiato fin da quando ero in vita.
P: Anch’io ho saccheggiato. Se la mia anima voleva nuove immagini da scomporre, la mia carne voleva corpi da modellare come fossero di creta. Per questo scolpivo e consumavo i corpi femminili, ma cercavo l’anima soltanto nelle forme. Non amai nessuna, nessuna! Provai soltanto una pace momentanea nel divorare Fernande, giorno dopo giorno, tenendola prigioniera nel mio studio; e vidi soltanto un breve balenio d’assoluto quando incontrai Francoise.
B: Mi commissionavano opere non necessarie, ma io mi buttavo lo stesso a capofitto nella loro trama perché vedevo in esse una nuova possibilità per andare ancor più dentro quell’infinito. E poi, e poi il denaro! Sì, fui schiavo anche di quello, la paura m’impediva di rifiutare una committenza; non lo facevo per avidità, niente più di questo giudizio mi amareggiava perché sapevo quanto fosse ingiusto. E tuttavia non ero capace di sottrarmi alla paura: la mancanza di sicurezza che mi aveva tormentato fin da bambino. Chi conosceva la mia debolezza poteva costruire con essa quel fuoco lento e inesorabile che ti brucia pian piano ogni giorno e ti lascia scarnificato nelle mani del mondo. Io non sapevo dire di no al denaro e saper dire di no è il solo tirocinio utile di un artista.
P: La femmina senza volto era la mia ossessione di carne, la forma assoluta la mia ossessione d’anima. Si fossero parlate almeno una volta quelle due demonie! E invece litigavano come una coppia di amanti folli e gelosi.
B: A me non rimproverarono nulla di tutto questo che tu dici perché la musica scompare da ogni senso, è come il cibo consumato che si ripropone ogni giorno ma è sempre diverso, la musica non può essere decifrata; né è così utile decifrare la vita di un compositore così come lo è per le vostre. Anch’io conobbi corpi femminili, onorai la vita e anche il detto evangelico. Ebbi un numero svariato di figli, non ricordo neppure quanti: perché le opere si possono compiere in molti modi e io cercai di non trascurarne alcuno. Come tutti gli uomini celebri ebbi anche chi si dedicò alla mia biografia, ma non sono interessanti; le biografie dei musicisti, non possono esserlo. Esse scompaiono nella musica, diventano irrilevanti anche per chi si gingilla con le interpretazioni più fantasiose: non siamo esposti come siete voi.
P: Hai detto bene, noi siamo esposti, nudi, sempre nudi. Chi dipinge è sempre lì, non può ritirarsi, paga il suo narcisismo nel modo più totale, non abbiamo più un eremo in cui rifugiarci. Anch’io ho portato la mia fame di forme all’altare di questo demone divoratore. Lasciavo aperta la porta del mio studio, non avevo alcun ritegno nel mostrami nudo al mondo. Non volevo stupire, ma fare dell’immagine tutto. Anche il mio corpo doveva entrare, come fosse un quadro, nella percezione di tutti. E invece ora capisco che l’immagine non può che diventare pornografia, se continuamente riproposta. La cornice ha vinto sul quadro, il contenitore di cornici ha vinto sulla cornice, l’arbitrio della moda ha sconfitto i collezionisti. Volevamo uscire dai musei perché erano vetusti e ammuffiti e siamo finiti nella cloaca del mondo, come zimbelli che tutti si disputano; in realtà ci odiano.
B: Io cercavo la perfezione nel comporre, nel dare ordine, nel porre confini allo smisurato; ma trovavo la gioia quando mi visitava una melodia che era come un ponte gettato fra due eterni. Sì, la vita è ciò che sta in mezzo, la musica migliore che composi, ora lo so, è proprio quella che nasce nel mezzo come il cuore di una rosa. Noi non abbiamo il diritto dell’inizio e neppure quello della fine; possiamo soltanto espandere la parentesi, tentare di farla coincidere con l’ampiezza del respiro. Se la vita è pneuma noi ne siamo la melodia, tutto il resto è presunzione. Quando compresi che ero io stesso il limite insuperabile della mia musica era ormai troppo tardi; avevo disseminato il mondo di tanti piccoli infiniti che ognuno poteva replicare a proprio piacimento.
P: Non ho fatto altro che smontare ogni oggetto, come fa un bambino con i suoi giocattolo. Il nostro mondo era diventato troppo complesso, ci spaventava trovarci in quel caos, volevamo cose semplici come quelle maschere africane che mi hanno tormentato per tutta la vita, così essenziali, scarne, dalle forme elementari. La sovrabbondanza è diventata eccesso, tutto diventa eccesso, in me c’era la gioia di smontare e lo feci con tutto ciò che incontravo: con gli oggetti, con le donne che tormentai e spinsi al suicidio. Smontavo per togliere, ma toglievo così tanto che quel togliere diventava un moltiplicare. Dividendo aggiungevo, da ogni forma ne ricavavo altre, facendo leva su una piccola causa ne moltiplicavo gli effetti. Facevo tutto a pezzi e alla fine cosa rimase di me? Un teschio di scimmia, una bestiale icona di morte.
Alla fine della battuta viene proiettato su un telo bianco in forma di cartellone pubblicitario la gigantografia dell’ultimo autoritratto dipinto da Picasso, tre giorni prima della morte. Tutte le figure guardano il manifesto, poi le porte si aprono e scendono tutti.
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