FIGLIO DI SUO FIGLIO: UNA LETTURA DI PINOCCHIO

Premessa

Anni fa, fui a partecipare a Pisa a un convegno su Pinocchio. Le diverse relazioni furono pubblicate in un libro collettivo edito da Bruno Mondadori e curato da Rossana Dedola e Mario Casari, dal titolo Pinocchio in volo tra immagini e letteratura. Ripropongo nel blog la mia relazione, con qualche modifica e un titolo diverso, che nel tempo mi è parso più appropriato.

Introduzione

Nel preparare questo intervento sono partito da una domanda che mi ero fatto altre volte: perché questo libro affascina così tanto? Rileggendolo per l’ennesima volta mi sono dato più o meno la stessa risposta e cioè che la straordinarietà de Le avventure di Pinocchio sta nel fatto che si tratta di una vera e propria quest, un viaggio iniziatico che però non è classificabile come tale perché il sostrato sapienziale è avvolto in una storia che sembra troppo semplice per reggerlo. Eppure mai come ora questa valenza mi è parsa così evidente. Del resto tale interpretazione è stata ormai fatta propria da molti studiosi appartenenti a culture e sensibilità diverse. Allora mi sono posto un’altra domanda: cosa ci fa un libro simile, così semplice e sapiente, alle porte di un secolo che avrebbe fatto del disincanto, dell’intellettualismo, della complicazione, del virtuosismo, dell’originalità a tutti i costi, della secolarizzazione, il proprio leit motiv?

Se Jung ha qualche ragione nel dire che un grande artista o una grande opera d’arte sono tali perché mettono in evidenza ciò che più manca a un’epoca, forse Le avventure di Pinocchio ci parlano di qualcosa che era stato rimosso o stava per esserlo; è in questa prospettiva che ho di riletto il testo, dividendolo idealmente in tre parti.

Due vecchi e un pezzo di legno

Mastro Ciliegia e Geppetto litigano in modo infantile, sono rissosi e puerili e si comportano come bambini capricciosi. L’effetto è comico e inquietante perché evoca un mondo in cui le età dell’essere umano non sono al loro posto.

Dei due, Mastro Ciliegia si disinteressa subito al pezzo di legno, evitando ogni coinvolgimento; l’altro, che si trova fra le mani questo strano lascito, vuole costruire un figlio-burattino. Il falegname del mito cristiano non si accontenta più di essere padre putativo; vuole sostituirsi al padre celeste, ma si comporta in realtà come un apprendista stregone!

Il burattino, dal canto suo, rifiuta il processo di crescita e i riti di passaggio che la società secolare gli propone: andare a scuola, imparare a leggere e a scrivere. Ad essi contrappone l’onnipotenza infantile: farò tutto quello che voglio dice al grillo parlante; e quando parla fra sé e sé andando a scuola con l’abbecedario, penserà: Oggi imparo a leggere, domani a scrivere ecc. con una fretta che ignora la fatica di una qualsiasi conquista. D’altro canto, però, la legge che dovrebbe seguire s’incarna in esempi assai improbabili, a cominciare da Geppetto che è un padre a metà e non può guidarlo veramente nel mondo. È premuroso con Pinocchio, per esempio nel curargli i piedi bruciati, ma nei suoi slanci è improvvido, come quando vende la giacca per comperare l’abbecedario. Il grillo parlante, d’altro canto, è saccente e moralista, rappresenta una funzione educativa astratta; attualizzandone la figura potremmo dire che si tratta di un superio scisso da altre funzioni psichiche.

Pinocchio in realtà è solo e in balìa di se stesso e della propria natura.

Il segno distintivo del suo comportamento è la coazione a ripetere: egli oscilla fra l’adesione formale alla morale astratta del superio e gli agiti puramente istintivi che lo portano sempre laddove egli dice razionalmente di non volere andare. Ciò che manca sono il senso di realtà e la capacità di ascolto e apprendimento dall’esperienza; l’ultima sirena che suona è quella che lui segue. Crede al Gatto e alla Volpe oltre ogni limite di ragionevolezza ed è l’immagine speculare dell’ambivalenza di Geppetto, da cui paradossalmente impara quello che sarebbe meglio non imparare: quando vende l’abbecedario per andare al teatro dei burattini, si comporta come Geppetto che aveva venduto la giacca per comperare l’abbecedario.

Tuttavia, se questo è il quadro generale del suo comportamento, alcuni scarti dalla norma si manifestano da subito; la coazione a ripetere non è assoluta, forse non lo è veramente mai ed è proprio grazie ai piccoli spostamenti che avvengono i cambiamenti profondi.

Del primo scarto è inconsapevolmente responsabile Mangiafoco che, dopo avere risparmiato a Pinocchio il fuoco, gli rivolge una domanda di buon senso, vedendolo solo in balìa del mondo:

E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi?

La risposta di Pinocchio è duplice, ma è sulla seconda parte che sarà bene soffermarsi:

Il babbo sì; quanto alla mamma non l’ho mai conosciuta

Giorgio Manganelli si è soffermato su questo passaggio, il più importante della prima parte; in esso, afferma il critico, Pinocchio nomina per la prima volta uno dei temi di fondo della sua vicenda. Fino ad ora, infatti, il femminile non è mai apparso nel testo. Ponendo la domanda appropriata al momento giusto Mangiafoco ha svolto meglio di chiunque altro fino ad ora la funzione educativa che un adulto dovrebbe esercitare; ha fatto emergere alla coscienza del burattino il dato più vistoso di questa storia paradossale e cioè che Pinocchio è nato da due mezzi padri ma non ha una madre.

Il secondo importante scarto è la determinazione con cui Pinocchio difende Arlecchino da Mangiafoco che lo vuole bruciare al suo posto. È la prima volta che egli manifesta una volontà orientata al conseguimento di un obiettivo razionale e giusto; ma è anche la prima volta che il burattino si è comportato da essere umano. Pinocchio si è rafforzato: ha vinto la prova del fuoco e ne ha incorporato la forza.

Veniamo ora al momento in cui finisce la prima parte. Pinocchio è inseguito dal Gatto e dalla Volpe e non ha scampo, si è cacciato in un vicolo cieco. In realtà, però, la questione è un po’ più complessa perché i suoi agiti inconsci, si potrebbe anche dire il daimon che lo spinge senza che lui ne abbia ancora una chiara coscienza, lo hanno portato nel luogo della sua origine: Pinocchio è un burattino di legno e torna al bosco. Egli si trova dove il pezzo di legno ha la sua origine; ma per quella strada non c’è sviluppo possibile ma solo la regressione infinita. E proprio nel luogo del materno indistinto, ecco che il femminile si concretizza nella bambina che abita la casetta incantata. Pinocchio chiede aiuto ma lei non lo asseconda. È un passaggio che può apparire crudele. Invece è proprio il suo comportamento che provocherà il primo cambiamento consistente nella vicenda del burattino. Pinocchio deve ricominciare daccapo se vuole diventare umano; ma perché questo avvenga è necessario passare attraverso la sua fine e così da mezzo nato che era ora conosce una mezza morte: con  l’impiccagione finisce la storia del burattino e ne comincia un’altra che sembra proporre gli stessi temi della prima; ma è solo un’apparenza superficiale.

Prima di tutto la bambina è diventata una Fata dai capelli turchini. Se Pinocchio, passando attraverso la porta stretta della propria morte come burattino, si è aperto a un’altra vicenda, anche la bambina è uscita dalla sua prigione. Fuor di metafora, non solo il burattino è cambiato, ma anche il femminile, da assente che era, comincia ad essere protagonista di questa storia. Il secondo vistoso cambiamento riguarda Pinocchio stesso. Egli sembra ripercorrere il ciclo della coazione a ripetere, ma in modo sempre più accelerato e con vistosi scarti dalla pura e semplice ripetizione. Rifiuta la medicina amara, ma si rende subito conto che questa volta non può scherzare di fronte ai becchini che vengono a prenderlo. Si fa abbindolare ancora dal Gatto e dalla Volpe, ma per l’ultima volta perché quando li incontrerà di nuovo li saprà riconoscere per quello che sono. Va dal giudice a denunciare il furto degli zecchini d’oro e viene imprigionato. Pinocchio scopre che i giudici non mettono in galera i ladri ma i derubati; si scontra, cioè, con le leggi reali e non scritte del mondo. Tuttavia capisce presto l’antifona perché quando il re della città di Acchiappacitrulli concede un’amnistia lui subito si dichiara malandrino perché capisce che in un mondo rovesciato anche la verità è rovesciata e dunque menzogna e se si dichiarasse innocente non verrebbe liberato.

Vorrei aprire a questo punto una piccola parentesi. Quando si pensa a Pinocchio ciò che tutti ricordano, adulti e bambini, è che gli cresce il naso quando dice le bugie. Questo particolare, però, ne fa dimenticare un altro altrettanto importante e cioè che questo non avviene sempre; per esempio quando si dichiara colpevole, oppure quando inganna le faine e le fa catturare, il naso non gli si allunga affatto. Esso gli cresce quando si verificano due condizioni: in presenza dell’elemento femminile (la Fata turchina) e quando la menzogna gli impedisce di crescere e di evolversi. E l’espediente del naso, intuizione geniale quanto mai per i suoi sensi e sotto sensi molteplici e per l’effetto comico che suscita, sta però a significare anche una presa di coscienza: Pinocchio sa di mentire e se ne vergogna, prima non lo sapeva. Anzi, parole come verità o menzogna non avevano alcun senso riferite a chi vive in balìa dell’ultimo che parla.

Tuttavia il burattino non è ancora maturo per il gran salto e la fata turchina, madre a metà che rimane tale, non può essere una vera guida spirituale come non lo è Geppetto. Quando agisce sul piano razionale suscita in Pinocchio sentimenti di colpa, ma non è per quella via che può educarlo, tanto meno con le sue finte morti che si presentano come ricatti sentimentali destinati a cadere nel vuoto. È lei stessa a sapere questo, anche il suo comportamento è all’insegna della coazione a ripetere. Quando lo aiuta veramente lo fa in modo analogico, oppure perché suscita in lui un sentimento d’identificazione. È il colore azzurro la vera forza dell’elemento femminile in questa storia, il colore che sarà anche della capretta, il colore che apparirà ogni volta che Pinocchio affronterà le prove più dure; quasi fosse una guida, un angelo custode dalle sembianze femminili. Ancora una volta in balìa di adulti dimezzati Pinocchio conosce alla fine della seconda parte la regressione che sembra più disastrosa e definitiva.

Il paese dei balocchi, morte e rinascita

Questa parte del testo di Lorenzini, che non esito a definire profetica, è quella che maggiormente si proietta verso di noi. Sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine come l’omino di burro. Visto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai e qui le analogie con gli apparati propagandistici contemporanei è  molto forte. Tuttavia, quando Pinocchio finalmente esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo.

Dopo essere scampato alla morte per fuoco (Mangiafoco), aver conosciuto la morte per aria con la prima impiccagione, Pinocchio finisce impiccato una seconda volta in fondo al mare e conosce la morte per acqua; grazie alla seconda impiccagione egli ritorna burattino, ma vi ritorna però per l’ultima volta. Nel ventre del pescecane incontra Geppetto; ma specialmente entra finalmente in contatto con quella parte dell’elemento femminile che gli mancava. La pancia del pescecane-balena non è più la regressione al femminile indistinto, ma il luogo della nascita, sebbene anche il femminile si presenti qui altrettanto poco individuato quanto il maschile. Se la fata turchina è un’essenza puramente spirituale e astratta, il ventre del pescecane è un femminile ridotto a puro contenitore riproduttivo, ricambio organico fra vita e morte. È la scissione della cultura occidentale che Lorenzini mette in scena, non l’assenza del femminile nella vicenda; piuttosto una strana forma di sparagmos. Il maschile e il femminile sono presenti in eguale misura in questo testo, ma disseminati e scissi. Nato finalmente da un ventre vero, seppure mostruoso, Pinocchio deve superare l’ultima prova: la morte di Lucignolo, che rappresenta da un punto di vista intra psichico, la parte di sé asinina. Pinocchio tuttavia ne ha pietà e reintegra così quella piccola luce così come reintegrerà alla fine della storia anche il grillo parlante; perché anche quella piccola luce, se metabolizzata e non agita indiscriminatamente, può essere il lume di una creatività che non va del tutto spento.

Pinocchio dunque è finalmente nato, nato insieme a suo padre e questo mi riporta al titolo del mio intervento: Figlio di suo figlio. Due sono stati gli elementi decisivi per farmelo scegliere. Il primo è l’incipit di un romanzo famoso, di cui Carlo Lorenzini è stato grande ammiratore: mi riferisco al Tristram Shandy di Laurence Sterne. Rossana Dedòla, nel suo libro Pinocchio e Collodi ha ricostruito molto bene il rapporto fra l’opera e il suo autore, mettendo bene in evidenza l’importanza che questo romanzo ha avuto per Lorenzini; oltre – naturalmente – quella avuta dalle fiabe del ciclo perraultiano, di cui fu impareggiabile traduttore.

Il secondo elemento decisivo per farmi scegliere il titolo, è proprio questo parto paradossale di un padre e di un figlio insieme.

Partirò da Sterne. L’episodio cui mi riferisco è nella parte introduttiva, la dedica che l’autore indirizza al pubblico. Tristram racconta la sua nascita e come è venuto a sapere della stessa. È un brano così celebre che arrivo in fretta alla sintesi. Dice Tristram che nel momento decisivo, quello in cui lo spermatozoo fuoriesce e va verso la sua sede naturale la moglie di suo padre e dunque sua madre si rivolge al marito con la seguente domanda:

Caro, ti sei ricordato di caricare l’orologio?

Su questo episodio hanno scritto in molti, con osservazioni acutissime e intelligenti; ma se ho capito qualcosa di Lorenzini io penso che lui sia stato attratto da qualcosa di semplice che lo toccava di più nel profondo: perché è sempre andando alla radice ultima del proprio dolore o della propria gioia che si può scoprire la grazia di una parola che non riscatta solo chi la scrive ma tutti. E questo qualcosa ha a che fare con la scoperta che la nascita biologica è un evento bizzarro nel quale s’incrociano il caso e il miracoloso. Quando si scopre questo si è di fronte a due strade: o rimanere ancorati a tale constatazione elaborandola nel segno di un pessimismo nichilista di cui il secolo scorso ha abbondato; oppure declinare questa scoperta nel senso di un’apertura alla possibilità che nel corso della nostra vita noi possiamo conoscere e sperimentare il ciclo nascita-morte-trasformazione e dunque metamorfosi; senza necessariamente ipotizzare favolosi altrove, aldilà, altre vite, ma anche lasciando fluttuare la questione senza occuparsene troppo.

Essere al mondo coscientemente nel senso indicato in precedenza implica un processo di individuazione o iniziazione; cioè una seconda o più nascite. Ma il tempo di queste nascite non è più quello biologico e lineare: è un tempo psichico che arriva quando arriva. Il paradosso di un padre e di un figlio partoriti insieme è allora meno paradossale di quanto non sembri. Geppetto era tanto poco individuato quanto il suo burattino! L’istinto vitale, irriducibile di Pinocchio, che nel momento decisivo spinge se stesso e il padre fuori dal pescecane, azzera il tempo lineare e anche quello biologico.

Le avventure di Pinocchio si possono davvero riassumere in un ciclo di nascita, morte, rinascita e metamorfosi e questo mi porta al confronto con un testo fra i più noti della tradizione antica e classica: L’asino d’oro di Apuleio. Anche Lucio, il protagonista del romanzo, vuole essere iniziato senza passare attraverso la dura fatica che tale percorso comporta; perciò chiede a Fotide, sua amica e amante, di rubare l’unguento magico che lo trasformerà in uccello. Lucio vuole volare alto ma cerca scorciatoie, vuole gabbare gli dei e pensa che basti una formuletta new age dell’epoca sua per raggiungere l’illuminazione; ma si trova trasformato in asino come accade a Pinocchio. Anche per lui, tuttavia, tale condizione è al tempo stesso punizione per la sua stoltezza, ma premessa per la vera iniziazione ai culti di Iside. Ecco allora di nuovo che il Pinocchio di Lorenzini affonda le proprie radici in un vasto territorio che spazia dalla fiaba, al mito, alla tradizione popolare toscana; dove il culto di Iside non si è mai del tutto perduto.

Per concludere

Il finale del libro di Collodi è criticato praticamente da tutti i commentatori più illustri. Si avverte in ognuno di loro una sottile delusione. Non piace alla Von Franz e anche Manganelli lo manifesta in un modo curioso: il suo testo, bellissimo, ha nel finale una sorta di rapido declino, come se egli volesse scappare via. Quale è l’elemento di delusione? Beh alla fin fine questo burattino che diventa finalmente un bambino fa poi le cose più prosaiche: va a scuola, aiuta suo padre, lavora. Insomma, Pinocchio da ribelle senza causa diventerebbe un borghese ordinario, cultore dell’ordine. Magari visto che nel ‘22 ha poco più 40 anni avrà fatto anche la Marcia su Roma e se lo immaginiamo sessantottino oggi sarebbe nel consiglio d’amministrazione di una multinazionale.

Con tutto il rispetto e le cautele del caso io credo invece che il finale di Pinocchio sia del tutto riuscito e coerente sia da un punto di vista letterario, sia da un punto di vista psicologico; il problema è capire in che cosa consiste l’elemento eroico in questo testo; ma anche come esso si colloca in un contesto letterario che sarà dominato dalla figura dell’antieroe. Pinocchio non è né l’uno né l’altro. Non è un antieroe perché è capace di stupirsi, perché il suo solare vitalismo lo tiene lontano dal disincanto, dallo scetticismo, ancor più dal cinismo; ma non è neppure un eroe nel senso della fiaba classica o in quello antico del termine; né in quello delle moderne saghe. Non vi sono né principesse con cui vivere felici e continenti da conquistare, né mirabolanti vittorie militari da conseguire contro imperi del male, il grande nulla di Ende o altro, né ritorni del re come nel Signore degli anelli. C’è invece una declinazione originalissima dell’eroe moderno come colui che cerca se stesso, che sa che nascere biologicamente non basta e che per diventare compiutamente umani occorre un processo di individuazione doloroso e faticoso; un eroe che rovescia il famoso aforisma roussoniano – l’uomo nasce libero e finisce in catene – nel più realistico e saggio: l’essere umano nasce in catene o burattino – se si preferisce – e può diventare libero. Se tutto questo processo di individuazione ha poi anche un risvolto sociale e universale questo si dà come valore aggiunto; altrimenti anche le grandi utopie collettive sono destinate a fallire perché interpretate da burattini coatti piuttosto che da umani consapevoli e capaci di autogestirsi; e chissà che la storia tragica del 900, non ci dica proprio questo e quale sia la voragine o la mancanza che questo libro sapiente indica.        

     

IL CESELLO ARRUGGINITO. Terza parte

Favole moderne e lestofanti

Nel pieno degli anni ’90, si diffuse una vera e propria frenesia matematica, riguardante gli studi economici ma non solo. L’intento era quello di calcolare i guadagni a lungo termine che si potevano conseguire a partire da una semplice opzione o prodotto finanziario.9 Era tutto un fiorire d’equazioni, finché quel lavorìo fu finalmente coronato da successo e ottenne il massimo dei riconoscimenti con l’attribuzione del premio Nobel per l’economia agli esimi professori Robert Merton e Myron Scholes. I due avevano trovato l’equazione matrice, la madre di tutti i prodotti cosiddetti derivati, grazie alla quale promettevano la crescita indefinita di ricchezza, una cornucopia senza limiti. Fedeli alle loro convinzioni e corroborati dal prestigioso riconoscimento, i due – moderna versione in chiave ‘scientifica’ de il gatto e la volpe – decisero di dar vita al Fondo d’investimento Long term capital management (LTCM). Dopo un anno d’applicazione della famosa equazione, il Fondo totalizzò un buco di bilancio di 3,5 miliardi di dollari! Inutile domandarsi se ai due sia stato almeno tolto l’emolumento conseguito con il Nobel. Ciò non fu possibile perché fra i clientes di tale memorabile impresa finanziaria vi erano molte e importanti istituzioni europee e statunitensi, fra cui, secondo quanto denunciato da Loretta Napoleoni: “… l’Ufficio Italiano Cambi e la Banca d’Italia.” 10

Per evitare l’effetto domino, coprire lo scandalo e nascondere la figuraccia, la Federal Reserve statunitense fu costretta a salvare il fondo immettendo denaro fresco nelle sue esauste casse. Ciò che colpisce in tutto questo, come afferma la stessa Napoleoni nel suo bel libro, è la leggerezza di chi affida i proprio soldi a simili venditori di bufale. Lo stesso, peraltro, era già accaduto con un truffatore vero e proprio, il famigerato Madoff, condannato recentemente dalla giustizia statunitense a un numero esorbitante d’anni di carcere. In questo secondo caso, poi, tale mal riposta fiducia assume davvero toni grotteschi perché la truffa architettata dal finanziare è vecchia come il mondo: si tratta, infatti, del sistema cosiddetto Ponzi, una catena di Sant’Antonio grazie alla quale si promettono rendimenti favolosi a breve termine che vengono pagati con i soldi dei nuovi sottoscrittori e giocando sulla differenza di tempi di rimborso. Naturalmente, è sufficiente una competenza da ragioniere per calcolare in quanto tempo il sistema crolla su se stesso. Come si possa cadere in una trappola come questa è difficile davvero da comprendere! 

Forse la risposta sta nel denaro in sé, nei sentimenti ambivalenti che suscita, dal senso di colpa che colpisce coloro che lo maneggiano; forse in alcuni straricchi c’è persino un’inconscia pulsione a liberarsene. Fra i colpiti dalla truffa di Madoff e dal fallimento del fondo dei due esimi premi Nobel, infatti, ci sono molti attori di Hollywood; Steven Spielberg ha perso gran parte dei suo patrimonio e così molti altri. È la maledizione del denaro, quel mix di razionale e irrazionale che si porta appresso. Tuttavia qui non abbiamo a che fare solo con gli ingenui protagonisti delle favole e neppure con straricchi sbadati, ma con istituzioni che governano la vita di tutti. Si può concordare con Loretta Napoleoni quando afferma che i due premi Nobel “Merton e Scholes sono i re Mida degli anni ’90, ma che non sono delinquenti  come Madoff…” 11

Tuttavia c’è da domandarsi cosa ne è degli altri che hanno creduto così facilmente ai due pifferai magici, a cominciare dall’Accademia di Svezia. Nel caso della giuria del premio Nobel è davvero difficile esprimersi, mentre nel caso di prestigiose banche e istituzioni internazionali occorre una riflessione più approfondita.

Se si esclude di avere a che fare con dei cretini, allora la spiegazione va cercata ancora una volta nel meccanismo profondo che governa la finanza e nei comportamenti che induce. Se la logica, infatti, è quella dell’accumulo a breve termine e i manager vengono remunerati, non in base a un progetto che duri nel tempo, ma soltanto in ragione della velocità di accumulo degli utili, ogni programmazione a lungo termine viene meno. Ciò che conta è ottenere il massimo nel più breve tempo possibile, quello che avviene dopo non conta nulla. Se un manager riesce a convincere un numero sufficientemente grande di sottoscrittori e la sua raccolta di soldi in un anno è ingente, verrà remunerato per quello e non per le conseguenze a medio e lungo termine dei suoi investimenti. Questa logica da Prendi i soldi e scappa diviene nel tempo la sola che ispira tutti i comportamenti, generando quindi un sistema e una prassi volta al fallimento: ma nel breve tempo in cui il gioco funziona qualcuno che si è arricchito c’è stato eccome! A cominciare naturalmente dai manager in questione, mai tanto remunerati negli scorsi anni e mai così falliti! Questa spiega anche il continuo passaggio di amministratori delegati e altre figure simili da un settore all’altro e da un’azienda all’altra. Proprio perché sanno che a medio e lungo termine i loro castelli di carta crollano, l’importante è saltare da una banca all’altra, da una finanziaria all’altra, costantemente in bilico su zattere improvvisate dentro un fiume in piena. L’importante è stare in piedi in qualche modo finché dura.       

E veniamo infine a Pound e al suo Canto XLV, detto anche dell’Usura. Trattandosi di un testo poetico non lunghissimo, ma di grande portata e valore letterario, preferisco citarlo integralmente in lingua e nella mia traduzione.

With usura hath no man a house of good stone

Each block cut smooth and well fitting

that design might cover their face,

with usura

hath no man a painted paradise on his church wall harpes et luthes

or where virgin receiveth message

and halo projects from incision,

with usura

seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines no picture is made to endure nor to live with but it is made to sell and sell quickly

with usura sin against nature,

is thy bread ever more of stale rags

is thy bread dry as paper,

with no mountain wheat, no strong flour

with usura the line grows thick

with usura is no clear demarcation

and no man can find site for his dwelling.

Stone cutter is kept from his stone

weaver is kept from his loom

WITH USURA

wool comes not to market

sheep bringeth no gain with usura

Usura is a murrain, usura

blunteth the needle in the maid’s hand

and stoppeth the spinner’s cunning.

Pietro Lombardo

came not by usura

Duccio came not by usura

nor Pier della Francesca; Zuan Bellin not by usura nor was “La Calunnia” painted.

Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis, Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit.

Not by usura St Trophime

Not by usura Saint Hilaire,

Usura rusteth the chisel

It rusteth the craft and the craftsman

It gnaweth the thread in the loom

None learneth to weave gold in her pattern; Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroiled Emerald findeth no Memling

Usura slayeth the child in the womb

It stayeth the young man’s courting

It hath brought palsey to bed, lyeth

between the young bride and her bridegroom

CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis

Corpses are set to banquet

at behest of usura. 12

Ciò che colpisce nel testo poundiano sono l’approccio realistico e la competenza che dimostra anche sul piano strettamente economico.13

Il secondo aspetto che balza all’occhio è l’arditezza dei correlativi oggettivi, il ruolo che la figura retorica della similitudine vi svolge, la quasi completa rinuncia alla metafora, il dispiegarsi di un procedimento che ci porta all’allegoria attraverso un percorso differente rispetto a quello cui siamo normalmente abituati.

Pound riesce a distillare, in questo testo, il meglio che la poesia anglo-americana ha saputo fare suo in modo originale, a partire da una delle tante lezioni di Baudelaire: portare ciò che sembra impoetico nel cuore della poesia e del suo linguaggio, rinnovandoli entrambi profondamente. È un procedimento che viene ancora più da lontano, dai Metafisici del ‘600, da John Donne in particolare, seppure senza il suo wit. Allora erano le scoperte geografiche a entrare nel linguaggio poetico, insieme alla riscoperta dell’autonomia dell’eros e del corpo femminile.

Nel caso di Pound è addirittura l’economia a divenire oggetto di poesia: quanto di più prosaico e lontano da essa, secondo i canoni correnti!

Incatenando fra loro una serie di similitudini memorabili, Pound rompe anche questo tabù, entra nel vivo di un territorio fino a quel momento estraneo al dettato poetico, lo muta per il solo fatto d’entrarvi. Proviamo allora a ripercorrere questo testo.

L’inizio perentorio stabilisce subito una similitudine che diventerà ricorrente in tutto il canto, concretizzandosi di volta in volta in esempi diversi: in essa l’usura si contrappone alla pietra e alla casa, la dimora dell’essere umano, l’ubi consistam di cui tutti hanno bisogno e senza il quale non esiste vita sociale, né individuale. Pound non usa il termine finanza e preferisce quello medioevale d’usura (peraltro tornato assai di moda). Un altro modo di sottolineare tale ritorno allo scenario medioevale è l’uso che egli fa dell’arcaismo linguistico: termini come hath, thou, seeth e altri, non appartengono più all’inglese moderno, ma si riferiscono a un mondo linguistico e culturale in cui l’usura, cioè la finanziarizzazione selvaggia dell’economia non era ancora penetrata o stava per penetrare. Tuttavia non è difficile rapportare tutti gli esempi che fa al mondo contemporaneo: la volatilità e l’evanescenza del denaro e la pietra, la casa solida e il dominio astratto e malefico della quantità numerica. La finanza si contrappone alla vita reale, alla solidità della costruzione, è accumulo di ricchezza nominale e di miseria morale e materiale. Egli scrive come parlerebbe un oracolo, il tono è solenne, il verso lungo ha un incedere maestoso, l’iterazione della parola usura e l’improvviso irrompere di versi brevi e martellanti quasi a tempo di improvvisazione jazzistica e addirittura di rap, sfocia nell’invettiva, addirittura nella maledizione. Eppure quanta concretezza, realismo e competenza! Quando Pound scrive che con l’usura la lana non giunge al mercato, lo sciocco potrà imputargli un peccato d’ingenuità, l’economista potrà fargli notare che la lana non arriva più al mercato grezza ma già lavorata e che il poeta parla di un mondo che non esiste più ecc. ecc. Quanto di più falso!, e lo vediamo proprio nella realtà odierna, così come nel ’29. Le merci giacciono inerti nei mercati, la crescita esponenziale della ricchezza finanziaria si dissolve, i valori nominali crollano dopo che si erano gonfiati in modo abnorme: si giunge così al paradosso di avere contemporaneamente un eccesso di denaro inutile e un eccesso di merci invendute.

Però i versi di Pound non sono un trattato d’economia, sono concreti come un’analisi scientifica ma suonano sinistri. Un alone di sventura aleggia intorno al testo, anche per l’uso sapientemente voluto della parola italiana, che ha un suono lugubre e sinistro, accentuato dalla ripetizione. Perché? Che cosa evoca Pound? Tocchiamo qui la capacità peculiare della poesia di nominare qualcosa di semplicissimo e risaputo, ma di farlo in modo nuovo e scegliendo situazioni emblematiche. Se isolassimo il semplice contenuto di pensiero sotteso a tali versi ci accorgeremmo che il loro nucleo può risultare persino banale se fosse detto in senso puramente letterale. Esso suona infatti così: tutto ciò che di solido e di bello l’umanità ha prodotto non dipende dal denaro, ma dal lavoro, dal poiein, dal fare. È il faber contrapposto alla potenza astratta e impersonale del dominio quantitativo, il cui unico scopo è l’accumulo: è la hybris moderna, attitudine faustiana e demoniaca che non ha neppure bisogno del patto con il diavolo, dal momento che esso è intrinseco al meccanismo economico capitalistico dominante. Se vi è l’uno non vi è l’altro, solo che la poesia non nomina astrattamente tale incompatibilità, ma l’incarna concretamente in un’elencazione emblematica. ‘Se hai l’usura non avrai più Piero della Francesca, se vuoi l’usura non avrai più la casa’ e se pensiamo allo scandalo dei cosiddetti sub prime, cioè dei mutui che hanno mangiato proprio le case ai poveretti che li avevano sottoscritti, ancora una volta siamo sorpresi dalla concretezza. Tuttavia anche gli esempi non sono scelti a caso. Pound nomina Piero della Francesca, non Michelangelo, perché il periodo rinascimentale è già inquinato dall’usura e dal nascente capitalismo. Il pensiero di Pound è poeticamente rigorosissimo, non fa sconti a nessuno! Non lasciamoci travisare dal suo personale credo ideologico, ma guardiamo al dettato poetico. L’esemplarità dei correlativi oggettivi crea intorno all’usura un senso di tragedia incombente, ma mette noi lettori di fronte a qualcosa che, nei suoi sviluppi successivi, conosciamo fin troppo bene. Con l’usura finisce il ‘saper fare’, (la sequenza in cui l’ago si ottunde nelle mani della ragazza, il telaio arrugginisce ecc.) che a lungo andare provoca dissesti e tragedie! Colpisce, per la sua forza sinistra, anche l’immagine dell’usura che giace nel letto fra lo sposo e la sposa o che impedisce al giovane il corteggiamento. Parole d’altri tempi? No, dei nostri! Come possono i giovani uscire di casa e farsi una vita propria e avere dei figli se non hanno un lavoro e un reddito? Come è possibile consumare e ridare fiato all’economia (come viene richiesto quotidianamente dalla propaganda mediatica, ma anche ripetuto da illustri ministri dell’economia) quando il lavoro è sempre più precario? È la quadratura del cerchio! Se una persona qualunque, in altri contesti, facesse affermazioni così palesemente contraddittorie, finiremmo per dubitare delle sue facoltà mentali o penseremmo di trovarci di fronte a quel tipico loop o corto circuito che la teoria psicanalitica indica con il termine di ingiunzione paradossale: ma a parlare in questo modo sono i gestori dell’economia mondiale, molti dei quali hanno creduto a suo tempo alla formula magica dell’Eldorado!

Per tornare a Pound, ancora una volta sorprende l’attualità di questi versi che ci arrivano tuttavia, carichi di una sventura che rimanda ai flagelli biblici e alle catastrofi naturali.

Pound tuttavia insiste molto anche sull’opera artistica, la sua elencazione precisa ci offre un panorama di assenze crescenti d’opere d’arte, il rinsecchirsi di una capacità autoriale con cui ci troviamo a fare i conti oggi. Non c’è forse un nesso fra l’avvento della società narcisista e dello spettacolo e la crescita esponenziale e globale (peraltro inevitabile in un sistema capitalistico), dell’economia finanziaria (Pound direbbe usuraia)? La pletora di libri perlopiù invenduti e comunque non letti, il consumismo culturale acefalo, l’invadenza televisiva, non sono forse la sovrastruttura dell’economia di carta e nominale? Oppure il contrario. Sono gli apparati della comunicazione di massa e della spettacolarizzazione di tutto che, veicolando una filosofia ottimistica e criminale, favoriscono l’abbandonarsi senza alcuna capacità critica ai meccanismi acefali della finanza?

Una favola moderna come Le avventure di Pinocchio può essere molto utile per comprendere alcuni tratti della realtà attuale. 

Il libro è talmente noto che mi soffermerò soltanto sul ruolo che vi svolgono in essa il paese dei balocchi e l’omino di burro, che rappresentano molto bene a mio avviso, la profondità dei fenomeni contemporanei di alienazione.

Nella favola di Collodi il paese dei balocchi riassume sinteticamente tutte le cadute precedenti di Pinocchio, anche se proprio da quell’ultima avventura disastrosa inizia la sua emancipazione dalle pulsioni negative che lo hanno governato fino a quel momento e che trasformeranno finalmente il burattino in un ragazzo. Il paese dei balocchi assomiglia superficialmente a un parco dei divertimenti; solo che non si tratta di una parentesi bensì della vita intera. Il suo gestore occulto, l’omino di burro, non appare quasi mai in scena ma si manifesta attraverso l’organizzazione di questa strana società e tramite gli effetti che tale organizzazione sociale produce sui suoi abitanti. Ciò che l’omino di burro promette è la felicità permanente, il divertimento e lo spettacolo senza soluzione di continuità, la spensieratezza indefinita: il paese dei balocchi è in buona sostanza un paradiso artificiale, creato appositamente per una popolazione di pueri eterni. Infatti i suoi abitanti sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale e acefala; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine. Letto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai. Le analogie con gli apparati propagandistici e con l’invasiva presenza totalizzante della televisione mi sembrano quanto mai appropriati; è sufficiente seguire per un giorno intero la miriade di giochi televisivi dove, con la semplice risposta a domande idiote, oppure grazie al semplice caso, si possono vincere somme di denaro spropositate. Il vecchio Lascia o raddoppia fa persino tenerezza se confrontato a questi programmi!

Quando Pinocchio esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come animale: è un asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo. Credo che qualcosa di simile alla condizione asininina attende la società occidentale, una volta raggiunto il fondo di questo tunnell!

Favola, pseudo scienza, pressione mediatica segnano oggi il ritorno della più completa irrazionalità nel governo dell’economia. Non sono gli scrittori a dirlo ma i responsabili delle banche. Intervistato recentemente, il direttore generale dell’Ubs (Unione banche svizzere), ha dovuto riconoscere che il colosso elvetico non è in grado di dire quanti titoli cosiddetti tossici sono finiti nel suo portafoglio clienti perché per seguire il percorso di un titolo e seguirne tutti i passaggi di mano e le transazioni occorrerebbe un lavoro di mesi. Infine, l’episodio tragicomico dei due esimi premi Nobel, sfata una volta per tutte  la sciocchezza che i capitalisti sono i più indicati a gestire il capitalismo e che anche per questo le forze alternative non sarebbero in grado di accedere al governo. Se istituzioni come quelle citate in precedenza hanno potuto credere così facilmente a una formula magica viene semplicemente da ridere!

Le favole, quelle vere naturalmente!, possono invece suggerirci qualcosa di più e di meglio. Esse contengono sempre una morale molto chiara: il delirio di onnipotenza dei loro protagonisti viene sempre punito severamente da una legge superiore. Tale punizione, modernamente intesa, non può che incarnarsi in una regola sociale che nasca al di fuori della sfera economica e che le imponga, anche con la forza, un limite che non può che essere deciso da una comunità di soggetti organizzati intorno a un progetto di società.

Vorrei concludere questo saggio con un’ultima fiaba, raccolta dai Fratelli Grimm: Il pifferaio magico. Essa non ha a che fare direttamente con il denaro e la ricchezza, bensì con la rottura del patto sociale, che è tuttavia una delle conseguenze primarie delle crisi strutturali del sistema capitalistico. 

La storia è nota, ma serve ripercorrerne alcuni passaggi essenziali per comprendere bene perché ci riguarda, ma anche per ricordare che si tratta di una fiaba le cui fonti orali risalgono al 1300 e dunque a tempi a noi abbastanza prossimi.

La città di Hamelin è infestata dai topi. Naturalmente l’animale è  simbolicamente  assai ambivalente e perturbante: perché i topi ci assomigliano molto, più di quanto non siamo disposti a credere. Non dimentichiamo, poi, che il topo fu portatore della pestilenza, una sventura di proporzioni bibliche che funestò l’Europa durante tutto il ‘300.

Il borgomastro di Hamelin non è in grado di risolvere il problema, ci vuole la cooperazione d’altre competenze e pensa di trovarle nel pifferaio magico. Questi concorda il compenso e con la musica suadente del suo piffero attrae a sé i topi e li trascina nel fiume Wesen, dove annegano. La città è libera ma, proprio quando sembra tutti finito per il meglio, accade qualcosa che a prima vista sembra del tutto irrazionale: la comunità di Hamelin e il suo borgomastro si rifiutano di riconoscere al pifferaio il compenso pattuito e questi allora trascina tutti i bambini della comunità dietro il suo piffero fino al fiume, o, secondo altre versioni, dentro una grotta dove li imprigiona.

Ci sono diverse versioni sulla conclusione della fiaba. Fra quelle meno tragiche ne scelgo una per i suoi richiami biblici. Secondo tale versione solo un bambino riesce a sfuggire alla sorte che lo attende perché è zoppo e non riesce a tenere il ritmo impresso dal pifferaio alla musica: rimanendo indietro egli vede dove vanno a finire gli altri bambini e riesce a fuggire. L’imperfezione fisica del bambino ricorda l’episodio del sogno di Giacobbe e della lotta con l’angelo. Al mattino Giacobbe si sveglia diverso da come s’era addormentato e si ritrova zoppo come il bambino della fiaba, cioè consapevole. Quanto al bambino, egli non segue le seduzioni della musica, a differenza degli altri che non si pongono alcun interrogativo, pur sapendo benissimo la fine che hanno fatto i topi. Ciò che colpisce, però, sono l’assenza e l’irresponsabilità degli adulti della città, che sembrano prima illogici nel negare il compenso al pifferaio e poi impotenti di fronte alla sua magia. Forse però si tratta di ripensare in altro modo tutta la favola.

Quando la comunità ricorre al pìfferaio lo fa perché è in preda al panico, i topi sono ovunque, e sono il sintomo di un maleficio che si è già diffuso e che la comunità non ha saputo prevenire. E i topi non sono forse, con la loro organizzazione sociale pericolosamente vicina a quella umana, i più adatti a prestarsi come causa piuttosto che come effetto? La comunità di Hamelin si affida così al pifferaio magico, che bene incarna la figura del demagogo politico che si sostituisce ai poteri costituiti e ‘libera’ la città; ma a un prezzo altissimo. La natura del compenso, infatti, non viene esplicitamente indicata.

Se si unificano tutte le versioni della fiaba e le si riportano al comune denominatore, la morale è sempre la stessa: una comunità incapace di governarsi mette il proprio destino nelle mani di una forza ambivalente e distruttiva e che esige un tributo impossibile da pagare perché si tratta semplicemente della distruzione della comunità stessa: sia che si tratti dei topi (o degli ebrei – che i nazisti consideravano cimici e cioè piccoli topi, come ci ricorda Canetti nel caso della Germania nazista), sia che si tratti dei propri figli. Il demagogo non libera dai topi perché non erano loro il problema a Hamelin come da nessuna altra parte e se si dissolve il legame sociale prima si comincia con lo sterminare i ‘topi’ (nell’Italia delle leggi razziali contemporanee non sono più gli ebrei ma gli islamici, gli zingari, gli albanesi; i rumeni a seconda delle opportunità del momento).

Qual è il nesso fra la dissoluzione del legame sociale, allegoricamente rappresentato nella fiaba del Pifferaio magico, e il denaro? O se si preferisce l’economia? Ci soccorre ancora Canetti. L’invasione dei topi (o delle bibliche cavallette) è una sorta d’inflazione, speculare a quella della moneta e incarna benissimo quell’immagine così pregnante dello scrittore viennese, quando egli afferma che quanto più i milioni salgono nel valore nominale, tanto più gli esseri umani che li possiedono sentono di non valere nulla. I topi rappresentano benissimo quest’immagine di un’umanità numericamente enorme  ma che ‘non vale nulla’: perciò fanno così tanta paura e per questo hanno buon gioco i demagoghi a fare leva su questa paura.

L’inflazione catastrofica o le crisi strutturali ricorrenti del modo di produzione capitalistico, tuttavia, non sono maledizioni bibliche, ma conseguenze assolutamente certe del suo modo di funzionare. La rottura del vincolo sociale si ripete nel tempo costantemente, generando ogni volta le condizioni che favoriscono il ricorso al pifferaio magico di turno. Torniamo allora a quest’ultimo per vederne più da vicino la natura.

La prima  caratteristica che colpisce è la sua apparente innocuità. Anzi, la sua immagine si presenta come qualcosa di positivo in sé: rappresenta la musica, la più pura delle arti insieme alla poesia di cui è coeva alle origini. Il pifferaio è un artista? In apparenza sì, ma solo nella declinazione di un’arte che è puro spettacolo e pura seduzione: la sua musica produce un consenso acritico, tanto che topi e umani possono seguirlo indifferentemente. La sua musica è un altro paradiso artificiale che aliena dalla realtà e se la comunità si affida a lui per governare, essa non ha futuro e infatti la sua musica non porta alla morte gli adulti bensì i bambini, cioè il futuro della comunità. 

Il pifferaio, dunque, è anche il simbolo di una funzione degradata dell’arte: invece di rappresentare criticamente ciò che più manca alla comunità di Hamelin, (per dirla con Jung) e darle la consapevolezza necessaria, egli si serve delle paure dei cittadini di Hamelin per speculare su di esse, esigendo un tributo che alla fine segna la morte della comunità stessa. Ricordiamoci allora dei versi straordinari e immortali di Pound: ‘ se c’è l’usura non ci può essere Piero della Francesca’ Il suo era anche un modo di segnalare il pericolo di una prostituzione delle arti e dell’artista e il loro asservimento all’ideologia del puro intrattenimento o dello spettacolo, come avrebbe denunciato decenni dopo Guy Debord: le arti come una sorta di ‘pifferaio di massa’ e di aulete dell’ideologia massmediatica dominante.

L’artista e anche l’intellettuale degni di questo nome potrebbero, nella realtà odierna, avere come modello di riferimento, invece, il bambino zoppo della fiaba, che nella versione meno tragica riesce poi a salvare in qualche modo anche gli altri e a ridare un futuro alla comunità di Hamelin: oppure il modello altrettanto classico della favola del re nudo, nella quale il protagonista è ancora una volta un bambino. Entrambi i protagonisti di quelle due fiabe compiono un gesto, infondo, molto semplice: resistono al canto delle sirene, all’omologazione di massa, a quel pensiero unico che ha fagocitato e colonizzato gran parte dell’immaginario e trasformato anche il tempo libero in tempo coatto. 

BIBLIOGRAFIA.

  1. Elias Canetti: Massa e potere, traduzione di Furio Jesi, Adelphi, Milano 2002.
  2. Sigmund Freud: Psicologia delle masse e analisi dell’io. In Opere di Sigmund Freud, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80
  3. Sigmund Freud: Il poeta e la fantasia. In Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80.
  4. Fratelli Grimm: Fiabe, Collana I Millenni, Einaudi, Torino 1978.
  5. Carl Gustave Jung: Saggi sulla poesia e sull’arte, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
  6. Carl Gustav Jung: La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica. In: Carl Gustav Jung: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, prefazione di Giovanni Jervis, traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea, Einaudi Torino, 1959.
  7. Karl Marx: Il capitale, a cura di Eugenio Sbardella, Avanzini e Torraca editori, Roma 1966.
  8. Karl Marx: Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1976.
  9. Arthur Miller: L’orologio americano. (solo su Internet, non disponibile nella traduzione italiana).
  10. Loretta Napoleoni: La morsa, Chiare Lettere, Roma 2008.
  11. Ezra Pound:  Cantos, Canto  XLV, Garzanti Milano, 1964.
  12. Ezra Pound: L’abc dell’economia , introduzione di Giorgio Lunghini, prefazione di  Mary Pound de Rachewiltz. Universale Bollati Boringhieri, Torino 1994.
  13. W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978.
  14. Emil Zola: L’argent, (il denaro), traduzione di  Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, Newton Compton, Milano.

9 La furia matematica del decennio andava ben oltre i limiti dell’economia: qualcuno, sull’onda dell’entusiasmo per le teorie di René Thom (l’autore della Teoria delle catastrofi), parlava della possibilità di trovare l’equazione di Dio.

10 Loretta Napoleoni, La morsa, Chiare lettere, Roma 2008

11 Op. cit. Ivi.

12 Ezra Pound, Cantos, XLV,1964. /Con l’usura non si ha per l’uomo casa di pietra buona/dove ogni isolato sia squadrato finemente e adatto/e il design possa dare ricovero al volto,/Con l’usura/non c’è un paradiso dipinto sui portali della chiesa/né arpe o liuti/o luogo dove la vergine riceva il messaggio/e si proietti l’aureola dall’incisione/Con l’usura/non c’é nessun Gonzaga, suoi eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e per convivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/Con l’usura peccato contro natura,/il tuo pane ancora di più diventa avanzo rancido/secco come carta/niente grano di montagna niente buona farina/con l’usura il limite intorbidisce/con l’usura non vi è confine certo /e nessuno trova dove costruire la propria dimora/il tagliatore di pietre è alienato dalla sua pietra/il tessitore lo è dal suo telaio/Con l’usura la lana non giunge al mercato/le pecore non recano guadagno/L’usura è pestilenza./con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta la delicata macchina filatrice/Pietro Lombardo/non venne dall’usura/Duccio non venne dall’usura/e così Piero Della Francesca; Zuan Bellin non dall’usura/né fu dipinta La calunnia./Beato Angelico non venne dall’usura, Né Ambrogio Praedis,/nessuna chiesa di pietra siglata: Adamo me fecit/Non dall’usura St Trophine/non dall’usura Saint Hilaire/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo nel telaio/Nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello/l’azzurro ha un cancro con l’usura/il cremisi non si accende/lo smeraldo non trovò Memling/L’usura assassina il bimbo nel grembo/trattiene il giovane dal corteggiamento/ha portato la paralisi nel letto/si sdraia fra il giovane sposo e la sua sposa// CONTRA NATURAM/hanno portato le puttane per Eleusi/cadaveri preparati per il banchetto/agli ordini dell’usura…… (traduzione mia).

13 Negli anni ’30 Pound scrisse in effetti una raccolta di saggi di carattere economico che sono oggi rieditati in Italia da Bollati Boringhieri, sotto il titolo L’A B C dell’economia con una nota critica di Giorgio Lunghini.