PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

INTORNO A PROMETEISMO E TRANSUMANISMO

Recentemente il termine prometeismo è tornato in auge insieme a un altro di conio più recente: Antropocene. In merito al primo termine, alcuni studiosi hanno proposto una lettura che, partendo dal mondo preistorico, individua due diverse forme di prometeismo: la prima volta alla distruzione l’altra positivamente orientata.1 Il quadro che ne esce, tuttavia, è altrettanto problematico, perché individuare due tendenze opposte (lo sdoppiamento) rischia di essere un’operazione d’inutile buon senso al punto in cui ci troviamo; così come il ripetersi a ogni occasione che la tecnologia può essere buona o cattiva e dipende da come la si usa. Rimanere dentro tale senso comune non può più aiutarci a comprendere il presente. L’emergenza climatica, il rischio di ripetersi di pandemie innescate dallo spillover, a sua volta agevolato dagli allevamenti intensivi, non permettono più di considerare il prometeismo nei suoi aspetti positivi, se non evidenziandone valenze diverse rispetto a quelle storicamente valorizzate, tutte incentrate sull’esaltazione della potenza. Ancor peggio, poi, se lo scontro fra le due tendenze viene accolto come una sorta di sfida fra due diversi titanismi. Il prometeismo è diventato un vicolo cieco, sebbene il mito da cui deriva e il personaggio Prometeo, meritino una riflessione assai più attenta a partire dall’opera di Mary Shelley a lui dedicata, Frankenstein, or the modern Prometheus. L’importanza dell’opera di Shelley sta nel mettere in scena un Prometeo che non vuole più dare agli umani gli strumenti per poter vivere meglio, ma vuole creare una seconda natura con le proprie mani. La differenza fra l’opera di Mary Shelley e le distopie proposte da altri autori, specialmente quelle che verranno scritte in pieno ‘900, è che lei è la sola a non manifestare alcun ammiccamento o collusione fascinosa con la tematica oggetto del romanzo. Il suo intento sono la denuncia e la paura, che non si ritrovano invece in molti romanzi successivi, in cui l’autore di fatto collude con la distopia che mette in scena e in alcuni casi addirittura esibisce in modo narcisistico il proprio cupio dissolvi. Pubblicata nel 1818, Shelley modificò in parte il romanzo nel 1831 quando uscì la seconda edizione: come tutte le storie gotiche ha alcune caratteristiche tipiche del genere letterario che possono fuorviare dal nucleo e dalla sua origine e cioè un incubo che lei ebbe a seguito di un gioco di società inventato da Byron e dalla sorellastra di Mary, Claire Clarmont. Il gioco consisteva nell’inventare fiabe e narrazioni di fantasmi, ma senza trascurare il fatto che fantasie scientifiche, scoperte reali e narrazioni horror – diremmo oggi – si mescolavano facilmente in molti ambienti in quegli anni. Mary Shelley, forse influenzata dalle scoperte dell’abate Galvani, sogna quello che sarà poi il tema centrale del suo romanzo: un uomo che assembla i pezzi di un altro essere fino a infondergli la vita. L’incubo la terrorizza e lei decide di scrivere proprio per liberarsene, ma la scelta di definire il professor Frankenstein come il moderno Prometeo pone il romanzo ben oltre il genere di appartenenza e per noi che siamo da tempo prigionieri di una commistione perversa fra capitalismo e Big Science, possiamo proiettare l’opera della scrittrice britannica nel futuro. La visione di una seconda natura ha in questo slancio prometeico e titanico al tempo stesso, le sue ragioni d’essere, le stesse che in parte abbiamo trovato anche nel Romanticismo e ancor più nella mitologia intorno al medesimo: gli anni sono quelli. Nel romanzo, la creatura mostruosa decide alla fine di darsi lei stessa la morte.2 Il Prometeo di Mary Shelley è la visione più potente dell’homo capitalistis e prometeico (uso l’espressione dandole anche un significato di genere) coniugato all’esaltazione delle tecnologie nella loro proiezione storica e forse non è un caso che a scriverlo sia stata proprio una donna. Si pensi al ruolo esponenziale delle protesi, alla robotica estesa fino a fare dei robot delle badanti e ora anche delle amanti come nelle più recenti declinazioni giapponesi. Si pensi alle visioni fra l’apocalittico e il fantascientifico di certi guru della Silicon Valley che vagheggiano la possibilità di superare per sempre la morte tramite l’ibernazione, le tecnologie di sostituzione degli organi, o la manipolazione del DNA, le fughe su astronavi alla ricerca di altri mondi in cui vivere.3 Il transumanismo coniugato all’onnipotenza tecnologica è l’estrema propaggine delle distopie e delle narrazioni apocalittiche attuali e non è un caso che nasca in ambienti anglo statunitensi, in una commistione perversa fra millenarismo, letture catastrofiche dell’Apocalisse di Giovanni e deliri tecnologici autodistruttivi. Sulle narrazioni tossiche contemporanee il libro Una vita liberata di Roberto Ciccarelli è quanto mai prezioso.4 In esso l’autore affronta in un capitolo specifico e qui e là nell’intero saggio, il significato attuale delle molte narrazioni catastrofico-apocalittiche che si sono susseguite, specialmente dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19. Il suo giudizio è netto: tali narrazioni tossiche confondono fine del mondo con fine di un mondo e si pongono come forme di falsa coscienza e rivoluzione passiva che trova tuttavia collusioni anche in chi critica l’ordine neoliberale. L’analisi di Ciccarelli quanto mai convincente per quanto mi riguarda, ha il merito fra l’altro di mettere in evidenza, seppure sotto traccia, come tali narrazioni nascano in un humus culturale definito, il medesimo peraltro in cui sono nate la maggiori distopie da un punto di vista letterario

Disastri veri e apocalissi fasulle

Nessun genere letterario è più anglo statunitense della distopia, ma ciò che è più interessante per il contesto oltre atlantico, è la commistione fra tecnologia, catastrofismo apocalittico, misticismo e pensiero empirista, che si riscontra anche in molti romanzi, ma che appartiene anche a una élite che fa parte di un establishment trasversale alle diverse presidenze Usa. Il grande modello o archetipo che sta alle spalle di molte narrazioni distopiche è proprio l’Apocalisse di Giovanni, sia nella versione etimologicamente corretta del termine e cioè di rivelazione e anche di missione messianica, sia in quello corrente di catastrofe. Il testo ha profondamente influenzato la cultura statunitense delle origini, sia nel senso proprio di rivelazione, sia nell’altro senso. Alcuni degli elementi fondanti di questa formazione discorsiva si trovano nell’esperienza empirica dei coloni puritani sbarcati nell’America del nord e sono riassumibili a mio avviso in alcuni punti, di cui i primi due sono i pilastri portanti e gli altri due il trascinamento sul suolo americano di formazioni discorsive nate in Europa: la predestinazione, il primato dell’individuo sulla società e la comunità, la natura come oggetto da asservire, la tecnologia e il calcolo come strumenti di tale asservimento.

La predestinazione.

Grazia e predestinazione alla salvezza sono una coppia importante e la seconda parola è una traduzione possibile dell’immagine dei Marcati e dunque dei salvi a priori che si trovano nell’Apocalisse di Giovanni. A questo si aggiunga il fatto che secondo il protestantesimo radicale di Calvino, è proprio il successo mondano uno dei segni possibili della grazia. Ora, se si pensa agli inizi dell’avventura coloniale, alle indubbie difficoltà nell’approdare in un luogo in parte sconosciuto, la capacità di resistere e di farsi largo in quel mondo (sto adottando provvisoriamente il loro punto di vista e non quello dei popoli nativi ovviamente) tutto questo poteva facilitare la convinzione di essere stati predestinati a una missione divina. L’idea più volte ripetuta in tutti i discorsi presidenziali statunitensi – più accentuata in quelli democratici – di una missione degli Usa nel mondo ha le proprie radici proprio in questa narrazione, che tuttavia ha nutrito anche un pensiero laterale democratico come quello, per esempio di Thoreau. Tale presupposto fondante, forse il più importante, non ha se non in minima parte le proprie radici in un pensiero genericamente illuminista, né deriva di per sé dalla concezione che ispirava i rivoluzionari francesi, ma costituisce già in origine una formazione discorsiva che ha obiettivi ben diversi, perché i due contesti sono diversissimi. I diritti dell’uomo e del cittadino nascono prima di tutto in contrasto con l’assolutismo, sono quindi diritti del cittadino singolo rispetto al dispotismo del sovrano e dell’aristocrazia, ma sono anche diritti del popolo e quindi della comunità, tramite il parlamento e il suffragio. Non è affatto vero che la filosofia di fondo che ispirava la prima carta costituzionale francese fosse quella di un individualismo esasperato. I suoi limiti erano di genere e di classe. Il contesto statunitense è totalmente diverso.

L’individualismo statunitense.

Quegli uomini (e il termine va preso alla lettera perché le donne erano escluse), erano già liberi, i nativi per loro erano solo selvaggi che non ponevano problemi di ordine giuridico e costituzionale e neppure morale – se non per alcuni – mentre aristocrazia e assolutismo se li erano lasciati alle spalle in Europa. L’idea di una preminenza dell’individuo sulla società e la comunità – parole che non uso per caso al posto della parola Stato –  non è la traduzione americana dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma piuttosto una formazione discorsiva nella quale confluiscono l’assolutizzazione di una concezione della salvezza che è solo individuale (tipica delle versioni più estreme del protestantesimo), un’idea d’individualità come misura di ogni cosa che ha una qualche radice nel solipsismo filosofico di Barkeley, sostenuta probabilmente anche sulla visione ingenua di un teismo che riconosceva nella vastità del territorio vergine e ricchissimo da conquistare e occupare un’immagine possibile del Paradiso Terrestre o almeno di quella prefigurazione della fine dei tempi e della tenda di dio in mezzo agli uomini di cui parla l’Apocalisse. Dicendola un po’ più alla buona: se c’è posto per tutti perché preoccuparsi della società? Che ognuno faccia di se stesso una società o la comunità che vuole, pianti la sua bandiera dove arriva, si armi fino ai denti, recinti la sua conquista per stabilire che quel territorio è di sua proprietà, al massimo estendendola alla famiglia, unica istituzione riconosciuta nel passaggio aldilà dell’Atlantico. Proprietà e famiglia – entrambe armate come sancito dalla costituzione degli Usa –  sono gli ambiti sociali per eccellenza tutto il resto va soltanto limitato nei suoi poteri.

La natura da asservire.

Non è ovviamente una prerogativa statunitense ma di tutto il pensiero occidentale, almeno da un certo momento in poi; tuttavia, nel passaggio al nuovo continente essa si radicalizza e una delle ragioni sta proprio nella vastità del territorio. Poche parole sono necessarie in questo caso: la narrazione della frontiera e dell’espansione verso ovest parla da sola ed è in realtà una narrazione che nega l’esistenza della frontiera e cioè del limite. Infatti, non appena ultimata la conquista, non appena finite le guerre indiane, l’espansione a occidente si tramuterà nel giro di pochi anni in una attitudine imperiale (uso il termine in alternativa a imperialismo che significa altro) e aggressione agli stati vicini (la guerra ispanica del 1888). Per apprezzare meglio il passaggio che riconnette mistica e tecnologia, invece, mi servirò di un libro dello storico statunitense David Noble, intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito d’invenzione. Scelgo questo libro perché è una raccolta di citazioni molto importanti intorno a questa tematica, per cui il lettore non deve fare la fatica di andarsele a cercare. Non sempre le tesi conclusive e le deduzioni di Noble sono accettabili e talvolta troppo ingenue, Più sociologo che filosofo Noble tende alla fine a una visione troppo parziale, però la mole di materiali che egli ha raccolto è indubbiamente impressionante. Mi servirò del suo libro in questo senso cercando però di inserirlo in un quadro più ampio di quanto non faccia il sociologo statunitense. Noble parte da un’osservazione empirica che viene dalla lettura dei testi sacri: come la tecnologia sia stata considerata, dal Medioevo in poi, un’arma affidata dal dio cristiano ai fedeli per combattere il male. Questo vale sia per le tecnologie agricole messe a punto dai monaci benedettini, ma anche per le armi con cui combattere gli infedeli, come si evince da questa citazione tratta dal Salterio di Utrecht:

I malvagi si accontenteranno di usare un’affilatrice di vecchio stampo; i devoti invece … la prima manovella usata fuori dalla Cina e applicata alla prima mola conosciuta al mondo. Ovviamente l’artista vuole dirci che il progresso tecnologico è volere di Dio.

Non solo i padri della Chiesa come Agostino, ma anche eretici o mistici visionari quasi all’indice condividono questo pensiero: da Gioacchino da Fiore a Raimondo Lullo. Nella seconda parte del libro, intitolata Tecnologie della trascendenza,  il libro di Noble affronta il nesso fra tecnologia, potere politico e millenarismo nella contemporaneità ed è qui che entra in scena Hume. Perché, fino a tutto il Medioevo, l’ipotesi di una tecnologia al servizio di dio piuttosto che dei malvagi, si ammanta solo di espressioni metaforiche e in fondo abbastanza ingenue. Quando però tale pretesa diventa calcolabile e si ammanta di oggettività tecnologica assurta a verità teologica, essa produce degli effetti che nei successori, atei o credenti che siano, porta alle aberrazioni qui di seguito. Secondo Edward Fredkin, vi sono stati tre grandi eventi di uguale importanza nella storia dell’universo. Dopo aver detto che il primo è la creazione stessa dell’universo e il secondo l’apparire della vita, eccoci al terzo: 

Penso che la nostra missione sia quella di creare l’intelligenza artificiale, è il prossimo passo dell’evoluzione.

Sempre più preso dall’entusiasmo il nostro si domanda addirittura come mai dio non ci abbia pensato lui a crearla. Ma chi è Fredkin? Ovviamente uno scienziato che si occupa di intelligenza artificiale, ma anche un consigliere di diversi presidenti.  Ma c’è di più. Nel capitolo viii del libro di Noble, dal titolo significativo “Armageddon, la battaglia finale: le armi atomiche”, Noble cita scienziati e politici anglo statunitensi, che sembrano parlare come mistici invasati, ma dotati appunto di un potere tecnologico immenso. Una sola citazione per tutte: 

La bomba atomica è la buona novella della dannazione.

Mi sono chiesto cosa ci sia dietro questo narcisismo della distruzione che alberga nella cultura anglo-americana come in nessun’altra e che ritroviamo puntualmente anche nelle distopie. Nel caso della citazione finale forse la chiave di comprensione diventa assai semplice. Una mondità del tutto affidata al caos, alla legge del più forte e senza alcuna speranza di salvezza e redenzione, alla lunga diventa insopportabile anche per chi la persegue: il mito di Armagheddon e cioè la lotta finale e definitiva fra il bene e il male quanto prima arriva tanto meglio è: ciò giustifica ampiamente il paradosso di una buona novella della distruzione: un vero e proprio corto circuito che chiude il cerchio e che spiega anche l’eclatante deriva complottista e negazionista  – prima del Covid e poi del voto – che ha avuto come protagonista addirittura un presidente eletto. Questa miscela esplosiva di razzismo, deliri tecnologici e pseudo misticismo è nel Dna dell’uomo bianco statunitense fin dalle origini. Non bisogna farsi illusioni sulle intenzioni dell’establishment nordamericano. La politica estera statunitense conosce solo due principi: Carthago delenda est e Vae victis, perché senza nemico esterno, il suo fronte interno si disgregherebbe subito, la guerra civile e le spinte secessioniste sono sempre latenti in ogni momento della sua storia. Il problema non è se potranno cambiare, ma se potranno continuare a farlo oppure no. Come per tutte le distopie, infatti, non è detto che riescano a trionfare; anzi, fanno di certo molti danni ma alla fine non trionfano.


1 Il primo studioso a proporre una definizione specifica per l’era in cui la Terra è massicciamente segnata dall’attività umana fu il geologo Antonio Stoppani nel 1873. Successivamente il geochimico russo Vernadskij definì il periodo col termine di noősphera (ossia mondo del pensiero) per sottolineare il potere crescente della mente umana nel modellare il suo futuro e l’ambiente; lo stesso termine venne usato dal paleontologo e pensatore cattolico Teilhard de Chardin. Nel 1992, Andrew Revkin ipotizzò la creazione di una nuova epoca geologica chiamata Antrocene. Il termine fu diffuso negli anni ottanta dal biologo naturalista Eugene F. Stoermer e adottato successivamente da Paul Crutzen. Successivamente Crutzen formalizzò il concetto in opere quali l’articolo Geology of mankind, apparso nel 2002 su Nature e il libro Benvenuti nell’Antropocene. Per quanto riguarda invece il termini prometeismo, mi riferisco ad alcuni saggi comparsi in Sinistra in rete. Riporto il nome degli autori di alcuni di essi: Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli con un articolo dal titolo L’assalto al cielo, Bellamy Foster – La dialettica della natura di Engels e l’antropocene; infine ancora Burgio, Leoni e Sidoli con Homo Prometeous e marxismo prometeico.

Due libri recenti, il primo scritto congiuntamente da David Graeber e da David Wengrow – L’alba di tutto – e il secondo del solo Graeber – Il debito i primo 5000 anni – sono decisivi nel proporre uno sguardo diverso dalle narrazioni correnti anche sul tema del prometeismo.

2 Figlia di Mary Wollstonecraft e di William Godwin, cresciuta in un ambiente ricco culturalmente e dove l’emancipazione femminile era considerata un valore, Mary Shelley, ha avuto un ruolo importante nella cultura di quegli anni. Il modo in cui termina il suo romanzo è governato dalla pietas, un sentimento che la distanzia ulteriormente da ogni forma di ammiccamento e titanismo, anche involontari. La scelta della creatura mostruosa di darsi lei stessa la morte sta all’opposto del nichilismo e suona come una denuncia delle pretese del suo creatore. Una eco di questa soluzione a me sembra sia stata ripresa nel primo Blade runner e precisamente nell’episodio finale della morte del replicante con il suo celeberrimo monologo. Quanto alla ricezione della sua opera presso di noi, fino al 1970  è stata principalmente conosciuta per l’apporto che ha dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il suo romanzo, che ebbe grande successo e ispirò numerosi adattamenti teatrali e cinematografici. Studi recenti hanno però permesso una più profonda conoscenza del profilo letterario di Mary Shelley; in particolare, questi studi si sono concentrati su opere meno conosciute dell’autrice, tra cui romanzi storici come Valperga, romanzi apocalittici come L’ultimo uomo. Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggio A zonzo per la Germania e l’Italia contribuirono a fare di Mary Shelley l’esponente di una politica radicale, ma anche in opposizione agli ideali romantici ma individualisti che ispirarono in particolare William Godwin. La sua istanza politica era molto più indirizzata nel senso della cooperazione sociale, distanziandosi così sia dal padre sia da Percy Bessie Shelley.

3 Gli articoli e le interviste a manager, esponenti a vario titoli delle più importanti major statunitensi della Silicon valley sullo sfidare la morte, sono continue. Il Sole 24 ore ha pubblicato diversi articoli al proposito, ma è sufficiente aggirarsi nella rete per trovare tutto quello che serve per informarsi. Citarne una o l’altra non ha molta importanza.  Riporto soltanto l’indicazione di questo articolo dell’Huffington Post: https://www.huffingtonpost.it/2017/01/26/miliardari-silicon-valley-preparano-per-apocalisse_n_14413104.html

4 Roberto Ciccarelli, Una vita liberata Derive Approdi, Roma 2002.