DIARIO BERLINESE: TERZA PARTE
Sul Nazismo e altro
Premessa
In questa parte metto una sola data perché ho radunato in essa riflessioni che appartengono a momenti diversi. Tuttavia c’è un momento centrale che ha favorito l’intera riflessione: il 2010, quando fu allestita la mostra Hitler e i tedeschi, nel Museo di storia tedesca di Berlino, a 65 anni dalla caduta del regime nazista.
Marzo 2010.
L’occasione è stata davvero unica per riflettere. Prima di tutto il titolo, che va preso alla lettera: è una mostra per i tedeschi e proprio per questo è molto interessante. L’edificio che l’ospitava si trova nell’isola dei Musei, un complesso monumentale della città che oggi mi appare meno vecchio e vetusto di quando vi misi piede la prima volta, diversi anni fa. Al piano superiore si trova la mostra delle opere di Begas, l’architetto scultore autore dei progetti urbanistici più importanti risalenti al periodo bismarkiano. Molti dei palazzi più antichi di Berlino (città che – è bene ricordarlo – antica non è), sono suoi, insieme ad alcune sculture e busti che ritraggono il cancelliere di ferro. Distribuito fra piano terra e un altro inferiore, si trova il Museo di storia tedesca dalle origini a oggi e, in quel contesto, la mostra Hitler e i tedeschi, un titolo semplice. Anche le didascalie in inglese, solitamente abbondanti e anche l’apparato di depliant e pubblicazioni connesse, sono questa volta in larga misura, nella sola lingua tedesca. Insomma, una mostra per ragionare come popolo tedesco intorno a una domanda che si ripropone a distanza di decenni: perché è stato possibile un Hitler? Da quando, nel 1968, la Germania ha iniziato a emanciparsi dalla rimozione che aveva accompagnato gli anni immediatamente successivi la catastrofe bellica, la riflessione sul Terzo Reich è stata profonda e incessante. Nella mostra non vi è nessuna sopravvalutazione delle pur presenti forme di resistenza provenienti dall’establishment: nessuna enfasi sulla Rosa Bianca o sul Piano Valchiria, il tentativo di colpo di stato e di attentato a Hitler del 1944, gesto tardivo e peraltro fallito. Nessuno sconto insomma, ma una nuda elencazione di fatti dopo alcune premesse, con un ampio corredo di giornali, altre pubblicazioni, manifesti, pamphlet di propaganda politica, tutta l’iconografia, i simboli, la coreografia che accompagnava le manifestazioni del regime. E ovviamente le immagini, non molte però, non usuali e senza la voce di Hitler, tranne che nella parte finale dove alcuni suoi discorsi venivano diffusi da altoparlanti a un livello di audio abbastanza basso.
L’effetto su un non tedesco, almeno per quanto mi riguarda, è stato molto forte. Mi sono reso conto (è banale dirlo, ma non ci si pensa), che in fondo tutto quell’armamentario l’avevo visto da lontano, in filmati d’epoca cattivi, sempre in bianco e nero, dove apparivano sempre le stesse immagini. Trovarsi a contatto diretto, poter toccare le bandiere, i labari, vedere dal vivo la croce uncinata nera in campo rosso, la stoffa delle divise, i loro colori, non è la stessa cosa che vederli da lontano. Certo, in questa mostra mancava la rappresentazione del gigantismo oceanico delle mobilitazioni di massa, a parte la fotografia della striscia di luce creata dalle fiaccole accese durante la sfilata sulla Unter den Linden, subito dopo la nomina di Hitler alla cancelleria. La vista da vicino dei simboli più noti del regime nazista mi ha fatto percepire diversamente molti aspetti, soffermare su particolari che sfuggono se osservati a distanza e la prima riflessione che mi è balzata subito alla mente è che in tutta quella coreografia e anche nell’uso dei colori era presente un elemento kitsch che appartiene alla cultura tedesca (il termine è nato qui); tanto da essere presente anche oggi, quando assume aspetti favolistici e innocui, pateticamente ironici e auto ironici: certe trasmissioni televisive del sabato sera sono assolutamente imperdibili sotto tale aspetto. Tale elemento kitsch, nelle raffigurazioni pittoriche, in certi busti del Führer scolpiti da artisti mediocri, in certe sue immagini ravvicinate, diviene maschera grottesca, che raggiunge talvolta effetti di involontaria comicità. Chaplin ha colto davvero in modo profondo e non caricaturale questo effetto di maschera. I baffetti che sembrano sempre posticci, oppure come se gli colasse costantemente il sangue dal naso, la scriminatura dei capelli talmente precisa ed evidenziata (come se la mamma gli scolpisse ogni giorno la riga dei capelli prima di lasciarlo uscire di casa), sono irresistibilmente comiche; oppure l’occhio che guarda sospettoso nella macchina da presa, con uno sguardo che sembra l’imitazione mal riuscita di Buster Keaton. Mentre negli altri gerarchi prevale sempre un aspetto greve e tragico (terribile ascoltare la voce di Goebbels, il suo tono isterico e forzato fino al parossismo, più che non quella di Hitler stesso, capace di usare anche i toni pacati), la comicità involontaria è quasi sempre presente nel Führer. Il comico ha un rapporto assai contiguo con il tragico e basta poco per scivolare da una parte o dall’altra della lama del fine rasoio che le separa. Per i greci non era ovviamente così e neppure per gli antichi dei del pantheon germanici, cui Hitler ha preteso d’ispirarsi. Il nazismo fu anche rappresentazione teatrale che dalla scena ha preteso di andare prima per le strade e poi nella vita di ogni giorno. Se l’idea di trasporre le antiche mitologie nel mondo moderno significa darne una rappresentazione grottesca e caricaturale, l’idea di trasformarle in pratiche politiche produce mostri; ma sono mostri che hanno una loro estetica ipnotica, come aveva ben compreso Walter Benjamin quando denunciava il processo di estetizzazione della politica.
Dalla mostra alla musica di Wagner il passo è breve. Scelto dai nazisti come loro vate musicale, ancora oggi sono in tanti a considerarlo un predestinato al nazismo, anzi una sorta di nazista ante litteram. Il povero Wagner morì nel 1901, sarebbe bene ricordarlo ogni tanto! Naturalmente l’equazione che i nazisti pensarono è semplice da stabilire, tanto semplice e semplicistica che c’è da domandarsi per quale motivo abbia avuto tanta fortuna anche presso molti che nazisti non erano e non sono. A parte la questione che Wagner fosse un antisemita convinto (ma erano in molti a esserlo in Europa e non solo in Germania), è il culto della potenza ciò che i nazisti sentirono o pensarono di sentire nella sua musica e naturalmente il riferimento tematico costante alla mitologia germanica e alla sua grandiosità guerriera, il secondo addendo di un’addizione la cui somma creò il mito wagneriano che conosciamo. Wagner però, era un maestro ineguagliabile del sublime, talvolta patetico, mentre l’esagerazione dei toni lo fa talvolta deragliare. I suoi eccessi e forzature s’avvertono subito a un ascolto non superficiale e c’è molta più potenza, nel senso che i nazisti attribuivano a Wagner, nel frammento musicale di Richard Strauss Così parlò Zarathustra, quando viene eseguito con tutti i crismi da orchestre classiche, oppure nell’assolutismo musicale dei Carmina Burana di Orff, che non in certe fanfarate wagneriane, dove l’eccesso finisce per travolgere tutto, anche la potenza, diventandone caricatura involontaria.
Una notazione particolare, per ritornare alla mostra, meritano i tre acquarelli di Hitler esposti. Piccoli quadri minuscoli, sempre rappresentazioni di scene rurali semplicissime, quasi delle miniature. Hitler amava una ruralità dove è però assente l’essere umano: ci sono le case, i fienili, ma più di tutto colpisce una lindezza maniacale, un ordine perfetto, impossibile da ottenersi in campagna se solo uno vi ha messo piede qualche volta. È anonima la campagna nei suoi quadretti, mentre siamo abituati ad associare l’anonimia alla città moderna e tentacolare che Hitler voleva teatro di progetti faraonici, di una grandiosità smisurata. Anche Walter Speer (l’architetto del regime, le cui realizzazioni sono state così acutamente analizzate da Elias Canetti), che cercò di concretizzare i deliri architettonici del suo capo, scambia la potenza con l’accumulo: niente a che vedere con le piramidi egizie o azteche, tirate su da uomini a braccia, ma la pura rappresentazione di una potenza tragicamente travisata e dunque senza vera tragicità; solo vuoto gigantismo, horror vacui, che apre le porte alla distruzione e all’autodistruzione.
Sono tornato al Museo ebraico dopo avere visto la Mostra. C’ero stato una prima volta appena arrivato, nel gennaio del 2008. L’impressione generale non è mutata e si può riassumere nella sproporzione esistente fra l’orrore e la sua rappresentazione: lo scarto resta incolmabile anche se in alcuni momenti la distanza si accorcia. Forse sarà proprio per questo che la storia si può ripetere: siamo in grado di produrre l’orrore e la divinità ma poi non siamo in grado di rappresentarli e senza rappresentazione non vi è introiezione definitiva del numinoso, che solo se attraversato veramente può forse essere domato. Omero o chi per lui lo fece nell’Odissea quando fece fare a Ulisse, alla corte di Alcinoo, quello che nessuno da lui si aspetterebbe: rivelare il proprio nome. Quando può farlo però? Nel momento in cui un altro gli racconta le sue gesta: messo davanti alla narrazione delle sue responsabilità Ulisse crolla e scoppia a piangere dicendo:
“Sono io la causa di quei lutti.”
O forse è proprio il Museo a essere poco adatto a rappresentare una tragedia storica come questa e nonostante sia tutto perfetto in quello di Berlino: ricostruzioni accuratissime, dovizia di materiali, analisi storica severa. Tuttavia, capita raramente che si sia colti veramente a disagio, cioè dalla consapevolezza che dietro quella fotografia pregevole artisticamente, dietro quelle linee che s’intersecano con una mirabile capacità compositiva, dietro il dipinto di un artista, si apre l’abisso di un destino difficile da decifrare.
Solo in tre momenti ci si avvicina a un disagio più accentuato: quando si finisce nei tre vicoli ciechi del museo, dai quali si può uscire solo tornando indietro.
Il primo è il giardino degli esuli. Si accede a esso tramite una porta neppure troppo in vista e si entra in un quadrilatero di pietre altissime poste in verticale, con stretti sentieri fra l’una e l’altra e un perimetro che avvolge l’intera costruzione. Il contrasto fra un luogo idillico come il giardino e le costruzioni in muratura che ricordano quelle a cielo aperto di un altro museo della Shoah nei pressi della porta di Brandeburgo, costruite dall’architetto Eisenmahn, è soffocante. Né prigione né giardino, sembra di stare nell’ora d’aria di un detenuto.
Il secondo vicolo cieco è la torre: alla fine di un corridoio si entra in un edificio dalle pareti altissime che si restringono in alto. Il soffitto è nero e la poca luce entra da una bocca di lupo a destra. Non vi è niente altro nella torre, nessun arredo, solo la forza soverchiante delle mura e del buio. Infine, il terzo vicolo cieco conduce a un’installazione dell’artista israeliano Menashe Kadishman, intitolata Foglie morte. La lettura della sobria spiegazione è disturbata da un continuo e sinistro clangore, di cui subito non si afferra natura e provenienza: è un suono strano, ferrigno, ma potrebbe provenire anche da una mazza che percuote qualcosa di metallico. Lo si capisce subito dopo avere abbandonato il pannello con l’introduzione. Il visitatore deve percorrere un sentiero abbastanza largo cosparso di pezzi di ferro dallo spessore piuttosto consistente, tutti di forma rotonda e di diverse dimensioni. Tutti i pezzi hanno tre buchi che rappresentano in forma stilizzata occhi e bocca. Sono i teschi calpestati da chi passa, a produrre il suono. Mi vengono in mente le corrusche armi foscoliane mentre anch’io mi avvio sullo scomodo percorso: non dico che si possa cadere, ma il disagio è grande. Guardando bene quei teschi che sto calpestando mi sembrano tutte versioni diverse dell’urlo di Munch o crani di decapitati. Lo sgomento è forte e mentre torno indietro vedo che molti rimangono interdetti, alcune donne si fermano e osservano senza intraprendere il percorso.
Menashe Kadishman, l’artista israeliano, è nato a Tel Aviv nel 1932. Come tutti avrà avuto amici, conoscenti e parenti che sono finiti nei campi di concentramento, ma non ha vissuto la tragedia come chi ne è stato vittima diretta. Sarà forse per questo che, almeno per me, la sua opera è fra tutte quello esposte, la più inquietante e fra le più inquietanti fra quelle che mi sia capitato di vedere sulla Shoah? La sua distanza dalla cosa in sé, non rappresentabile, gli ha consentito questo? Non ho risposte certe, solo un interrogativo da porre e poi la percezione di un’opera d’arte anche nel caso felice in cui tutti si sia d’accordo nel giudicarla valida, è sempre tremendamente soggettiva, sebbene fosse visibile nello sguardo dei presenti insieme a me lo sgomento e l’imbarazzo. Quello che tuttavia manca è l’elemento catartico, almeno io non l’ho minimamente avvertito. Rimane la sproporzione, l’irriducibilità della tragedia.
La mia rassegna si conclude con un ritorno alla resistenza tedesca, perché su di essa c’è molto altro da dire, ora che qualche libro è finalmente venuto alla luce per ricostruire meglio tutto quanto è accaduto in quegli anni tragici. Dobbiamo allora partire dalla fine degli anni ’20 – diciamo dal 1929 – fino al 1934. La resistenza, in Germania, si colloca prima e non alla fine come è accaduto in tutte le altre nazioni europee. Durante gli anni e anche prima e cioè dalla fine degli anni ‘20, le milizie comuniste e socialiste si confrontarono sempre, anche militarmente, con polizia ed esercito e poi dagli anni ‘30 anche con le milizie naziste. In realtà ne sapevo poco pure io ma una sera, dopo un incontro letterario alla libreria italo-tedesco-brasiliana in Tor Strasse (una bizzarria tipicamente berlinese), una delle relatrici mi invita a fare una visita in un birrificio lì vicino. L’edificio di mattoni dalla colorazione tipica, imponente e bellissimo, nasconde molti segreti. Ci avviciniamo a una parete e lei mi mostra dei segni di pallottola: mi spiega che sono quelli sparati sono durante gli scontri armati degli anni ‘20-30 e la documentazione lo conferma. Il quartiere è quello di Prenzlauer, più vicino alle stazioni di Bernau e Rosa Luxemburg Platz. Ognuno aveva le sue birrerie di riferimento, gli scontri avvenivano ovunque. La resistenza fu attiva fino a buona parte del 1934 quando Hitler era già al potere. L’ultimo baluardo a cadere fu il Babylon, proprio in Rosa Luxemburg Platz, che fu chiuso nel ‘34. Tuttavia, nel 1936 in occasione delle Olimpiadi, ci furono grandi scioperi e azioni di sabotaggio in tutta Berlino e altrove, tanto che il regime fu costretto a concedere aumenti salariali. La resistenza tedesca, in buona sostanza, fu annientata prima, ma molti riuscirono a fuggire e furono attivi nelle resistenze europee come già si è detto. Tutto questo, per fare giustizia una volta per tutte della narrazione largamente incompleta sulle colpe collettive del popolo tedesco. Il Nazismo godette di un larghissimo consenso, nessuno può negare questo, come del resto il Fascismo in Italia: ma tale risultato fu ottenuto anche grazie all’annientamento fisico delle opposizioni, mentre in altri paesi, la clandestinità gettò le premesse della resistenza futura. Un’ultima considerazione riguarda Berlino. Ben 1500 ebrei decisero, nel pieno della guerra, di non lasciare la città e di non darsi alla fuga: non furono denunciati. Si può immaginare cosa potesse voler dire allora non denunciare un ebreo, eppure a Berlino avvenne anche questo e 1500 sono davvero tanti. Se nessuno fu denunciato significa che la rete di protezione intorno a loro e non solo resistette a delazioni e pressioni.